07.20 – CINQUE CANTICI IV/V (Isaia 52.13-15)

7.20 – Cinque cantici IV/V (Isaia 52.13-15)

 QUARTO CANTICO

13Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente. 14Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sia forma da quella dei figli dell’uomo –, 15così si meraviglieranno di lui molte nazioni; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai a essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito”

Dando un cenno a ciò che si riferiscono i cantici del Servo, abbiamo visto nel primo (42.1-4) il Suo ruolo, funzioni e metodo; nel secondo (49.1-6) l’appello alle “isole” e “nazioni lontane”; nel terzo (50.4-11) l’impossibilità umana di accusarlo e fermarne l’opera. Nel quarto, così come nel successivo che ne è parte integrante, abbiamo prima un’introduzione generale alla Sua Opera e poi alla crocifissione con importanti dettagli anche sulla Sua vita terrena che, come credenti, non possiamo ignorare.

Dopo l’ “Ecco” iniziale di cui abbiamo già sottolineato l’importanza, viene subito messo in risalto il successo che avrebbe avuto questo personaggio: sarebbe riuscito a portare a termine l’incarico incarico, il compito, quel progetto di recupero dell’uomo che iniziò dopo il peccato di Eden. Adamo ed Eva infatti, a differenza del Servo, al posto del successo e del “prosperare” come traduce Giovanni Diodati, – “Il mio servo prospererà” – conobbe la sconfitta e con lui tutti noi. JHVH rivela tramite Isaia il ripristino futuro della condizione originaria di Eden, in cui vivranno i credenti questa volta senza il comandamento di non prendere il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. I tre versi del quarto cantico si riferiscono ad un periodo molto lontano se consideriamo il tempo in cui furono scritti, ma rivelano quello spazio di tempo che parte dal “successo” in cui vediamo la vittoria sulla morte, fino alla diffusione del Suo messaggio, quindi alla comprensione di “ciò che mai avevano udito”, cioè la Parola di Dio rivelata alle “isole” e alle “nazioni lontane” e oltre.

Spiegare, rendere sufficientemente chiaro il significato di queste parole non è semplice, specie se ne si vogliono cogliere i dettagli: il verso 13 è un’introduzione, una panoramica di eventi rivelati che si contrappongono alla logica umana poiché guardano al di là della morte e delle sofferenze subite da questo personaggio, quando gli uomini a lui contrari, e Satana che agiva attraverso di loro, lo sfidavano affinché, se veramente era Colui che diceva di essere, scendesse dalla croce. Ricordiamo uno dei due ladri crocifissi con lui che diceva, ponendoLo sul suo stesso piano, “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso, e anche noi!” (Luca 23.39), oppure i capi dei giudei, “Ha salvato altri, salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto” (v.35).

Eppure quel Servo avrebbe avuto successo non solo perché avrebbe schiacciato la testa al serpente, ma perché con quel sacrificio avrebbe avuto un onore, un’esaltazione e un innalzamento che viene rilevato in molti passi, il cui più immediato lo troviamo in quel “nome superiore ad ogni altro” che gli sarebbe stato dato. Infatti: “Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato un nome che è al di sopra di ogni altro nome, perché nel nome di Gesù – e nessun altro –ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Filippesi 2.9-11).

Sappiamo che, quando era umanamente in vita, Gesù sapeva benissimo ciò che lo aspettava (arresto, morte e resurrezione) e che disse, nell’episodio in cui a Gerusalemme alcuni greci volevano vederlo, “È venuta l’ora che il figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo. Se invece muore, produce molto frutto” (Giovanni 12.24): l’enunciazione della gloria che avrebbe avuto viene prima della morte che avrebbe dovuto subire, vista come un passaggio necessario per arrivare ad essa.

Sempre nello stesso episodio abbiamo un particolare che si raccorda al tema del nostro verso poiché quando Gesù disse “Padre, glorifica il tuo nome”, “Venne una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora” (v. 28), parole che si riferiscono all’identità perfetta tra loro perché chi ha visto il Figlio ha visto il Padre.

Da ricordare che tutte queste cose, oggi facili da capire per lo Spirito, furono comprese solo più tardi, nel giorno della Pentecoste, quando Pietro parlò ai giudei in Gerusalemme: “Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni – riferimento alla Legge secondo la quale un fatto non poteva essere considerato veritiero se non confermato da due o tre persone –.Innalzato dunque alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire. Davide infatti non salì al cielo, tuttavia egli disse: «Disse il Signore al mio Signore: siedi alla mia destra, finché io non ponga i tuoi nemici come sgabello ai tuoi piedi»” (Atti 2.32-35). Notare il “finché”, di cui siamo ancora in attesa.

Ultimo verbo del nostro verso è “innalzato”, cioè portato verso l’alto, elevato, che ci fa pensare all’ascensione, ma anche all’ufficialità del ruolo dichiarato finalmente agli uomini; “Dio lo ha innalzato alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono dei peccati” (Atti 5.31).

C’è poi l’avverbio “grandemente”, che esprime più il concetto dell’abbondanza secondo Dio che quello umano, per cui si riferisce a qualcosa che oltrepassa i nostri parametri. È scritto che “Cristo è risorto, primizia di coloro che sono morti” (1 Corinti 15.20) perché “Io sono la resurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque crede in me, non morrà in eterno” (Giovanni 11.25,26). E la “primizia”, allusione a ciò che matura per primo, implica che i frutti che seguiranno saranno a lui simili, ciascuno con caratteristiche proprie. Ecco perché l’apostolo Giovanni scrisse nella sua prima lettera “Sappiamo però che, quando egli si sarà manifestato, saremo simili a lui” (3.3).

Il verso 14 del cantico si comprende nel successivo: per le percosse, a mano e strumenti idonei oltre alla flagellazione, Gesù non aveva più l’aspetto di un uomo. E penso al volto, sul quale certamente si accanirono, tumefatto e soprattutto sanguinante anche per le ferite provocate dalla corona di spine che certo non gli fu appoggiata delicatamente sul capo che veniva poi percosso (Matteo 27.29-31). Da citare il fatto che, quando a un parente viene mostrato il cadavere di un congiunto morto per la violenza subita da altri, questi stenta a riconoscerlo e in alcuni casi non gli viene neppure mostrato perché non sarebbe in grado di farlo, a parte il dolore inutile che proverebbe. L’attribuzione dell’identità viene fatta attraverso altri elementi, quali le impronte digitali, dentarie o il DNA.

Possiamo dire che quanto avvenne a Gesù fu in un certo senso profetizzato anche dall’ignoto autore (o autori) del libro della Sapienza che, per quanto deuterocanonico e a torto ignorato dai credenti del ramo “evangelico”, contiene comunque scritti dei Maestri. Qui gli empi dicono “Tendiamo insidie al giusto che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta. Proclama di possedere la conoscenza Dio e chiama se stesso figlio del Signore. È diventato per noi una condanna dei nostri pensieri; ci è insopportabile solo al vederlo, perché la sua vita non è come quella degli altri, e del tutto diverse sono le sue strade” (2.12,14).

