10.19 – TESTIMONIANZE (Giovanni 5.33-40)

10.19 – Testimonianze (Giovanni 5.33-40)

 

33Voi avete inviato dei messaggeri a Giovanni ed egli ha dato testimonianza alla verità. 34Io non ricevo testimonianza da un uomo; ma vi dico queste cose perché siate salvati. 35Egli era la lampada che arde e risplende, e voi solo per un momento avete voluto rallegrarvi alla sua luce. 36Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato. 37E anche il Padre, che mi ha mandato, ha dato testimonianza di me. Ma voi non avete mai ascoltato la sua voce né avete mai visto il suo volto, 38e la sua parola non rimane in voi; infatti non credete a colui che egli ha mandato. 39Voi scrutate le Scritture, pensando di avere in esse la vita eterna: sono proprio esse che danno testimonianza di me. 40Ma voi non volete venire a me per avere vita.

 

In questa terza parte del suo discorso, Gesù ricorda ai Giudei un fatto molto importante avvenuto circa due anni prima, quando Giovanni Battista predicava: “Voi – cioè Scribi, Farisei e Dottori della Legge – avete inviato dei messaggeri a Giovanni ed egli ha dato testimonianza della verità”: non andarono direttamente ad ascoltarlo, ma inviarono dei loro sottoposti, delle spie che lo interrogassero, e infatti leggiamo: “Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo: «Tu chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?», «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaia»” (Giovanni 1. 19-23). A queste domande sappiamo che ne seguirono altre sul perché battezzasse e capire meglio la sua identità.

Il Battista, ultimo dei profeti dell’Antico Patto, l’unico ad avere avuto il privilegio di annunciare l’arrivo del Figlio di Dio operante in quel momento, a differenza degli altri che lo “videro da lontano”, è definito “la lampada che arde e risplende” proprio per la funzione da lui avuta. Vero è che alla figura di Giovanni Battista abbiamo dedicato diversi capitoli, ma qui possiamo soffermarci sul fatto che Gesù non parla di “una” lampada, ma di “la lampada” dando così un significato alle parole “Tra i nati di donna non sorse alcuno maggiore di Giovanni Battista”. Quello della “lampada” è un paragone che fa lo stesso apostolo Pietro che scrive nella sua prima lettera in 2.19 “E abbiamo anche, solidissima, la parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non sorga nei vostri cuori la stella del mattino”. La notte, allora, qui è sinonimo di veglia e non di sonno.

Le parole degli antichi uomini di Dio, quindi, hanno dato una luce in un “luogo oscuro”, dando speranza e consolazione a coloro che aspettavano chi li riscattasse, ma Giovanni ebbe la funzione di prepararli alla venuta del Figlio presente in mezzo a loro. Le parole “voi solo per un momento avete voluto rallegrarvi alla sua luce” mettono poi in risalto il comportamento di quella parte del popolo che più di ogni altra avrebbe potuto e dovuto riconoscere in Gesù il Cristo ma, quando si trattò di mettere in discussione la loro esistenza e mettere in pratica il ravvedimento, rinunciarono. Le parole “per un breve tempo”, letteralmente “per un’ora”, mettono bene in risalto il fatto che, inizialmente, a Giovanni accorreva gente da ogni parte e lo ascoltava con entusiasmo perché proclamava l’arrivo del Messia e si aspettavano un re temporale; quando però il Battista iniziò ad accusarli nella coscienza e ad esortarli a cambiare tutto il loro modo di agire e pensare, allora si ritirarono da lui. Pensiamo alle conseguenze del miracolo della “moltiplicazione dei pani e dei pesci”: coloro che furono sfamati da Gesù, e dagli Apostoli che portarono loro materialmente il cibo pensarono che, se era stato in grado di sfamare più di cinquemila persone partendo da cinque pani e due pesci, chissà cosa avrebbe potuto fare se fosse stata la loro guida e quali vittorie e benessere avrebbe portato per tutti. Guardando però alla sussistenza materiale e trascurando completamente il significato vero di quel miracolo, Nostro Signore si ritrasse da loro.

Tra le due frasi su Giovanni Gesù inserisce la frase “Io non ricevo testimonianza da un uomo, ma vi dico queste cose perché siate salvati” a sottolineare che, se il Battista ebbe una funzione così importante, Lui ne aveva ed ha una maggiore, come lo stesso omonimo apostolo riporta nella sua prima lettera: “Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è superiore. E questa è la testimonianza di Dio, che egli ha dato riguardo al proprio Figlio. Chi crede nel Figlio di Dio, ha questa testimonianza in sé. Chi non crede a Dio, fa di lui un bugiardo, perché non crede alla testimonianza che Dio ha dato riguardo al proprio Figlio. E la testimonianza è questa: Dio ci ha donato la vita eterna e questa vita è nel suo Figlio. Chi ha il Figlio, ha la vita; chi non ha il Figlio di Dio, non ha la vita” (5.9-12).

Sicuramente, tra le parole appena riportate, vale la pena evidenziare “Chi non crede a Dio”, cioè “a” e non “in”, che stabiliscono il fatto che Uno solo è il Dio che parla davvero, l’autore del Messaggio che risolve il problema della vita dell’essere umano. Credere “a” significa fondare la fiducia e accogliere le verità che vengono proposte, credere “in”, per lo meno qui, equivarrebbe a restare nelle incertezze di prima, limitandosi ad accettare l’idea dell’esistenza di un generico essere superiore. In altri termini qui l’apostolo Giovanni vuole dire a chi legge che ciò che importa è credere nelle parole che Dio ha voluto rivelare all’uomo perché non si perda: la vita è nel Figlio e nessun altro la può dare.

Gesù ricorda ancora una volta il suo essere Uno con il Padre: da una parte abbiamo Lui che, con le sue opere, testimonia di chi lo ha mandato e, dall’altra, il Padre stesso è intervenuto dando testimonianza di Lui (ricordiamo ad esempio quanto avvenne al Suo battesimo). Qui dobbiamo avere sempre presente che, per la Legge, un fatto che fosse testimoniato da più di una persona era accettato da tutti come vero e, nel nostro caso, i testimoni non sono due uomini, ma il Padre e il Figlio che agiscono sempre in modo tale che la creatura sia impossibilitata a negare anche legalmente la loro esistenza e la veridicità del loro operato per la loro salvezza.

Anche la più piccola cosa creata porta la firma di Dio, se la si vuole leggere: “L’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha manifestato a loro. Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute. Essi dunque non hanno alcun motivo di scusa perché, pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio, ma si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata” (Romani 1.18-21). Qui Paolo scrive ai credenti della Chiesa di Roma, composta da Giudei e Pagani convertiti, ma Gesù parlava proprio a coloro che, pur avendo ereditato le promesse di Dio, le rigettavano convinti che il loro sapere fosse superiore al Suo. Tutto questo nonostante le due testimonianze, quella del Padre e quella del Figlio che avevano un solo scopo: “vi dico queste cose perché siate salvati” (v.34).

A questo punto, dalla seconda parte del verso 37, Gesù ricorda ai presenti che non avevano mai né udito la voce di Dio, né avevano visto il suo volto eppure credevano, anche se in modo sbagliato, cioè religiosamente vuoto perché “la sua parola non rimane in voi; infatti non credete a colui che egli ha mandato”. La parola che rimane è quella che attecchisce nel cuore e nella mente, è seme che germina, è ricordo permanente e operativo, è tesoro che si custodisce gelosamente perché è riposto per la vita eterna nell’attesa che questa si realizzi pienamente. E se ci soffermiamo su quel “rimanere”, non possiamo fare a meno di pensare che quei maestri fondavano il loro sapere proprio sulle Scritture che venivano studiate, elaborate e sminuzzate, analizzate e interpretate lettera dopo lettera da secoli. Eppure non avevano aperto la minima breccia in quei cuori.

C’è allora un “rimanere” inutile, che nel nostro caso potremmo collegare a Ecclesiaste 12.12 “Non si finisce mai di scrivere libri e il molto studio affatica il corpo”, e uno utile che si concreta nell’ascolto sincero della parola di Dio. Ricordando le parole di Salomone appena riportate, poi, da come proseguono si comprende perché Gesù abbia detto “Voi non volete venire a me per avere vita”: “Conclusione del discorso, dopo aver ascoltato tutto: temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché qui sta tutto l’uomo. Infatti, Dio citerà in giudizio ogni azione, anche tutto ciò che è occulto, bene o male” (vv.13,14). Il “non volere” andare a Lui è il problema che sta alla radice: un metodo di pensiero blando potrebbe ipotizzare che, in fondo, Gesù era troppo diretto nei confronti di quei Giudei che, per la loro formazione, non avrebbero potuto pensare diversamente, ma si tratta di un ragionamento profondamente errato perché un’anima che prova una sete vera cerca acqua e non dei surrogati. In pratica, Gesù dice a quei Giudei che era il loro spirito e chi li abitava a rifiutarlo, non la cultura e il loro infantile volersi arroccare su posizioni che più volte aveva smentito senza che avessero argomenti per ribattere.

Chiunque rifiuta il Vangelo, quindi, secondo le parole di verità pronunciate da Gesù, non è che non può perché ha avuto una vita che lo ha condizionato a tal punto da renderlo impenetrabile al messaggio di Dio e quindi sarà scusato, ma è sempre e solo perché non vuole: “Non volete venire a me” e certo sui meccanismi psicologici che determinano questo rifiuto ci sarebbe molto da dire, ma non aggiungerebbe nulla alla sintesi, al giudizio espresso da quel Gesù che è il solo a leggere l’uomo e capirlo profondamente. La diagnosi è sempre la stessa, “non volete”.

Molti amano “ragionare” mettendo a confronto la scelta di non credere con l’esistenza del libro della vita su cui già sono scritti i nomi dei salvati, dissertando sulla predestinazione, ma la questione è sbagliata perché l’uomo non è mai destinato a qualcosa, ma è sempre libero in quanto percorre il presente, non il futuro. Se mai, sono le scelte di ora che determinano ciò che avverrà dopo. Sempre, così allora come oggi. Amen.

