3.07 – IL PARALITICO DI CAPERNAUM (Luca 5.17-26)

3.07 – Il paralitico di Capernaum (Luca 5.17-26)

 

17Un giorno stava insegnando. Sedevano là anche dei farisei e maestri della Legge, venuti da ogni villaggio della Galilea e della Giudea, e da Gerusalemme. E la potenza del Signore gli faceva operare guarigioni. 18Ed ecco, alcuni uomini, portando su un letto un uomo che era paralizzato, cercavano di farlo entrare e di metterlo davanti a lui. 19Non trovando da quale parte farlo entrare a causa della folla, salirono sul tetto e, attraverso le tegole, lo calarono con il lettuccio davanti a Gesù nel mezzo della stanza. 20Vedendo la loro fede, disse: «Uomo, ti sono perdonati i tuoi peccati». 21Gli scribi e i farisei cominciarono a discutere, dicendo: «Chi è costui che dice bestemmie? Chi può perdonare i peccati, se non Dio soltanto?». 22Ma Gesù, conosciuti i loro ragionamenti, rispose: «Perché pensate così nel vostro cuore? 23Che cosa è più facile: dire «Ti sono perdonati i tuoi peccati», oppure dire «Àlzati e cammina»? 24Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di perdonare i peccati, dico a te – disse al paralitico -: àlzati, prendi il tuo lettuccio e torna a casa tua». 25Subito egli si alzò davanti a loro, prese il lettuccio su cui era disteso e andò a casa sua, glorificando Dio. 26Tutti furono colti da stupore e davano gloria a Dio; pieni di timore dicevano: «Oggi abbiamo visto cose prodigiose»”.

 

La guarigione del paralitico di Capernaum è narrata da tutti i sinottici, per quanto con varianti che non mutano sostanzialmente il significato dell’episodio, anzi lo arricchiscono di particolari. Anche questo rientra in quei miracoli che gli evangelisti inseriscono senza una successione cronologica certa per quanto Matteo lo collochi dopo il discorso della montagna e l’intervento sugli indemoniati di Gadara, scrivendo “Salito su una barca, passò all’altra riva e giunse nella sua città”. Credo che agli evangelisti prema, nel caso dell’esposizione di questi miracoli, dare la precedenza più sul contenuto dottrinale che cronologico, problema che non si sono posti non ritenendolo importante al contrario degli autori del Pentateuco in cui la successione degli eventi è fondamentale e non può lasciare adito a dubbi pena la loro non comprensione. Marco scrive che Gesù tornò a Capernaum “dopo alcuni giorni” lasciando così indeterminato il periodo di predicazione in Galilea: lì sappiamo, ricordando Giovanni 2.12, che “dopo le nozze di Cana scese a Capernaum insieme a sua madre, ai suoi fratelli e ai suoi discepoli”.

Ora il fatto che fosse tornato là, fece sì che ricominciasse la sua attività spirituale alla quale si accompagnavano guarigioni di ogni tipo. La sua presenza in Capernaum attirò non solo il popolo comune, ma anche “farisei e dottori della Legge, venuti da ogni villaggio della Galilea e della Giudea, e da Gerusalemme”, segno che la guarigione del paralitico avvenne non immediatamente il suo ritorno in quella cittadina. Ci volle infatti del tempo tra il suo arrivo in città e che questa notizia si diffondesse, così come per il viaggio che dovettero fare alcuni da Gerusalemme alla casa di Gesù.

È triste constatare che quella che avrebbe dovuto essere teoricamente la parte migliore del popolo di Israele vista nei farisei e nei dottori della Legge, che avrebbero dovuto tramandarsi, tradizioni religiose a parte, anche quanto fosse profonda la dottrina che Gesù aveva dimostrato di possedere fin dall’età di dodici anni, era là non per ascoltarlo e confrontarsi con l’Unica fonte di vita, ma per giudicarlo e coglierlo in flagrante secondo il loro metodo. Non troviamo se non con Nicodemo, che era dei loro, un dialogo che denoti una volontà di capire, di raccordare il principio in base al quale “nessuno può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui ” con il voler assimilare la reale identità di Gesù. Quel fariseo però, nonostante il proprio bagaglio storico culturale che molto lo impedì nel suo cammino – ma chi, salvo rare eccezioni, non lo è? – era un onesto.