Quello che però mi preme sottolineare nel verso 14 del nostro cantico è la presenza del “come” e del “così”, poiché leggiamo “Come molti si stupirono di lui(…) così si meraviglieranno di lui molte nazioni”: lo stupore è quel senso di disorientamento provocato da qualcosa di inatteso, mentre la meraviglia tende più a mettere in risalto un’ammirazione spontanea e intensamente compiaciuta. Lo stupore è riferito al Gesù sfigurato, la meraviglia alle conseguenze della Sua resurrezione che ha comportato la salvezza di chiunque crede in Lui. Ed è facile vedere nelle “molte nazioni” quelle che sarebbero state raggiunte dal Vangelo. Si noti che non si fa riferimento al fatto che la Parola di Dio verrà accettata universalmente, ma a coloro che, tra le “molte nazioni” e le “isole”, si convertiranno, fatto allora impensabile perché era Israele e non altri il popolo di Dio. In pratica, questo verso pone in evidenza quella legge fisica in base alla quale ad ogni azione ne corrisponde una uguale e contraria: c’è una matrice comune tra lo stupore e la meraviglia, ma le condizioni sono diverse perché la prima si riferisce al Cristo sacrificato e la seconda a quello trionfante sulla morte e sul peccato: due opposti. Infatti la potenza del Padre “…la manifestò in Cristo quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni principato e potenza, al di sopra di ogni forza e dominazione e di ogni nome che viene nominato non solo nel tempo presente, ma anche in quello futuro” (Efesi 1.20,21).

Il verso 15 parla dei re che “davanti a lui si chiuderanno la bocca”: in questi vanno identificati tutti coloro che hanno autorità sugli altri indipendentemente dall’importanza nella scala del comando che sono destinati a capitolare davanti a Lui rimanendo senza argomenti. Credo che il senso dominante della profezia si riferisca al ritorno di Cristo perché sarà lì che questi uomini, abituati a comandare, decidere e far subire, si troveranno impotenti di fronte a Lui. Ma non è tutto, poiché le parole del verso si riferiscono anche all’impotenza di quei personaggi che nella storia hanno cercato di ostacolare e indebolire l’opera della Chiesa: pensiamo agli imperatori romani che ordinarono le persecuzioni, alcuni dei quali proclamatisi Dio in terra. Pensiamo agli stessi ebrei, che in molti casi le persecuzioni antiche le scatenarono e le misero in atto, come insegna non solo l’episodio di Stefano, ma tutto il quinto libro dei Nuovo Testamento.

Venendo alle nazioni, l’udire “un fatto mai raccontato” e il comprendere “ciò che mai avevano udito”, prima che in condanna, è una descrizione inserita nel contesto del Vangelo, il lieto annuncio dato a tutti i popoli. L’apostolo Paolo descrive così la differenza tra Israele e i Pagani che hanno accolto il messaggio di Gesù: “Dico che Cristo è diventato servitore dei circoncisi– quindi gli ebrei – per dimostrare la fedeltà di Dio nel compiere le promesse dei padri; le genti– quindi gli altri popoli – invece glorificano Dio per la sua misericordia, come sta scritto” (Romani 15.8,9).

Ma c’è di più, perché è proprio Paolo che, nello stesso capitolo, parlando dell’annuncio del Vangelo ai popoli, dice “…come sta scritto, coloro ai quali non era stato annunciato, lo vedranno, e coloro che non ne avevano udito parlare, comprenderanno” (v.22). Comprendere per lo Spirito, giungendo alla salvezza e all’avere un posto nel regno di Dio: in questo caso la bocca potrà aprirsi in un inno di lode, ma nel caso opposto dovrà chiudersi perché mancheranno del tutto gli argomenti per controbattere alla sentenza che verrà emessa. Perché, questo è il punto, che Gesù è il Signore dovrà essere riconosciuto comunque. E qui mi viene in mente Matteo 27.52-56: “Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono.(…) Il centurione e quanti con lui facevano la guardia a Gesù, sentito il terremoto e visto quel che succedeva, furono presi da grande timore e dicevano «Davvero costui era figlio di Dio!»”.

Concludendo: anche chi è diventato sinceramente e veramente cristiano, quindi ha avuto un’esperienza diretta col suo Signore, si è trovato nell’impossibilità di ribattere o porre ostacoli all’opera dello Spirito Santo che lo convinceva di peccato, giustizia e giudizio. E ha fatto morire la propria carne e tuttora continua a farlo, conoscendo vittorie e sconfitte. E trova conforto in Cristo sempre e comunque, in Lui che disse “Nel mondo avete tribolazioni, ma state di buon cuore: io ho vinto il mondo” (Giovanni 16.33). Amen.

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07.19 – CINQUE CANTICI III/V (Isaia50.4-6)

7.19 – Cinque cantici III/V (Isaia 50.4-6)

 

TERZO CANTICO

 

4Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. 5Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. 6Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. 7Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso. 8È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. 9Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole? Ecco, come una veste si logorano tutti, la tignola li divora. 10Chi tra voi teme il Signore, ascolti la voce del suo servo! Colui che cammina nelle tenebre, senza avere luce, confidi nel nome del Signore, si affidi al suo Dio. 11Ecco, voi tutti che accendete il fuoco, che vi circondate di frecce incendiarie, andate alla fiamme del vostro fuoco, tra le frecce che avete acceso. Dalla mia mano vi è giusto questo; voi giacerete nel luogo dei dolori.”.

 

L’esame dei quattro (o cinque a seconda  di come li si vuol suddividere) canti del servo è scaturito dalla domanda dei discepoli a seguito dell’episodio della tempesta sedata in cui dissero “Chi è costui, cui anche il mare e i venti obbediscono?”. Commentando ciò che quegli uomini si chiedevano, è stato sottolineato che i discepoli avevano a portata di mano tutti gli elementi per darsi una risposta, se non altro per i riferimenti al Dio che era intervenuto, ai tempi dell’Antico Patto, sugli elementi della natura servendosi di loro e dominandoli. I discepoli però non erano dottori della Legge, anche se non possiamo escludere che tra loro ve ne fossero, e difficilmente avrebbero potuto collegare i canti del Servo al loro Maestro, cosa che fecero successivamente, come dimostrato da Matteo che cita costantemente le profezie che Lo riguardavano. Questi canti possono essere letti e interpretati oggi e sono in grado di rispondere alla domanda sorta sulla barca a tempesta sedata, “Chi è costui?” sotto l’aspetto profetico.

Il terzo canto espone sinteticamente, da un punto di vista “morale”, la vita del Servo da quando iniziò a insegnare e predicare alla morte sulla croce. Il quarto verso ne spiega la condizione, lo scopo: gli è stata data “una lingua da discepolo” e, secondo questa traduzione, ha avuto come Maestro direttamente il Padre; disse infatti un giorno “Tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Giovanni 15.15). Diodati, tralasciando altre versioni che usano termini intermedi, come ad esempio “da iniziati”, riporta “Mi ha dato la lingua degli uomini dotti” con riferimento non ai sapienti di questo mondo, ma di coloro che erano in grado di esporre la Legge allo stesso popolo che attribuiva Gesù che la spiegava un’autorità vera, superiore a quella degli Scribi e Farisei. Ricordiamo in proposito l’annotazione a commento di quando, dodicenne,  era in mezzo ai dottori: “Tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte”. “Lingua dei dotti” vista nel suo significato più alto che è quello di essere in grado di parlare a chiunque, con concetti semplici o comunque adatti alla persona che ascolta perché lo scopo di quel parlare era “saper indirizzare una parola allo sfiduciato”, tradotto anche con “afflitto” che ci collega alla seconda beatitudine, quella di coloro che “saranno consolati”. Dare una parola che porti sollievo non è facile se ci si vuole immedesimare in chi ne ha bisogno e il libro di Giobbe, con gli interventi dei suoi “amici” venuti a consolarlo con frasi fatte moralmente condivisibili nei contenuti, ma per nulla rapportate al suo caso, testimonia che parole sbagliate e di giudizio portano all’effetto opposto e aumentano la sofferenza dell’interessato.