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10.02 – MORTE DI GIOVANNI BATTISTA II (Marco 6.14-29)

10.02 – Morte di Giovanni Battista II (Marco 6.14-29)

 

14Il re Erode sentì parlare di Gesù, perché il suo nome era diventato famoso. Si diceva: «Giovanni il Battista è risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi». 15Altri invece dicevano: «È Elia». Altri ancora dicevano: «È un profeta, come uno dei profeti». 16Ma Erode, al sentirne parlare, diceva: «Quel Giovanni che io ho fatto decapitare, è risorto!». 17Proprio Erode, infatti, aveva mandato ad arrestare Giovanni e lo aveva messo in prigione a causa di Erodìade, moglie di suo fratello Filippo, perché l’aveva sposata. 18Giovanni infatti diceva a Erode: «Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello». 19Per questo Erodìade lo odiava e voleva farlo uccidere, ma non poteva, 20perché Erode temeva Giovanni, sapendolo uomo giusto e santo, e vigilava su di lui; nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri. 21Venne però il giorno propizio, quando Erode, per il suo compleanno, fece un banchetto per i più alti funzionari della sua corte, gli ufficiali dell’esercito e i notabili della Galilea. 22Entrata la figlia della stessa Erodìade, danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora il re disse alla fanciulla: «Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò». 23E le giurò più volte: «Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno». 24Ella uscì e disse alla madre: «Che cosa devo chiedere?». Quella rispose: «La testa di Giovanni il Battista». 25E subito, entrata di corsa dal re, fece la richiesta, dicendo: «Voglio che tu mi dia adesso, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista». 26Il re, fattosi molto triste, a motivo del giuramento e dei commensali non volle opporle un rifiuto. 27E subito il re mandò una guardia e ordinò che gli fosse portata la testa di Giovanni. La guardia andò, lo decapitò in prigione 28e ne portò la testa su un vassoio, la diede alla fanciulla e la fanciulla la diede a sua madre. 29I discepoli di Giovanni, saputo il fatto, vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro”.

 

Esaminati nella loro essenzialità i comportamenti di Giovanni Battista e di Erode, possiamo passare ai due personaggi femminili il primo dei quali è

 

Erodiade

A parte i dati che possono essere reperiti nelle Antichità Giudaiche di Giuseppe Flavio, leggiamo al verso 17 che Giovanni Battista era stato “messo in prigione a causa di Erodiade, moglie di suo fratello Filippo, perché l’aveva sposata”: Antipa e lei si erano conosciuti a Roma in un viaggio che Antipa aveva fatto venendo ospitato dal fratello Filippo. Quel “l’aveva sposata”non avvenne dopo il ripudio della prima moglie perché questa, saputo della relazione, si rifugiò presso il padre Areta che mosse guerra al genero, anche per questioni territoriali, sconfiggendolo. Sempre da Giuseppe Flavio possiamo reperire diversi dati sull’ambizione sfrenata di Erodiade, ma leggendo il testo di Marco ricaviamo un dato importante sul perché dell’odio nutrito nei confronti di Giovanni che diceva al marito “Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello”(v.18). Soprattutto, però, era molto preoccupata per l’influenza che il Battista avrebbe potuto avere su Antipa. Ricordiamo le parole “Erode temeva Giovanni, sapendolo uomo giusto e santo, e vigilava su di lui; nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri”: ecco, quel “molto perplesso”e “lo ascoltava volentieri”furono per Erodiade dei campanelli d’allarme molto più forti del fastidio che provava nel sentire che, per la Legge, non poteva essere moglie di Erode. Infatti non poteva escludere che, restando “perplesso”alle parole del Battista, non potesse arrivare alla conclusione che effettivamente quel matrimonio non potesse sussistere. Dove infatti sarebbe potuta andare Erodiade, ripudiata dal marito?

Ora la situazione vissuta da quella donna non era certamente facile poiché sapeva benissimo che non avrebbe certo potuto far uccidere Giovanni subissando Antipa di continue richieste in proposito; lo farà anni dopo perché favorisse suo fratello Agrippa, oppure perché si recasse da Caligola per ufficializzare il suo regno (ma fu invece da lui esiliato), tuttavia non sarebbe mai riuscita a spingerlo ad uccidere un uomo da lui temuto e considerato. Un timore che, evidentemente, derivava in parte dalla propria coscienza. Il nostro testo, riguardo ai sentimenti nutriti da Erodiade per Giovanni, recita “lo odiava e voleva farlo uccidere, ma non poteva”anche se la traduzione corretta sarebbe “bramava d’ucciderlo”, quindi un desiderio profondo, costante, che si alimentava vie più che il tempo passava: Erodiade era entrata in un circolo mentalmente vizioso e pericoloso perché quando un desiderio, anziché sfogarsi, si scontra contro il muro dell’impossibilità, torna alla sorgente più forte per ripartire di nuovo contro quel muro, tornare al punto di partenza e così via. Ben Sira infatti scrive “Un cuore ostinato alla fine cadrà nel male. Un cuore ostinato sarà oppresso d’affanni. Il peccatore aggiungerà peccato a peccato”.

C’è poi un altro particolare che può sfuggire in questa vicenda dove si fa più caso allo svolgersi immediato degli eventi che non ai particolari, e cioè che Erode “vigilava su di lui”: perché, visto che nel carcere di Macheronte aveva chi lo sorvegliava? Non resta che concludere che Antipa fosse pienamente consapevole delle intenzioni della moglie e che quindi stava attento affinché non potesse fargli del male in qualche modo. Se poi ciò facesse perché nutriva affetto nei confronti di Giovanni o perché non voleva che in relazione a quella morte scoppiassero dei tumulti da parte del popolo, non sappiamo anche se, essendo la capacità di calcolo la prima “qualità” di un politico o di un regnante, viene da propendere per la seconda ipotesi.

Venne però, come sappiamo, “il giorno propizio”, quello in cui più che in qualunque altro la tanto desiderata morte di Giovanni avrebbe potuto verificarsi: certo Erodiade seppe con un largo anticipo dei festeggiamenti per il compleanno del marito ed ebbe tutto il tempo per organizzarsi nei dettagli, con buona percentuale di riuscita, ma avrebbe avuto bisogno della collaborazione della sua giovane figlia di cui i Vangeli tacciono il nome, ma che sempre Giuseppe Flavio ci dice si chiamasse Salome. Si presume che all’epoca fosse molto giovane, attorno ai dodici anni, e che la danza che fece in quel convito, come si usava anche al tempo, avesse un alto contenuto erotico, come del resto tutte quelle in uso nelle corti non solo orientali del tempo. Non a caso, infatti, le donne di corte appartenenti alla nobiltà non danzavano mai, per lo meno in pubblico, ritenendo la cosa di competenza più delle prostitute che non di persone che conducevano una vita rispettabile.

Erodiade quindi, come purtroppo molte madri ancora oggi, non esitò a sacrificare l’onorabilità della propria figlia per i suoi scopi, evidentemente, molto tempo prima che si trovasse a danzare in quella corte visto che, per eccellere in qualsiasi campo, ci vuole tempo ed assiduità. Il testo di Marco, come quello di Matteo, lascia dei dubbi sulla reale consapevolezza di Salome, salvo che sulla sua vanità, ma non certo su quella della madre che attese gli effetti del vino, mescolato alla concupiscenza, sul marito: Erode finì per fare una promessa che era appunto frutto dei fumi dell’alcool. La dichiarazione che fece davanti a tutti, lo inebriava al pari del resto perché nessun altro avrebbe potuto farla.

E a questo punto c’è un abisso tra l’ingenuità di Salome, che non sapeva cosa chiedere nonostante capisse le parole “fosse anche la metà del mio regno”di cui evidentemente non sapeva che farsene, e la puntualità della risposta della madre, “la testa di Giovanni Battista”: quella di Erodiade fu una strategia che possiamo paragonare a quella di Satana in Eden quando, non potendo arrivare direttamente ad Adamo e neppure ad Eva, utilizzò il serpente che a sua volta sedusse la donna che arrivò al marito. Entrambe furono strategie che mirarono ad un immediato di rovina, ma che poi ricadde, nonostante l’apparenza, sugli autori dell’omicidio più che sulla vittima. Tralasciando il destino finale della persona, quindi dell’anima, anche quello terreno non fu esattamente ciò che i protagonisti si aspettavano: tempo dopo, infatti Giuseppe Flavio scrive: “Acclamato imperatore, Gaio liberò Agrippa e lo nominò re della tetrarchia di Filippo, che era morto. Arrivato nei suoi domini, Agrippa per l’invidia suscitò le ambizioni del tetrarca Erode.  Costui era stimolato al desiderio di diventare re soprattutto da sua moglie Erodiade, che ne biasimava l’inerzia e gli ripeteva che, per non aver voluto recarsi a Roma dall’imperatore, era rimasto privo di più larghi domini: se aveva fatto re Agrippa, un semplice privato, non avrebbe fatto re anche lui, che già era tetrarca?.  Spinto da questi discorsi, Erode si presentò dinanzi a Gaio, il quale però ne punì l’ambizione esiliandolo nella Spagna. Infatti subito dopo di Erode era arrivato ad accusarlo Agrippa, a cui Gaio diede in aggiunta anche la tetrarchia dell’altro. Ed Erode morì nella Spagna, dove l’aveva accompagnato in esilio anche sua moglie”.

S’infransero così i sogni di gloria e di potere esattamente come quelli dell’Avversario quando fu precipitato sulla terra assieme ai suoi angeli, nell’attesa di essere gettato nello “stagno di fuoco e di zolfo”una volta costituito per sempre il regno di Dio.

Ultima interessante considerazione, che però guarda al futuro, la possiamo fare considerando Erodiade come l’antesignana della “donna ebbra del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù”dell’Apocalisse, che non versa da sé quel sangue, né ordina nel senso stretto del termine che vengano uccisi, ma che delega alla Bestia, cioè al Potere, che faccia loro guerra, li vinca e li uccida.