Ora c’era in Capernaum un paralitico – che in nessuno dei tre racconti dice mai una parola – che poteva contare sull’aiuto di alcune persone, almeno quattro, che volevano a tutti i costi fosse guarito: volevano portarlo a Gesù, ma capirono ben presto che i loro tentativi di entrare per la porta della casa sarebbero stati inutili a causa della folla che, essendo la casa piena, si accalcava per ascoltare il Maestro.

A questo punto è doveroso spendere qualche parola su come fossero fatte le case di allora: avevano un solo piano oltre il quale c’era una terrazza alla quale si accedeva tramite una stretta scalinata posta all’esterno. In alternativa, se la casa confinava con altre, c’era un muretto di divisione a dividere le due terrazze – e l’eventuale area cortilizia circostante –, che naturalmente avevano anche la funzione di tetto come leggiamo ad esempio in Matteo 24.17 “Chi si trova sul tetto della casa, e avrà le sue masserizie dentro la casa, non scenda a prenderle”. Allora come oggi, se vedere una persona su un tetto è cosa inusuale, certo non lo è se si tratta di una terrazza.

Ora è molto probabile che avvenne così: i quattro o più amici del paralitico arrivarono alla casa di Gesù e compresero l’impossibilità di entrarvi, stante la molta gente accalcata intorno; non riuscirono neppure a raggiungere la scalinata esterna per accedere alla terrazza e allora passarono da quella vicina. Scavalcarono, con tutta la fatica e la cautela del caso stante l’amico che trasportavano sul lettino, il muretto che divideva una terrazza dall’altra e così giunsero a quella della casa di Gesù. A questo punto, si misero a lavorare sul pavimento – soffitto, costituito da fango essicato o argilla che poggiava su un fitto strato di rami sostenuti da travi. Sulla terrazza esisteva molto spesso uno strumento particolare, una sorta di rullo, un cilindro che in caso di pioggia veniva fatto rotolare su e giù per il pavimento per compattare l’impasto di argilla ed evitare che piovesse in casa. Vero è che Luca, a differenza di Matteo e Marco, parla di “tegole”, ma il termine non va collegato al nostro; piuttosto alla sua etimologia dal latino “tegere”, cioè “coprire”. Ciascuno proteggeva il soffitto-terrazzo come poteva e non è escluso che vi fossero, nel punto scelto dagli amici del paralitico, magari delle tavole a protezione del pavimento che, per la natura del manufatto, avrebbe potuto essere riparato dagli stessi in breve tempo e con uno sforzo certo minore rispetto a quello fatto per condurre il loro amico infermo fin lì.

A quanto risulta dai sinottici, questi calarono il loro amico dal tetto senza dire nulla: il loro comportamento parlava da solo perché avevano fatto la fatica di portare quell’uomo fin lì e quindi ingegnarsi per raggiungere Gesù consapevoli che avrebbero dovuto fare in fretta stante le probabilità che, da un momento all’altro, finisse di parlare ed uscisse di casa per ritirarsi in qualche luogo sconosciuto a pregare. Ecco che il loro comportamento rivelava due cose: erano certi che Gesù avrebbe potuto guarire il loro amico e al tempo stesso denota l’amore che avevano per lui perché sicuramente quel trasporto era faticoso se non altro per il caldo, visto che non sappiamo quanto pesasse quel corpo incapace di muoversi e forse di parlare. Non credo di essere azzardato dicendo che quella che Gesù e i presenti videro altro non fu che una preghiera fatta con le opere e non con le parole, come ve ne saranno altre. E sappiamo molto bene che è quello che facciamo che rivela spesso il nostro pensiero al di là di ciò che possiamo dire.

