10.06 – GESÙ SUL MONTE (Marco 6.44,45)

10.6 – Gesù sul monte (Marco 6.44-45)

44Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini. 45E subito dopo egli costrinse i suoi discepoli a montare sulla barca, verso Bethsaida, mentre egli licenziava la moltitudine. Poi, quando l’ebbe accomiatata, se ne andò sul monte, per pregare”.

Tutti ricordano il miracolo dei pani e dei pesci così come quello di Gesù che cammina sulle acque – episodi avvenuti a non più di dodici ore di distanza – ma il Suo salire al monte per pregare, “da solo”secondo Giovanni, resta sicuramente meno impresso. Non essendovi nei Vangeli dei versi più importanti di altri, ma avendo ciascuno di loro qualcosa da insegnare, pare giusto esaminare questo ritirarsi di Nostro Signore collegandoci a quanto già detto nel capitolo “Gesù in preghiera” visto a suo tempo. Dobbiamo infatti tenere presente quanto ci dicono i versi appena letti: Nostro Signore costringe Suoi, che evidentemente desideravano restare con Lui, di salire sulla loro barca “verso Bethsaida”, quindi la prima, quella che si trovava ad Oriente a differenza dell’altra ad Occidente, dopodiché licenzia la folla che se ne tornò a casa stante l’ora tarda. Mi sono chiesto allora che motivo avesse Gesù di salire sul monte, quando avrebbe potuto benissimo restare sulla riva del lago, ugualmente solo. La sua ascesa, quindi, deve avere avuto una ragione credo collegata alla sua umanità e a quella di tutti noi. Guardando alla vita terrena del Cristo credo sia di una rilevanza assoluta considerare che proprio il Suo essere uomo rappresenti il denominatore comune tra  noi e lui nel senso che ogni persona trova in Gesù un punto d’incontro, ha in sé gli elementi per decidere se elevarsi oppure rimanere com’è, restando sulla riva a guardare un orizzonte fermo. E questo accomuna tanto i credenti che i non credenti, entrambi fatti di carne: i primi guardano a Gesù, unico mediatore fra Dio e gli uomini, per crescere e restare saldi, i secondi devono fare altrettanto se vogliono essere salvati.

Nostro Signore, quindi, dopo aver guarito molti malati e infermi, insegnato “molte cose”, non rimane lì a riposare, ma sale sul monte, azione che lo accomuna ad altri prima di lui – nel senso umano del termine – il primo dei quali fu Abrahamo che salì sul Moria indicatogli da Dio sapendo che avrebbe dovuto offrire in sacrificio Isacco. Sappiamo che in questo fu fermato dall’Angelo – che presumo essere stato il Figlio di Dio stesso – che gli disse “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente. Ora so che tu temi Iddio e non mihai rifiutato il tuo figlio, il tuo unigenito”(Genesi 22.12). Sappiamo che al posto di Isacco fu offerto un ariete impigliatosi con le corna in un cespuglio per cui quel giovane fu risparmiato, cosa che non avvenne per Gesù, “offerto in sacrificio per i nostri peccati”, non i suoi che non aveva commesso. Sull’episodio di Abrahamo e Isacco, ricordiamo che, dopo il sacrificio dell’ariete, “Abrahamo chiamò quel luogo «Il Signore vede»; perciò oggi si dice: «Sul monte del Signore sarà provveduto»”(Genesi 22.14). Su quel monte, appunto il Mòria, venne edificata Gerusalemme e più tardi il Tempio di Salomone: “Salomone cominciò a costruire il tempio del Signore a Gerusalemme sul monte Mòria, dove il Signore era apparso a Davide, suo padre, nel luogo preparato da Davide sull’aia di Ornan il Gebuseo”. Il Mòria, allora, ci parla del progetto di Dio che ebbe una tappa importante proprio col sacrificio di Isacco che, nonostante non sia materialmente avvenuto per intervento di YHWH, rappresentò per Lui la conferma che Abrahamo si era affidato totalmente al suo Signore: “Ora– cioè solo adesso, o da adesso in poi – so che tu temi Iddio”là dove il timore non era paura, ma quella consapevolezza dell’affidarsi interamente a Lui a prescindere da ciò che questo comportasse.

