05.43 – LE SOLLECITUDINI ANSIOSE – prima parte (Matteo 6.25-34)

05.43 – Le sollecitudini ansiose I (Matteo 6.25-34)

 

25Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? 26Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? 27E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? 28E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. 29Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? 31Non preoccupatevi dunque dicendo: «Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?». 32Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. 33Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena.

 

Abbiamo letto delle verità importanti che costituiscono l’applicazione pratica dei principi esposti da Gesù in precedenza: il cuore ha un suo tesoro e a lui pensa e in funzione di ciò che prova agisce (“Dove è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore”); l’occhio può essere puro o impuro e quindi ha una sua visione delle cose e della vita (“Se il tuo occhio è puro, tutto il tuo corpo sarà illuminato, ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso”), infine lo stato mentale della persona, che si trova nell’impossibilità di “servire a due padroni” perché una sola è la condizione di appartenenza che determina il risultato delle azioni di ciascuno. Il “perciò” iniziale del verso 25, allora, è la conseguenza di tutti e tre gli elementi messi insieme. I versi di cui ci siamo occupati nelle ultime riflessioni, sono stati una premessa a questo discorso di Gesù sulle sollecitudini ansiose, temine che ho preso in prestito da Saulo di Tarso che, scrivendo ai Filippesi, dice “Non siate con ansietà solleciti di cosa alcuna, ma siano in ogni cosa le vostre richieste notificate a Dio, con preghiere, suppliche e ringraziamenti” (4.6). È infatti Lui che dispone della nostra vita.

Ansia, preoccupazioni, tensioni sono quelle che in un modo o nell’altro dominano la vita dell’uomo naturale, sono quelle che rientrano nel “sudore della tua fronte” anticipato da Dio ad Adamo quando gli spiegò a quale prezzo si sarebbe guadagnato “il pane”. E tutti noi sappiamo quanto sia importante il sostentamento visto nella “vostra vita”: mangiare, bere, essere in salute, vestire. Possiamo dire che, sicuramente, in questi quattro termini si riassume appunto la nostra esistenza, è la premessa indispensabile per realizzare, concretare i nostri progetti.

Anche qui ciascuno reagisce a seconda del cuore, dell’occhio e della mente di cui è dotato perché il mondo, retto dall’Avversario, fa di tutto per esasperare il concetto del vivere e qui è necessario aprire una parentesi importante che riguarda ciò che è veramente utile oppure no. Ricordo che da bambino un mio zio, volendo farmi riflettere su come spendevo la “paghetta” che mi davano i miei genitori, mi chiese se ciò che mi compravo mi serviva davvero e gli risposi di no. Le sue parole furono: “Vedi? Se tutti spendessimo per le cose che ci servono veramente, risparmieremmo molti soldi, ma poi non sapremmo cosa farcene”. Da queste semplici parole vediamo che alla base di tutto c’è un inganno totale che va oltre al semplice pubblicizzare un prodotto da vendere: perché questo sia desiderabile, occorre prima provocare uno stato mentale che sia sensibile al superfluo, creare un mito, una situazione che in realtà non abbia un perché. Così, i soldi messi da parte, “in più”, finiscono per essere spesi in beni che non hanno un motivo reale di essere posseduti: “dobbiamo” spostarci il più celermente possibile, “navigare” in rete veloci e magari ogni componente della famiglia deve avere in tablet, una televisione intelligente, essere connessi anche quando viaggiamo, camminiamo. Una strategia per non farci pensare, ottenere risposte automatiche, delle emorragie di tempo che impieghiamo freneticamente senza rendercene conto.

L’Avversario, che progredisce nelle sue strategie col tempo perché mira a creare un sistema che sia interamente al suo servizio, ha cambiato profondamente la mentalità della gente anche solo negli ultimi vent’anni. Cinema e televisione non propongono più modelli positivi, non fanno più pensare, non provocano reazioni interiori nobili, ma istintive. I protagonisti sono “buoni” o “cattivi”, ma non s’interrogano mai sulla loro vita, non intraprendono un percorso interiore, non ne sentono il bisogno, al limite vanno in analisi. Gli spot pubblicitari ti propongono un mondo irreale in cui, se c’è una famiglia, è perfetta. Uomini e donne sono sempre di successo e hanno case bellissime, un lavoro appagante, auto da sogno (che anche se utilitarie vengono rappresentate come all’avanguardia in fatto di tecnologia) vengono inquadrate in paesaggi non naturali, ma realizzati con software dedicati. Meraviglie che un tempo incantavano i bambini e ora attirano i cosiddetti “adulti”, quelli maturi in età, ma non nella mente. E quello che un tempo era un bimbo prepotente, diventa un adulto che uccide perché non è in grado di affrontare qualunque negazione. Abbiamo la realtà aumentata, giochi in 3D, smartphone perché devi essere sempre connesso e soprattutto “condividere” contenuti sempre più mediocri perché l’estetica e la ragione, frutto di uno sforzo intelligente, non devono più esistere. La musica come architettura ricercata di suoni è bandita, al suo posto esiste il ritmo primitivo ossessivamente ripetuto e, se vengono introdotti testi, sono di una banalità devastante. Confrontando ciò che propongono i media con quello che è il messaggio cristiano, vediamo quanto l’uno sia opposto all’altro, quanto la preoccupazione reale sia diversa da quella imposta a un pubblico ormai immaturo senza possibilità di riscatto. Potremmo continuare all’infinito.

Devi sapere che negli ultimi tempi verranno momenti difficili. Gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanitosi, orgogliosi, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati, senza religione, senza amore, sleali, maldicenti, intemperanti, accecati dall’orgoglio, attaccati ai piaceri più che a Dio, con la parvenza della pietà mentre ne hanno rinnegata la forza interiore” (2 Timoteo 3.1-5). Sono parole che abbiamo già ricordato.

Con le Sue parole Gesù indica una spazio mentale diverso e pone la domanda: “La vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito?”: apparentemente c’è una contraddizione, perché la vita senza nutrimento è impossibile e il corpo deve coprirsi, mancando a noi il pelo come gli animali. Ricordiamo però le parole di Isaia 33.14-16: “Chi di noi può abitare presso un fuoco divorante? Chi di noi può abitare tra fiamme perenni? Colui che cammina nella giustizia e parla con lealtà, che rifiuta un guadagno frutto di oppressione, scuote le mani per non prendere doni di corruzione, si tura le orecchie per non ascoltare proposte sanguinarie e chiude gli occhi per non essere attratto dal male: costui abiterà in alto, fortezze sulle rocce saranno il suo rifugio, gli sarà dato il pane, avrà l’acqua assicurata”. E penso al Gesù stremato dal digiuno dopo le tentazioni di Satana nel deserto, di cui è detto che “gli angeli lo servivano”. La vita terrena, così importante perché con lei e attraverso di lei ci esprimiamo, non è ritenuta marginale dal Padre nostro che è nei cieli perché “Avendo da nutrirci e da coprirci, saremo di ciò contenti” (1 Timoteo 6.8). La vita terrena, se vista come unico bene, può portare ad un impiego smodato del tempo che abbiamo: molti sono quelli che fanno del lavoro una ragione di vita e lo vedono come realizzazione personale o per sfuggire altre realtà che non sanno affrontare o di cui rinviano la soluzione. Salomone scrive in Salmo 127.2 “Invano vi alzate di buon mattino e tardi andate a riposare, voi che mangiate un pane di fatica: al suo prediletto Egli lo darà nel sonno”. Sono concetti che la società umana rifiuta.

