05.48 – QUESTA È LA LEGGE E I PROFETI (Matteo 7.12)

05.48 – La Legge e i Profeti (Matteo 7.12)

12Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la legge e i profeti”.

Personalmente trovo questo verso, così chiaro, parente stretto di quello che dice “con il giudizio col quale giudicate, sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi” (Matteo 7.2): se infatti ogni uomo tende a giudicare gli altri, ma non se stesso, allo stesso modo sa come vorrebbe essere trattato, ma così non agisce verso il suo prossimo. Sono contraddizioni, o forse difese, o ancora regole che il mondo ha stabilito per sopravvivere come se Dio non esistesse. Al limite, i più buoni hanno stravolto il senso delle parole che abbiamo letto trasformandolo nell’adagio “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, come riassunto del messaggio evangelico, molto più comodo e altrettanto meno impegnativo.

Il verso 12 ha un’importanza particolare: scritto in maniera identica da Matteo e Luca, è rivolto in modo specifico alla maggioranza degli ebrei che osservavano la legge morale e cerimoniale e trascuravano il principio dell’amore per il loro prossimo vanificando così la posizione che avrebbero voluto avere davanti a Dio. Più volte abbiamo parlato dei danni prodotti della religione fine a se stessa e spiegato quel “voglio misericordia e non sacrificio” più volte ricordato dai profeti. Citando Levitico 19.18 “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso”, vediamo che “il tuo prossimo” sono “i figli del tuo popolo” e non le genti che vivevano, o avrebbero vissuto, nei territori limitrofi: Israele era il popolo eletto così come oggi lo è la Chiesa i cui componenti rischiano di vanificare la loro partecipazione alle adunanze e la loro testimonianza quando fanno attenzione ad osservare – ad esempio – i “dieci comandamenti” e poi non pensano che “chi ama l’altro ha adempiuto la legge” (Romani 13.10).

Addirittura l’amore può essere spento e soffocato quando si agisce per essere a posto con la propria coscienza e non perché il nostro sentire spirituale ci porta ad agire: “Lo scopo del comando è però la carità, che nasce da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera. Deviando da questa linea alcuni si sono perduti in discorsi senza senso, pretendendo di essere dottori della Legge, mentre non capiscono né quello che dicono, né ciò di cui sono tanto sicuri” (1 Timoteo 5-7). Guardando a queste parole, vediamo che il comandamento esiste per un motivo e non è un ordine dato senza possibilità di essere discusso come può avvenire in ambito militare; ogni comandamento viene dato con lo scopo che l’uomo possa chiedersi il perché, usare la propria intelligenza per capire che, in realtà, è un “pedagogo verso Cristo, perché fossimo giudicati per la fede” (Galati 3.24). Gesù sapeva benissimo che le persone alle quali parlava ed insegnava erano sotto la Legge, dispensazione temporanea nell’attesa “della fede che doveva essere rivelata” (Ibid., v.23), per cui aveva l’autorità per dichiarare in cosa consistessero in realtà Legge e Profeti.

Teniamo presente le parole del verso 12 e riflettiamo su ciò che Lui ha fatto: con la Sua morte e resurrezione ha aperto la dispensazione della Grazia dandoci una prospettiva. È andato al di là del principio del fare agli altri quello che vorremmo ci fosse fatto perché nessuno avrebbe mai pensato né ad una porta aperta verso il cielo, né tantomeno di venire invitato ad entrarvi. È il Dio che si identifica nella creatura a tal punto da dare se stesso per lei. È il Dio che, nonostante il peccato, ha fatto sì che questo fosse vinto e lo ha fatto, una volta avvenuto, in modo tale che esattamente come in Eden l’uomo potesse scegliere: se Adamo avrebbe potuto vivere l’eternità non cibandosi del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, l’uomo che vive nella dispensazione della Grazia può entrare in essa accettando Gesù Cristo come il suo unico salvatore e quindi vivendo in modo adeguato alla sua fede in Lui. È una scelta, allora come oggi, ed è un cammino. È triste constatare, guardando al percorso fatto dai due popoli nelle due dispensazioni, Israele e la Chiesa, come entrambi abbiano fallito nella testimonianza, salvo rari casi. Questo è successo, e succede sempre, ogni volta che anteponiamo noi stessi a Dio e vogliamo conservare quello che rimane della nostra natura.

Per molto tempo ho sentito dire che chi ha creduto in Cristo non ha bisogno di fare nulla perché è stato già trasformato dalla Grazia, ma il verso “se uno è in Cristo è una nuova creatura” si riferisce al risultato della fede della persona e non al fatto che viene catapultato in una sorta di Eden e in uno spazio spirituale nuovo a prescindere dove ogni cosa è bella e tutto è pace. La presenza o l’assenza dell’amore verso i fratelli è indice di salute o di una grave febbre spirituale, come scrive l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera. Lì infatti leggiamo: “Carissimi, non vi scrivo un nuovo comandamento, ma un comandamento antico, che avete ricevuto da principio– che si trova nella Legge data da Dio a Mosè e da lui al popolo -. Il comandamento antico è la parola che avete udito– quindi la Legge e i Profeti -. Eppure vi scrivo un comandamento nuovo– nel senso di rivelazione -, e ciò è vero in lui e in voi, perché le tenebre stanno diradandosi e in lui già appare la luce vera. Chi dice di essere nella luce e odia il suo fratello, è ancora nelle tenebre. Chi ama il suo fratello, rimane nella luce e non vi è in lui alcuna occasione d’inciampo. Ma chi odia il suo fratello, è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi” (2.7-11).

