3.06 – GESÙ IN PREGHIERA (Luca 5.15,16)

3.06 – Gesù in preghiera (Luca 5.15-16)

15Di lui si parlava sempre di più. E folle numerose venivano per ascoltarlo e farsi guarire dalle loro malattie. 16Ma Egli si ritirava in luoghi deserti a pregare”.

Con questa lettura ci troviamo di fronte a due situazioni distinte di cui solitamente si prende atto passandovi sopra, quasi ansiosi di leggere l’episodio successivo, tra la guarigione del lebbroso e quella del paralitico. Ciò che Luca descrive nei nostri versi è semplice: da un lato abbiamo le folle composte da curiosi che volevano vederlo, ascoltarlo e alcuni di loro guarire dalle malattie che li affliggevano, dall’altro vediamo la volontà di Gesù di ritirarsi in luoghi deserti e pregare, azione che lo accomuna a tutti gli altri uomini cui premeva e preme instaurare un rapporto con Dio.

Lui, il Figlio, tutt’uno con il Padre nella dimensione spirituale prima, durante e dopo la creazione, aveva assunto un corpo assolutamente identico al nostro provando la fatica, la fame e la sete. Lui, che teoricamente non aveva bisogno di nulla, si ritira in luoghi deserti per compiere un atto che per noi è indice di subordinazione e dipendenza, condizioni che si riferiscono al suo essere uomo per l’eredità materna che aveva ricevuto nella carne e alla quale non poteva sottrarsi. Questo era il limite di Gesù uomo, “limite” che scandalizza quelli che sono convinti che parlare di Dio impiegando espressioni come “non potere” o pensare che Lui potesse avere dei confini da non superare sia un oltraggio stante la sua onnipotenza.

La storia “interiore” di Gesù è spiegata in Filippesi 2.5-11: “Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che al di sopra di ogni altro, perché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami «Gesù è il Signore!» a gloria di Dio Padre”.

Esaminiamo brevemente le fasi attraverso le quali passò Gesù descritte in questi veri. La prima è descritta in poche parole: era nella condizione di Dio, quindi in Lui e con Lui tanto prima che dopo la creazione. Era tutt’uno con quel Dio divenuto irraggiungibile dopo il peccato dei nostri progenitori perché Santo e quindi assolutamente distante e incompatibile con loro. Eppure, nei tempi da lui decretati, “non ritenne un privilegio essere come Dio, ma svuotò se steso assumendo una condizione di servo, divenendo simile agli uomini”. Si svuotò, scelse di farlo, l’azione del verbo riflessivo non lascia dubbi in proposito. Non era possibile diventare uomo senza rinunciare alla gloria e al posto che aveva quando era nella sua condizione originale e, per diventare creatura, dovette rinunciare ad essere creatore nel senso di essere quella “Parola” mediante la quale tutte le cose sono state create. “Parola” certo lo rimase e lo era, ma per portare agli uomini la “Grazia e la Verità che sono venute per mezzo di Gesù Cristo”. Assunse così “la condizione di servo, diventando simile agli uomini”. Pensiamo: Dio stesso, il Figlio, si fa uomo per servire, come nessun altro avrebbe mai potuto fare, il Padre., perché non c’era nessuno che potesse farlo. Atanasio di Alessandria, vescovo e teologo greco vissuto tra il 200 e il 300, scrisse che “Non volle semplicemente essere in un corpo né volle soltanto apparire in un corpo. Infatti, se avesse voluto semplicemente apparire, avrebbe potuto manifestare la sua divinità per mezzo di un essere più potente” come da sempre avvenuto – aggiungo io – nella mitologia tanto antica quanto moderna (Atanasio, L’incarnazione del verbo, cap.2). Era necessario un corpo di uomo, quella creatura che nonostante i suoi sforzi non riusciva mai ad essere interamente giusto a causa dei peccati che commetteva, accidentali o per semplice ignoranza. Ecco che Gesù si identifica con noi senza però condividere ed effettuando le nostre scelte.

Identico agli uomini per aspetto, Isaia 53.2 ci dice che “Non aveva né forma, né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere”, “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e a una morte di croce”: l’umiliazione di Dio fu possibile unicamente grazie ad un amore smisurato più che dalla Sua onnipotenza: da un lato quello per il Padre visto nell’obbedienza alla legge, al suo “compimento”, e dall’altro quella per l’essere umano. Non fu facile: l’obbedienza fu faticosa e sofferente, che sempre Isaia nello stesso capitolo – per non parlare dei Vangeli quando affrontano il tema dall’arresto alla crocifissione e non solo – scrive “Eppure si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che dà salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe noi siamo stati guariti”.