La “vita” che “vale più del cibo” e il “corpo più del vestito” si riferisce proprio alla nostra stabilità psichica, all’anima che, se abitata da qualcuno diverso dallo Spirito, si perde: vita come il risultato del nostro presente e vita futura, eterna, come collocazione nel Regno di Dio a seconda di come avremo vissuto. E la vita cristiana è impossibile senza una progressiva rinuncia a se stessi, non s’impara in poco tempo, ma è il frutto di uno sperimentare continuo, di un ascolto attento, di una verifica di come e a cosa pensiamo. A volte è una chiamata, altre è un’illuminazione che porta ad agire. Ho sentito molti giovani chiedere cosa dovevano fare per servire il Signore, pensando a chissà quali rinunce oppure opere che li attendevano: nel campo cattolico romano viene detto loro di stare insieme, essere buoni, partecipare a raduni e funzioni; in quello evangelico li si indirizza ad iniziative di evangelizzazione, campi estivi di studio biblico o manifestazioni pubbliche in cui si canta e danno opuscoli, ma non viene mai spiegato loro quanto è importante ricercare le rivelazioni di Dio nel silenzio del proprio intimo, contemplare ed ampliare quella luce che il Signore ha già dato loro, la fedeltà nelle piccole cose. Purtroppo, viviamo in un mondo che non riesce a sopravvivere senza spettacolo e mancano uomini e donne con una vera esperienza cristiana e memoria del loro passato.

Gesù, nel suo discorso sulle sollecitudini, invita i suoi uditori ad un’azione molto semplice, cioè “guardare”, che significa non solo osservare qualcosa o qualcuno, ma anche “proporsi qualcosa come scopo o come modello”, che nel caso del passo in esame sono gli animali, cioè i “corvi”per il nutrimento del corpo, e i “gigli del campo”per il vestire. Non viene detto che “tanto il cibo lo trovano comunque”, ma che “Dio li nutre”. “Quanto più degli uccelli valete voi!”. “Voi” che in me avete creduto, credete o crederete.

Allo stesso modo il giglio, quello di Etiopia che abbondava in Galilea, dai colori intensi e con sfumature molto eleganti, nella sua pur brevissima vita, è vestito meglio di Salomone che faceva sfoggio di raffinatezza ed eleganza: “La regina di Saba, quando vide la sapienza di Salomone, la reggia che egli aveva costruito, i cibi della sua tavola, il modo ordinato di sedere dei suoi servi, il servizio dei suoi domestici e le loro vesti, gli olocausti che egli offriva nel tempio del Signore, rimase senza respiro” (2 Cronache 9.3). Facciamo caso alla reazione di questa donna: era una regina, per cui non certo una persona di poco conto e sicuramente aveva visto e conosciuto altri re ed altre corti oltre a quella, sontuosa, in cui di certo viveva, ma rimase senza respiro. Ebbene quel giglio, vestito da Dio padre come gli altri fiori del campo che non hanno cercato la loro eleganza con sforzo o l’intervento di uno stilista prezzolato, è superiore a tutto quello sfarzo che la lasciò senza parole.

Anche qui, come avvenuto con i corvi, il paragone con gli uomini fa riflettere: “Non farà molto di più per voi, gente di poca fede?”, anche se l’originale dice “non vestirà molto più voi”; sono parole che si riferiscono tanto al vestire nella sua quotidianità, quanto all’abito che indosseremo quando riceveremo il premio nella vita futura che ci attende, quando saremo un tutt’uno con Cristo. Un vestito di eternità, santità e giustizia. L’apostolo Pietro, che era presente quando Gesù pronunciò questo discorso, si ricordò del fiore del campo e, citando Isaia 40, scrisse che il cristiano è rigenerato “non da un seme corruttibile, ma incorruttibile, per mezzo della parola di Dio viva ed eterna. Perché ogni carne è come l’erba e tutta la sua gloria come un fiore del campo. L’erba inaridisce, i fiori cadono, ma la parola del Signore rimane in eterno. E questa è la parola del Vangelo che vi è stato annunciato”. Amen.

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05.42 – SERVIRE A DUE PADRONI (Matteo 6.24)

05.42 – I due padroni (Matteo 6.24)

24Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza.

Ricordando quanto abbiamo letto nei versi precedenti, abbiamo visto l’importanza che rivestono il “tesoro” del cuore e la vista spirituale, soggetta a difetti o ad ammalarsi come quella del corpo. Ora Gesù, con il verso che mediteremo, collega tra loro il cuore, cioè il sentimento che spinge ad agire, le motivazioni profonde che ci motivano, la vista, cioè il riscontro, gli impulsi che determinano le nostre scelte, e la mente, stabilendo per la prima volta un’impossibilità umana tutta interiore, cioè quella di  “servire Dio e la ricchezza”. Si tratta di una traduzione dall’originale aramaico “Mamon” che significa “ricchezza”, ma che troviamo anche nella mitologia caldeo-siriaca riferito a un demone. Sapevano gli uditori di Nostro Signore di quest’ultimo significato? Il testo lascerebbe pensare di sì, perché la ricchezza in senso generico è una condizione di vita che si ha, o si brama, e qui si allude a un padrone, a qualcosa che domina la mente: “Mamon” è una personificazione, qualcuno che rende schiavo chi ha a che fare con lui. A prescindere dal fatto che “Mammona” (come traducono i più) sia un personaggio che tenta o esista personificando l’amore smodato per il profitto e l’accumulare, è importante che nel nostro testo si parli di servire “due padroni”, cosa impossibile senza fare delle preferenze per l’uno o per l’altro, da cui deriverebbe un servizio difettoso per uno dei due. Se poi facciamo caso al verbo impiegato nel testo greco, “douléo”, vediamo che quel “servire” si riferisce a uno status giuridico tipico dello schiavo che appartiene interamente al suo padrone ed è a lui completamente sottoposto. Uno schiavo era a tempo pieno, non esisteva il parziale.

Ancora una volta dobbiamo chiederci cosa avessero pensato le persone riunite sul monte ad ascoltare Gesù sentendo quella frase. Erano ebrei e, anche se non possiamo escludere la presenza di qualche Fariseo o Dottore della legge, si trattava di persone che un’infarinatura dei testi sacri la possedevano per cui saranno sicuramente andati agli avvertimenti che Giosuè dette al popolo a Sichem dove, terminato l’esodo, si rinnovò l’alleanza con YHWH prima di entrare nella terra promessa. Leggiamo in Giosuè 24.14,15 “Ora, dunque, temete il Signore e servitelo con integrità e fedeltà. Eliminate gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume e in Egitto e servite il Signore. Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrei, nel cui territorio abitate. Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore”. Abbiamo quindi questo verbo, “servire”, che fa riferimento ad un pensiero costante, a un compito, al punto di riferimento che precede l’azione. Anche qui possiamo connetterci al “tesoro del cuore” e al vedere bene o al vedere male: ogni uomo infatti è chiamato a fare una scelta e la fa anche inconsapevolmente, cercando il Signore o rifiutandolo. “Sceglietevi oggi chi servire”, sono parole particolari pronunciate davanti ad un popolo che sarebbe entrato nella terra promessa dopo quarant’anni di vita errabonda nel deserto e tutti coloro che avevano peccato di incredulità, idolatria e ribellione erano ormai morti per il giudizio che si era abbattuto su di loro: “Il Signore disse a Mosè ed Aaronne: Ho sentito gli israeliti lamentarsi continuamente di me! Questo popolo insopportabile, quando la finirà coi suoi lamenti? Di’ loro da parte mia: Io il Signore vivente, dichiaro che vi tratterò come avete detto sul mio conto. Morirete tutti in questo deserto. Tutti voi che siete stati registrati nel censimento, dall’età di vent’anni in su, morirete dal primo all’ultimo, perché vi siete lamentati di me. Giuro che non entrerete nella terra dove avevo promesso di farvi abitare.(…) Voi dicevate che i vostri bambini sarebbero stati fatti prigionieri dai nemici; invece io farò entrare proprio loro nella terra che voi avete disprezzato: essi la conosceranno” (Numeri 14.26-35). Ecco allora che quel “sceglietevi oggi chi servire” si riferiva ad una scelta consapevole dopo aver considerato l’esperienza comune dei loro padri.