 

Salome

È stata qui ipotizzata come vittima inconsapevole della madre, ma fino a un certo punto, poiché se sono ravvisabili dei tratti d’ingenuità nella prima parte, non sapendo cosa chiedere ad Antipa, nulla oppose alla richiesta di Erodiade, anzi la ripeté: “Dammi qui, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista”(Matteo 14.8), per quanto “istigata da sua madre”(ibid.). Non rileviamo poi nessun senso di orrore nelle parole “La sua testa venne portata su un vassoio, fu data alla fanciulla e lei la portò a sua madre”(v.11), quasi come se fosse – come in effetti fu – un tramite impersonale, una sorta di messaggero, a significare che Erodiade aveva chiesto ed a lei andava portata, con una consapevolezza ed un’accettazione del ruolo come fu per Giuda, in cui l’Avversario entrò nel momento in cui accettò il “boccone intinto”che Gesù gli porse.

Il racconto evangelico si presenta, a parte quelli esaminati,

 

Altri personaggi

Sono quelli che non hanno idee precise su Gesù, ma cui bastano quelle frammentarie in loro possesso: “Si diceva: «Giovanni Battista è risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi». Altri invece dicevano: «È Elia». Altri ancora dicevano: «È un profeta, come uno dei profeti»”. Ancora oggi, per chi si accontenta del poco che sa senza approfondire, attorno al Cristo esistono le opinioni più disparate. Eppure, basterebbe poco per cercarlo, ma non lo si fa, si preferisce restare in una neutralità, senza mai risolvere da nessuna parte. Ancora Ben Sira scrisse “Se soffi su una scintilla, si accende; se vi sputi sopra, si spegne; eppure ambedue le cose escono dalla tua bocca”. Per chiarire chi sia Gesù, basterebbe poco: sarebbe sufficiente alzarsi e andare a parlargli, o meglio ascoltarlo per poter rispondere come Pietro “Tu sei il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”.

 

Susanna

Anche se non citata, è l’unica persona che avrebbe potuto riferire a Matteo, Marco e Luca come si svolsero veramente quei fatti, impedendo così loro di scrivere per sentito dire. In quanto moglie di un procuratore di Erode, difficilmente non avrebbe potuto essere presente. Così, la sua scelta di vivere col gruppo di uomini e donne che seguivano Gesù, ci fa capire quanto ritenesse poco importante non solo la vita di corte, ma la sua stessa esistenza, ben sapendo che la scelta di seguire il Cristo avrebbe potuto comportare anche la propria morte. Nulla ci viene detto delle reazioni dei presenti all’evento che, salvo un ripensamento, dovettero aver ritenuto quell’esecuzione come il soddisfacimento alla loro curiosità per vedere se Antipa avesse tenuto fede alla sua promessa.

 

La guardia

Questa persona, ricevuto l’ordine, “Andò, lo decapitò in prigione e ne portò la testa su un vassoio”(v.27): il termine tradotto come “guardia”, o “sergente”da altri, è “speculatore”, cioè un ufficiale addetto ai generali dell’esercito, ma anche agli imperatori, in qualità di aiutante di campo, per recapitare messaggi o altre faccende riservate. Probabilmente ritenne la decapitazione di Giovanni un compito come un altro come fecero i soldati romani che crocifissero Gesù per i quali era uno dei tanti condannati a morte e di cui è scritto “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. In quel contesto, era impensabile che quella “guardia”si opponesse all’ordine ricevuto esattamente come nulla avrebbe potuto, nonostante il grado più alto, Antipa, prigioniero di una promessa assurda. Se quell’ufficiale si fosse opposto, avrebbe subito la stessa sorte di Giovanni senza poterne impedire la morte.

Concludendo, quindi, abbiamo la riuscita di un piano ordito da una persona sola, in grado di porre gli eventi in modo tale che nessuno potesse tirarsi indietro. Certo, questo vale dal punto di vista delle azioni terrene, di una mentalità che influenza e vincola in quanto si assimila col tempo perché, nonostante la vita sia illusoria, alla fine nulla resta se non ciò che si porta davanti al trono del Giudizio o della Grazia e non si fa attenzione. E torniamo così alle parole di Gesù: “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono coloro che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quando pochi sono quelli che la trovano!”. Amen.

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10.01 – MORTE DI GIOVANNI BATTISTA I (Marco 6.14-29)

10.1 – Morte di Giovanni Battista I (Marco 6.14-29)

 

14Il re Erode sentì parlare di Gesù, perché il suo nome era diventato famoso. Si diceva: «Giovanni il Battista è risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi». 15Altri invece dicevano: «È Elia». Altri ancora dicevano: «È un profeta, come uno dei profeti». 16Ma Erode, al sentirne parlare, diceva: «Quel Giovanni che io ho fatto decapitare, è risorto!». 17Proprio Erode, infatti, aveva mandato ad arrestare Giovanni e lo aveva messo in prigione a causa di Erodìade, moglie di suo fratello Filippo, perché l’aveva sposata. 18Giovanni infatti diceva a Erode: «Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello». 19Per questo Erodìade lo odiava e voleva farlo uccidere, ma non poteva, 20perché Erode temeva Giovanni, sapendolo uomo giusto e santo, e vigilava su di lui; nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri. 21Venne però il giorno propizio, quando Erode, per il suo compleanno, fece un banchetto per i più alti funzionari della sua corte, gli ufficiali dell’esercito e i notabili della Galilea. 22Entrata la figlia della stessa Erodìade, danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora il re disse alla fanciulla: «Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò». 23E le giurò più volte: «Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno». 24Ella uscì e disse alla madre: «Che cosa devo chiedere?». Quella rispose: «La testa di Giovanni il Battista». 25E subito, entrata di corsa dal re, fece la richiesta, dicendo: «Voglio che tu mi dia adesso, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista». 26Il re, fattosi molto triste, a motivo del giuramento e dei commensali non volle opporle un rifiuto. 27E subito il re mandò una guardia e ordinò che gli fosse portata la testa di Giovanni. La guardia andò, lo decapitò in prigione 28e ne portò la testa su un vassoio, la diede alla fanciulla e la fanciulla la diede a sua madre. 29I discepoli di Giovanni, saputo il fatto, vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro”.

 

Episodio di facile comprensione ma per questo non meno complesso, non è collocabile con certezza nel tempo: da un lato pare che i primi versi, da 14 a 16, siano un ponte narrativo: Matteo e Marco pongono Erode Antipa che sente parlare di Gesù mentre i suoi discepoli erano in missione e Lui “partì di là per insegnare e predicare nelle loro città”(Matteo 11.1), ma la morte di Giovanni viene presentata come un fatto già avvenuto. Il verso 16, che riporta le parole “Quel Giovanni che io ho fatto decapitare, è risorto!”, è utilizzato per introdurre ciò che portò alla morte del Battista in un periodo che gli storici collocano tra il febbraio e il marzo dell’anno 29. Scrive Giuseppe Ricciotti “Se egli era stato chiuso in prigione verso il maggio del 28, erano già passati una decina di mesi”: ricordiamo che l’incarcerazione nel Macheronte di Giovanni fu dovuta a vari fattori, ma principalmente alla collaborazione fra i Farisei ed Erode Antipa (che ricordiamo divenne amico di Pilato durante il processo a Gesù): i primi erano seriamente disturbati dalla predicazione di quel profeta, il secondo non poteva accettare i suoi rimproveri di incesto e adulterio secondo la Legge di Mosè. Era quindi necessario incarcerarlo, ma ciò non era possibile fino a quando Giovanni si trovava in un territorio che non fosse sotto la giurisdizione erodiana.

Vale la pena di ricordare che il Battista, prima di venire arrestato, operava ad “Ainon, presso Salim” cioè sotto la città libera di Scitopoli che, in quanto appartenente alla Decapoli, non apparteneva ad Erode. Essendo però Scitopoli praticamente incuneata fra due tronconi del territorio di Antipa si ritiene che, per venire arrestato, Giovanni sia stato attirato da qualcuno in una zona in cui potesse essere legittimamente preso e portato in prigione. Probabilmente i responsabili di quest’azione furono i Farisei, che in Luca 13.32,32 si comportarono con Gesù in modo contrario: quando gli dissero “Partene e vattene via da qui, perché Erode ti vuole uccidere”, lo fecero dietro suggerimento di Antipa stesso che, non volendo sporcarsi le mani con sangue di un altro giusto, sapeva che altri lo avrebbero catturato. Fu in quella circostanza che Nostro Signore definì Erode “volpe”: “Andate e dite a quella volpe: «Ecco, io scaccio demoni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno la mia opera è compiuta. Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua nel cammino, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme. Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figlioli, come la gallina raccoglie i suoi pulcini sotto le sue ali, e non avete voluto! ”.

 

Giovanni Battista

è allora il primo personaggio che esamineremo, rimandando per le sue origini, il ministero e il modo con cui lo esercitò a quanto già scritto alcuni capitoli fa. Conosciamo questo profeta per quello che effettivamente fu, cioè il precursore del Messia, ma se non fosse specificato il suo rimprovero ad Erode, potremmo pensare che si fosse limitato ad annunciare il Cristo, a battezzare e far discepoli. Invece, come profeta, non solo parlava di Dio agli uomini che avrebbero avuto il privilegio di poterlo incontrare in forma umana, ma rimproverava ad Erode un comportamento indegno per uno che avrebbe dovuto rappresentare il popolo su cui regnava, per quanto non fosse ebreo. E la storia dell’Antico Patto è piena di re che ebbero un comportamento moralmente inaccettabile ripresi da Dio per bocca dei profeti. Ricordiamo che Erode Antipa governava sulla Galilea, quindi su ebrei, senza che le autorità religiose avessero nulla da obiettare apertamente sul suo stato coniugale. Ricordiamo le parole della Legge di Mosè in proposito: “Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno essere messi a morte”(Lev. 20.10). Antipa infatti era sposato con la figlia del re dei Nabatei Areta IV e, convivendo con Erodiade moglie del proprio fratello Filippo, si era reso colpevole anche di incesto secondo Levitico 18.16 “Non scoprirai la nudità di tua cognata: è la nudità di tuo fratello”condizione definita anche “impurità”in 20.21: “Se uno prende la moglie del fratello, è un’impurità: ha scoperto la nudità del fratello: non avranno figli”.