Gesù quindi, prendendo un corpo come il nostro, provò su di sé la separazione dal Padre cui era unito dall’eternità, la soggezione al tempo che mai aveva avuto, la debolezza sua e di quanti lo circondavano contro la quale non poteva permettersi di perdere a meno di rinunciare a salvare la creatura. Ecco allora spiegato quanto avesse da pregare e ancora di più il perché. Lui, in grado di esaudire le preghiere dei malati, non poteva pregare sé stesso, sarebbe stata una cosa incompatibile, avrebbe generato un cortocircuito e infatti non fece mai un miracolo che lo agevolasse. Fu infatti il Padre a inviargli degli angeli a servirlo e consolarlo dopo i quaranta giorni nel deserto, non Lui a chiamarli.

Capire la condizione di Gesù uomo è basilare non solo perché il suo essere tale è uno dei cardini della fede cristiana, ma piuttosto per avere un quadro del suo essere, di cosa provasse. E L’Antico Testamento, che contiene una quantità immensa di contenuti che trovano la loro rivelazione perfetta nel Nuovo, ci aiuta con due personaggi che si possono sotto certi aspetti collegare a Nostro Signore, cioè Mosè e il sommo sacerdote: il primo avrebbe dovuto condurre il popolo di Israele dall’Egitto alla terra promessa, ma purtroppo in quanto essere umano peccò e al suo posto fu Giosuè a portare a termine la sua opera. Si tratta di un avvenimento su cui occorre soffermarsi: in Numeri 27.12-14 leggiamo “12Il Signore disse a Mosè: «Sali su questo monte degli Abarìm e contempla la terra che io do agli Israeliti. 13Quando l’avrai vista, anche tu sarai riunito ai tuoi padri, come fu riunito Aronne tuo fratello, 14perché vi siete ribellati contro il mio ordine nel deserto di Sin, quando la comunità si ribellò, e non avete manifestato la mia santità agli occhi loro, a proposito di quelle acque». Sono le acque di Merìba di Kades, nel deserto di Sin”.

La lettura del passo di riferimento in Numeri 20.1-13, che narra della ribellione di Mosé, a prima vista passa sotto questo aspetto quasi inosservata; proviamo a leggerla: “1Ora tutta la comunità degli Israeliti arrivò al deserto di Sin il primo mese, e il popolo si fermò a Kades. Qui morì e fu sepolta Maria.2Mancava l’acqua per la comunità: ci fu un assembramento contro Mosè e contro Aronne. 3Il popolo ebbe una lite con Mosè, dicendo: «Magari fossimo morti quando morirono i nostri fratelli davanti al Signore! 4Perché avete condotto l’assemblea del Signore in questo deserto per far morire noi e il nostro bestiame? 5E perché ci avete fatto uscire dall’Egitto per condurci in questo luogo inospitale? Non è un luogo dove si possa seminare, non ci sono fichi, non vigne, non melograni, e non c’è acqua da bere».6Allora Mosè e Aronne si allontanarono dall’assemblea per recarsi all’ingresso della tenda del convegno; si prostrarono con la faccia a terra e la gloria del Signore apparve loro. 7Il Signore parlò a Mosè dicendo: 8«Prendi il bastone; tu e tuo fratello Aronne convocate la comunità e parlate alla roccia sotto i loro occhi, ed essa darà la sua acqua; tu farai uscire per loro l’acqua dalla roccia e darai da bere alla comunità e al loro bestiame». 9Mosè dunque prese il bastone che era davanti al Signore, come il Signore gli aveva ordinato. 10Mosè e Aronne radunarono l’assemblea davanti alla roccia e Mosè disse loro: «Ascoltate, o ribelli: vi faremo noi forse uscire acqua da questa roccia?». 11Mosè alzò la mano, percosse la roccia con il bastone due volte e ne uscì acqua in abbondanza; ne bevvero la comunità e il bestiame.12Ma il Signore disse a Mosè e ad Aronne: «Poiché non avete creduto in me, in modo che manifestassi la mia santità agli occhi degli Israeliti, voi non introdurrete quest’assemblea nella terra che io le do». 13Queste sono le acque di Merìba, dove gli Israeliti litigarono con il Signore e dove egli si dimostrò santo in mezzo a loro”.