Leggendo le parole di Giosuè, mi sono chiesto perché una persona debba essere necessariamente obbligata a scegliere tra Dio e ciò che non lo è, perché non si possa essere neutrali e quindi semplicemente liberi; la risposta immediata è stata: perché è impossibile in quanto l’essere umano è comunque sottoposto alle sue passioni e a queste reagisce dipendendo da esse, per cui in pratica ne è schiavo; loro sono il suo tesoro e lì è il suo cuore.

Se Matteo scrive “Nessuno può servire a due padroni”, Luca specifica meglio il soggetto, “Nessun servitore può servire a due padroni”, per cui implicitamente questo evangelista qualifica l’essere umano, che tanta opinione ha di sé perché constata ogni giorno di essere in grado di pensare e agire in modo apparentemente libero, come un servo a prescindere. Ogni uomo, nessuno escluso, è schiavo, servo delle proprie passioni, aspirazioni, desideri, attitudini, siano esse umanamente positive o negative, a meno che scelga di appartenere a Dio e quindi servirlo; senza un pensiero costante in tal senso, si collocherà in un dualismo impossibile.

L’apostolo Paolo nella sua lettera ai romani afferma “Non sapete che, se vi mettete a servizio di qualcuno per obbedirgli, siete schiavi di colui al quale obbedite, sia del peccato che porta alla morte, sia dell’obbedienza che conduce alla giustizia? Rendiamo grazie a Dio perché eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore a quella forma di insegnamento alla quale siete stati affidati. Così, liberati dal peccato, siete stati resi schiavi della giustizia” (6.16-18). Già qui Paolo cita i due padroni, in questo caso non la ricchezza, ma il peccato inteso come condizione contrapposta alla santità di Dio. Obbedire al peccato significa proprio rifiutare la Sua presenza nella nostra vita. Il peccatore non è necessariamente l’omicida, il ladro o chi frequenta le prostitute o le osterie, ma chi lascia il Signore fuori dalla propria vita. Facendo ciò compie una libera scelta tra l’essere servo Suo o del peccato e quindi dell’Avversario. Non possiamo essere neutrali o “liberi” per il semplice fatto che siamo su un pianeta che è territorio dominato dal “principe di questo mondo” per cui, teoricamente, ogni uomo gli appartiene per nascita. Ecco perché il termine usato per indicare l’opera di Dio nei confronti chi crede in lui è “strappare”: il Signore Gesù Cristo “ha dato se stesso per i nostri peccati al fine di strapparci da questo mondo malvagio” (Galati 1.4), tradotto da altri con “secolo”.

Paolo nel verso che abbiamo letto nella lettera ai Romani parla comunque di un’obbedienza, “al peccato che porta alla morte” o all’ “obbedienza che conduce alla giustizia”. Scegliete chi volete servire. Attenzione al verbo, “servire”, non “seguire”.

Il peccato è allora una realtà nella quale tutti possono cadere accidentalmente, oppure una condizione che schiavizza coinvolgendo il cuore, la mente, gli occhi che restano chiusi alla luce dello Spirito, l’unica in grado ad illuminare la vita per davvero. Il peccato porta all’amore per il mondo, alla ricerca estenuante e continua della sopravvivenza, fisica o psichica poco importa. Il peccato porta al poter contare solo su se stessi in una continua successione di battaglie che possono essere vinte o perse, ma che conducono alla capitolazione definitiva. Giovanni, “il discepolo che Gesù amava”, scrive nella sua prima lettera “Non amate il mondo, né le cose del mondo. Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo – la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita – non viene dal Padre, ma viene dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza, ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno” (2.15-17).

Ecco, le tre realtà citate da Giovanni relative al mondo, le possiamo considerare come le altrettante caratteristiche di Mamona: la prima, la “concupiscenza della carne” si riferisce a quanto ricerchiamo per soddisfare tanto il corpo quando la mente, entrambi sempre alla ricerca di saziare la propria fame e sete; la seconda, la “concupiscenza degli occhi” è quella che ho definito in una scorsa riflessione “la ricerca del bello” in tutte le sue forme. Il bello indubbiamente appaga, ma la concupiscenza degli occhi non si sazia mai e finisce per renderli ancora una volta ossessivamente dipendenti. La terza, la “superbia della vita”, è il naturale riassunto dell’atteggiamento di chi si crede libero, ma in realtà è soltanto un misero che si crede qualcuno. La superbia della vita si riassume in tre affermazioni: io sono, io posso, io voglio, guarda caso tutte in opposizione al concetto dell’essere schiavi, destinate a scontrarsi con parole che ogni credente conosce molto bene: “Tu sei polvere, e ritornerai polvere”. Non è un caso se proprio i tre verbi, essere, volere e potere, sono i più usati negli spot pubblicitari. Non è neppure un caso che su queste tre condizioni fece leva Satana tentando Eva per prima.

A questo punto la ricchezza, Mamona, è tutto quanto abbiamo visto finora messo assieme; un concentrato, una brodaglia impura con dentro un po’ di tutto di cui si nutre chi non ha fatto proprio l’amore della verità per essere salvato. Non è la condizione di chi è ricco in sé che ostacola l’incontro e la relazione con Dio, ma è quello che l’accompagna, vale a dire il volerla difendere, l’attaccarsi a lei con tutte le proprie energie. “A quelli che sono ricchi in questo mondo ordina di non essere orgogliosi, di non porre la speranza nell’instabilità delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dà con abbondanza perché possiamo goderne” (1 Timoteo 6.17): queste parole non contengono una censura relativa alla condizione di chi possiede dei beni, ma la pongono nella giusta prospettiva, vale a dire non base da cui partire per impostare una vita nell’agio egoistico, ma strumento di ringraziamento e metodo come fu, ad esempio, per Giobbe che diceva “…io liberavo il povero che invocava aiuto e l’orfano che ne era privo. (…) al cuore della vedova infondevo gioia” (29.12,13). Le parole “tutto ci dà in abbondanza perché possiamo goderne”, poi, non esortano certo chi crede a desiderare una vita di stenti, ma a considerare ciò che abbiamo come un dono abbondante, termine che si riferisce alla condizione tanto materiale quanto spirituale, quindi a una dimensione. È con lo spirito che si valutano i doni di Dio, non con il metro del denaro o delle possibilità di soddisfazione dei sensi.

Il denaro, le ricchezze, “Mamona”, non è un dio da servire perché è in grado di menomare gravemente se non impedire il rapporto con quello vero. Troppe volte ho sentito affermare che il cristiano è definitivamente liberato dal peccato e quindi non può peccare perché amico di Dio e nuova creatura: questo significa relegare versi che hanno un’indubbia verità isolandoli dal contesto in cui sono stati scritti e soprattutto dare un’interpretazione univoca ai concetti espressi. In realtà troviamo in Colossesi 3.5-11 un invito preciso rivolto ai membri di quella Chiesa, quindi a noi: “Fate dunque morire ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria; a motivo di queste cose l’ira di Dio viene su coloro che gli disobbediscono.(…) vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, a immagine di Colui che lo ha creato”. E Giacomo 4.4 ricorda “Non sapete voi che l’amore per il mondo è nemico di Dio?”. Sono parole rivolte a cristiani convertiti, tese a ricordare loro che hanno uno scopo e un compito nel mondo, che è quello di essere “sale della terra” che abbiamo visto può perdere il suo sapore.