A questo punto avviene qualcosa di estraneo alle aspettative di tutti: Gesù non dice “guarisci” o “àlzati”, ma “Uomo, ti sono rimessi i peccati”, frase che Matteo riporta leggermente diversa: “Coraggio, figlio, ti sono perdonati i peccati”, segno che Lui conosceva il passato, la storia di quella persona e che era la condizione di peccato in cui versava a renderlo paralitico per cui solo il perdono di Dio avrebbe potuto liberarlo. Ma posiamo anche andare oltre: perché Gesù avrebbe detto “Coraggio” se non ci fosse stato bisogno di consolarlo al di là della sua condizione fisica? Dire “Àlzati” avrebbe risolto tutto, e invece la prima parola fu “Coraggio”, cioè un invito morale. È così azzardato supporre che quell’uomo fosse angosciato, oltre che dalla sua paralisi, per uno o più peccati commessi che avevano finito per penalizzarlo in quel modo? Non credo che Gesù avesse pronunciato una frase del genere se non fosse stato il peccato che tormentava la coscienza e non la paralisi il problema di quell’uomo, né tantomeno che dire “ti sono rimessi i peccati” fosse stato uno strumento per suscitare la discussione, che poi avvenne, coi farisei e i dottori presenti che Robert Steward definisce “al tempo stesso giuristi e teologi, legislatori e sacerdoti della nazione giudaica”.

Ebbene, quei sapienti furono immediatamente scandalizzati: “Chi è costui che dice bestemmie? Chi può perdonare i peccati, se non Dio soltanto?”. Due sono gli elementi su cui soffermarsi, il “costui” usato in senso spregiativo, e il bestemmiare, che se nel greco classico si usa per denotare ogni sorta di maldicenza contro il prossimo, in quello ellenistico di Luca denota empietà e malvagio parlare contro Dio.

A questo punto Nostro Signore, che conosceva i ragionamenti dei suoi oppositori, li interroga sul perché pensassero quelle cose. Matteo scrive “Perché pensate cose malvagie nel vostro cuore? Che cosa infatti è più facile: dire «Ti sono perdonati i peccati», oppure «Àlzati e cammina»?”: fu sicuramente un rimprovero, ma con lo scopo di porre i suoi antagonisti di fronte alla loro coscienza. Parafrasando: “Perché pensi così? Prima che a me, rispondi a te stesso, cerca le ragioni di questo tuo astio alla luce di quello che sai giù su di me e a quello che vedrai”. La seconda parte delle parole di Gesù sono destinate a zittire i pensieri e i mormorii di quelli: è facile dire a una persona “ti sono rimessi i peccati”, ma non altrettanto a un paralitico di alzarsi e camminare, cosa che avvenne, lasciando muti e soli quei religiosi di fronte alle loro responsabilità. E il termine ebraico che indicava la parola “peccato” poteva indicare tanto una colpa commessa quanto le sue conseguenze ed era proprio l’infermità corporale grave e cronica che, come già visto in altri episodi, la denotava.

Venendo a noi, l’incontro con Gesù e le sue parole lascia sempre, all’inizio, l’essere umano solo di fronte a sé stesso: è a un bivio, deve inevitabilmente scegliere se rimanere nelle convinzioni di cui è vittima nonostante creda il contrario, oppure mettersi in discussione di fronte a quanto gli viene detto. Non è facile: richiede umiltà, apertura, disponibilità e sì, rinunciare a se stessi per seguirLo nel cammino. Il problema, la domanda, non è “cosa perdo se accetto Gesù Cristo”, ma “dove vado e a quale punto arrivo se seguo me stesso e dove vado e dove arrivo se seguo Lui”.