Ecco, qui vediamo da un lato che la nostra mente umana non trova elementi per rimproverare qualcosa a Mosè, ma dall’altro che lui aggiunge delle parole che Dio non gli aveva ordinato di pronunciare (il rimprovero agli israeliti) e che usa il bastone percuotendo la roccia per due volte quando gli era stato detto di limitarsi a portarlo con sé. Questo bastò perché il Signore intervenisse prima con parole di rimprovero e poi con un intervento di esclusione. Al di là di tutte le applicazioni possibili su questi passi, per la natura di questo studio l’unica riflessione che mi sento di fare è che nessun uomo può essere un conduttore perfetto verso Dio, così come nessun uomo può essere un mediatore adeguato tra il suo simile e Lui. Mosè era stato scelto da YHWH, è considerato il legislatore nella storia del popolo eletto e già allora, velatamente, era possibile prendere atto di come che la Legge non aveva il potere di redimere, ma solo quello di dare il senso della enorme distanza che intercorreva tra Dio e gli uomini, una Legge che sappiamo fu definita dall’apostolo Paolo “Ombra dei futuri beni, non la forma reale stessa delle cose” (Ebrei 10.1). A Mosè non fu consentito di portare il popolo nella terra promessa, ma fu anche l’uomo che ebbe l’onore di essere sepolto da Dio stesso sul monte Nebo dopo avere visto il territorio in cui Israele sarebbe entrato. Elia ed Enoch furono da Lui rapiti in cielo, Mosé fu da lui sepolto. Noto adesso come, del tutto involontariamente, io continui a porre sempre due casi, due esempi, due che nella Bibbia è sia numero di contrapposizione che di collaborazione al tempo stesso.

C’è poi la figura del sommo sacerdote, che aveva una funzione del tutto particolare che gli altri, i semplici sacerdoti, non avevano. Era l’unico abilitato a entrare nel “Santo dei Santi”, la camera più interna del Tempio di Gerusalemme e poteva farlo una volta all’anno nella festa dello Yom Kippur, il giorno dell’espiazione, in cui offriva un sacrificio di espiazione per i peccati di tutto il popolo. Eppure anche lui aveva un limite: era un uomo come gli altri, come i suoi simili peccava, non poteva avere la dimensione del compatimento per le debolezze altrui perché preso a pensare alle proprie, era in una parola imperfetto nonostante l’assenza di difetti fisici che lo avrebbero reso incompatibile con la sua funzione. Ecco perché in Ebrei 4.14-16 sono spiegate le differenze tra il sommo sacerdote secondo la carne e Gesù stesso: “Dunque, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande che è passato attraverso i cieli – con la sua ascensione – Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la nostra professione di fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno”.

Ma l’apostolo Paolo, probabile autore di questa lettera, fariseo autorevole formatosi alla scuola rabbinica più autorevole del tempo, non si ferma qui, ma spiega l’umanità di Gesù mettendola in relazione all’espiazione dei peccati: “…perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova” (Ebrei 2.17-18). Se il sommo sacerdote dell’antico patto offriva sacrifici anche per se stesso, Gesù offrì se stesso come sacrificio nonostante la sua perfezione. Se e quando il credente soffre per le prove che la vita inevitabilmente gli riserva, sa che prima di lui Gesù ha sofferto e non lo ha dimenticato. “È in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova”.

E per rendere ancora più chiara la funzione di Nostro Signore sotto questo aspetto, Paolo attinge ancora dalla memoria dell’Antico Patto specificando che “Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta – che va oltre quindi al luogo santissimo – non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione. Egli entrò una volta per sempre nel santuario non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna” (Ebrei 9.11,12).

Ecco, con questi versi che abbiamo citato ed esaminato brevemente, abbiamo un’idea dei motivi per cui Gesù pregasse, essendo necessaria una costante, continua comunione col Padre dal quale si era separato per poter condurre a termine la missione che aveva scelto di intraprendere. Solo attraverso la preghiera, con la quale confessava il bisogno che aveva dell’assistenza del Padre, poteva essere in grado di affrontare il compimento della Legge che gli era richiesto. “Non sono venuto per abolire la legge, ma per adempierla”. Lui, come Parola ab eterno, non ne aveva nessun bisogno, noi sì. Amen.

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