Le parole di Gesù, invece, indicarono sempre una via d’uscita, l’unica possibile per determinare una soluzione spirituale del problema, dell’origine del dolore, a volte accettata e altre, più spesso, rifiutata. La via spirituale è infatti opposta a quella della carne e una persona, di fronte a una situazione o a uno stato che gli dà pena, se non ne cerca le ragioni e i rimedi spirituali per uscirne, resta coinvolto in essa. È il “laccio” di cui più volte troviamo citazione nelle Scritture. Sono concetti che si collegano al verso 10 che nella sua prima parte dice: “Chi tra voi teme il Signore, ascolti la voce del suo servo!”. Chi “teme il Signore”, cioè lo conosce od è cosciente della Sua esistenza, non deve ascoltare altre voci se non quella di chi è stato “fatto e formato” per rappresentarLo, portare la Sua parola agli uomini perché temere il Signore non è sufficiente, non dà garanzie di riuscita se non ci si appella al Servo. Ricordiamo le parole “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Giovanni 14.6) e “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò” (Matteo 11.28). A me e non ad altri.

I più grandi profeti, da Mosè in poi, nonostante il ruolo determinante che ebbero nella conduzione del popolo oppure nel trasmettere il messaggio di JHWH, ebbero dei punti di fallimento e non poteva essere diversamente in quanto uomini. Così non per Gesù, attento “ogni mattina”, di cui i vangeli attestano lunghe preghiere in cui non solo presentava i suoi perché fossero preservati dal male, ma perché nessuna Sua parola andasse sprecata: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata” (Isaia 55.10,11). La parola di Dio infatti non torna senza un risultato, in salvezza o in giudizio.

Il verso quinto, “il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro”, testimonia l’instancabilità del Servo, fedele in tutto tanto nel poco che nel grande, dagli spostamenti per le varie regioni del territorio al punto più alto e per noi determinante della Sua vita, quello dell’arresto, del processo fino alla crocifissione. Rileviamo il non opporre resistenza alla volontà del Padre – che aveva accettato responsabilmente – nelle tre azioni viste nel dare il dorso ai flagellatori, le guance a chi gli strappava la barba, il non sottrarre la faccia agli sputi, tutti eventi che rientravano in ciò per cui era venuto al mondo. Gesù infatti non nacque per risolvere problemi umanamente contingenti come nella visione messianica ebraica, ma dare la sua vita per gli uomini quale “Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”.

Nel verso settimo ci troviamo di fronte a un interessante parallelo con Luca 9.51 che non tutti traducono allo stesso modo: “Avvenne, nel compiersi dei giorni della sua assunzione, che egli indurì il volto– letteralmente “fermò la faccia” – per andare a Gerusalemme”; altri, preoccupati di dare il significato più immediato, riportano “prese la ferma decisione di”, impedendo però di fatto la connessione col cantico. L’indurimento del volto come la pietra può essere visto effettivamente con la risolutezza: Gesù sapeva che, a Gerusalemme, avrebbe dovuto affrontare il combattimento più grande di tutta la sua vita terrena che iniziava proprio col mettersi in viaggio recandosi al Golgotha.

Il Servo indurisce il volto, prende ferma determinazione in quanto cosciente dell’assistenza del Padre e sa che non resterà confuso: ciò testimonia la piena coscienza del Suo ruolo, ma è anche sinonimo di resistenza addirittura maggiore rispetto alle violenze e agli oltraggi che gli verranno fatti. Anche qui possiamo fare una connessione importante: si tratta di Ezechiele 3.8,9 quando Dio dice al profeta “Ecco, io ti do una faccia indurita quanto la loro faccia e una fronte dura quanto la loro fronte. Ho reso la tua fronte come diamante, più dura della selce. Non li temere, non impressionarti davanti a loro; sono una genìa di ribelli”. È compito del profeta, quindi dell’uomo di Dio, non avere timore dei suoi simili né del destino che gli prospettano, avendo fondato e costruito la loro esistenza su un terreno diverso, destinato a crollare perché non vedono che il loro presente illudendosi che resti immutabile. Chiariscono bene il concetto le parole dell’apostolo Paolo “A me poco importa venire giudicato da voi o da un tribunale umano;(…) il mio giudice è il Signore” (1 Corinti 4.3,4).

Paolo è quindi conscio non solo dell’abisso che separa il metro valutativo umano da quello di Dio, ma che l’uomo può arrivare solo fino a un certo punto: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno il potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire l’anima e il corpo nella Geenna” (Matteo 10.28). Ancora Paolo spiegherà il concetto in Romani 8.31-39, le cui parole su rifanno anche al volto e alla fronte duri letti in Ezechiele: “Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?(…) Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è quel che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto alla destra di Dio e intercede per noi. Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?(…) Io infatti sono persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Gesù Cristo, nostro Signore”.

Penso che questi versi siano un ideale collegamento con l’ottavo e nono del cantico, quando leggiamo “Chi oserà venire a contesa con me?(…) Chi mi accusa?(…) Chi mi dichiarerà colpevole?”; sappiamo che furono necessari falsi testimoni contro di Lui e che Gesù fu dichiarato colpevole dagli uomini, non certo dal Padre. La morte stessa, data la forza totale della Sua innocenza, non poté trattenerlo. Una delle vere ragioni della resurrezione di Nostro Signore non fu tanto perché era onnipotente e in grado di sconfiggere la morte, ma perché lei stessa era la conseguenza del peccato per cui, se il Cristo non ne aveva commessi, anzi aveva adempiuto la legge punto per punto, era impossibile avesse potere su di lui, neppure sul suo corpo. Per concludere questo breve inserto, Isaia 51.7,8 riporta un appello: “Non temete l’insulto degli uomini, non vi spaventate per i loro scherni; poiché le tarme li roderanno come una veste e la tignola li roderà come la lana, ma la mia giustizia dura per sempre, la mia salvezza di generazione in generazione”.

Tornando al cantico, la frase “Come veste si logorano tutti, la tignola li divora” mostra la reale condizione in cui versano gli accusatori: da un lato Lui, attaccabile solo nel corpo, dall’altro loro, che si logorano “come veste” – e sappiamo che lo stesso è scritto anche per la terra – quindi poco a poco, quasi senza che se ne accorgano e, in questo accadere, non esiste rimedio. “La tignola” che il vestito corrode, poi, è figura di quel processo che porta il corpo esanime a decomporsi lasciando solo alla polvere il compito di testimoniare quel che resta di una vita coscientemente spesa ad opporsi all’amore di Dio. Perché anche la loro anima verrà ridotta al nulla: “Ecco, tutte le vite sono mie:(…) chi pecca morirà” (Ezechiele 18.4).