La vita che scorre da quando l’uomo è stato estromesso da Eden ad oggi è descritta in sintesi dal re Salomone in tutto il libro dell’Ecclesiaste, o Qoelet: “3Quale guadagno viene all’uomo
per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole? 4Una generazione se ne va e un’altra arriva,
ma la terra resta sempre la stessa. 5Il sole sorge, il sole tramonta e si affretta a tornare là dove rinasce.
6Il vento va verso sud e piega verso nord. Gira e va e sui suoi giri ritorna il vento.
7Tutti i fiumi scorrono verso il mare, eppure il mare non è mai pieno: al luogo dove i fiumi scorrono,
continuano a scorrere. 8Tutte le parole si esauriscono e nessuno è in grado di esprimersi a fondo.
Non si sazia l’occhio di guardare né l’orecchio è mai sazio di udire. 9Quel che è stato sar
e quel che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole. 10C’è forse qualcosa di cui si possa dire:
«Ecco, questa è una novità»? Proprio questa è già avvenuta nei secoli che ci hanno preceduto.
11Nessun ricordo resta degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria
presso quelli che verranno in seguito”
(Ecclesiaste 1.3-11). Anche questa è una paralisi, per quanto illusoriamente mobile.

Al paralitico vengono affidati tre compiti: alzarsi, prendere il lettino al quale per molto tempo e con sofferenza era stato costretto, e andarsene a casa sua. Sarebbe iniziata per lui una vita nuova, perfettamente conseguente al perdono dai peccati ricevuto. E non è certo sottovalutabile la sua reazione: “Subito egli si alzò davanti a loro, prese il lettuccio su cui era disteso e andò a casa sua, glorificando Iddio”. Si noti che non è scritto che ringraziò l’uomo Gesù, ma glorificò Iddio, cioè riconobbe che quanto avvenuto era stato possibile unicamente grazie a quel Dio che prima gli aveva fatto patire le conseguenze di una condizione di peccato e poi gli aveva rimesso ogni colpa. “Glorificare Dio” era la stessa cosa che ringraziare chi lo aveva guarito e, ancor di più, chi gli aveva rimesso i peccati. Da un lato abbiamo perdono e guarigione, dall’altro gli uomini della Legge orale e scritta che rimasero lì, induriti sulle loro posizioni senza un perché. Non si trattava più, come annota Giuseppe Ricciotti, “di qualche elegante questione casistica rabbinica, ad esempio di sapere se fosse lecito di sabato sciogliere il nodo di una fune o trasportare un fico secco”, ma di ammettere semplicemente che il Regno di Dio era finalmente giunto a loro e che Gesù stava dimostrando di essere l’incarnazione delle promesse fatte ai profeti a partire da Abrahamo, che loro ritenevano loro padre. Nessuno di loro lo fece.

Concludendo, abbiamo una cosa che in questo episodio accomuna gli ostili a Gesù, il paralitico e i suoi amici: tutti intraprendono un cammino per andare da Lui. I primi per accusarlo e il risultato che ottennero fu solo sconfitta e livore, i secondi consapevoli che solo Nostro Signore avrebbe potuto risolvere il loro grave problema, E la gioia fu il loro premio. I primi pensavano di essere qualcosa, i secondi partecipavano alla sofferenza dell’amico e andarono a Cristo per essere esauditi, o anche solo ascoltati attraverso le loro azioni. Solo la Parola di Dio che è Spirito e Vita può quindi risolvere la condizione di peccato in cui si trova l’uomo perché solo per mezzo della fede si riceve la giustificazione e la pace di Dio.

E Davide nel suo Salmo 108.13 scrive sotto la dispensazione della Legge “Il Signore è buono e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore. Egli non continua a contestare e non conserva per sempre il suo sdegno, non ci tratta secondo le nostre colpe – cosa che il cristiano sa molto bene –. Come il cielo è alto sulla terra, così grande è la sua misericordia su quanti lo temono; come dista l’Oriente dall’Occidente, così allontana da noi le nostre colpe. Come un padre ha pietà dei suoi figli – il Padre Nostro che è nei cieli – così il Signore ha pietà di quanti lo temono”. Amen.

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