Giovanni allora riprendeva Erode ricordandogli “Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello”(v. 18, identico anche in Matteo) e Antipa, che non provava per lui sentimenti di rancore particolare, lo fece mettere in prigione perché nessuno poteva riprendere un re senza portarne le conseguenze. Svilupperemo più avanti la psicologia di questo personaggio, ma quel che per ora è importante è sottolineare che un profeta non è tale solo quando porta un messaggio di conforto, ma anche di riprensione indipendentemente da come questo viene accolto dagli interessati. In altri termini Giovanni non andò a parlare ad Erode con astio perché lo giudicava un immorale, ma come messaggero, inviato di Dio che tramite lui lo invitava a ravvedersi. “Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello”. Non si trattava di un rimprovero personale o perbenista, ma di una sottolineatura, un avvertimento a guardarsi da azioni che avrebbero comportato un giudizio imminente anche sulla propria persona. Giovanni si comportò con Erode come Nathan con Davide che andò personalmente a riprenderlo perché aveva preso la moglie di Uria facendo in modo che morisse in battaglia per poter disporre liberamente di lei (2 Samuele 12). Giovanni, come profeta e quindi strumento nelle mani di Dio, fu l’unico ad avere il coraggio di opporsi ad Erode e non fu una sua vittima, ma subì la perfidia e l’odio provato da Erodiade, strumento nelle mani dell’Avversario.

 

Erode Antipa

era figlio di Erode il Grande e di Maltace, sua quarta moglie. Sappiamo che avrebbe dovuto avere in eredità il regno del padre, che poco prima di morire decise di lascarlo ad Archelao. Per decisione di Roma, il territorio di Erode fu diviso in quattro regioni fra i suoi tre figli Archelao, Filippo ed Antipatro, detto appunto Antipa, che ottenne la Giudea e la Perea. Poiché le notizie storiche su di lui sono reperibili da Giuseppe Flavio, esaminiamolo dal punto di vista della persona come appare dai Vangeli, che vanno letti con ottica spirituale. Il primo dato lo otteniamo dalle parole di Gesù che abbiamo citato, quando lo definisce “volpe”, animale che per noi è sinonimo di furbizia e scaltrezza. Con questo termine però poteva indicarsi anche lo sciacallo, immondo come lei, ma con la caratteristica di cibarsi, a parte di piccoli animali, di carogne per cui era ritenuta grandemente impura stante il fatto che un uomo, per aver toccato un cadavere, tale diventava.

Del sacerdote è detto “non si avvicinerà ad alcun cadavere; non potrà rendersi impuro neppure per suo padre e per sua madre”(Levitico 21.11). Per gli uomini comuni valeva questa regola: “Quando qualcuno, senza avvedersene, tocca una cosa impura come il cadavere di una bestia selvatica o il cadavere di un animale domestico o quello di un rettile, rimarrà egli stesso impuro e in condizione di colpa”(5.2). Nel caso di persone, poi, leggiamo “Chi avrà toccato il cadavere di qualsiasi persona, sarà impuro per sette giorni”. Penso allora che l’accostamento allo sciacallo da parte di Gesù sia da riferirsi all’impurità di Antipa che aveva preso la moglie del proprio fratello mentre questo era ancora in vita.

Altra caratteristica di Erode era la sua superstizione che rileviamo quando s’interrogò su chi fosse Gesù. Sappiamo che molti, anziché andare direttamente da Nostro Signore, si chiedevano chi fosse e ognuno si dava una risposta, ma Antipa disse in un primo momento “Giovanni l’ho fatto decapitare io; chi è dunque costui, del quale sento dire queste cose?”(Luca 9.9). Immediatamente Luca aggiunge “E cercava di vederlo”, cosa che gli riuscirà quando gli sarà inviato da Pilato. Comunque, non riuscendo a farselo portare a corte nonostante gli avesse sguinzagliato dietro i suoi informatori e agenti, concluderà “Costui è Giovanni il Battista. È risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi!”(Matteo 14.2) oppure, più sinteticamente in Marco, “Quel Giovanni che ho fatto decapitare, è risorto”(v. 16). Non meditò sull’inutilità del suo gesto né, di fronte a quella supposta risurrezione, pensò a ravvedersi, ma rimase esattamente l’uomo curioso e viziato che era, con una coscienza superficiale, la stessa che gli aveva fatto sottovalutare quella promessa così avventata fatta “più volte”in pubblico a Salome, “Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno”(v.23).

Antipa non era un malvagio nel senso umano del termine: era certo un calcolatore perché, “benché volesse farlo morire (Giovanni)ebbe paura della folla perché lo considerava un profeta”(Matteo 14.5), ma è quel “lo ascoltava volentieri”che ci parla di una personalità in bilico tra il fare e il non fare quando si tratta di mettere in pratica ciò che Dio si aspetta dall’uomo. Certo, quando Erode parlava con Giovanni, questi non si limitava a ripetergli come un pappagallo che non poteva tenere con sé la moglie del fratello, ma in quanto maggiore di tutti i profeti venuti prima di lui chissà quanti argomenti portò alla sua attenzione con fine di farlo giungere a un ravvedimento. Questo “volentieri”, che può essere tradotto anche “di buon grado, con piacere, spontaneamente”, non andava però oltre al soddisfacimento di quella curiosità personale che tanto si identificava con la spettacolarità, poco importava se del venire informato senza sforzo o dell’essere testimone di uno spettacolo particolare. Antipa ascoltava “volentieri”Giovanni così come “sperava di vedere qualche miracolo”fatto da Gesù, il tutto senza coinvolgere cuore e anima. Mi sono chiesto perché Erode “lo interrogò, facendogli molte domande”(Luca 23.8-12): fu perché voleva soddisfare la sua curiosità più immediata, avere dei dati che lo facessero stupire, ma di cui non solo non avrebbe saputo che farsene, ma che avrebbe anche disprezzato. Dunque, guardando questo episodio, se Giovanni cercava di far riflettere Antipa parlandogli della responsabilità che aveva come regnante sul popolo oltre che sulla sua persona, sulla necessità di lasciare la vita che aveva condotto fino ad allora e ravvedersi, Gesù, parlando ad Erode, avrebbe dato ciò che è santo ai cani e le sue perle ai porci (Matteo 7.6). Sarà proprio il mutismo di Nostro Signore a scatenare in Antipa la reazione tipica dell’adulto bambino, quello malizioso e vendicativo: “Allora anche Erode, coi suoi soldati, lo insultò, si fece beffe di lui, gli mise addosso una splendida veste– in chiaro segno di scherno – e lo rimandò a Pilato”.

Tornando all’episodio in esame, Antipa si rivela come un uomo prigioniero del proprio Io, non una persona “cattiva” come molti altri personaggi che si possono incontrare negli scritti dell’Antico e nel Nuovo Patto, ma un re coi suoi capricci da uomo ricco, spiritualmente appartenente al primo terreno, quello della strada battuta sulla quale si precipitano gli uccelli che facilmente possono prendere il seme che vi cade sopra.

Abbiamo detto vittima del proprio Io, ma anche di Erodiade, la vera organizzatrice dell’esecuzione del Battista all’interno della quale Antipa si trovò intrappolato perché, fatta quella promessa irresponsabilmente e in preda al vino e alla concupiscenza, l’avrebbe dovuta mantenere in quanto parola di re. Erode aveva fatto mettere in catene Giovanni e lì avrebbe dovuto restare, considerandolo quasi un suo giocattolo personale per i motivi di cui abbiamo parlato, ma il fatto stesso che dava al prigioniero la possibilità di ricevere le visite dei suoi discepoli ci parla di come non vi fosse un particolare accanimento nel regime carcerario cui lo aveva sottoposto.

Per fare qualcosa di diverso, interrompere l’ovattata monotonia della vita di corte nonostante i problemi del regno, ecco arrivare il suo compleanno – che gli ebrei non osservavano ritenendola idolatra – e l’opportunità di un banchetto particolare, quello in cui nulla deve mancare a livello di piaceri non solo di gola. Erano presenti funzionari civili, militari e i personaggi più ricchi ed influenti della sua provincia ed ecco perché Antipa avrebbe dovuto stare molto attento a ciò che avrebbe detto qualora avesse promesso qualcosa.

Di fronte a Salome, figlia di Erodiade della quale è tramandato il nome grazie a Giuseppe Flavio, inebetito dal vino oltre che dalla concupiscenza per la nipote, ecco la promessa assurda: le avrebbe dato qualunque cosa, anche la metà del regno (che gli fruttava 200 talenti annui). Trattandosi di una promessa regale fatta in pubblico, avrebbe dovuto mantenerla. Faremo altre considerazioni quando esamineremo i caratteri dei restanti personaggi, ma per ora valutiamo le reazioni una volta presentata la richiesta: “il re, fattosi molto triste, a motivo del giuramento e dei commensali, non volle opporle un rifiuto”(v.26). Non poteva fare altro. “Fattosi molto triste”, di quella “tristezza del mondo”che “porta alla morte”, parente stretta di quella che proverà Giuda Iscariotha. Potrei ipotizzare che, condannando a morte il Battista, Erode pose un enorme macigno a chiusura della sua coscienza, talché più tardi dirà con naturalezza “Giovanni l’ho fatto decapitare io; chi è dunque costui, del quale sento dire queste cose?”.