Ecco spiegato perché non possiamo servire due padroni: scelto Gesù Cristo, c’è un dovere da compiere, un “giogo leggero” che il vero cristiano ha preso su di sé rifiutando l’altro, quello dell’Avversario che illude e divora l’uomo a tal punto da perderlo. Giosuè ricordò, come abbiamo letto all’inizio, che se Israele avesse abbandonato il Signore per servire dèi stranieri, Lui stesso gli si sarebbe voltato contro e, dopo aver fatto loro del bene, li avrebbe annientati: “Voi non potete servire il Signore, perché è un Dio santo, e un Dio geloso; egli non perdonerà le vostre trasgressioni e i vostri peccati. Se abbandonerete il Signore e servirete dèi stranieri, egli vi si volterà contro e, dopo avervi fatto tanto bene, vi farà del male e vi annienterà”. Questo succederà a chiunque, posta la sua fede nelle ricchezze di questo mondo, avrà impostato la propria vita a inseguirle, accumularle, vivere per loro. In poche parole, servendo Mamona, un dio diverso. Così facendo avrà odiato il Dio d’amore che chiama, sempre. Amen.

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05.41 – L’OCCHIO, LAMPADA DEL CORPO (Matteo 6.22-23)

05.41 – L’occhio, lampada del corpo (Matteo 6.22-23)

 

22La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; 23ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!

 

Prima di questo pensiero sappiamo che Gesù disse “Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”, quindi: nessuno può fare a meno di continuare a pensare all’oggetto dei propri affetti, o interessi, a prescindere da quali essi siano. Ecco allora che la presenza del “tesoro” è il punto di partenza per una trattazione di argomenti che toccano l’umana condotta e il modo di pensare (i versi di cui ci occuperemo oggi), per poi arrivare allo stato di sudditanza nei confronti della ricchezza come miraggio conseguito sulla terra, o realizzato presso Dio. È da lì che, poi, ne consegue tutto l’atteggiamento nei confronti della vita terrena. Nostro Signore non fa qui della filosofia come potrebbe sembrare, ma dà dei principi appartenenti più all’analisi della persona umana che a un’osservazione distaccata dei comportamenti o al consigliare un atteggiamento nei confronti della vita perché “tanto tutto passa”: correlato ai versi che abbiamo letto e leggeremo è il principio che troviamo in Luca 6.45 “L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda”. Facciamo attenzione al testo: “dal cuore”indica la provenienza e sappiamo cosa significhi quest’organo per la Scrittura. Il “sovrabbonda”poi parla di ciò che è in eccesso, quindi quello che naturalmente ne esce come se fosse un recipiente colmo fino all’orlo che così trabocca. Certo tutto questo vale se l’individuo in questione non simula, ma possiamo dire che nessuno sfugge al principio in base al quale si tende sempre a parlare di ciò che abbiamo dentro, di ciò che occupa i nostri pensieri: “dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”. Siamo ciò che ci abita e da cui siamo abitati. Sempre.

Ora Gesù parla dell’occhio in termini elementari stante il fatto che doveva farsi capire dai suoi uditori, per poi lasciare a loro il compito di trovare gli opportuni riferimenti. Si può dire che qui venga esposta una parabola elementare, che però implica verità molto profonde; la vista serve per riconoscere, scegliere, valutare, percorrere. Vediamo un pericolo, una persona cara, ammiriamo un panorama, un ambiente; ci sentiamo attratti da una bella persona. L’occhio e l’orecchio è scritto che non si stancano mai di assolvere al loro compito ed è quello che ci ha testimoniato il re Salomone nel suo scritto che abbiamo citato la volta scorsa: “Mi sono procurato cantori e cantatrici insieme con molte donne, delizie degli uomini.(…) Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano”. Pare che sia la vista il senso che le persone temono di perdere più di qualunque altro e se pensiamo che ai tempi di Gesù problemi oggi risolvibili come la miopia o presbiopia costituivano un serio problema, possiamo capire quanto facile fosse stato comprendere le implicazioni di un “occhio semplice” o “cattivo” (“puro” o “viziato” secondo altre traduzioni). Pensiamo poi alla cataratta, al glaucoma, al fatto che esporre gli occhi al sole del deserto portava molti alla cecità poiché i danni che le radiazioni solari possono provocare alla rétina sono in gran parte irreversibili.

Fino a questo punto, tanto per quello che è stato scritto quanto per ciò che ha detto Gesù, sono state fatte osservazioni abbastanza ovvie, valide per tutti, uomini e animali perché, se si parla di sopravvivenza, la vista è indispensabile e la frase “Se un cieco guida un altro cieco, entrambi cadranno nella fossa” (Matteo 15.14) ci mostra un aspetto purtroppo indiscutibile delle dinamiche terrene. Luca però, nel riportare le parole oggetto di riflessione, aggiunge una frase importante, cioè “bada dunque che la luce che è in te non sia tenebra. Se il tuo corpo è tutto luminoso senza avere alcuna parte nelle tenebre, tutto sarà luminoso come quando la lucerna ti illumina con il suo bagliore” (11.35,36).

Allora l’occhio sano, o puro, o luminoso a seconda delle traduzioni, non è riferito ad un organo che possiede dieci decimi. Allora, possiamo credere di essere nella luce e di vedere quando in realtà ci troviamo in una condizione opposta senza saperlo: “bada”, cioè “fai attenzione”, “cura”, “controlla”, “dedicati a”, non dare per scontato, stai attento perché ne va della tua vita perché, se ciascuno ha il suo tesoro, ciascuno ha la sua luce, ma una sola è quella che durerà in eterno, una sola è quella che ti può illuminare veramente.

E allora non possiamo che andare ad Adamo ed Eva, come già fatto altre volte perché tutto comincia da lì, in Genesi, che come sappiamo significa “origine”. La conseguenza dell’infrazione all’unico comandamento ricevuto fu “Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” (3.7): non che prima non ci vedessero, ma l’apertura degli occhi significa che le loro frequenze ricettive si spostarono da quelle spirituali e perfette a quelle della carne. Si schiusero su realtà che prima non appartenevano loro. La nudità che vollero coprire non riguardò i loro organi genitali, ma la nudità spirituale, il loro essere indifesi a fronte della perdita della luce di Dio che li rivestiva. Provarono per la prima volta paura e quelle cinture di fico scoprirono subito che nulla potevano di fronte a quel sentimento di vergogna e paura che mai avevano provato fino ad allora. Se il fico avesse potuto proteggerli, Adamo non avrebbe detto “Ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nascosto” (v.10), ma si sarebbe presentato liberamente a Lui come se nulla fosse. E questo ci parla del fatto che, per quanto possa fare, l’uomo non potrà mai essere accettato da Dio a meno che Lui stesso non lo chiami, non lo attiri a sé.

E così la creatura, responsabile del Giardino, che parlava con Lui senza che nessuna cosa si frapponesse tra loro, si sentì fuori posto, avvertì una distanza incommensurabile, non sapeva più come orientarsi: non vedeva come prima. Adamo aveva avuto tutto gratuitamente, non si sentiva nudo non perché ignorava di esserlo, ma perché tale non era, rivestito di santità e soprattutto di purezza a tal punto da formare un tutt’uno con l’ambiente in cui viveva e con suo progettista che, ricordiamo, si riposò il settimo giorno per contemplare il lavoro svolto. Ricordiamo le parole alla fine del sesto giorno: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona”. Questa fu la Sua valutazione.