Ora questa lettera è stata scritta non a persone da evangelizzare, ma a dei pagani convertiti al cristianesimo nell’Asia minore, quindi a dei salvati o presunti tali. Con le parole che abbiamo letto Giovanni non vuole escluderli dalla comunione con corpo e il sangue di Cristo, ma intende farli riflettere sulla posizione che hanno; in sintesi, non possiamo dirci nella luce se in noi manca l’amore per il prossimo, cioè per il fratello prima di tutto. E in questo tutti sono chiamati in causa, dai conduttori (o Anziani, o Pastori, o Sacerdoti a seconda della denominazione) a chi dichiara di aver creduto perché tutti, una volta ricevuto il battesimo consapevole, sono responsabili gli uni degli altri. Perché essere credenti comporta proprio il progressivo svuotamento di sé per arrivare al discernimento di ciò che è davvero necessario al nostro sostentamento, materiale e spirituale. Un giorno un fratello scrisse “Il risultato è proporzionale alla nostra autentica resa. Maggiore è la finzione, l’ipocrita recitazione di un ruolo, maggiore è la distanza da Cristo e dalla Croce”. Sembra, e lo è, l’enunciato di una legge fisica. Una fisica spirituale. Ecco perché le invettive di Gesù riguardarono sempre non i peccatori, le prostitute, i pubblicani e via dicendo, ma gli Scribi e i Farisei che, nonostante avessero gli strumenti per capire, si guardavano bene dal farlo perché avrebbero dovuto mettere in discussione tutta la loro vita, ravvedendosi.

Affrontando il nostro verso vediamo che quel “tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi” non richieda una grande intelligenza per essere compreso. Lo sappiamo già. Quel “tutto quanto” sono quelle “cose buone” che riusciamo a dare in quanto “malvagi”e che ora possono essere veramente “buone” in quanto date, fatte, da figli di Dio in possesso dello Spirito. Impossibile barare, saremmo come quelli che, di fronte al povero, gli dicono “vai in pace” e non gli danno di che sostenersi, non si prendono cura di lui, non fanno proprio il suo caso. Il mondo dominato dal peccato con uomini agli antipodi da Dio lo rileviamo nel rapporto di Oxfam diffuso alla vigilia del Forum economico di Davos nel 2017 in cui viene detto che otto miliardari posseggono la stessa ricchezza netta (426 miliardi di dollari) di metà della popolazione più povera del mondo, vale a dire 3,6 miliardi di persone.

Non è facile l’esercizio della pietà in un mondo di persone che scelgono volutamente di vivere di espedienti e spesso sono ricattatori morali di professione: occorre cercare, occorre vedere, serve il discernimento spirituale, la necessità di fare del bene mirato e non generalizzato, perché il dono arricchisca chi lo fa e chi lo riceve. Ricordiamo le parole di Giacomo: “Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano, e uno di voi dice loro «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve?” (2.15,16).

Anche voi fatelo a loro”: quell’ “anche” determina l’assoluta identità reciproca, dev’essere una norma, un’inevitabile, insopprimibile gesto che sta a significare l’avvenuta comprensione del principio in base al quale chi è stato salvato da Dio non può non venire aiutato, il mettersi al suo posto.

Il “Voi” e “loro” di questo verso non sono soltanto dei pronomi, ma indicano due aree di competenza, due zone che da sempre sono distinte perché da sempre “io – noi”, “tu – voi”, “lui – loro” sono usati per dividere, distinguere, mettere in chiaro aree, competenze, territori che non possono essere invasi, ma che qui non esistono più. Perché il “voi” si fonde nel “loro”, forma un tutt’uno per quanto l’individuo in quanto tale rimanga sempre; si tratta di un raccordo alle parole dell’apostolo Paolo che scrisse “…non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Galati 2.20).

Possiamo concludere questa riflessione citando un episodio celebre, che sempre Matteo riporta, in cui un Dottore della Legge fu scelto dai Farisei per porre una domanda trabocchetto a Gesù su quale fosse il comandamento più importante della Legge. Non erano tanto i dieci quelli a cui quel Dottore alludeva, ma i 613 dei quali 248 positivi (“farai”) e 365 negativi (“non farai”). La risposta fu “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti” (22-36-40).

L’amore però non è un qualcosa che può suscitarsi a comando, nessuno può amare qualcuno perché gli viene detto di farlo, ma è un sentimento possibile solo quando esiste un rapporto di conoscenza e tanto più questo è stretto, tanto più questo è grande. E l’amore vero consiste nell’annullarsi nell’altro, è fidarsi, è sentirsi al sicuro, protetti, utilizzando chiaramente intelligenza e discernimento. Si può amare Dio, e lo si ama, quando si è da Lui trovati e ci si scopre onorati e colmi di gratitudine per questo. E crescendo nell’amore per lui, è inevitabile trovarsi con coloro che hanno ricevuto le medesime attenzioni. Ecco perché i due comandamenti formano un tutt’uno, ecco perché il secondo, che per questa nostra riflessione Gesù riassume con le parole “questa infatti è la legge e i profeti”, è il più grande, conduce a Cristo e da Lui proviene. Amen.

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