01.02- L’ANNUNCIO A ZACCARIA (Luca 1. 7-17)

 

7Essi non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni.
8Avvenne che, mentre Zaccaria svolgeva le sue funzioni sacerdotali davanti al Signore durante il turno della sua classe, 9gli toccò in sorte, secondo l’usanza del servizio sacerdotale, di entrare nel tempio del Signore per fare l’offerta dell’incenso. 10Fuori, tutta l’assemblea del popolo stava pregando nell’ora dell’incenso. 11Apparve a lui un angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso. 12Quando lo vide, Zaccaria si turbò e fu preso da timore. 13Ma l’angelo gli disse: «Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, e tu lo chiamerai Giovanni. 14Avrai gioia ed esultanza, e molti si rallegreranno della sua nascita, 15perché egli sarà grande davanti al Signore; non berrà vino né bevande inebrianti, sarà colmato di Spirito Santo fin dal seno di sua madre 16e ricondurrà molti figli d’Israele al Signore loro Dio. 17Egli camminerà innanzi a lui con lo spirito e la potenza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto».”.

                Considerando l’annuncio angelico a Zaccaria e la circostanza in cui avvenne, non si può trascurare la sterilità di Elisabetta la cui esperienza, per come si svilupperanno gli eventi, ha connessione con quella di altre donne dei tempi dell’Antico Patto: ricordiamo Sara moglie di Abramo, Rebecca di Isacco, Rachele di Giacobbe, la moglie di Manoah (Giudici 13.2), Anna di  Elkanà (1 Samuele 1.2), tutte costoro cambiarono la loro condizione a seguito di un intervento di Dio. Tra queste donne vi fu chi ricevette la visita di un angelo ad annunciare loro l’imminente nascita di un figlio (Sara e la moglie di Manoah) e chi venne esaudita a seguito di una preghiera loro (Rachele e Anna) o del marito (Rebecca). Questo dato verrà utile quando affronteremo la personalità del sacerdote Zaccaria cui “…toccò in sorte, secondo l’usanza del servizio sacerdotale, di entrare nel tempio del Signore per fare l’offerta dell’incenso” (v.8). A quel tempo infatti si decideva tirando a sorte chi degli 800 sacerdoti della classe di Abia avrebbe avuto il privilegio di offrire ogni giorno l’incenso nel Santo, cioè la prima delle due stanze che costituivano il tabernacolo all’interno del quale vi era l’altare dei profumi. In Esodo 30.7,8 leggiamo: “Aaronne brucerà su di esso l’incenso aromatico: lo brucerà ogni mattina, quando riordinerà le lampade, e lo brucerà anche al tramonto, quando Aaronne riempirà le lampade: incenso perenne davanti al Signore di generazione in generazione”.

Vanno considerate le parole di Dio a Mosè riguardo all’incenso: “Procurati balsami: storace, onice, galbano e incenso puro, il tutto in parti uguali. (…) Non farete per vostro uso alcun profumo di composizione simile a quello che devi fare: lo riterrai una cosa santa in onore del Signore. Chi ne farà di simile per sentirne il profumo sia eliminato dal suo popolo” (Esodo 30. 24-38).

Qui notiamo alcuni particolari: tutte le sostanze che componevano l’incenso sono balsami, cioè atti a lenire sofferenza per arrecare conforto, sollievo, consolazione. Secondo altre traduzioni erano “aromi”, cioè sostanze avente una caratteristica olfattiva propria, che la distingueva dalle altre. Erano tutte resine o comunque estratti mediante sofferenza degli esseri viventi – pensiamo all’onice, tradotto altrove con “conchiglia profumata” – da cui venivano ricavate. L’incenso per quell’uso doveva essere composto da elementi in parti uguali, in perfetto equilibrio tra loro, e doveva essere unico, il solo che sarebbe stato gradito a Dio, “una cosa santa in onore del Signore”: bruciato, sprigionava un profumo che non poteva essere riprodotto per curiosità o usi umani, pena la morte.

L’offerta dell’incenso avveniva su un altare ad esso dedicato e, se accompagnava le offerte sacrificali, questo era escluso da quelli compiuti per i peccati (Levitico 5.11 “Non metterà su di essa né incenso né olio perché è un sacrificio per il peccato” e Numeri 5.15 “Non vi verserà sopra né olio né vi metterà sopra incenso, perché è un’oblazione di cibo per gelosia, un’oblazione commemorativa destinata a ricordare una colpa”). Bruciare quell’incenso, allora, simboleggiava la preghiera di ringraziamento e di adorazione a Dio che non poteva venire inquinata dal peccato, ma aveva riferimento alla purezza di cuore, un’offerta unica riservata al solo Creatore e Signore dell’uomo come leggiamo in Salmo 141.2: “Salga la mia preghiera davanti a te come l’incenso, l’elevazione delle mie mani come il sacrificio della sera”. E nel libro dell’Apocalisse abbiamo dei riferimenti, come in 5.8 in cui si parla di “…profumi, che sono le preghiere dei santi”.