Il cantico, per quel che ci compete, si conclude con un invito a due categorie di persone, “Chi teme il Signore” e “Chi cammina nelle tenebre”: i primi, pur avendo un atteggiamento corretto, devono “ascoltare la voce del Suo servo”, l’unico in grado di condurli correttamente lungo quei “pascoli erbosi” figura della fede e della dottrina. Senza questo ascolto, si rischia di essere sterili e di possedere convinzioni errate destinate ad ostacolare il rapporto con il Padre. I secondi, sono quelli che sono coscienti di andare a tentoni, senza una luce che ne rischiari cammino: anche per loro, proprio perché consapevoli della condizione in cui versano, è detto di “confidare nel nome del Signore”, quindi non in un Dio generico, costruito per appagare il vuoto interiore.

Resta il verso undicesimo in cui vediamo non solo gli accusatori, i detrattori e i responsabili della morte del corpo del Servo per eccellenza, ma tutti quelli che combattono gli altri servi, coloro che hanno creduto e testimoniano: “Voi tutti che accendete il fuoco– figura di un’idea, di un progetto per distruggere –, che vi circondate di frecce incendiarie– chi si circonda di qualcosa è per rafforzarsi anche psicologicamente –, andate alle fiamme del vostro– la responsabilità – fuoco, tra le frecce che avete acceso– altro rafforzativo della responsabilità –. Dalla mia mano– figura della volontà e del potere – vi è giunto questo: voi giacerete nel luogo dei dolori”. Sicuramente da porre una sottolineatura sul fatto che i nemici del Servo (e dei suoi fratelli) non confluiranno in un luogo di dolore generico, ma “nel luogo”, quindi in un posto preciso in cui possiamo identificare quello “stagno ardente di fuoco e zolfo” in cui verrà gettato Satana con i suoi angeli. Angeli ribelli, ma anche tutti coloro che gli avranno dato ascolto e obbedienza. Amen.

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07.18 – CINQUE CANTICI II/V (Isaia 49.1-6)

7.18 – Cinque cantici II/V (Isaia 49.1-6)

 

 

SECONDO CANTICO

 

1Ascoltatemi, o isole, udite attentamente, nazioni lontane; il signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome. 2Ha reso la mia bocca come spada affilata, mi ha nascosto all’ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra. 3Mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria». 4Io ho risposto: «Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze. Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio». 5Ora ha parlato il Signore, che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele – poiché ero stato onorato dal Signore e Dio era stato la mia forza – 6e ha detto: «È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra.”.

 

Il secondo cantico, a differenza del primo, inizia come un appello proprio alle “isole” e “nazioni lontane” di cui in altro passo (Isaia 42.4) si dice che “attendono il suo insegnamento” perché la risposta alle domande di ogni uomo circa la propria origine e fine sarebbe giunta un giorno anche a loro. Se le “nazioni lontane” sono tali sia per distanza, ma soprattutto per mentalità, usi e costumi, sono accomunate dall’essere composte da uomini che, a differenza degli animali, hanno la possibilità di scegliere consapevolmente e determinare il loro destino.

Nel nostro passo questi popoli sono invitati a “udire attentamente”, quindi con cura, diligenza, cautela, sinonimi che escludono imprudenza, sbadataggine, distrazione. In pratica il testo tende a responsabilizzare e ad invitare, avvertire che il messaggio che sta per essere recapitato è fondamentale per la vita della persona. Ogni essere umano è chiamato a mettere alla prova, verificare, porsi delle domande su quanto verrà annunciato: “Venite, e discutiamone insieme”, com’è scritto (Isaia 1.18). Non si tratta quindi di un qualcosa che deve venire imposto, un indottrinamento forzato, non si richiede una conversione di massa come purtroppo avvenuto nella storia con effetti devastanti, ma piuttosto le parole del secondo cantico sono un annuncio rivolto ai pagani, quelli che Israele disprezza.

Occorre fare attenzione al “seno materno” qui menzionato per due volte, ai versi 1 e 5: dando un brevissimo sguardo a come è usata quest’espressione nella Scrittura, la vediamo citata nel Nuovo Testamento a proposito di Giovanni Battista e dell’apostolo Paolo: del primo è detto “sarà colmato di Spirito santo fin dal seno di sua madre” (Luca 1.15), del secondo è lui stesso a scrivere “mi scelse fin dal seno di mia madre” (Galati 1.15). Per quanto riguarda l’Antico Patto va ricordato Geremia a cui viene detto in 1.4,5: “Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni”. A questo profeta fu rivolto un messaggio particolare oltre che un’autorità precisa “sopra le nazioni e sopra i regni per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare” (v.10), eppure nessuno di questi uomini, per quanto tutti profeti e quindi con un incarico preciso e unico da parte di Dio, fu mai in grado di salvare un’anima. Il profeta, per quanto unico per messaggio, compito e appartenenza, non sarà mai paragonabile a Gesù, il Cristo, di cui l’angelo disse in sogno a Giuseppe “Il bambino che è generato in lei(Maria) viene dallo Spirito Santo; (…) egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Matteo 1.20,21). Nessuno dei profeti dei due patti non solo non “venne dallo Spirito Santo”, ma neppure nacque da una vergine a conferma che solo Gesù venne al mondo senza concorso umano da parte maschile; se così fosse non avrebbe potuto avere un’origine divina e sarebbe stato soltanto una semplice creatura che, per quanto originale nel suo messaggio e grande maestro nelle Scritture, si sarebbe identificato in tutto e per tutto nella definizione di Giobbe 14.1 che accomuna ogni essere umano, nessuno escluso: “L’uomo, nato di donna, breve di giorni e sazio d’inquietudine, come un fiore spunta e avvizzisce, fugge come l’ombra e mai si ferma”.

Il primo verso del nostro cantico parla di chiamata e di nome pronunciato – “Lo chiamerai Gesù”, detto a Maria in Luca 1.31 e a Giuseppe in Matteo 1.21 –, ma il quinto riporta il “plasmare”, cioè modellare una materia malleabile dandole la forma voluta, quindi perfezione, essendo stato il Padre in persona ad agire sulla materia del Figlio per dargli la “forma” voluta quindi carattere, la funzione, la totalità dello scopo. Se allora sommiamo i dati fin qui ottenuti, cioè la chiamata, la pronuncia del nome e l’essere stato plasmato, ne abbiamo tre che testimoniano come nulla sia stato trascurato per porre in grado di operare secondo la Sua volontà quel “Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto” di cui è profetizzato “Ecco, io vengo, poiché di me sta scritto nel rotolo del libro, per fare la tua volontà” (Ebrei 10.7). Diversamente, come già rilevato, Gesù sarebbe stato un uomo come gli altri, impossibilitato a sconfiggere la sua stessa morte, operando miracoli apparenti, magari mettendosi d’accordo prima con qualcuno disposto a fingere di essere paralitico, lebbroso, cieco e indemoniato. Avrebbe poi plagiato dodici poveri ignoranti che, per qualche assurdo motivo, avrebbero imbastito la truffa più colossale della storia. C’è chi sostiene questo e un giorno, purtroppo per lui, dovrà assumersene la responsabilità.

Il secondo verso del cantico parla dell’opera del “servo”: alla “bocca come spada affilata” è immediato l’abbinamento con la Parola, spada a doppio taglio descritta dall’apostolo Paolo in un passo molto conosciuto di Ebrei 4.12, ma ancora di più in Apocalisse 1.16 dove leggiamo, nella visione del Cristo glorificato che parla a Giovanni, “dalla sua bocca usciva una spada a doppio taglio”.

