05.46 – CANI E PORCI (Matteo 7.6)

05.47 – Cani e porci (Matteo 7.6)

 

6Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi”.

 

“Cani e porci” è un detto popolare usato per indicare la presenza delle persone più disparate in un determinato contesto e affonda le sue origini in questo passo, anche se stravolgendone il significato: con l’esortazione qui contenuta Gesù intende riferirsi ad una categoria specifica di persone, non generalizzando come fanno molti che ritengono “cani” e “porci” tutti quanti non la pensano come loro da un punto di vista religioso.

Il cane e il maiale erano secondo la Legge, e quindi al tempo di Nostro Signore, animali considerati impuri al pari di altri, ma a differenza – ad esempio – di un coniglio, vivevano una realtà diversa: alcuni cani erano tenuti nelle case (pensiamo alla parabola del ricco e Lazzaro e le parole di Gesù alla donna sirofenicia), altri venivano allevati per la caccia o perché rappresentavano un valido aiuto ai pastori, ma per lo più, quando si parlava negativamente di loro, li si associava a quelli selvatici, che vivevano in branco presso i depositi di spazzatura fuori dalle mura delle città, spesso feroci e pericolosi. Il cane, anche oggi, a differenza del gatto non può andare libero nei centri abitati e, se in branco, può aggredire e uccidere, per non citare alcune razze suscettibili a moti incontrollabili di aggressività che spesso si concludono tragicamente anche perché affidati a proprietari che non fanno prevenzione e controllo su di loro. Il cane non era trattato come da noi oggi, ma con una distanza che impediva una sua “umanizzazione” sia perché animale, sia perché impuro, cioè non ci si poteva cibare della sua carne. Ritenuto imprevedibile come tutti gli esseri non dotati di ragione, pericoloso nonostante le eccezioni, è figura dell’impurità abbinata al disordine morale, all’irrazionalità e alla violenza; ricordiamo le parole del Gesù glorificato in Apocalisse 22.15 “Fuori i cani, i maghi, gli immorali, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna”. In questo verso vediamo che i “cani” sono i primi a venire cacciati fuori dalla Città di Dio: sono quelli che non hanno dignità, quel rimasuglio impuro e immondo che non sono maghi, cioè coloro che incantano e distolgono l’attenzione che dovrebbe essere indirizzata verso Dio. Non sono immorali, cioè privi di quel senso che naturalmente guida la coscienza nell’uomo ed è in lui presente a prescindere dal fatto che creda o meno. Non sono neppure omicidi o idolatri, cioè chi serve altri (potere, ricchezze, condizione sociale eccetera) come se fosse Dio. Il cane, poi, sbrana e l’oltraggio più grande in tal senso lo ricevette Iezebel, le cui vicende sono narrate nel primo libro dei Re: Moglie di Akhab re d’Israele, favorì il culto di Baal mantenendo 450 suoi profeti e cercando di sterminare quelli di Dio, su di lei si abbatté il giudizio anticipato da Elia: “I cani divoreranno la carne di Izebel(…) e il cadavere di Izebel sarà(…) come letame sulla superficie del suolo, in modo che non si potrà dire «Questa è Izebel». Così avvenne: ““Egli disse: «Buttatela giù!» Quelli la buttarono; e il suo sangue schizzò contro il muro e contro i cavalli. Ieu le passò sopra, calpestandola; poi entrò, mangiò e bevve, quindi disse: «Andate a vedere quella maledetta donna e sotterratela, poiché è figlia di un re». Andarono dunque per sotterrarla, ma non trovarono di lei altro che il cranio, i piedi e le mani. E tornarono a riferir la cosa a Ieu, il quale disse: «Questa è la parola del SIGNORE pronunciata per mezzo del suo servo Elia il Tisbita, quando disse: “I cani divoreranno la carne di Izebel nel campo d’Izreel; e il cadavere di Izebel sarà, nel campo d’Izreel, come letame sulla superficie del suolo, in modo che non si potrà dire: ‘Questa è Izebel'”»(2 Re 9:33-37).