Quell’incenso, per il significato che aveva, non poteva essere prodotto per usi personali perché stava a simboleggiare un atteggiamento, una destinazione che spettava al solo Dio col quale l’uomo non poteva competere e realizzare quella sostanza per scopi diversi dall’adorazione veniva punita con la morte. Per la dispensazione della Legge vigeva il principio “Così toglierai il male di mezzo da te” (Deuteronomio 13.5). L’Oriente aveva profumi e incensi per gli usi più disparati, ma uno solo, quello con la composizione indicata in Esodo, spettava all’Iddio che Israele avrebbe dovuto adorare.

Se l’incenso aveva connessione con la preghiera e l’adorazione, è importante Esodo 30.9 in cui, a proposito dell’altare su cui veniva bruciato, si legge “Non vi verserete sopra incenso illegittimo, né olocausto, né oblazione, né vi verserete libagione”: sono parole che ci aiutano a capire il concetto di preghiera di offerta cristiana oggi, che non può contenere contraddizioni o disarmonie pena suo rifiuto, come ad esempio ricordato nel “Padre Nostro” con le parole “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”, ma anche nella parabola del servo spietato (Matteo 18.21-35) e da altri elementi che Gesù porrà all’attenzione del suo uditorio.

A proposito della preghiera Giacomo, il “fratello del Signore”, scrive “Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per spendere per i vostri piaceri” (4.2,3).

L’offerta di quell’incenso così unico che il sacerdote offriva aveva due scopi: sottolineare e accompagnare la preghiera per l’unico Dio e, simbolicamente, annunciare il sacrificio del Cristo che si sarebbe offerto a Lui: “Cristo ci ha amati e ha dato se stesso per noi, in offerta e sacrificio a Dio come un profumo di odore soave” (Efesi 5.2). E lo scopo del sacrificio di Cristo è stato quello di “Sottrarci dal presente malvagio secolo secondo la volontà di Dio nostro Padre” (Galati 1.4), con particolare riguardo al destino comune di tutti quanti si identificano nel “malvagio secolo” condividendone ideali, prospettive e metodi. “Sottrarre” qui è da intendersi coi suoi sinonimi: salvare, liberare da un pericolo, salvaguardare da un danno.

L’incenso veniva offerto al mattino alle nove e al pomeriggio alle 15, preghiera per il giorno e per la notte, ma anche di attesa messianico: sarebbe venuto un tempo in cui quell’offerta avrebbe perso il suo significato, sostituito da un profumo di ben altra portata, definitivo, “il sacrificio di odor soave” di cui Paolo ha scritto ai credenti della Chiesa di Efeso.

 

Ora l’offerta dell’incenso fu per Zaccaria, che non aveva ancora compiuto 50 anni età in cui sarebbe stato messo a riposo, fu il punto culminante della sua carriera sacerdotale e alcuni hanno supposto che l’apparizione dell’Angelo avvenne nel corso dell’ufficio considerato serale, deducendolo dalla presenza di “tutta l’assemblea del popolo” che pregava.

Ecco, qui appare l’angelo “a destra dell’altare”, riferimento all’autorità e posizione che Gabriele aveva in relazione all’offerta dell’incenso. Si noti che l’altare, che era un parallelepipedo in legno di acacia rivestito d’oro, era il punto dal quale partiva l’offerta: l’altare di legno raffigurava l’uomo, il rivestimento d’oro ciò che allora era irraggiungibile e l’incenso offerto, nella composizione stabilita, era un ulteriore simbolo di perfezione, di preghiera accettata pienamente da Dio. L’angelo Gabriele era a destra di tutto questo. Non poteva esserci posizione più autorevole in testimonianza aggiunta a quanto stava per rivelare.

Zaccaria, alla vista dell’angelo, si spaventò. In tutta la Scrittura c’è sempre questa reazione nel momento in cui l’uomo incontra un essere spirituale e soprattutto santo, ma fu da lui immediatamente rassicurato con quel “Non temere” che compare in tutta la Bibbia per 356 volte, tanti sono i giorni dell’anno. Le prime parole, “Non temere”, furono quindi per lui e subito dopo gli viene detto che la sua preghiera era stata esaudita, in particolare quella di avere un figlio perché gli israeliti temevano che la propria casata potesse estinguersi e, infatti, la sterilità della donna era vista come una maledizione. Poi l’annuncio si sposta su qualcosa di inaspettato, cioè il nome da dare al figlio che avrebbe avuto da Elisabetta: Giovanni, che significa “Dio fa grazia”, oppure secondo altri “Dio ha esaudito”, o “Dio ascolta”, entrambi compresi nel primo. Qui abbiamo un caso particolare perché dare il nome al proprio figlio era un atto che competeva al padre. Giovanni sarebbe stato quindi una persona che avrebbe avuto una funzione precisa a prescindere dalla volontà umana e il suo nome, comandato dall’Alto e non scelto dal padre naturale, è indicativo per designare la sua missione di precursore del Messia continuamente ricordata, anche con riferimenti agli scritti dell’Antico Patto, da Matteo.