Il “Mi ha nascosto all’ombra della sua mano” ha riferimento con il fatto che Gesù fu costantemente sotto la protezione del Padre per quanto riguarda gli interventi esterni degli uomini che poterono prenderlo, processarlo, umiliarlo e crocifiggerlo solo in un momento preciso e non prima, ma non fu da Lui agevolato nelle prove a cominciare dalla tentazione nel deserto in poi. E penso alle fatiche dei viaggi missionari e alle angosce al Getsemane, al fatto che, in croce, non vennero legioni di angeli a liberarlo.

Mi ha reso freccia appuntita”: in mano a un valido arciere, la freccia centra subito il bersaglio a una velocità stimata di circa 250 km/h. Se il maligno tira “dardi infuocati” che hanno per scopo la distruzione indiscriminata, la “freccia appuntita” è selettiva, va dritta al punto interessato: in questo caso possiamo individuare tutte le volte in cui Gesù puntualmente demolì le false costruzioni degli Scribi e Farisei con l’interpretazione di quella Legge che si vantavano di osservare e che in realtà avevano svuotato di qualsiasi significato. Si tratta di una freccia che va dritta al cuore come nel caso in cui, dopo che Pietro predicò a Gerusalemme leggiamo che i suoi uditori “si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Fratelli, che cosa dobbiamo fare?»” (Atti 2.37). Non possiamo però trascurare il significato profetico del Salmo 64.7-9 da cui emerge come il rifiutare la proposta del Messaggero di Dio per eccellenza sia sufficiente a provocare un giudizio: “Tramano delitti, attuano le trame che hanno ordito; l’intimo dell’uomo e il suo cuore: un abisso! Ma Dio li colpisce con le sue frecce: all’improvviso sono feriti, la loro stessa lingua li manderà in rovina, chiunque, al vederli, scuoterà la testa”. L’intimo dell’uomo non rigenerato, ciò di cui ha più prezioso perché è la sua stessa vita, l’anima, il tutto è considerato un abisso, quindi tenebre che vanno illuminate dall’unica luce in grado di mostrargli ciò che veramente è.

Mi ha riposto nella sua faretra” sta a indicare che la freccia è ben custodita nell’attesa di venire utilizzata, scoccata. Questa frase sta a significare quindi che, al tempo in cui Isaia scriveva, non era ancora giunto il momento per cui il “servo” si sarebbe dovuto manifestare. E qui, personalmente, si apre un collegamento davvero illuminante con l’apertura del primo sigillo nel libro dell’Apocalisse quando nessuno poteva aprire quel libro “scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli” (5.1). Il libro della vita, su cui sono scritti i nomi dei salvati, non poteva essere aperto se non dall’Agnello immolato dopo l’apertura dei sigilli, cioè eventi precisi che interessano la storia dell’umanità. Ebbene il primo riguarda proprio la visione di “…un cavallo bianco. Colui che lo cavalcava aveva un arco; gli fu data una corona ed egli uscì vittorioso per vincere ancora” (6.1,2). Su questo passo si sono scritti davvero “fiumi d’inchiostro”, la maggioranza dei quali a sproposito; ma il colore del cavallo, l’arco, la corona e le due vittorie, una conseguita e l’altra futura non lasciano dubbi sul fatto che si tratti della venuta di Gesù sulla terra, la prima quale Figlio dell’uomo vincitore sul peccato e la morte e la seconda come trionfatore definitivo sul sistema satanico perverso e il suo artefice, sull’inferno e gli abissi degli uomini perversi.

Il terzo verso, in cui sembra si parli di Israele come popolo “servo” e quindi possa essere identificato col servo stesso, costituisce un problema solo apparente perché è indubbio che sia lui il popolo eletto fin dai tempi antichi ed è altrettanto innegabile che, rinnegando per ora il Cristo, si trovi nelle condizioni descritte dall’apostolo Paolo in 2 Corinti 3.12-15 quando, parlando degli ebrei, scrive “…e non facciamo come Mosè che poneva un velo sul suo volto, perché i figli di Israele non vedessero la fine di ciò che era solo effimero– tornando dal Sinai, quando il suo volto era splendente-. Ma le loro menti furono indurite; infatti fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non rimosso, quando si legge l’Antico Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato. Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando vi sarà la conversione al Signore, il velo sarà tolto”. Sarà proprio con la conversione di Israele che si manifesterà la gloria di Dio. È un percorso a tappe verso la realizzazione del piano di salvezza in cui ogni successo può essere paragonato a tanti mattoni che vengono posti uno accanto all’altro, uno sopra l’altro per la costruzione dell’edificio di Dio, del Regno, della totalità nella comunione dei santi con Lui.

Tornando al nostro testo, anche la risposta del servo è profetica, perché quel “Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze” si riferisce alla constatazione umanamente immediata del risultato delle fatiche di Nostro Signore: i discepoli che si dispersero al suo arresto, la loro difficoltà a credere alla Sua risurrezione e poi via fino ai 120 a Gerusalemme, il cui numero tuttavia crebbe in fretta, come leggiamo nel libro degli Atti.

Infine, nel verso sesto che fa da contrapposizione al quinto, gli appartenenti alle “isole” e alle “nazioni lontane” sono invitati a considerare ciò che li riguarda direttamente: l’opera perfetta del “servo”, che apparentemente non ha ottenuto il risultato sperato della conversione dell’intero popolo, viene ampliata ed elargita anche a quelli che ad Israele non appartengono: “È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra”.

Alla nascita di Gesù è scritto che  “Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una gran luce”: quella stessa luce è oggi alla portata di tutte quelle genti che a quei tempi, pur esistendo, non erano state coinvolte. Persone che avrebbero vissuto in modi diversi da quel popolo, parlato lingue allora sconosciute, nazioni entro le quali sarebbero nati (di nuovo) e vissuti dei figli di Dio. Persone salvate, concittadine dei santi e membri della famiglia di Dio. Amen.

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07.17 – CINQUE CANTICI I/V (Marco 4.41 – Isaia 42.1-4)

7.17 – Cinque cantici I/V (Marco 4.41 – Isaia 42.1-4)

41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?»”.

Abbiamo citato nel capitolo precedente alcuni episodi dell’Antico Patto in cui l’Iddio vivente intervenne di persona in giudizio o per soccorrere e guarire, considerando che la domanda “Chi è costui…” dei discepoli, in realtà, non aveva senso. Poiché non esiste un solo verso della Scrittura che non abbia qualcosa da dire all’uomo indipendentemente del tempo in cui vive, credo a questo punto sia giusto esaminare la persona di Gesù sotto l’aspetto profetico in particolare basandoci sui quattro (o cinque a seconda delle interpretazioni) cantici sul “Servo del Signore” di Isaia il cui compito era fornire degli indizi importanti affinché quelli che lo attendevano potessero riconoscerlo quando fosse venuto in terra.

Riguardo al numero dei cantici se ne considerano quattro se si prende il testo del profeta come libro, rotolo originario in cui non c’era una suddivisione in capitoli. Accademicamente parlando, questo è il loro numero. Considerando però Isaia in quanto testo diviso in capitoli come pervenuto a noi oggi (Stephen Langton, 1214 circa), essendo il quarto spezzato, per pura comodità strutturale se ne possono contare cinque. Entrambi sono numeri importanti: alla stabilità perfetta del numero quattro, si affianca il cinque, che in questo caso rappresenta una sottolineatura del precedente che reca in sé il concetto di chiusura, fine, elemento ciò a cui nulla può essere aggiunto. Non a caso, in un precedente studio, è stato associato al cinque il numero delle pareti di una casa più il tetto.