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02.12 – L’AMICO DELLO SPOSO (Giovanni 3.22-36)

2.11 – L’amico dello sposo (Giovanni 3.22-36)

 

22Dopo queste cose, Gesù venne con i suoi discepoli nel territorio della Giudea, e là rimase con loro e battezzava. 23Ora anche Giovanni battezzava in Enon, vicino a Salim, perché là c’era abbondanza di acqua e la gente veniva e si faceva battezzare 24perché Giovanni non era ancora stato gettato in prigione. 25Sorse allora una discussione da parte dei discepoli di Giovanni con i Giudei attorno alla purificazione. 26Così vennero da Giovanni e gli dissero «Maestro, chi era con te al di là del Giordano, a cui hai reso testimonianza, ecco che battezza tutti quelli che vanno da lui» 27Giovanni rispose e disse: «L’uomo non può ricevere nulla, se non gli è dato dal cielo. 28Voi stessi mi siete testimoni che io ho detto «Io non sono il Cristo, ma sono stato mandato davanti a lui». 29Colui che ha la sposa è lo sposo, ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, si rallegra grandemente alla voce dello sposo; perciò la mia gioia è completa. 30Bisogna che egli cresca e che io diminuisca. 31Colui che viene dall’alto è sopra tutti; colui che viene dalla terra è della terra e parla della terra; colui che viene dal cielo è sopra tutti. 32Egli attesta ciò che ha visto e udito, ma nessuno riceve la sua testimonianza. 33Colui che ha ricevuto la sua testimonianza ha solennemente dichiarato che Dio è verace. 34Infatti colui che Dio ha mandato proferisce le parole di Dio, perché Dio non gli dà lo Spirito con misura. 35Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa. 36Chi crede nel Figlio ha vita eterna, ma chi non ubbidisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio dimora su di lui»”.

Dopo il discorso di Gesù a Nicodemo, abbiamo le parole del Battista ai suoi discepoli che mette a confronto la sua opera con quella di Gesù che, dopo quel colloquio, ritenendo di aver concluso la sua permanenza in città, fosse meglio rivolgersi alle zone di campagna circostanti. Si mise così a predicare battezzando proprio come faceva Giovanni Battista che si trovava ad Enon (o Ainon) più a Nord anche se, come leggiamo in Giovanni 4.2, “non era Gesù a battezzare, ma i suoi discepoli”. Ci fu una disputa sulla “purificazione” con un giudeo, nei testi più accreditati al singolare e non al plurale, sulla differenza tra il purificarsi secondo la tradizione e quella del battesimo predicato da Giovanni e quello dai discepoli di Gesù, allora ancora identici nella forma e nella sostanza.

Giovanni, prima dell’inizio della vita pubblica di Gesù, era l’unico accreditato ad amministrare il battesimo in quanto era colui che Dio aveva designato per essere la “Voce d’uno che grida nel deserto «Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri»”. Non era ancora venuto il tempo in cui Gesù avrebbe detto a chi guariva “La tua fede ti ha salvato” e i miracoli fatti in Gerusalemme avevano lo scopo di qualificarlo esattamente come disse Nicodemo: “Noi sappiamo che nessuno può compiere i segni che tu fai, se Dio non è con lui”.

I discepoli di Giovanni, evidentemente convinti dell’unicità della predicazione del loro Maestro, avevano preso con una certa gelosia la notizia in base alla quale Gesù predicava e battezzava al pari suo, interrogati forse sulla eventuale differenza tra i due battesimi e sul perché uno amministrasse in un luogo e l’altro in un altro. Le parole dei suoi discepoli, con quell’ “a cui hai reso testimonianza” mostrano quanto non avessero capito che era in atto un profondo mutamento nella storia della salvezza, quasi a sottintendere “Guarda, tu l’hai qualificato davanti a tutti i presenti come l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo, e lui ti ricambia in questo modo”; per questo era necessario un distinguo tra di due ruoli, tra il privilegio che aveva avuto Giovanni, “mandato davanti a lui” e la persona del Cristo, dell’inviato con un unzione non umana, profondamente diversa per compiti e origine. E Giovanni Battista si qualifica, con un termine che per i lettori del vangelo è nuovo, “l’amico dello sposo”, proponendo un tema che verrà poi sviluppato in particolare dall’apostolo Paolo. L’insegnamento del Battista potrà essere qui visto per sommi capi e verrà ripreso più avanti, quando Gesù esporrà delle importanti parabole su questo tema.

Il distinguo tra le opere del precursore del Messia e il Messia stesso è definito con vari concetti e una premessa in base alla quale “L’uomo non può ricevere nulla se non gli è dato dal cielo” là dove il ricevere implica anche, nel verbo greco originale, “prendere”. I doni di Dio vengono dispensati, ma tocca al destinatario – appunto – prenderli e usarli, come nella parabola dei talenti esposta in Luca 19.12-27 (leggere) che ci parla di un uomo che parte per un paese lontano per ricevere il titolo di re e tornare, e dei servi che prendono dalle sue mani una moneta d’oro per farle fruttare nell’attesa.

Giovanni dice ai suoi discepoli, con questa frase, che solo nel caso di un dono dall’alto vi può essere un risultato, altrimenti la sostanza, il raccolto incorruttibile, non può esistere, come testimoniato dalle vicende esposte da Gamaliele e di cui abbiamo parlato in un’altra riflessione a proposito dei tanti sorti dal nulla che pretendevano di essere il Messia o un suo inviato, che poi scomparvero sepolti dalla storia o, nella storia della Chiesa, tanti fautori di errori interpretativi penalizzanti alcuni durati pochi anni, altri esistenti ancora oggi. Ogni uomo mandato veramente da Dio ha un’opera e un campo d’azione assegnatogli a prescindere da titoli e riconoscimenti umani; nel caso di Giovanni il ruolo che aveva era quello di essere “mandato davanti a lui” sì come voce nel deserto, ma anche come “amico dello sposo”, definizione nuova che non troveremo più, nella Scrittura, per nessun altro.

L’amico dello sposo, per i matrimoni di allora, chiamato dai greci Paranymphos, era l’incaricato di tutti i preliminari del matrimonio ed aveva una funzione tecnico-giuridica: domandava la mano della sposa, stringeva il contratto di matrimonio stabilendo la sua dote, preparava e presiedeva la festa nuziale e l’onore che aveva era direttamente proporzionale al rango delle due famiglie. Si trattava di un incarico delicato che richiedeva una fiducia assoluta e un’amicizia intima tra lo sposo e il suo amico. Per usare questi termini, sicuramente alla presenza dell’apostolo Giovanni e forse anche degli altri tre (Andrea, Pietro e Giacomo), il Battista doveva avere ricevuto un insegnamento molto profondo dallo Spirito perché vide, anche se in modo diverso, ciò che descrive il suo omonimo discepolo, poi diventato apostolo, in Apocalisse quando scrive “Udii poi come una voce di una folla immensa, simile a fragore di grandi acque e a rombo di tuoni possenti, che gridavano «Alleluia! Ha preso possesso del suo regno il Signore, il nostro Dio, l’Onnipotente. Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché sono giunte le nozze dell’Agnello; la sua sposa è pronta: le fu data una veste di lino puro e splendente». La veste di lino sono le opere giuste dei santi” (19.6-8).

Qualificandosi così davanti a quei discepoli, Giovanni Battista fa un paragone perfetto. Lui preparava, poneva le basi per una Chiesa di cui, pur dovendo ancora formarsi, ne vedeva le sembianze nel suo futuro immediato e lontano, mentre l’apostolo la vide in tutta la sua perfezione nella visione della Gerusalemme celeste in cui “quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello” formeranno un tutt’uno con essa (Apocalisse 21.9-27). Giovanni Battista, da uomo attento e consapevole del proprio ruolo, sa che il momento in cui dovrà farsi da parte è imminente: “Bisogna che lui cresca e che io diminuisca” (v.30) e infatti la sua funzione diminuirà in modo proporzionale a quella con cui Gesù illuminava le persone coi suoi insegnamenti indicando la via verso il cielo, cioè lui stesso: “Io sono la via, la verità e la vita”. È l’amore vero, quello che non cerca il tornaconto personale, ma l’altrui. L’apostolo Paolo, poi, si servirà della relazione tra Cristo e la Chiesa per descrivere il rapporto matrimoniale tra credenti consapevoli: “Mariti, amate le vostre mogli come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Efesi 5.25-27).

Le parole di Giovanni Battista furono capite dai suoi discepoli, segno che non si era limitato a predicare il ravvedimento, ma aveva comunicato loro anche il piano di Dio tanto per il popolo eletto quanto per tutti quelli che sarebbero venuti un giorno, spiegando loro quanto fossero fuori luogo i sentimenti tipicamente umani che provavano, gli stessi che animarono poi i discepoli di Cristo quando gli dissero “Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e volevamo impedirglielo – originale “noi glielo impedivamo” – perché non ci seguiva” (Marco 9.38). Il problema non era che i discepoli di Gesù battezzassero e la gente accorresse a lui, ma la distinzione dei ruoli: stava per arrivare il tempo in cui Giovanni avrebbe dovuto mettersi da parte e Gesù diventare sempre più importante, accentrando su di sé la predicazione sostenuta dai miracoli, ciascuno dei quali illuminanti per i significati spirituali che rivestono. “Lui deve crescere, io invece diminuire” sono parole molto importanti, un rimprovero amorevole a quei discepoli che invece avrebbero voluto vedere il loro maestro crescere di importanza stante la vita che aveva condotto e la gente che veniva ad ascoltarlo: Giovanni, con quelle parole, ricorda loro che non aveva mai nascosto di essere un semplice messaggero: “Dopo di me, viene uno che è più grande di me”. Quel “più grande di me” era arrivato e non era uno qualunque, ma uno che “viene dall’alto” ed “è al di sopra di tutti” perché “viene dal cielo”, cioè da un luogo alto, inaccessibile, è l’unico che possa avere l’autorità per parlare di cose che altrimenti sarebbero ignorate e lo fa non perché ha studiato, ma “attesta ciò che ha visto e udito”.