Il verbo “salire” ci parla della disposizione presente nell’uomo che vuole accostarsi a Dio ed allontanarsi così da tutto ciò che è basso, umano, contaminato, per modificare la propria posizione, ed ecco perché Gesù non rimase sulla spiaggia. Salire comporta una fatica, figura della ricerca spirituale per realizzare ciò che all’uomo manca a causa del peccato che lo àncora alla terra in una prospettiva e realtà sempre orizzontali. Un fratello ha sottolineato che “salire sul monte”, per un credente, rappresenta il disintossicarsi, l’ossigenarsi, purificarsi dalle impurità che si annidano dentro di noi e che ci allontanano dalla Parola di Dio sottoponendoci alle stesse “passioni e travagli” di tutti gli uomini. Per come siamo fatti, basta poco per tirarci giù da ciò che abbiamo ricevuto e che a nostro modo ci siamo conquistati, come insegna la storia di Salomone, la persona più saggia mai esistita di cui, conoscendone la storia, Ben Sira scrisse “Come fosti saggio nella tua giovinezza e fosti colmo d’intelligenza come un fiume! La tua fama ricoprì la terra, che tu riempisti di sentenze difficili. Il tuo nome giunse lontano, fino alle isole, e fosti amato nella tua pace. Per i canti, i proverbi, le sentenze e per i responsi ti ammirarono i popoli. Nel nome del Signore Dio, che è chiamato Dio d’Israele, hai accumulato l’oro come stagno, hai ammassato l’argento come piombo. Ma hai steso i tuoi fianchi accanto alle donne e ne fosti dominato nel tuo corpo. Hai macchiato la tua gloria e hai profanato la tua discendenza, così da attirare l’ira divina sui tuoi figli ed essere colpito per la tua stoltezza”(Siracide 47.14-20).

Un secondo monte, cronologicamente, fu l’Horeb, o Sinai, sul quale Dio si rivelò a Mosè prima attraverso il roveto ardente, poi molti anni dopo con le tavole della Legge. Se si accetta per buona la identificazione attuale, coi suoi 2.285 metri di altitudine, è la seconda montagna più alta dell’Egitto. Se il monte Moria fu quello della fede, l’Horeb lo fu per le opere e di una nuova – per allora – alleanza perché fu lì che il Creatore affidò a Israele il compito di far conoscere a tutti i popoli della terra le Sue volontà in opposizione al danno causato dalla torre di Babele come sintomo e, al tempo stesso, dichiarazione universale di autonomia umana. Sappiamo che il popolo di Israele fallì nell’adempimento dell’incarico a tal punto che Gesù disse “Vi sarà tolto il regno di Dio e sarò dato a gente che lo farà fruttificare”(Matteo 21.43). Certo, sono parole terribili se pensiamo che Israele fu per circa quattromila anni il popolo eletto, ma la stessa responsabilità la porta la Chiesa, o le Chiese, che deve stare molto attenta a non scandalizzare come avvenuto in passato e purtroppo ancora oggi, là dove i frutti li portano i singoli e non la collettività degli appartenenti ad essa. E qui bisognerebbe aprire capitoli a parte perché quel “fruttificare” si riferisce ai doni dello Spirito Santo che abita in ogni vero credente.

Riguardo al Sinai pensiamo a Mosè, che vi salì perché chiamato, al fatto che fu un luogo santo a tal punto che solo lui poté accedervi e fu necessario delimitarlo perché il popolo, accedendovi, non morisse: “Scongiura il popolo di non irrompere verso il Signore per vedere, altrimenti ne cadrà una moltitudine!”(Esodo 19.21).