Veniamo al contenuto dell’annuncio: Gabriele dà a Zaccaria otto informazioni su Giovanni la prima delle quali è “Molti si rallegreranno della sua nascita”, che allude non tanto alla gioia che porta l’arrivo di un figlio desiderato ai genitori e ai parenti solidali con loro, ma a quella di tutti coloro che in Israele avrebbero creduto all’annuncio dell’imminente arrivo del Messia facendosi battezzare come testimonianza del loro ravvedimento. Sono convinto che, fra questi “molti”, siano inclusi anche tutti quegli esseri spirituali che, presenti nella Corte Celeste, vedevano il piano di Dio avanzare verso la meta perfetta, la costituzione della Gerusalemme celeste che avverrà dopo la definitiva sconfitta dell’Avversario e il Giudizio sull’umanità.

Il secondo dato è “Sarà grande nel cospetto del Signore”, descrizione del carattere, delle fatiche e della relazione di Giovanni con il Messia, per non parlare del fatto che sarebbe stato formato dallo Spirito Santo nella sua vita preparatoria nel deserto: “Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito, e rimase nei deserti fino al giorno in cui doveva manifestarsi ad Israele” (Luca 1.80). La “grandezza” di cui parla l’angelo si sarebbe rivelata anche esteriormente col non bere “nè vino, né cervogia”, tradotto anche con “bevanda inebriante”, che poteva essere o l’antenata della birra, ottenuta dalla fermentazione di orzo e avena definita dai romani “barbaro vino d’orzo”, oppure un liquido ottenuto da fichi e datteri fermentati. Con queste parole Gabriele comunica a Zaccaria che suo figlio sarebbe stato un nazireo, cioè un consacrato, simbolo vivente della santità che trovava al suo opposto il lebbroso, considerato il simbolo vivente del peccato. Riflettendo sul nazireato in generale, bisogna sottolineare che se il separarsi dagli altri era volontario e temporaneo, per Giovanni sarebbe stata una condizione costante della sua vita, “fin dal ventre di sua madre” come lo furono Sansone e Samuele. Il Battista quindi sarebbe stato il terzo nazireo nella storia di Israele.

La quarta caratteristica sarebbe stata “ripieno dello Spirito Santo fin dal ventre di sua madre” cioè: in opposizione al vino e a ciò che inibisce le facoltà mentali, abbiamo tutta l’assistenza e l’amore di cui Giovanni avrebbe beneficiato in vista del compito che lo avrebbe atteso. Segue poi il risultato delle sue fatiche, quinto dato, viste nel convertire “molti dei figli di Israele all’Iddio loro”. Il messaggio del precursore sarà incentrato sul ravvedimento, sul cambiare il modo di pensare in vista dell’arrivo di Gesù: “Giovanni comparve nel deserto, battezzando e predicando un battesimo di ravvedimento per il perdono dei peccati. E tutto il paese della Giudea e quelli di Gerusalemme andavano a lui ed erano tutti battezzati da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati” (Marco 1.4,5).

Andrà innanzi a lui nello spirito e virtù di Elia”, sesto dato, denota la volontà e il desiderio unito alla forza e all’azione che aveva avuto Elia, suscitato come profeta e riformatore religioso in Israele nei giorni forse più oscuri della sua storia, quando Achab e sua moglie Jezebel avevano sostituito il culto di Baal al posto di quello per YHWH cercando di sterminare tutti i Suoi profeti. A questo punto non si può omettere la citazione di Malachia 4.5 “Ecco, io vi manderò Elia il profeta, prima che venga il giorno grande e spaventevole dell’Eterno”, parole che vennero spiegate da Gesù con “Tutta la Legge e i profeti hanno profetizzato fino a Giovanni. E se lo volete accettare, lui è l’Elia che doveva venire” (Matteo 11. 13,14).

Se poi confrontiamo le parole successive, “per ricondurre il cuore dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti” con quelle di Malachia 4.6 “Fara ritornare il cuore dei padri ai figli e il cuore dei figli ai padri”, abbiamo l’espressione del concetto secondo cui appropriarsi del messaggio di Giovanni avrebbe implicato ammettere di non avere altre alternative all’infuori del ravvedimento, del cambiare modo di pensare ed agire indipendentemente dal fatto di essere padri o figli: “Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Matteo 3.2) è un messaggio che riguardava la totalità del popolo.

Abbiamo infine lo scopo finale, l’ottavo e ultimo: “Preparare al Signore un popolo ben disposto”: con la sua predicazione, con il battesimo del ravvedimento, Giovanni avrebbe preparato il popolo a riconoscere il Cristo di Dio e lo indicò personalmente dicendo “Ecco l’Agnello di Dio che toglie il peccato del – non “dal” – mondo” facendo così emergere il fatto che c’era un popolo teorico, quello di Israele, e un popolo vero costituito da tutti coloro che, appartenendo a lui, avrebbero accettato la predicazione di quell’Agnello.

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