In pratica, senza di lui, senza la sua voce che molti udirono allora ma che noi leggiamo, proseguiremmo la nostra esistenza nelle tenebre dell’ignoranza. Ecco il perché “Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una gran luce”! Ogni essere umano cammina alla luce del giorno, se non altro per un certo numero di ore per cui non ha bisogno di una luce supplementare a meno che questa non sia per illuminare la parte nascosta di lui, quella spirituale.

L’uomo, da solo, non ha modo di conoscere la verità. Lo dimostra la ricerca millenaria di un senso della vita attraverso la filosofia e la religione che, a volte, può anche giungere a frammenti di vero perché un cuore e una mente onesta non possono non pervenire alla conclusione che ciò che abbiamo è illusorio e non può salvare, ma qui il discorso è profondamente diverso: la verità è una, non irraggiungibile anzi vicina perché c’è chi l’ha portata e spiegata; uno che viene dall’alto, è al di sopra di tutti, che attesta ciò che ha visto e udito, verbi che non lasciano scampo perché escludono il sentito dire o una libera interpretazione di cui tanti si nutrono.

Come già avvenuto nel colloquio con Nicodemo nei versi da 16 a 21, non si può escludere che in quelli da 31 a 36 che stiamo leggendo vi sia un intervento dell’evangelista, essendovi parentela di contenuti e di forma col primo capitolo, l’inno di apertura, ma poco cambia perché l’apostolo Giovanni, eventuale autore dei versi, in questo caso estende i concetti che il Battista aveva ben chiari, salvo un dubbio che lo attanagliò quando era imprigionato nella fortezza del Macheronte sotto Erode Antipa: “Sei tu quello che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro?

Egli attesta ciò che ha visto e udito, eppure nessuno accetta la sua testimonianza”, “nessuno” usato per contrapposizione al “chi” successivo, che “conferma che Dio è veritiero” e il confronto “nessuno – chi” lo troviamo nell’episodio dei dieci lebbrosi guariti in Luca 17.11-19: qui, leggiamo che uno solo, samaritano quindi non appartenente alla congregazione di Israele, con gli altri nove ebrei che guarivano lungo il cammino, tornò indietro prostrandosi davanti a Gesù per ringraziarlo. “Ma Gesù osservò «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio all’infuori di questo straniero?» E gli disse «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato”.

A questo punto, abbiamo una descrizione dello sposo: “Colui che Dio ha mandato dice le parole di Dio: senza misura Egli dà lo spirito. Il Signore gli ha dato in mano ogni cosa”. Chi ha parlato delle cose del cielo, che ha visto e udito, non è un ambasciatore: ricordiamo le parole “Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra” (Matteo 28.18), che l’apostolo Paolo spiegò agli Efesini con queste parole: 1…7affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; 18illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi 19e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore. 20Egli la manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli 21al di sopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione
e di ogni nome che viene nominato non solo nel tempo presente ma anche in quello futuro.
22 Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose:
23essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose”
(Efesini 1.20-22). “Perché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami Gesù Cristo è il Signore» a gloria di Dio Padre” (Filippesi 2.10,11). Ogni cosa il Padre ha dato il mano al Figlio, l’unico ad averlo rivelato.

E per concludere, Giovanni conclude il suo intervento con parole di netta separazione, le stesse che costituirono la prima azione di Dio alla creazione, quando con la luce divise la luce dalle tenebre: “Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane su di lui”.

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02.07 – I PRIMI DISCEPOLI II/II (Giovanni 1.45-31)

I primi discepoli II/II (Giovanni 1.43-51)

 

43Il giorno dopo Gesù volle partire per la Galilea; trovò Filippo e gli disse: «Seguimi!». 44Filippo era di Betsàida, la città di Andrea e di Pietro. 45Filippo trovò Natanaele e gli disse: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nàzaret». 46Natanaele gli disse: «Da Nàzaret può venire qualcosa di buono?». Filippo gli rispose: «Vieni e vedi». 47Gesù intanto, visto Natanaele che gli veniva incontro, disse di lui: «Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità». 48Natanaele gli domandò: «Come mi conosci?». Gli rispose Gesù: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi». 49Gli replicò Natanaele: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!». 50Gli rispose Gesù: «Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto l’albero di fichi, tu credi? Vedrai cose più grandi di queste!». 51Poi gli disse: «In verità, in verità io vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo».

 

Giunti al quarto giorno dopo la fine della tentazione di Nostro Signore nel deserto, va fatta una precisazione importante: dopo l’episodio dei quaranta giorni nel deserto, i sinottici scrivono che Gesù, una volta saputo che il Battista era stato arrestato da Erode, si ritirò nella Galilea, lasciò Nazareth e andò ad abitare a Cafarnao (Matteo 4.12,13) e che la sua fama si diffuse in tutta la regione, insegnava nelle sinagoghe tutti gli rendevano lode (Luca 4.14-15). A questo episodio Matteo e Marco fanno seguire la chiamata dei discepoli, Simon Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni mentre erano sulla riva del Mare di Galilea. Bisogna sapere che Matteo, Marco e Luca parlano del secondo viaggio in quella regione, mentre Giovanni del primo, che gli altri tre non raccontano, cioè quando il Battista stava ancora predicando.

Per inquadrare ciò che avvenne nel quarto giorno occorre tenere presente quanto avvenne in precedenza, quando Andrea, Giovanni e Simone fecero il loro primo incontro con Gesù: tutti e tre abitavano a Betsaida, erano discepoli di Giovanni Battista – probabilmente anche Pietro, anche se non è espressamente citato come tale – ed è naturale che Andrea e Giovanni parlassero di Lui, prima che ad estranei, a quelli che o erano della cerchia del loro maestro. Possiamo dire che, fino ad allora, la predicazione del Battista aveva prodotto tre risultati: prima venero i suoi discepoli, che erano stati convinti dalla sua predicazione, si erano battezzati e lo assistevano. Poi ci furono quelli che ne condivisero il messaggio, capendo che il regno di Dio era effettivamente vicino, convinti della necessità che il Messia che stava per arrivare andava accolto previo un cambiamento interiore visto in una revisione della loro vita e in un cambiamento di mentalità e azioni, e infine quelli che provavano sentimenti ostili perché sapevano che il sistema religioso sul quale avevano basato la loro esistenza e falsa rispettabilità poteva essere sconvolto.

Certo che Andrea e Giovanni, che avevano incontrato Gesù, (“venite e vedete”) ed aveva parlato loro brevemente tanto quanto bastava per convincerli e suscitare in loro la gioia vista nella frase “Noi abbiamo trovato il Messia”, non potevano fare altro che informare quanti avevano condiviso con loro i momenti del discepolato con Giovanni Battista. Fu così che Gesù, volendo partire per la Galilea perché si era compiuto l’incontro con il suo precursore e intendeva recarsi a Nazareth, oppure perché sapeva di doversi recare a Cana dove ci era stato invitato alle nozze, incontrò una persona, Filippo, cui gli disse “Seguimi”. È la prima chiamata diretta di Gesù a un uomo a cui non si rivolse a caso, ma sapendo che uno dei tre, o tutti, lo avevano informato.

Quel “Seguimi” da parte di Gesù indica la conoscenza che aveva non solo di Filippo, ma dell’uomo in genere: così come sapeva delle domande e delle aspettative di Filippo, conosce ciò che anima tutto l’essere di ciascuno anche oggi e interviene nel momento esatto in cui una persona lo cerca. Va rifiutata l’idea che vorrebbe i futuri apostoli seguire Cristo in base a una forza misteriosa che li spinse a farlo: questo può emergere se si legge superficialmente la cronaca dei sinottici, che ci parlano di un immediato abbandono delle “proprie reti” e del seguirlo immediatamente; Pietro e gli altri, in realtà, lo seguirono per delle ragioni che trovavano la loro radice nell’aver compreso che Lui era quello di cui parlavano la Legge e i profeti, dopo averlo ascoltato in privato e avere visto i miracoli che faceva: avevano individualmente sperimentato quel “Preparate le sue vie, raddrizzate i suoi sentieri” di cui abbiamo letto.

Così Filippo, che rientrerà nel numero dei dodici, seguì Gesù al suo solo invito, fondandosi sulla testimonianza che gli era stata riferita, riversando su di Lui la certezza che Lui solo era quello che era stato annunziato e che ora gli si rivelava. Andrea, Pietro e Giovanni dovettero aver parlato a Filippo con termini illuminanti, senza dubbi sul suo ruolo; dubbi che, se presenti, erano stati dissipati sia attraverso la visione dello Spirito sceso sotto forma di colomba, ma anche dai dialoghi che avevano avuto nel luogo in cui Gesù abitava temporaneamente. Eppure, nonostante tutto il loro impegno e fervore nel descrivere ciò che da Lui avevano sentito, a niente sarebbero approdate le loro parole se anche Filippo non fosse stato nelle loro condizioni, quelle di riconoscersi nell’attesa e di credere che questa stava per finire perché i tempi erano giunti.

Il testo evangelico ci propone due verbi con tempi diversi, “seguimi” e “Filippo trovò Natanaele”, il che ci parla di un intervallo di tempo: “Seguimi” allora si riferisce a un invito con uno scopo preciso, perché Gesù chiede a Filippo di condividere parte della sua vita terrena con uno scopo che dichiarerà più avanti proprio sulle rive del Mare di Galilea, “Vi farò pescatori di uomini”, intendendo un guadagno spirituale e non economico.

Giovanni, tornando all’incontro con Filippo, non riferisce il dialogo tra i due, ma ne riassume il senso: lo invita a seguirlo, ma gli lascia del tempo per riflettere; altrimenti quell’uomo non avrebbe mai potuto cercare e trovare Natanaele, o incontrarlo non per caso, e portarlo da lui.