Altri monti determinanti furono il Garizim e l’Ebal, quando il popolo, diviso in sei tribù per ciascuno, diede il proprio amen, quindi pose la propria firma a fronte delle maledizioni riportate in Esodo 27.11-26.

Infine tutti conoscono il monte degli Ulivi, frequentato da Gesù in modo direi assiduo: fu lì che espose il suo sermone profetico sulla fine di questo mondo, dal quale ascese al cielo e che lo vedrà ritornare quando si realizzerà la profezia di Zaccaria 14.4 e segg.: “In quel giorno i suoi piedi si poseranno sopra il monte degli Ulivi che sta di fronte a Gerusalemme verso Oriente, e il monte degli ulivi si fenderà in due, da Oriente a Occidente, formando una valle molto profonda; una metà del monte si ritirerà verso Settentrione e l’altra verso Mezzogiorno.(…) Verrà allora il signore, mio Dio, e con lui tutti i suoi santi”.

Ora il salire di Gesù sul monte una volta detto agli apostoli di andare “verso Bethsaida”, ci parla anche di tutte queste cose che abbiamo visto brevemente. Ancora, ci fa pensare a tutti quegli uomini, come Abrahamo, Mosè ed altri, che fecero lo stesso, consapevoli che avrebbero incontrato il Signore nonostante la loro condizione di peccato che li limitava, ma che furono usati come Suoi strumenti. Entrambi erano stati scelti e portavano con loro le conseguenze della disubbidienza di Adamo ed Eva esattamente come noi.

Quando si sale sul monte, si fa fatica perché portiamo con noi un corpo appesantito dalle conseguenze di questa disubbidienza, del nostro stato, della nostra condizione, della nostra carne che all’elevazione si ribella. E quando incontriamo o preghiamo il Signore “sul monte” portiamo con noi tutte le privazioni che abbiamo avuto e che restano: umanamente, ognuno di noi sa di essere stato privato di tante cose. Non abbiamo potuto fare quello che era nei nostri programmi. Svolgiamo un lavoro che forse non è quello che avremmo desiderato e pochi sono quelli che hanno avuto dei genitori che hanno saputo individuare le attitudini dei figli per incoraggiarli e indirizzarli a una professione gratificante, per la quale sarebbero stati portati. Incontriamo ogni giorno problemi ed esseri, umani come noi, che ce ne procurano. Ecco, nel salire al monte portiamo come bagaglio tutte queste cose mentre Gesù, nel suo essere uomo come noi, si presentò al Padre nella condizione di “servo del Signore”per cui il monte fu un luogo d’incontro e denso di significati; pensiamo solo al fatto che, nell’episodio di Mosè che abbiamo citato, è scritto che lui dovette salire e Dio scendere: “Il Signore scese dunque sul monte Sinai, sulla vetta del monte, e il Signore chiamò Mosè sulla vetta del monte. Mosè salì”(Esodo 19.20).

Il monte, come abbiamo concluso, è un punto d’incontro perché se non si sale si rimane fermi, con tutto ciò che questo comporta e cioè: l’orizzonte, il punto di vista, ciò che ci circonda e che respiriamo, non cambiano mai. La fatica dell’ascesa di Gesù descritta in questo episodio si concreta, per il cristiano, con la chiusura della porta della propria “camera”, in cui lascia fuori tutti gli elementi che potrebbero distrarlo, per procedere ad un colloquio in cui si ricevono insegnamenti e rimproveri, ma soprattutto si chiede che ci venga dato ciò che abbiamo più bisogno, vale a dire il discernimento, la prudenza, la capacità di selezionare l’opportunità degli interventi nei confronti del nostro prossimo affinché, disprezzando noi qualora questi siano sbagliati, non faccia altrettanto nei confronti di chi ha dato la propria vita per la nostra salvezza. Amen.

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