Ci ritroviamo quindi con l’occhio di Adamo impossibilitato a vedere, dopo la caduta, tutto ciò che prima poteva distinguere perché permeato della scienza del suo Creatore. Privato di questo senso così come aveva in origine, l’uomo ha così dovuto adeguarsi: Adamo vide la terra che avrebbe dovuto lavorare, quel suolo che gli avrebbe prodotto “spine e tribolazioni”, Eva il figlio Abele ucciso ed entrambi assistettero impotenti al dipanarsi della storia umana: sarebbero venuti altri omicidi, prevaricazioni, guerre, lotte di potere senza un perché reale proprio in conseguenza di quegli occhi schiusi alla condizione di peccato senza possibilità di appello se non – per alcuni – nella fede in quella promessa secondo la quale il serpente avrebbe avuto schiacciata la testa dalla “progenie della donna”. Adamo infatti tramandò alla sua posterità il racconto della sua caduta e alcuni di loro, saputo il destino finale del serpente, posero la loro fede in quelle parole. Da quando l’uomo iniziò a vivere sulla terra corrotta, iniziò così a scegliere in quale luce vivere, cioè se nella propria, o mettersi a cercare quella di Dio implorando la Sua assistenza, rivelazione, orientamento. E abbiamo tutti gli scritti dell’Antico Patto che lo dimostrano, che ci parlano di scelte oculate e scellerate, di vista illuminata oppure ottenebrata, di convinzioni ostinate che vengono demolite al tempo opportuno e di orientamenti chiaramente riconducibili ad un’illuminazione dall’alto. Caso più eclatante è quello dell’asina di Balaam di Numeri 22.

La vista. Se non è sana, ti fa vedere il mondo in modo diverso, senza occhiali ci si orienta con fatica, senza di essa si dipende purtroppo dagli altri. Si è, come dice Gesù, “nelle tenebre” anche se vedremo che si tratta di un’espressione che comprende due significati.

Ma per la visione spirituale delle cose, così connessa al tesoro del cuore? I ciechi guariti da Gesù dovettero ammettere un problema oggettivo, ma l’uomo che vuole risolvere l’ostacolo di una vista spirituale difettosa, come quei miracolati nei Vangeli, deve ammettere di essere nella loro stessa condizione, per quanto su un piano diverso. È un problema comune a tutti gli uomini che però dev’essere riconosciuto e a far questo sono in pochi perché occorre un atto di profonda umiltà: bisogna riconoscere di non essere in grado di orientarsi oppure, secondo un altro aspetto comunque connesso a questo, di avere sete: “Chiunque ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me, come dice la scrittura, «fiumi d’acqua viva usciranno dal suo seno»” (Giovanni 7.37.38). Non è un invito rivolto a tutti, ma solo a chi riconosce due cose: di aver sete e che solo in Cristo può trovare la soddisfazione di questo bisogno. Allo stesso modo, è capire che non possediamo la vista spirituale che può spingerci a chiedere aiuto.

Vedere implica un’interpretazione e il mondo visto da un daltonico non è lo stesso che vede  una persona che tale non è e così avviene per chi ha altre patologie, per quanto non gravi. Personalmente posso dire di essere affetto da un problema alla vista per cui ho bisogno di portare gli occhiali; pur conducendo una vita autonoma ed essendo in grado di fare tutto quello che fanno gli altri, l’oculista mi disse che poche persone sarebbero in grado di vivere come me, vedendo quello che vedo. Mi sono molto meravigliato perché, anche senza l’ausilio delle lenti, sono in grado di spostarmi nello spazio senza problemi; la sua risposta fu che se fossi stato in grado di vedere perfettamente, avrei capito le sue parole. Devo quindi dedurre che io credo di vedere, ma in realtà vedo poco, o comunque non come una persona sana anche se il mondo è come lo interpreta il mio cervello che si basa sui segnali che i miei nervi ottici gli trasmettono. Credo di vedere, mi baso su quello che ho ma, a quanto mi dice quel medico, sbaglio. Secondo le parole che abbiamo letto, quindi, basandomi sulla vista in senso tecnico e umano, il mio corpo non è “tutto illuminato”, ma lo è in parte.

Rapportando tutto questo alla vita spirituale, le capacità di orientamento nell’essere umano possono essere del tutto assenti, o funzionare parzialmente e dare una visione non corretta della realtà: ci sono ciechi che fingono di vedere e guidano altri ciechi, c’è chi vede poco e si comporta come se non avesse problemi e potremmo paragonarlo a chi guida un veicolo senza occhiali quando dovrebbe indossarli. Nell’uomo, stando alle parole di Gesù che abbiamo esaminato fin qui, occhi, mente e cuore sono collegati per cui in un certo senso costituiscono la base della persona. Da notare il termine usato per l’occhio: a quello “cattivo”, tradotto da altri con “difettoso”, corrisponde un corpo “tenebroso”, aggettivo che può riferirsi alla completa assenza di luce, ma anche all’assenza di chiarezza e verità, alla torbidità morale. Il corpo “tenebroso”è quindi ridotto alla percezione oscura delle cose. Allora si può individuare la connessione con Efesi 4.18 in cui l’apostolo Paolo parla dei pagani “…accecati nella loro mente, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro e della durezza del loro cuore. Così, diventati insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza e, insaziabili, commettono ogni sorta d’impurità”.

Al contrario, l’intervento di Gesù nella vita della persona la trasforma e la rende in grado di vedere, come testimoniato da quei ciechi guariti in più occasioni nei Vangeli.

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05.40 – NON FATEVI TESORI SULLA TERRA (Matteo 6.19-21)

05.40 –Non fatevi tesori sulla terra (Matteo 6.19-21)

“…19Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassìnano e rubano; 20accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassìnano e non rubano. 21Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore.

In questo nostro percorso sulla lettura cronologia dei Vangeli nonostante i limiti, ho ritenuto opportuno riprendere dal verso 19 tralasciando quelli da 14 a 18 perché già affrontati col “Padre nostro”; leggiamo infatti: “Se voi perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”). Abbiamo fatto lo stesso anche quando abbiamo trattato la vanità e l’ipocrisia come motore delle azioni religiose: “E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu digiuni, profùmati la testa e làvati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che è nel segreto, ti ricompenserà” (vv.19-21).

Possiamo dire che, con i versi oggetto di meditazione, Nostro Signore torna agli esempi semplici, immediatamente comprensibili ai suoi uditori di allora come di oggi. In particolare, se la presenza dei ladri che scassinano e rubano è a prescindere dall’epoca, è il dettaglio della “tarma”e della “ruggine”a portarci ai tempi antichi e, allo stesso tempo, a darci un dettaglio importante: i “tesori sulla terra” di cui parla Gesù sono costituiti da tutto quanto è soggettivamente prezioso, che può essere riconosciuto in quel “per voi”, riferito alle esigenze e attitudini di ciascuno. Se accumulo qualcosa “per me”, significa che intendo mettere da parte per un futuro che non mi appartiene ciò che mi rappresenta, ciò a cui tengo e che non voglio condividere con altri. Accumulare richiede attenzione ed energie e chi lo fa mette in atto il suo progetto di soddisfazione personale. In ciò che ammassiamo “per noi” ci sono spesso le nostre aspettative future e, se il caso più comune e banale è l’accumulo di denaro, possiamo avere anche quello di libri, quadri, gioielli, orologi, francobolli, case, terreni, insomma tutto quanto mettiamo da parte per poi controllarlo, ammirarlo, sapere che esiste perché nostro. “La roba”, insomma. A volte, l’uomo tende a identificarsi in ciò che possiede a tal punto da vederlo come una propria creatura.

Le parole di Nostro Signore non intendono essere un invito alla povertà e a disprezzare il mettere da parte per il proprio futuro, ma sottolineare il controsenso tra il premunirsi eccessivamente per la propria vita terrena a scapito di quella futura. Leggiamo in 2 Corinti 12.14 “Non spetta ai figli mettere da parte per i genitori, ma ai genitori per i figli” e “Se poi uno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele” (1 Timoteo 5.8). Mettere da parte e risparmiare è una cosa, accumulare tesori “per noi” è un’altra, dipende dal valore che dà il cuore alle cose, se queste diventano o sono dominanti.