C’è dunque un tempo che Dio dà all’uomo per considerare le sue proposte. Un tempo costruttivo in cui la mente ragiona, valuta le Sue proposte e decide di conseguenza. Così, a prescindere di quello che Gesù e Filippo si siano detti, l’importante è il risultato: Filippo dopo quell’incontro trovò – quindi lo andò a cercare – Natanaele e gli disse «Noi abbiamo trovato colui del quale Mosè nella Legge, e i profeti, hanno scritto: Gesù, figlio di Giuseppe, che è da Nazareth»”. Sono parole identiche, nel loro entusiasmo, a quelle che aveva detto Andrea a suo fratello Simone, ma più dettagliate, che rivelano il desiderio di Filippo di essere esauriente con l’amico. Sono parole che indicano anche una liberazione dall’attesa e al tempo stesso la gioia dell’aver trovato senza sapere cosa questo avrebbe implicato nel tempo. Non importava il futuro non perché poteva essere affrontato a caso sperando in qualcosa, ma l’aver trovato.

A questo punto emerge la persona di Natanaele, chiamato nell’elenco dei dodici Bartolomeo, cioè “Figlio di Tolomeo” che nell’elenco apostolico è nominato sempre accanto a Filippo. Bartolomeo-Natanaele era nato e vissuto a Cana di Galilea, lo stesso paese in cui Gesù andrà alle nozze che verranno celebrate da lì a tre giorni e in cui farà il suo primo miracolo. Cana era vicina a Nazareth e Natanaele conosceva bene il carattere primitivo e rozzo degli abitanti di Nazareth a tal punto da replicare “Da Nazareth può venire qualcosa di buono?”. Tradotto letteralmente si legge “Da Nazareth può esservi qualcosa di buono?”. Forse Natanaele, uomo istruito, alludeva anche al fatto che nessuna profezia menzionava mai quel paese, anche se sappiamo la sua etimologia, Nezer, “Germoglio”, riferito a Gesù, che sarebbe stato chiamato Nazareno.

La risposta di Filippo, “Vieni e vedi” è illuminante perché, di fronte all’amico che partiva già prevenuto a quell’annuncio, non cerca di convincerlo facendo di lui un proselito, ma gli lascia la libertà di restare nella sua convinzione o di modificarla.

Come Gesù aveva dimostrato ore prima di conoscere profondamente Simone a tal punto da dirgli come sarebbe stato chiamato alludendo alla posizione che avrebbe occupato, parla a Natanaele prima al presente e poi al passato; infatti “Ecco un israelita in cui non vi è inganno” (termine preferibile al tradotto “falsità”) è l’analisi del suo carattere di base e la frase “Prima che Filippo ti chiamasse, ti ho visto quando eri sotto il fico” ci parla dei suoi pensieri ed è quella che lo convinse.

Riflettendo sui due periodi che abbiamo letto, possiamo dire che il primo avrebbe potuto essere letto anche come una specie di saluto o il tentativo di un imbonitore di far presa su uno sprovveduto perché a tutti, anche a quelli che onesti non sono, fa piacere ricevere un complimento, per quanto immeritato. Ma se Gesù fosse appartenuto alla categoria degli impostori, non avrebbe mai potuto rispondere al “Come mi conosci?” di Natanaele rispondendogli di averlo visto, ancora prima di quell’incontro, quando era sotto il fico.

Cosa voleva dire? In questa frase di Gesù c’è la descrizione di due luoghi, uno fisico e uno spirituale. Non erano pochi gli ebrei che, per riposare, meditare o pregare, si recavano sotto un albero di fico, pianta che si trovava molto frequentemente da quelle parti o che avevano nel recinto che circondava la loro casa. Sotto il fico spesso si pregava anche ed è a questa azione che Gesù fa riferimento parlando con Natanaele, dimostrandogli di conoscere il contenuto delle preghiere che rivolgeva a Dio e che contemplavano soprattutto, alla luce della predicazione di Giovanni Battista, la rivelazione al popolo di Colui che sarebbe venuto dopo Giovanni. Credo che sia stato quell’ “Io ti ho visto” a colpire Natanaele: “visto” non perché di passaggio, ma perché era lì, presente in spirito. E qui il vedere di Gesù implica l’ascoltare. Se Natanaele sotto il fico non avesse pregato specificamente per la venuta del Cristo, non sarebbe stato così colpito dalle parole di Gesù.

Allo stesso modo Nostro Signore vede quelli che pregano oggi, allo stesso modo è presente, secondo la Sua promessa, nella Chiesa: “Dove due o tre sono radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Matteo 18.20). Vedere implica quindi l’ascolto e soprattutto, come nel caso di Natanaele, la conoscenza perfetta che Gesù ha dell’essere umano, la stessa che incontreremo nell’episodio in cui, trovandosi a Gerusalemme, leggeremo che “Molti, vedendo i segni che compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno delle testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo” (Giovanni 2.23-25). Notiamo i verbi, che potrebbero sembrare grammaticamente scorretti, ma che in realtà sono riportati in un’ottica spirituale: “conosceva quello che c’è – non “c’era” –: allora come oggi, niente è cambiato. Per questa Sua conoscenza, anche quindi anche di Natanaele e di tutti, sappiamo che è impossibile che non ci sia un piano per tutti coloro che sono chiamati da Dio.

Natanaele capì di essere conosciuto e gli rispose “Maestro, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il Re di Israele”, riconoscendogli in tal modo tanto la dignità personale – Figlio di Dio –, quanto quella ufficiale – Re di Israele – per la quale era atteso e per la quale non fu creduto dalla maggioranza del popolo, autorità religiose in primis.

A questo punto, negli ultimi due versetti, Gesù rispose al nuovo discepolo che avrebbe visto cose ben maggiori e, rivolto anche a Filippo, una frase che ha riferimento al sogno di Giacobbe che troviamo descritto in Genesi 28.12: “Una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa”. Quello, assieme ad altri che ebbero a tanti uomini nell’Antico Testamento, fu un sogno profetico contemporaneo e futuro al tempo stesso: gli angeli, fedeli messaggeri di Dio, vengono descritti come portatori di messaggi dalla terra al cielo e viceversa. La storia letta nel libro della Genesi fino a quel punto, aveva mostrato episodi di quel tipo: pensiamo agli interventi su Agar, schiava di Sarai quando le predisse la nascita di Ismaele (Genesi 16), alla distruzione di Sodoma e Gomorra (19) o all’angelo che fermò Abrahamo poco prima che sacrificasse Isacco (22).

Nel sogno di Giacobbe gli angeli salivano e scendevano dal cielo, figura di un luogo inaccessibile all’uomo, mentre qui “D’ora innanzi vedrete il cielo aperto”, cioè la benevolenza di Dio rivelata, se non addirittura la rivelazione di Dio stesso. Presi in disparte i Suoi, disse loro “Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono” (Luca 10.24). Andrea e Filippo, certo con tutti gli altri e tutti gli uomini, peccatori salvati, avrebbero visto, letteralmente o figurativamente, il cielo aperto perché l’identità di Dio non sarebbe più stata vista attraverso un velo, ma per testimonianza diretta del Figlio di Dio, “Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, ma la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Giovanni 1.17,18). Legge da una parte, Grazia e Verità dall’altra. Legge come figura del cielo chiuso, Grazia e Verità come figura del cielo aperto.

Dalle parole di Gesù, i discepoli avrebbero visto gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo: pensiamo all’episodio della tentazione nel deserto o all’angelo venuto per confortarlo al Getsemani (Luca 22.42), e quel “sopra” indica l’oggetto delle loro attenzioni: Lui, annunciato a Maria e ai pastori. Ci sono anche le parole di Gesù che, testimoniando davanti ai farisei, dirà “…allora conoscerete che Io Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato. Colui che mi ha mandato non mi ha lasciato solo, perché faccio sempre le cose che gli sono gradite” (Giovanni 8.28,299.

Ecco il cielo aperto: il profeta dell’Antico Patto aveva il compito, più che predire il futuro secondo la nostra parziale concezione occidentale, di trasmettere quanto Dio voleva rivelare: rimproveri, eventi, giudizi e soprattutto la venuta del Cristo; ora che questi era giunto, altro non restava che rivelare il piano individuale che Dio aveva ed ha per ciascun essere che il Lui crede. La via del cielo, della dimensione nuova ed eterna, non è più chiusa: “Nessuno può venire al Padre se non per mezzo di me”.

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2.06 – I PRIMI DISCEPOLI I/II (Giovanni 1.35-42)

2.06 – I primi discepoli  I/II (Giovanni 1.35-42)

 

35Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli 36e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». 37E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. 38Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa Maestro -, dove dimori?». 39Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio. 40Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. 41Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – 42e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro.

 

Dopo la tentazione nel deserto vista nel capitolo scorso, riannodare le file della cronologia non è facile. Un punto fermo è che solo superando le tentazioni nel deserto Gesù avrebbe potuto iniziare ad organizzarsi chiamando attorno a sé dei discepoli. Poiché a Matteo premono i contenuti, presenta un racconto essenziale collocando la chiamata dei primi discepoli dopo l’arresto di Giovanni, il suo abbandono di Nazareth con relativo trasferimento a Capernaum. Quasi lo stesso fa Marco, Luca parla del suo ritorno in Galilea e del fatto che insegnava nelle sinagoghe. L’apostolo Giovanni però era presente fin dall’inizio, essendo già discepolo del Battista e ci scrive dati più particolari senza però riferire il momento preciso in cui avvenne il battesimo di Gesù. In compenso è molto attento a contare i giorni. Leggiamo il racconto, su cui ci siamo già soffermati, delle sue risposte ai sacerdoti e ai leviti, poi quelle che diede ai farisei fino a quando non scrive “Il giorno dopo”: al capitolo 1 leggiamo “29Il giorno dopo, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! 30Egli è colui del quale ho detto: «Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me». 31Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele». 32Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. 33Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: «Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo». 34E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio»”. Viene quindi da pensare che Giovanni inizi a parlare del Battista dopo il battesimo di Gesù e che il racconto delle sue risposte alle domande prima agli inviati dei sacerdoti e loro associati e poi a loro stessi, sia stato scritto per dare una sorta di contemporaneità al racconto della tentazione nel deserto di Gesù. In 1.19 Giovanni scrive “Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo”, poi abbiamo una delegazione non più di inviati, ma di farisei che gli chiedevano ragione del suo battezzare, segno che tra un incontro e l’altro dovette passare del tempo: tempo per gli inviati di tornare a Gerusalemme, tempo per i farisei e loro simili di riflettere, decidere di recarsi là di persona, tempo per recarsi sulle rive del giordano: uno spazio che può essere ragionevolmente compreso nei quaranta giorni delle tentazioni. Gesù allora ritorna da Giovanni, o meglio passa nei pressi dove stava con due dei suoi discepoli, “il giorno dopo” che il Battista aveva risposto alle domande che gli furono rivolti dalle autorità religiose di allora.