 

PRIMO CANTICO (Isaia 42.1,4) 

“Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto in cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni. Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta: proclamerà il diritto con verità. Non verrà meno e non si abbatterà, finché non avrà stabilito il diritto sulla terra, e le isole attendono il suo insegnamento”.

Molti sostengono che il “servo” sia Israele anche perché, nel capitolo 41, di lui si parla utilizzando lo stesso termine: “Ma tu, Israele, mio servo, tu Giacobbe, che ho scelto, discendente di Abramo mio amico, sei tu che io ho preso dall’estremità della terra e ho chiamato dalle regioni più lontane e ti ho detto: «Mio servo tu sei, ti ho scelto, non ti ho rigettato!». Non temere, perché io sono con te; non smarrirti, perché io sono il tuo Dio. Ti rendo forte e ti vengo in aiuto e ti sostengo con la destra della mia giustizia”. Si tratta di un passo molto bello che però non ritrae il servo come uomo, l’eletto di Dio  unico che, nel primo cantico, appare come persona che comparirà in un momento preciso come conseguenza dell’aver scelto Giacobbe e dell’amicizia con Abramo.

Sinceramente, ogni volta che leggo o penso alle parole “Abrahamo mio amico” resto stupito e commosso nel contemplare il Dio Onnipotente chiamare così un uomo, una creatura talmente imperfetta di fronte a Lui. Eppure gli parlava, eppure nel caso della distruzione di Sodoma assistiamo a un dialogo di esseri tra i quali intercorreva una rispettosa confidenza; addirittura leggiamo le parole di JHWH che, prima di agire in giudizio, dice “Dovrò forse nascondere ad Abrahamo quanto sto per fare?” (Genesi 18.17). E così, di fronte a questo scritto, la memoria va a Gesù e all’estensione enorme che diede ai suoi e che a volte dimentico: “Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici perché tutto ciò che io ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (Giovanni 15.14,15).

Veniamo al Cantico: lo abbiamo già trattato nel capitolo 3.12 intitolato “Il servo che ho scelto”, ma cercheremo di ampliarlo, affrontarlo in modo differente. Colpisce l’inizio, “Ecco”, che si utilizza quasi unicamente per indicare un momento preciso in cui cambiano le cose oppure per confermare una realtà oggettiva dopo un’attenta verifica: ricordiamo ad esempio quando, alla fine del sesto giorno della creazione, leggiamo “Dio vide quanto aveva fatto ed ecco, era cosa molto buona” (Genesi 1.31) oppure, in negativo, la constatazione prima del giudizio tramite il diluvio: “Iddio guardò la terra ed ecco, essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra” (6.12). Molto usato in tutta la bibbia, a questo avverbio le concordanze dedicano circa cinque pagine molto fitte, tra le quali spiccano molti riferimenti non solo alla venuta del Cristo, ma anche a momenti particolari come al Suo ingresso in Gerusalemme, “Ecco, viene il tuo re”, alla “Vergine che concepirà e darà alla luce un figlio” e tanti altri.

L’ “Ecco” con cui si apre il primo cantico allude allora a un momento in cui il piano di Dio si raccorda alla storia umana e lo possiamo individuare tanto con la nascita di Gesù rivelata ai pastori, “Ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo” (Luca 2.10), quanto con l’inizio del Suo Ministero pubblico di cui Luca scrive “Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento»” (3.21,22).

Proseguendo nel cantico, il “servo” sarebbe stato sostenuto e l’ “eletto” avrebbe ricevuto il compiacimento del Padre. Ai due termini, “servo” ed “eletto”, viene anteposto il possessivo “mio”, quindi sta a qualificare un’appartenenza precisa, esclusiva, perché proprio quel popolo che avrebbe dovuto rappresentarlo sulla terra di fronte agli altri, testimoniando di Lui con una condotta santa, fallì preferendo portare la quotidianità al centro della propria vita come leggiamo dalle parole “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me” (Isaia 29.13). Certo, la stessa cosa la fanno molti nella Chiesa là dove il Nome di Cristo non è predicato correttamente e vengono a mancare uomini in grado di guidare, insegnare, ricordare che quella Parola “viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio” è la sola che può condurre alla vita eterna.

Così scrisse San Gregorio nel 300 circa: “Cos’è la Scrittura se non la lettera di Dio onnipotente alla Sua creatura? Cerca dunque di meditare ogni giorno la Parola del tuo Creatore. Impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio. Così tu bramerai le realtà celesti con maggior desiderio e il tuo animo sarà preso con più ardore dalle gioie invisibili. Che lo Spirito riempia della Sua presenza la tua anima e riempiendola la renda più libera”. Parole importanti che rivelano, come molti passi, che non avendo la Chiesa nessun potere di salvare, ma solo quello di portare il Vangelo, se al suo interno lascia agire degli usurpatori, non solo fallisce nel proprio mandato, ma può scandalizzare e portare gli altri all’ateismo e all’abbandono. Non è un fatto nuovo, ma una realtà che si verificava già ai tempi antichi: “Per causa vostra, il nome di Dio è bestemmiato fra le genti” (Romani 2.24). Anche Tito 2.6-8 mette in risalto il fatto che la condotta fuori luogo di quanti si definiscono cristiani, causa lo screditamento del Vangelo: “Esorta ancora i più giovani ad essere prudenti– qualità che a loro manca quasi per natura – offrendo te stesso come esempio in opere buone: integrità nella dottrina, dignità, linguaggio sano e irreprensibile, perché il nostro avversario resti svergognato, non avendo da dire nulla di male contro di noi”.

Se la Chiesa non guarda a Cristo, di cui è detto nel passo in esame “Ho posto il mio Spirito su di lui”, fallirà inesorabilmente sostituendo alla carità e all’amore il potere, la tradizione, il rito, il denaro senza alcuna possibilità di poter riconoscere la presenza di Gesù nei suoi membri.

Altra caratteristica del “servo” e dell’ “eletto” è la discrezione con la quale opererà nel corso del Suo ministero terreno: la frase “Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce” lo distacca immediatamente dalla metodologia dell’arrogante, vuoto e presuntuoso che, allora come oggi, cerca di farsi seguire dal prossimo ricorrendo alla cosiddetta arte oratoria, alla retorica, al convincere gli altri quasi fosse un venditore, tutte attività praticate dai Farisei. La mente umana cerca spesso l’effetto, le grandi manifestazioni, è convinta che la potenza di Dio debba sempre essere accompagnata, in quanto tale, da qualcosa di stupefacente. Ricordiamo che il profeta Elia non usò lo stesso metro valutativo quando, in 1 Re, leggiamo “Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna” (19.11-13).

Nel non spezzare “la canna incrinata né la fiamma smorta”, che nel linguaggio simbolico allude alla misericordia, vediamo l’opera di soccorso del Figlio sull’uomo perché, invece di infierire su elementi deboli, al contrario li raddrizza, cura e ravviva. Perché non sono i sani ad avere bisogno del medico. Il “servo” avrebbe allora compiuto la sua missione con modestia e pacatezza, non sferzando il popolo per indurlo a conformarsi a nuove regole, ma trasformando interiormente chi si lascia trasformare. Perché si possono insegnare tante cose, ma non l’amore.