Gesù sul monte non si rivolge a persone particolarmente ricche o avide come quelle che incontreremo nelle parabole o in altre situazioni, ma a chi tra loro aveva il concetto dell’accumulare anche piccole cose senza escludere le grandi, come appunto testimoniato dalla “tarma”, che intaccava le vesti preziose che i ricchi tenevano sia per loro stessi, sia per far doni o per essere distribuite agli invitati di una loro festa. Pensiamo poi alla “ruggine”, dall’originale “bròsis” indicante quel consumo e perdita di peso che non intaccava l’oro o l’argento, ma le monete di bronzo comuni che, ammassate in quantità, consistevano senza dubbio quei “tesori” eventualmente ammassati dagli uditori del Signore. Siccome banche a quel tempo non esistevano; le monete venivano nascoste sotto terra o in punti particolari nelle case, ma si deterioravano o potevano essere rubate dai ladri, andando così perdute per il furto oppure decadevano in peso e valore.

Chi vorrebbe monete arrugginite? E ancora, chi passerebbe il tempo a togliere da loro la ruggine, data la quantità accumulata di monete? Ne uscirebbe un lavoro enorme, non retribuito, che andrebbe ad aggiungersi a quello già fatto per aver guadagnato quella somma, ora diventata inservibile.

Ecco allora che, con questo semplice esempio, Gesù vuole avvertire l’uomo che lo ascolta quanto non possa avere nulla di certo: la persona guadagna e mette da parte, ma non è detto che un giorno possa godere il frutto delle sue fatiche. La persona accumula per sé presumendo di assaporare un giorno il risultato dei suoi sforzi, ma può perdere ogni cosa; pensiamo alle tragedie che si verificano anche oggi, in cui persone che hanno investito i risparmi di una vita, o la liquidazione, si sono ritrovate senza nulla perché truffati o semplicemente perché le banche che avrebbero dovuto tutelarli sono fallite. Pensiamo ai terremoti, agli uragani o alle inondazioni che, di colpo, cancellano e portano via in un attimo ciò che le persone hanno costruito o realizzato con fatica.

Ebbene Gesù esorta ancora una volta i suoi uditori ad alzare lo sguardo, a cercare di cambiare frequenza ricettiva, ad andare oltre perché ai tesori che si possono sempre perdere si contrappongono quelli messi da parte nel cielo, che la perfetta contabilità di Dio ripone con interessi inossidabili. E qui ci ritroviamo ancora una volta di fronte ai baratri che si frappongono tra ciò che è terreno e spirituale come rileviamo nei due “accumulate per voi” del testo: chi lo fa per i “tesori sulla terra” avrà corruzione e perdita come risultato, chi lo fa per quelli in cielo non solo ritroverà tutto quanto che avrà messo da parte, ma lo vedrà moltiplicato secondo le promesse di Gesù ai suoi quando parlò loro del “premio” e delle “corone” di giustizia, gloria e vita.

C’è però una precisazione fondamentale, e cioè che Gesù ancora una volta pone l’accento sul cuore: a nulla serve abbandonare la volontà dell’accumulare i tesori se il esso non è rinnovato, se non acquisisce, se non assimila il principio dell’aderire a Dio con tutto se stesso rifiutando l’inganno satanico nelle ricchezze di questo mondo: viceversa, nulla cambierà, si correrebbe il rischio di cadere nella religiosità, vale a dire di abbandonare qualcosa per uno o più precetti astratti per poi ritrovarsi più vuoti di prima ed essere costretti a fingere davanti a se stessi e agli altri per sopravvivere. Scrive l’apostolo Paolo: “Quelli che invece vogliono arricchirsi, cadono nella tentazione, nell’inganno di molti desideri insensati e dannosi, che fanno affogare gli uomini nella rovina e nella perdizione. L’avidità del denaro infatti è la radice di tutti i mali; presi da questo desiderio, alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti” (1 Timoteo 6.9,10). Rileviamo qui alcune parole significative che si pongono in antitesi alla libertà nella quale viene posta la persona che fa proprio il Vangelo: “inganno”, “insensato”, “dannoso”, “affogare”, “rovina”, “perdizione” sono termini che non lasciano scampo; soprattutto è la presenza del desiderio insensato e dannoso che fa riflettere perché porta direttamente alla fine, alla nostra essenza mortale. Siamo esseri che, per quanto intelligenti e in grado di progettare, abbiamo un termine che non conosciamo e che Satana ci tiene nascosto a livello di idea, di concetto. L’uomo infatti è convinto di avere un domani, sempre.

Ricordiamo le parole “Sì, sono un soffio i figli di Adamo, una menzogna tutti i figli degli uomini: tutti insieme, posti sulla bilancia, sono più lievi di un soffio” (Salmo 62.10) e Proverbi 23.4,5 “Non affannarti per accumulare ricchezze, sii intelligente e rinuncia. Su di esse volano i tuoi occhi, ma già non ci sono più: perché mettono ali come aquila e volano verso il cielo”. Ecco allora che i tesori, anziché parlare di potenza, di posizione altolocata e sotto certi aspetti intoccabilità nel contesto umano, ne attestano la fragilità: in opposizione alla gloria terrena, scrive il salmista “Fammi conoscere, Signore, la mia fine, quale sia la misura dei miei giorni, e saprò quanto fragile io sono. Ecco, di pochi palmi hai fatto i miei giorni, è un nulla per te la durata della mia vita. Sì è solo un soffio ogni uomo che vive. Sì, è come un soffio chi si affanna, accumula e non sa chi raccolga”. Sono versi che ciascuno può meditare come meglio crede, tenendo presente che a nulla serve pensare che, essendo la vita breve, è meglio viverla nel migliore dei modi: questo sarebbe un’idea valida a condizione che questa fosse veramente una sola, ma come affrontare l’altra, che non potrà esistere se quella sulla terra si sarà basata sul consumo della stessa e se nulla si sarà fatto per accumulare i “tesori nel cielo” di cui ha parlato Nostro Signore? Si tratta di un tema estremamente serio: ho conosciuto molte persone non credenti che, in salute, accettavano serenamente l’idea della morte, ma piangevano ed erano terrorizzati nel momento in cui credevano si avvicinasse. O si avvicinava per davvero. E nel lavoro che svolgevo un tempo ne ho visti tanti.

Salomone, figlio di Davide, uomo di cui troviamo scritto molto nella Bibbia, scrisse fra gli altri il libro dell’Ecclesiaste, o Qoèlet, in cui riversò la sua esperienza particolare di uomo. Leggiamo alcune sue parole 2.3-11: “Ho voluto fare un’esperienza– che come re cui nulla era precluso poteva concedersi. Salomone cioè volle provare, diremmo oggi, “qualcosa di diverso” –:allietare il mio corpo con il vino e così afferrare la follia, pur dedicandomi con la mente alla sapienza”. La sua ricerca si volse dunque alla soddisfazione della sua persona, sperava di trovare delle alternative alla gestione responsabile del suo rapporto con Dio che lo aveva onorato consentendogli di edificargli il Tempio oltre che colmarlo di ricchezze proporzionali alla sua saggezza di cui, alla fine, io sospetto non sapeva cosa farsene perché venutegli a noia. Infatti l’autore del testo continua e scrive “Volevo scoprire se c’è qualche bene per gli uomini che essi possono realizzare sotto il cielo durante i pochi giorni della loro vita”. Volle cioè rendersi indipendente da quello che la sapienza di Dio già gli aveva rivelato e toccare con mano. Notare l’espressione “i pochi giorni”: solo chi è avanti negli anni e si volta indietro scopre che il suo tempo è passato come un soffio. I giovani, al limite, sospettano che sia così, se sono in grado di guardare al loro debole passato e un delirio di onnipotenza non s’impossessa di loro o l’inesperienza non si fa dogma.