Il cane è anche sinonimo di falsità e quando in Filippesi 3.2 andiamo alle raccomandazioni dell’apostolo Paolo, leggiamo “Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli che si fanno mutilare”, cioè l’esortazione è diffidare ancora una volta dei profani e impuri. “Quelli che si fanno mutilare” è poi un riferimento a coloro che portavano avanti la circoncisione come requisito per appartenere al popolo di Dio e guardavano ancora con disprezzo chi non era circonciso.

Il maiale, invece, considerato impuro come il cane, era più sinonimo di sporcizia e degradazione. Non lo si trovava certo nelle case, ma in branco, non venendo allevato. Vero è che abbiamo l’episodio dell’indemoniato di Gadara in cui sono citate persone che pascolavano i porci, ma era un territorio dalla popolazione mista, non appartenente a Israele; piuttosto, si può citare la parabola del figliol prodigo, che capisce il suo errore e a quale livello di bassezza era arrivato nel momento in cui fu mandato a pascolare i porci e avrebbe voluto saziarsi con le carrube che quelli mangiavano (Luca 15.15,16). Si può ricordare il detto di Proverbi 11.2 “Una bella donna a cui manca la discrezione è come un anello d’oro nel muso di un porco”, che rappresenta l’assurdo, l’inutilità, contrasto e svilimento assieme. Anche il profeta Isaia impiega questi animali per sottolineare l’ipocrisia di chi è religioso solo esteriormente: “Così dice il Signore: «Il cielo è il mio trono, la terra lo sgabello dei miei piedi. Quale casa mi potreste costruire? In quale luogo potrei fissare la mia dimora? Tutte queste cose ha fatto la mia mano ed esse sono mie – oracolo del Signore –. Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia parola. Uno sacrifica un giovenco e poi uccide un uomo. Uno immola una pecora e poi strozza un cane. Uno presenta un’offerta e poi sangue di porco. Uno brucia incenso e poi venera l’iniquità. Costoro hanno scelto le loro vie, essi si dilettano dei loro abomini; anch’io sceglierò la loro sventura e farò piombare su di loro ciò che temono»” (Isaia 66.1-4). Le due facce dell’ipocrita sono l’opposto dell’umile, di chi ha lo spirito contrito e di chi trema alla Parola del Signore, tutti e tre comportamenti che provengono dall’acquisizione del principio di ciò che siamo realmente.

Ebbene, Gesù con il verso oggetto di meditazione parla di non dare “ciò che è santo ai cani”, esempio immediatamente compreso dai suoi uditori perché si rifà ai sacerdoti, cui spettava ciò che rimaneva dei sacrifici; leggiamo in Numeri 18.8-10 “Il Signore parlò ancora ad Aaronne: «Ecco, io ti do il diritto su tutto ciò che si preleva per me, cioè su tutte le cose consacrate dagli israeliti; le do a te e ai tuoi figli, a motivo della tua unzione, per legge perenne. Questo ti apparterrà fra le cose santissime, fra le loro offerte destinate al fuoco: ogni oblazione, ogni sacrificio per il peccato e ogni sacrificio di riparazione che mi presenteranno; sono tutte cose santissime che apparterranno a te e ai tuoi figli. Le mangerai in un luogo santissimo; ne mangerà ogni maschio. Le tratterai come cose sante”. Ricordiamo quando Davide mangiò i pani di presentazione, episodio ricordato in un altro studio: “Il sacerdote– Achimelec – gli diede il pane sacro perché non c’era altro pane che quello dell’offerta, ritirato dalla presenza del Signore, per mettervi pane fresco nel giorno in cui quello veniva tolto” (1 Samuele 21.7), non fu un gesto che sicuramente rientrò nel caso qui proposto da Gesù.