Proclamerà il diritto con verità”, compito riservato ai re, ai sacerdoti e magistrati se inteso da un punto di vista giuridico, ma se interpretiamo “diritto” come dottrina (Torah), allora si tratta di compito riservato ai profeti per cui l’ “eletto” assolverà a queste quattro funzioni. Egli “non verrà meno e non si abbatterà, finché…” cioè esiste un’opera incessante da parte sua, quel non aver “dove posare il capo” per tutto il periodo del ministero terreno. L’opera del Servo vediamo avrà un termine che verrà espresso nelle parole “Tutto è compiuto” con cui Gesù si riferisce tanto al fatto che non aveva trascurato nulla nella Sua opera che si concludeva alla croce, quando al futuro, alle conseguenze che la Sua morte avrebbe portato: Agnello di Dio innocente che toglie il peccato del mondo, ma anche apertura della porta in cielo per quanti avrebbero voluto varcarla credendo in Lui.

Si può quindi citare Colossesi 2.9-14: “È in lui che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi partecipate della pienezza di lui, che è il capo di ogni Principato e di ogni Potenza.  (…) Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce”. Eppure gli ebrei, per i quali fondamentalmente il Servo è venuto, ne rifiutano il sacrificio in quanto la Bibbia non ammette il sacrificio umano, confondendo il Gesù uomo con l’Agnello di Dio.

Quindi, tornando a noi: chi crede, ha fatto proprio il Vangelo credendo in Gesù Cristo, è partecipe della Sua pienezza. Con la Sua risurrezione ha dato vita anche a noi, morti per le colpe e la nostra non appartenenza al popolo eletto. “Il documento scritto contro di noi” è la Legge nel suo complesso, annullata quanto a potere di condannare l’uomo privandolo della possibilità di essere vivificato da Dio: “Anche voi eravate morti per le vostre colpe e i vostri peccati, nei quali un tempo viveste alla maniera di questo monto, seguendo il principe delle potenze dell’aria, quello spirito che opera negli uomini ribelli.(…) Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo. Per grazia infatti siete stati salvati” (Efesi 2.1.2; 4,5). Ebbene questo documento scritto è stato “tolto di mezzo, inchiodandolo sulla croce” cioè:  Gesù è stato tolto dalla croce per essere deposto nel sepolcro ed è risuscitato dopo tre giorni, ma la Legge è ancora là, su quel legno, senza più alcun potere. I dieci comandamenti certo restano l’eterna misura del bene e del male, ma non sono più causa di morte come un tempo; se mai di responsabilità perché dal loro rispetto dipenderà la posizione che avremo nel Regno, le “molte” o “poche battiture”, la comunione con Lui nel cammino terreno, l’essere salvati “come attraverso il fuoco” oppure no.

Ecco, anche questo fa parte di quell’ “insegnamento” che le “isole” aspettano: il Vangelo, potenza di Dio per chiunque crede. Amen.

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07.16 – CHI È COSTUI? (Marco 4.41)

7.16 – Chi è costui (Marco 4.41)

 

41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?»”.

 

In questo capitolo ci occuperemo della domanda riportata nel verso 41. Se ci interrogassimo sui dati che i discepoli potevano avere a disposizione dalle Scritture e dalla loro esperienza personale per rispondere, potremmo circoscriverli all’interno di due gruppi: uno riguarda alcune manifestazioni di Dio prima di quell’episodio, un altro è costituito da cinque cantici presenti nel libro del profeta Isaia che affronteremo nei capitoli successivi. Abbiamo quindi due gruppi di argomenti da affrontare, uno semplice che teoricamente sarebbe stato alla loro portata, un altro più complesso, forse più di competenza di uno scriba o un dottore della Legge.

Abbiamo letto che dopo il miracolo della tempesta sedata i discepoli si chiesero chi Gesù fosse alla luce di ciò che sapevano di lui, ma quali erano gli elementi di cui potevano disporre per darsi una risposta? Teniamo presente che non era stata ancora rivolta a loro la domanda “La gente chi dice che io sia? (…) e voi chi credete che io sia?”, fatta in un momento preciso per verificare l’idea che loro, e non la gente comune, si erano fatti di lui.

Facciamo allora mente locale: quegli uomini si erano trovati di fronte a un personaggio che guariva da ogni infermità, possessioni demoniache comprese. Avevano ascoltato con indubbio interesse le dispute coi farisei e gli scribi sul fatto che gli uni sostenevano che cacciasse i demoni con l’aiuto del loro principe e la confutazione di questa teoria, e ora scoprono di avere a che fare con uno che viene obbedito anche dal vento e dal mare. Nonostante questo si chiedono chi sia. Lasciamo stare il nostro punto di vista al riguardo e andiamo al loro perché il popolo di Israele sapeva che solo Dio poteva dominare gli elementi naturali e usarli come avesse voluto. E teniamo presente che la stessa cosa la può fare Satana, se gli è concesso: ricordiamo che nel caso di Giobbe, prima di intervenire a suo danno, chiese il permesso a YHWH e, cronologicamente, fu il responsabile di questi eventi: come gli comunicarono i suoi servi, “I Sabei hanno fatto irruzione, li hanno portati via e hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono scampato soltanto io per raccontarlo” (1.15); poi “Un fuoco divino – perché allora si riteneva che solo Dio potesse agire così – è caduto dal cielo: si è appiccato alle pecore e ai guardiani e li ha divorati. Sono scampato solo io per raccontartelo” (v.16). Infine al verso 18 “I tuoi figli e le tue figlie stavano mangiando e bevendo vino in casa del loro fratello maggiore, quand’ecco un vento impetuoso si è scatenato da oltre il deserto: ha investito i quattro lati della casa, che è rovinata sui giovani e sono morti”.

Le forze ostili che possono riversarsi sui credenti, dalle persecuzioni, alla malattia fino agli elementi naturali, trovano così la loro origine in questo personaggio che può scatenarsi su di loro per combatterli come poi per la cristianità è avvenuto tramite un potere religioso (gli ebrei che aizzarono le persecuzioni della Chiesa nella Roma antica e nell’Asia Minore) o politico (la Roma imperiale). La stessa cosa accade anche oggi in molte parti del mondo, per quanto non (ancora) in Europa.

Se il caso dei discepoli non ha nulla a che vedere con quello di Giobbe, citato per descrivere le possibilità che ha l’Avversario, gli scritti dell’Antico Patto hanno precisi riferimenti agli interventi di Dio sugli elementi naturali: ricordiamo il primo, il diluvio, quando “si ruppero tutte le sorgenti del grande abisso e le cateratte del cielo si aprirono. Cadde la pioggia sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti” (Genesi 7.11,12). Abbiamo poi la distruzione delle città di Sodoma e Gomorra in cui “Il Signore – non Satana – fece piovere fece piovere dal cielo fuoco e zolfo proveniente dal Signore” (19.23). Ricordiamo che Dio intervenne nella fisiologia di Sara, Rachele, Anna ed Elisabetta rendendole fertili, la discesa della manna dal cielo per sfamare il popolo di Israele in cammino verso la terra promessa (Esodo 16), prima ancora il giudizio sull’Egitto tramite le dieci piaghe, la divisione delle acque del Mar Rosso per far passare il popolo cui si contrappose l’annientamento dell’esercito del faraone che lo seguiva, l’esaudimento della preghiera di Giosuè quando non tramontò il sole in modo che i Gabaoniti fossero sconfitti.