Per far capire al lettore chi sia stato e cos’abbia realizzato, ecco che Salomone si presenta: “Ho intrapreso grandi opere, mi sono fabbricato case, mi sono piantato vigneti. Mi sono fatto parchi e giardini e vi ho piantato alberi da frutto di ogni specie; mi sono fatto vasche per irrigare con l’acqua quelle piantagioni in crescita”. Quest’uomo quindi ebbe la possibilità di contemplare il risultato delle proprie fatiche, che non si limitarono alla realizzazione di grandi opere: “Ho acquistato schiavi e schiave e altri ne ho avuti nati in casa; ho posseduto anche armenti e greggi in gran numero, più di tutti i miei predecessori in Gerusalemme. Ho accumulato per me– ecco l’ “accumulare per voi” di cui Gesù parla – anche argento e oro, ricchezze di re e provincie. Mi sono procurato cantori e cantatrici, insieme con molte donne, delizie degli uomini. Sono divenuto più ricco e potente di tutti i miei predecessori a Gerusalemme, pur conservando la mia sapienza”. La ricerca di Salomone fu quindi “a tutto tondo”, senza tralasciare nulla, la sua fu una ricerca del piacere secondo la carne e sappiamo che questa comportò il traviamento del suo essere. Prosegue confessando “Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano, né ho rifiutato alcuna soddisfazione al mio cuore, che godeva di ogni mia fatica: questa è stata la mia parte che ho ricavato da tutte le mie fatiche”. Salomone potrebbe essere considerato l’equivalente degli uomini e donne che vengono citati ogni anno dalla rivista “Forbes” che pubblica i nomi delle persone più ricche del mondo in termini di miliardi di dollari USA.

Ebbene, alla fine, è scritto nel nostro testo: “Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo affrontato per realizzarle. Ed ecco, tutto è vanità e un correre dietro al vento. Non c’è alcun guadagno sotto il sole”. Perché? Perché se tutto si basasse sulla soddisfazione personale non resterebbe altro che un terribile, arido deserto che ci sforzeremmo di vedere fiorito.

Io ho visto come vivono i ricchi. Pur non appartenendo al loro ambiente, da giovane sono stato ammesso alla loro cerchia, forse perché mi ritenevano simpatico oppure li incuriosivo in quanto diverso da loro pur non essendo di condizione sociale umile. Anche la vita del ricco è fatta di piccole cose, esattamente come quella del povero. A parte la preoccupazione di come spendere i propri soldi, nulla cambia e ciò che può apparire attraente per chi non ha le loro possibilità economiche, per loro è la norma per cui vivere un’estate su una barca del costo di centinaia di milioni equivale ad uscire in mare con un canotto per un ragioniere di banca. Avere molte ville in giro per l’Italia o il mondo significa spesso dimorarvi per qualche tempo e non sapere cosa fare ed escogitare stratagemmi per non annoiarsi, vivendo di quello che offre un giorno che anche per loro porta la sua pena. Ogni istante sono costretti ad affidarsi al presente, alla carne, alla terra.

Eppure, ciascuno ha il suo tesoro cui rimane attaccato perché altrimenti non saprebbe come vivere. Gesù però dice “dove è il tuo tesoro, qui sarà il tuo cuore”. È un invito a considerare la propria condizione di vita, la propria prospettiva perché sta a noi scegliere il terreno sul quale costruire. Abbiamo una vita da vivere sulla terra e siamo chiamati a gestirla con accortezza e non certo da incoscienti, il che comprende tanto la dissolutezza quanto il misticismo inconcludente, tenendo presente che “(Dio Padre) ci ha rigenerati per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi” (1 Pietro 1.4). Credo che i veri cristiani siano invitati a considerare se si identificano o meno in queste parole: “Chi avrò per me nel cielo? Con te non desidero nulla sulla terra. Vengono meno la mia carne e il mio cuore; ma Dio è roccia del mio cuore, mia parte per sempre” (Salmo 72.25,26). Se manca l’identificazione in questo passo, occorre che si lasci agire lo Spirito Santo e procedere ad una profonda rivisitazione del proprio stato.

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05.39 – PADRE NOSTRO IX/IX (Matteo 6.13)

05.39 – Padre nostro IX (Matteo 6.13)

 

“…13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male. Perché tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli. Amen.”

La volta scorsa abbiamo cercato di dare uno sguardo sui Cherubini in quanto esseri spirituali la cui presenza e ruolo è connessa al regnare di Dio, alla Sua realtà che l’uomo naturale, come scrive l’apostolo Paolo, “non conosce e non può comprendere” al contrario di tutto ciò che riguarda la terra nella sua realtà e manifestazioni: capire i suoi fenomeni è questione di tempo, di spazio, conoscenza e studio, ma con così per le cose spirituali, impenetrabili salvo una rilevazione dello Spirito Santo.

Il Regno, però, è una condizione, un’appartenenza, richiede un possesso diottrico di cui siamo stati privati e che solo lo Spirito può metterci in condizione di percepire. È scritto che “…noi conosciamo in parte e in parte profetizziamo; ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è è imperfetto scomparirà.(…)Adesso vediamo in modo confuso, come in uno specchio, ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come io sono conosciuto” (1 Corinti 13.9-12). Abbiamo qui la descrizione della limitazione del vivere nella carne rapportata alla conoscenza che verrà data una volta liberi da essa, avuta pienamente la cittadinanza del Regno che, pur avendola già, non abbiamo ancora acquisito in modo ufficiale; il credente di oggi infatti ha il passaporto per entrarvi, ma è in viaggio verso la meta.

Tornando ed espandendo un poco l’argomento affrontato nelle riflessioni precedenti, il Cherubino è connesso alla presenza di Dio ed è per questo che lo troviamo in quattro luoghi: abbiamo visto che in Eden prima del peccato ne è citato uno, Lucifero, il più importante di loro, coperto di pietre preziose e avente una funzione protettiva. Da cosa? Mi sono chiesto se le attenzioni di questo essere non fossero rivolte all’anello più debole della catena, l’uomo, che, creato libero, avrebbe potuto cibarsi del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, cosa che forse avvenne proprio quando, per il piano scellerato di volersi fare uguale a Dio, cessò di assisterlo per farsi strumento della sua seduzione. Certo i nostri progenitori peccarono per scelta, dimostrando di non fidarsi di quanto aveva detto loro il Creatore, ma in loro fu instillata subdolamente l’intenzione di diventare come Lui, che fossero stati ingannati, cosa possibile solo se coincidente col piano distruttivo del tentatore creato, come Cherubino, prima di loro.

Il secondo luogo in cui troviamo questi esseri è fuori del giardino, posti a protezione della via per l’albero della vita, “A oriente del giardino di Eden” (Genesi 3.23), cioè là dove il sole sorge, posizione che ci parla di salvaguardia dalla “luce” della conoscenza umana che a tutto vorrebbe pervenire e tutto vorrebbe investigare.

Abbiamo poi trovato i Cherubini scolpiti sul coperchio dell’arca in un posizione che denota protezione e al tempo stesso contemplazione di un mistero perché le creature del regno spirituale, se hanno una visione perfetta del loro ruolo e dimensione, trovano difficile comprendere i meccanismi dei rapporti di Dio con l’uomo e i suoi interventi per la sua salvezza.