“Dare ciò che è santo ai cani”, allora, significa per un credente sapersi fermare nella sua testimonianza e valutare attentamente le persone a cui questa si indirizza. Del resto le istruzioni di Gesù ai dodici prima di inviarli a predicare, furono molto chiare: “In qualunque città o villaggio entrate, domandate chi là sia degno e rimanetevi finché non sarete partiti. Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne è degna, la vostra pace scenda su di essa, ma se non ne è degna, la vostra pace ritorni a voi. Se qualcuno poi non vi accoglie e non dà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dei vostri piedi. In verità vi dico: nel giorno del giudizio la terra di Sodoma e Gomorra sarà trattata meno duramente di quella città” (Matteo 10.11-15). Sono parole importanti: c’è una pace che scende se accolta e torna se rifiutata, un rimanere di chi annuncia la parola o un allontanamento, un dono di salvezza o un sigillo a giudizio.

E la stessa cosa vale per il saggio e lo stolto: “Chi corregge lo spavaldo ne riceve disprezzo e chi riprende il malvagio ne riceve oltraggio. Non rimproverare lo spavaldo per non farti odiare; rimprovera il saggio ed egli ti sarà grato. Dà consigli al saggio, ed egli diventerà ancora più saggio; istruisci il giusto ed egli aumenterà il sapere” (Proverbi 9.7.9).

Se ciò che è santo si riferisce alla dottrina e ai misteri di Dio rivelati, le “perle” rappresentano la saggezza ad essa collegata. La perla, per come viene prodotta da alcuni molluschi, è anche figura della sofferenza e dello sforzo personale di chi vuol rimanere unito a Lui, con Lui camminare e vivere. Preziosa e rara, ha connessione con la “Sapienza” cui sono dedicati i primi capitoli del libro dei Proverbi, “Albero di vita per chi l’afferra, fonte di beatitudine per chi ad essa si stringe” (3.18). La Sapienza a sua volta altri non è che la figura di Gesù Cristo, ed è scritto che “ha più pregio delle perle” (3.15) e Giobbe disse “Coralli e perle non meritano menzione: l’acquisto della sapienza non si fa con le gemme” (28.18).

Al non dare ciò che è santo ai cani si accompagna la proibizione di dare le “nostre perle” ai porci, quindi abbiamo una fonte, cioè che appunto è santo, e una sua conseguenza vista nel risultato della vicinanza ad essa. Del resto fu detto “Chi ha sete venga a me e beva. Chi crede in me, come dice la Scrittura, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno” (Giovanni 7.38).

Ciò che è santo ai cani e perle ai porci sono quattro elementi simili tra loro (in coppia, vale a dire ciò che è santo con le perle e i cani con i porci), ma assolutamente opposti ai quali non è consentito incontrarsi pena il catastrofico risultato di un calpestio oltraggioso e poi dello sbranamento, che troviamo figurativamente descritto nella parabola delle nozze quando, di fronte agli inviti del Re, “Non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero” (Matteo 22.5-6). Si noti poi che il nostro verso riporta il “calpestio” e il “voltarsi per sbranare” come azione inevitabile, in linea col carattere dell’animale. Il calpestare è indice di disprezzo. Calpestando una cosa la si affonda fino a farla scomparire e qui suonano – o dovrebbero suonare per molti anche oggi – degne di seria preoccupazione le parole dell’Autore alla leggera agli Ebrei: “Quando uno ha violato la legge di Mosè, viene messo a morte senza pietà sulla parola di due o tre testimoni. Di quanto peggiore castigo pensate che sarà giudicato meritevole chi avrà calpestato il Figlio di Dio e ritenuto profano quel sangue dell’alleanza, dal quale è stato santificato, e avrà disprezzato lo Spirito della grazia? Conosciamo infatti colui che ha detto «A me la vendetta! Io darò la retribuzione!». E ancora: «Il Signore giudicherà il suo popolo». È terribile cadere nelle mani del Dio vivente!” (10.26-31).

Tornando al nostro verso, Gesù invita chi crede in Lui ad esercitare giudizio e discernimento: non suggerisce ai suoi uditori il silenzio né proibisce di parlare a chiunque, ma specificamente ai cani e ai porci, esseri ben precisi figura di altrettanti, uomini e donne, aventi il loro stesso carattere e pericolosità.

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