Per intervento di Elia, profeta che pregò il Signore perché così avvenisse, non piovve sul regno d’Israele per tre anni e sei mesi a causa del comportamento del re Acab, marito di Gesabel, che “…fece ciò che è male agli occhi dell’eterno più di tutti quelli che l’avevano preceduto” (1 Re 16.29-33).

Abbiamo così tre soggetti che possono intervenire sugli elementi naturali: partendo dal basso verso l’altro abbiamo visto Satana, ma deve essergli permesso e soprattutto non si ferma nel suo intento distruttivo per cui non può cacciare se stesso, in altre parole smettere. Per farsi ubbidire dal vento e dal mare, quindi, Gesù non poteva certo utilizzare il “principe dei demoni” come sostenevano i suoi avversari.

Il secondo soggetto è un profeta o un re benedetto dal Signore: ricordiamo i molti miracoli operati da Elia ed Eliseo o, per andare a tempi più remoti, dallo stesso Mosè; ma se Gesù aveva definito Giovanni Battista come il profeta più grande e non miracoli non ne compì, che pensare? Nostro Signore, se fosse stato un profeta, avrebbe potuto intervenire sulla barca in mezzo al lago, come fece. Ma la domanda dei discepoli rimase: chi è costui? Quindi non fecero la connessione tra l’essere profeta e sedare la tempesta.

Restava allora il potere che Dio ha, come abbiamo visto brevemente, di intervenire. E qui non solo avrebbe dovuto entrare in gioco la memoria relativa agli eventi narrati nei rotoli della Bibbia, ma soprattutto quella di ciò che fu udito al battesimo di Gesù: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento” (Matteo 3.17). Chi quindi poteva essere, se non il Figlio di Dio, quindi Dio stesso?

Credo si tratti di un’associazione elementare che chiunque oggi può fare se in possesso degli elementi basilari che abbiamo visto, ma loro erano lì, terrorizzati, con le onde che si versavano sulla barca facendola affondare, un evento che forse non avevano mai sperimentato in quel modo e quando, venuta la calma all’improvviso, tutto il loro timore svanì, fu come se si fossero svegliati da un incubo che però tale non era perché erano coscienti di cosa avevano vissuto, per cui non furono in grado di ragionare correttamente. La loro natura li aveva dominati e la paura si impadronì di loro quando capirono che tutta l’esperienza e perizia che avevano acquisito negli anni a pilotare barche facendo fronte a venti e correnti, non sarebbe servita a nulla. In quel momento scoprirono che l’uomo, quando esaurisce le sue competenze a fronte delle difficoltà, senza l’aiuto di Dio non può che cedere con angoscia senza alcuna possibilità di riuscita.

I discepoli avevano con loro sulla barca una persona importante che tante volte li aveva rassicurati: orgogliosi di seguirlo, non avevano dato peso alla fatica del cammino lungo le strade di Israele, del disprezzo delle autorità religiose e dei loro conoscenti osservanti la Legge; avevano visto miracoli, sentito tanti insegnamenti e aggiornamenti sulle Scritture, ma lì il pericolo di morire era quanto mai reale e, compreso che tutta la loro esperienza non li avrebbe portati da nessuna parte, lo svegliarono senza pensare che, se l’Emanuele, il “Dio con noi” dormiva, in realtà di pericolo non ce n’era. Già avere con loro Gesù avrebbe dovuto essere sufficiente.

A questo punto il rimprovero che fu mosso ai discepoli presenti lo vedo appartenente al loro passato – ma allora non potevano saperlo – poiché dalle notizie storiche o dal libro degli Atti in cui compaiono Pietro, Giacomo e altri, sappiamo che la paura incontrollata non rientrò più nelle loro esperienze, anzi. Dall’altra, nella paura, vedo la vera disperazione che si impossesserà degli uomini della “gran tribolazione” quando vedranno sgretolarsi tutte le loro sicurezze all’apertura del sesto sigillo: “Allora i re della terra e i grandi, i capitani, i ricchi e i potenti, e infine ogni uomo, schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei monti; e dicevano ai monti e alle rupi: «Cadeteci addosso, nascondeteci dalla presenza di colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello; perché è venuto il giorno della sua ira. Chi può resistere?» (Apocalisse 6.15-17).

Proviamo ad esaminare brevemente questi versi: appartengono ad un tempo in cui vi sarà una distruzione materiale che rientra nei giudizi di Dio che si manifestarono in passato – ma qui sono futuri, vicini al tempo dichiarato della fine – ai quali i credenti, come Noè ai tempi e poi Lot e la sua famiglia, scamparono sempre. Vediamo i profili menzionati degli uomini che cercheranno di nascondersi: saranno “tutti” indipendentemente dal loro ruolo nella società, ma emergono capi di stato, visti nei “re della terra”, i dispensatori di morte e ogni sorta di crimine legalizzato (“i capitani”), i cinici detentori degli imperi finanziari dai quali ogni senso di pietà è assente e tutti coloro che hanno basato la loro prosperità ingannando e facendo soffrire gli altri (“i ricchi e i potenti”). Certo, anche persone comuni, “ogni uomo, schiavo o libero”.

L’apertura del sesto sigillo è descritta così: “…e si fece un gran terremoto; il sole diventò nero come un sacco di crine, e la luna diventò tutta come sangue; le stelle del cielo caddero sulla terra come quando un fico scosso da un forte vento lascia cadere i suoi fichi immaturi. Il cielo si ritirò come una pergamena che si arrotola e ogni montagna e ogni isola furono rimosse dal loro luogo” (v. 12-14). Non ci sarà la presenza di Gesù, addormentato da svegliare; l’unica preghiera possibile sarà quella pagana, rivolta a soggetti che non possono sentire né rispondere: “Cadeteci addosso”. Perché, come leggiamo in Gioele 2.11 “Il giorno del Signore è grande e assai terribile; chi potrà sostenerlo?”.

Ho usato un termine, “preghiera pagana”, qui usata nel suo senso peggiore perché non ci troviamo di fronte ai pagani “storici” che, privi di rivelazione, si inventano un dio, ma a uomini e donne che hanno deliberatamente rifiutato quello vivente e vero. Troviamo infatti altrove: “Il resto dell’umanità che non fu uccisa da questi flagelli, non si convertì dalle opere delle sue mani; non cessò di prestare culto ai demoni e agli idoli d’oro, d’argento, di bronzo, di pietra e di legno, che non possono né vedere, né udire, né camminare; e non si convertì dagli omicidi, né dalle stregonerie, né dalla prostituzione, né dalle ruberie” (9.20).

I discepoli, nella loro pochezza di allora, conobbero la paura in un ambiente che, senza la presenza di Gesù, li avrebbe sopraffatti e gli si rivolgono per avere aiuto usando parole che forse non avrebbero mai impiegato in altre circostanze. Allora il Maestro era presente: riportò la calma non senza averli rimproverati per la loro mancanza di fede, il non aver compreso che non può esservi timore se l’Emmanuele ci è vicino. La stessa cosa non avverrà per gli uomini accecati dal proprio orgoglio al tempo della fine.

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