La totalità del rapporto fra YHWH e i Cherubini la troviamo poi nel Luogo Santissimo, altrimenti detto “Santo dei Santi” all’interno del quale nessun uomo poteva entrare salvo il Sommo Sacerdote una volta all’anno. Leggiamo in 2 Cronache 3.7-14 che Salomone “Rivestì d’oro la navata, cioè le travi, le soglie, le pareti e le porte; sulle pareti scolpì cherubini. Costruì la cella del Santo dei santi, lunga, nel senso della larghezza della navata, venti cubiti e larga venti cubiti. La rivestì di oro fino, impiegandone seicento talenti. Il peso dei chiodi era di cinquanta sicli d’oro; anche i piani di sopra rivestì d’oro. Nella cella del Santo dei santi eresse due cherubini, lavoro di scultura e li rivestì d’oro. Le ali dei cherubini erano lunghe venti cubiti. Un’ala del primo cherubino, lunga cinque cubiti, toccava la parete della cella; l’altra, lunga cinque cubiti, toccava l’ala del secondo cherubino. Un’ala del secondo cherubino, di cinque cubiti, toccava la parete della cella; l’altra, di cinque cubiti, toccava l’ala del primo cherubino. Queste ali dei cherubini, spiegate, misuravano venti cubiti; essi stavano in piedi, voltati verso l’interno. Salomone fece la cortina di stoffa di violetto, di porpora, di cremisi e di bisso; sopra vi fece ricamare cherubini”. La loro presenza era quindi ovunque e, dalle misure che troviamo nel testo, occupavano tutta l’area della stanza. Le loro ali andavano a toccare le quattro le pareti. I Cherubini, allora, erano assolutamente connessi alla presenza di Dio che figurativamente dimorava in quel luogo a prescindere dalla presenza umana. Eppure, nonostante la loro potenza e funzione, è scritto che il signore “siede” su di loro (Salmo 80.1 – 99.1).

Quarto luogo in cui i Cherubini agiscono è la mobilità – immobilità della Corte Celeste nell’attesa che tutto si compia. Ezechiele, che li vide, li descrisse come riuscì, raffigurandoli simbolicamente: “Muovendosi, potevano andare nelle quattro direzioni senza voltarsi, perché si muovevano verso il lato dove era rivolta la testa, senza voltarsi durante il movimento. Tutto il loro corpo, il dorso, le mani, le ali e le ruote erano pieni di occhi tutt’intorno; ognuno dei quattro aveva la propria ruota. Io sentii che le ruote venivano chiamate «Turbine». Ogni cherubino aveva quattro facce: la prima quella di uomo, la seconda quella di bue, la terza quella di leone e la quarta quella di aquila. (…). Quando i cherubini si muovevano, anche le ruote avanzavano al loro fianco: quando i cherubini spiegavano le ali per sollevarsi da terra, le ruote non si allontanavano dal loro fianco; quando si fermavano, anche le ruote si fermavano; quando si alzavano, anche le ruote si alzavano con loro perché lo spirito di quegli esseri era in loro. La gloria del Signore uscì dalla soglia del tempio e si fermò sui cherubini. I cherubini spiegarono le ali e si sollevarono da terra sotto i miei occhi; anche le ruote si alzarono con loro e si fermarono all’ingresso della porta orientale del tempio, mentre la gloria del Dio d’Israele era in alto su di loro” (Ezechiele 10.11-19).

Guardando brevemente il testo, il Cherubino ha occhi ovunque a denotare la sua visione perfetta del micro e del macro. Ha poi quattro facce, circa le quali possiamo fare questi collegamenti: l’uomo è l’unica tra le creature a possedere intelligenza, il bue tra gli animali addomesticati è il più instancabile, il leone tra le fiere è il più regale e potente mentre l’aquila, fra gli uccelli, è quella che ha il volo più perfetto e la vista migliore. I maestri ebrei aggiungono “tutti questi hanno ricevuto il dominio e grandezza gli è stata data, eppure sono fermi al di sotto del carro dell’Iddio Santo”. Questi, grazie alle loro facce, non perdono tempo a voltarsi, ma si spostano usando le ruote o le ali a sottolineare il fatto che sono in grado di agire sulla terra e in cielo, nelle due regioni, o nei due regni distinti, che si sono venuti a creare dopo il peccato dei nostri progenitori. Ricordiamo sempre la loro funzione racchiusa nella radice stessa del termine kavar che implica una rete e quindi una protezione. Diversi sono i Serafini, descritti nei capitoli 4 e 5 dell’Apocalisse che diversi commentatori, anche antichi, hanno voluto identificare i quattro Vangeli.

Sappiamo che i regni sono quindi due, quello sulla terra, retto dal “Principe di questo mondo”, cioè dall’Avversario, e quello che è già preparato, ma non si è ancora manifestato nella sua potenza e gloria, quella della Gerusalemme nuova che scende dal cielo “come una sposa adorna per il suo sposo” (Apocalisse 21.2). Lì è scritto che “Non vi sarà più maledizione. Nella città vi sarà il trono di Dio e dell’Agnello: i suoi servi lo adoreranno; vedranno il suo volto e porteranno il suo nome sulla fronte. Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà. E regneranno nei secoli dei secoli” (33.3-5).

Il regno della terra realizzato dall’Avversario ebbe come motore l’orgoglio, l’invidia e la volontà di distruggere (le stesse ragioni che portarono Caino ad uccidere il fratello), quello di Dio Padre ebbe all’inizio un ordine, “Sia la luce”, che solo Lui poteva dare. Credo ci sia differenza. “Tuo è il Regno” è un riconoscimento che contiene la certezza che sia l’unico che possa vincere quello fondato sul non senso, sull’apparenza e l’illusione, sul contrario del bene. Tutto cominciò da lì: ascoltando l’Avversario, l’uomo scoprì l’inganno quando era troppo tardi esattamente come accade oggi, quando le basi sulle cui ha costruito la sua vita, senza Cristo, crollano.

A volte ci si dimentica che il Regno implicherà il cambiamento della nostra fisionomia e corpo che avverrà con quel “batter d’occhio” quando “tutti saremo trasformati” (1 Corinti 15.51,52): “È infatti necessario– per entrare nel Regno – che questo corpo corruttibile si vesta d’incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta d’immortalità. Si compirà la parola della Scrittura: «La morte è stata inghiottita nella vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?»” (54,55). È l’anticipazione del cambiamento che ci attende perché, come disse Gesù, rispondendo ai Sadducei, “Quando risusciteranno dai morti non prenderanno né moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli”(Marco 12.25), vale a dire non procreeranno, non sarà necessario perché si sarà completato il numero degli eletti “prima della fondazione del mondo” (Efesi 1.4)

“Potenza”e “Gloria”sono altri attributi che vengono dati al Padre, complementari al Regno che non sarà mai distrutto: stanno a ricordare ancora una volta la differenza che intercorre tra quella umana e quella divina, la prima illusoria e la seconda reale che mai come in questo caso sembrano essere un controsenso. Siamo abituati a stupirci di fronte alle grandi opere che i nostri simili fanno e quando si parla di “potenza” è facile associarla a quella militare che garantisce la supremazia di un popolo su un altro, ma ci si dimentica che sarà solo alla fine dei tempi le due glorie e le due potenze verranno messe a confronto. La storia ci insegna che l’uomo si è sempre illuso e si è posto in contrasto con Dio: lo ha fatto individualmente (Caino) e collettivamente (la torre di Babele) volendo fare affidamento sulle sue sole forze e sull’ingegno che gli è stato dato, ma ha sempre perso. Nonostante questo, sviluppa scelleratamente il progetto e la realizzazione di quella “Babilonia la grande”, anch’essa destinata a cadere come descritto in Apocalisse ai capitoli 17 e 18. Eppure, nonostante l’adorazione che le avranno dato i popoli, “…quanto ha speso per la sua gloria e il suo lusso, tanto restituitele in tormento e afflizione. Perché diceva in cuor suo «Seggo come regina, vedova non sono e lutto non vedrò». Per questo, in un solo giorno, verranno i suoi flagelli: morte, lutto e fame. Sarà bruciata dal fuoco, perché potente Signore è Dio che l’ha condannata” (18.7,8).

E il “Padre nostro” si conclude con l’Amen, derivato da un verbo ebraico che significa “essere fermo, sicuro, fedele”, che costituisce un’attestazione di verità spirituale e non viene mai pronunciata alla leggera. E così facciamo, nell’attesa che il Regno, la potenza e la gloria di Dio si manifestino. Amen.

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