Iniziano qui i primi incontri con quegli uomini, ma nel corso della vita terrena di Gesù anche donne, determinanti nella storia della salvezza in base alle loro caratteristiche interiori. I primi, futuri discepoli di Gesù lo erano di Giovanni Battista, segno che avevano creduto al suo messaggio, avevano ricevuto il segno esteriore del ravvedimento, del volersi predisporre a ricevere il Cristo che sarebbe venuto di lì a poco, quindi che aspettavano la sua manifestazione. Erano Andrea, fratello di Pietro, e Giovanni autore del Vangelo che, secondo la sua abitudine, preferisce parlare di sé in terza persona, senza nominarsi direttamente. A questi, ebrei osservanti che ben sapevano la funzione dell’agnello come animale sacrificale, il Battista indicò Gesù che passava: “Ecco l’Agnello di Dio”, che loro potevano intravedere come Colui che li avrebbe liberati dal peccato e che per noi è immagine della trasformazione secondo 1 Pietro 1.18,19: “Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi”.

Ecco un nuovo elemento che in quel momento Andrea e Giovanni non potevano sapere: Gesù venne nel tempo opportuno, ma prima che l’universo fosse creato aveva già accettato il suo compito, in previsione della rovina portata da Satana in Eden. “Negli ultimi tempi”, cioè in quello spazio breve della storia in rapporto all’eternità, si è manifestato per noi, cioè per ogni individuo che crede. E vengono in mente le parole di Maria, “Ha guardato alla bassezza della sua serva”.

 

Preso atto delle parole del Battista, ad Andrea e Giovanni non rimaneva altro che cercare di capire chi fosse quell’uomo che stava passando nei pressi: va bene, era l’Agnello di Dio, ma cosa pensava, dove viveva, cosa avrebbe fatto? Per loro nulla era più importante dell’attesa di qualcosa che non conoscevano nei dettagli, ma che prima o poi si sarebbe verificata. “Lo seguirono” indica una reazione immediata, dettata dall’interesse, di conoscere. Gesù, voltandosi, li vede e si rivolge a loro con una semplice domanda, non “chi”, ma “Cosa cercate”, un distinguo fondamentale: è molto facile sapere chi si cerca. Quando cerchiamo una persona, c’è sempre un motivo. Ma la domanda “cosa cerchi”, a meno che non si tratti di un oggetto, un utensile, richiede una risposta molto più impegnativa, obbliga a guardarsi dentro. Se uno chiede al suo prossimo cosa cerca, lo mette solitamente in imbarazzo perché lo obbliga a rivelare i suoi pensieri, ammesso che intenda rispondere. Forse, cosa cerca non lo sa nemmeno. Allora, se la risposta giunge, il risultato è sempre riferito al benessere della persona: sto male e vorrei stare bene, sto bene ma vorrei stare meglio; pochi sono coloro che si accontentano del proprio stato, quando non intervengono patologie gravi che portano l’essere umano ad una smodata ricerca di denaro, averi e potere.

Andrea e Giovanni gli chiedono dove abitasse. Non fu una risposta dettata dall’imbarazzo o perché, colti alla sprovvista, gli chiesero la prima cosa che venne loro in mente: lo avevano appena chiamato “Rabbi”, cioè Maestro, e il chiedergli dove abitasse implicava che lo volevano ascoltare così come la risposta che ebbero, “Venite e vedete”, era spesso data dai rabbini ai loro discepoli quando dovevano affrontare delle importanti questioni dottrinali. “Venite e vedete” nel senso di considerare, di ascoltare e fare le relative, autonome valutazioni. Gesù non impone loro nulla, non li chiama per primo, ma sono Andrea e Giovanni a farsi notare seguendolo e da lì poi si instaurerà una profonda relazione, dopo che saranno andati e lo avranno ascoltato.

Andarono dunque e videro dove egli dimorava”, non in una casa perché non si era ancora trasferito, ma era solo giunto lì per farsi battezzare. È molto probabile che Gesù abitasse in una specie di capanna, di quelle usate allora dai guardiani dei campi. Era quello un periodo particolare: abitava a Nazareth, ma aveva trascorso i quaranta giorni nel deserto, si sarebbe trasferito dalla sua città a Capernaum, Giovanni Battista stava per essere arrestato da Erode Antipa e c’era l’imminente viaggio a Cana con sua madre e i parenti, per cui un’abitazione nel senso vero e proprio del termine non sarebbe servita a nulla.

C’è però un particolare che Giovanni inserisce nel suo racconto ed è, oltre che “quel giorno rimasero con lui”, l’orario, che la nostra traduzione italiana riporta ne “le quattro del pomeriggio” dall’originale “era intorno le dieci ore”; si tratta dei diverso modo di contare le ore del giorno secondo i romani, che come ancora oggi si calcolano dalla mezzanotte, e gli ebrei, che iniziano a partire dalle nostre sei del mattino.

Ritengo che Giovanni annota l’orario per un motivo preciso, far sapere che lui e Andrea si intrattennero con Gesù per circa due ore poiché alle sei del pomeriggio si chiudeva la giornata secondo il giudaismo. Tale chiusura non va intesa come se da quell’ora esistesse un coprifuoco e nessuno potesse uscire di casa per cui l’ipotesi che si può fare è che, prima che arrivasse un nuovo giorno, Andrea e Giovanni restassero con Gesù a parlare, Andrea trovasse Pietro e lo conducesse al suo nuovo Maestro.

Giovanni, che allora doveva avere tra i 19 e i 20 anni, che sarà il più giovane dei gruppo dei dodici, non scrive il contenuto dei dialoghi intercorsi quel giorno, ma furono intensi ed esaustivi a tal punto da riferire di Andrea che, non appena incontrato Simone, gli disse entusiasta “Noi abbiamo incontrato il Messia”: non un Rabbi qualunque, ma quello che tutto Israele attendeva da tempo. La presentazione che Andrea fece a Simone, forse anche lui discepolo del Battista, fu presa sul serio visto che entrambi sapevano molto bene che Giovanni Battista annunciava l’arrivo di qualcuno molto più grande di lui, uno a cui lui non era degno di sciogliere il laccio dei sandali e neppure di portarli.

A differenza di quanto avvenuto precedentemente, Giovanni riporta un particolare dell’incontro di Gesù con Pietro: lo guarda in volto e gli dice “Tu sei Simone, figlio di Giona; tu sarai chiamato Cefa (che vuol dire Pietra)”. Qui possiamo fare qualche osservazione, la prima tecnica: come abbiamo avuto modo di leggere precedentemente, Giovanni inserisce delle brevi note: spiega che Cefa vuol dire Pietra – alcuni traducono “Pietro” –, prima informa i lettori che il termine Messia “interpretato vuol dire il Cristo”, prima ancora che Rabbi “tradotto, significa Maestro”, segno che scrive per lettori non ebrei. Cefa, per inciso, può essere tradotto anche con “roccia”.

La seconda osservazione è che lo chiama per nome e gli ricorda il padre, come farà spesso nelle occasioni importanti, come ad esempio dopo l’averlo riconosciuto come “il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”: “Tu sei beato Simone, figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (Matteo 16.17); ancora ritroviamo questo ricordo nelle tre domande dopo la resurrezione, per riabilitarlo dei suoi tre rinnegamenti: “Simone, figlio di Giona, mi ami tu?” (Giovanni 21.15,16,17). Simone era il primogenito e non possiamo escludere che avesse ereditato il carattere del padre o che comunque fosse per lui importante per ragioni a noi ignote. Può anche essere più semplicemente che, chiamandolo “figlio di Giona”, Gesù volesse ulteriormente personalizzare il suo messaggio alludendo al fatto che, se di “Simone” potevano essercene tanti, solo lui era “figlio di Giona”.

Simone, figlio di Giona, sarebbe stato chiamato Cefa, così come Saulo di Tarso sarebbe stato chiamato Paolo. Cefa è una parola aramaica che significa pietra, o roccia e che ha connessione al carattere di quest’uomo che, da impulsivo, sanguigno, tendente a fare affermazioni avventate o a contare troppo sulle sue forze salvo poi pentirsene, fu trasformato dalla Grazia in un personaggio determinante e dominante nel libro degli Atti. Primo a riconoscere Gesù come Figlio di Dio, ma anche unico a rinnegarlo perché terrorizzato; pronto a difendere il suo maestro anche con le armi, diventerà un Suo potente testimone e il personaggio più importante della Chiesa di Gerusalemme.

Cefa fu così indicato dal suo futuro Maestro e sarà oggetto di numerosi suoi interventi che gli anticiperanno il suo destino: sulla sua affermazione che vede in lui “il figlio dell’Iddio vivente” edificherà la Sua Chiesa (Matteo 16.18), di fronte alla dichiarazione in base alla quale si credeva pronto a seguire Gesù fino alla morte, gli viene ricordato che lo avrebbe rinnegato tre volte prima del canto di un gallo. Poi abbiamo la frase che allude al martirio che avrebbe subìto: “In verità, in verità io ti dico che quando tu eri giovane, ti cingevi e andavi dove volevi, ma quando sarai vecchio stenderai le tue mani e un altro ti cingerà e ti condurrà là dove tu non vorrai” (Giovanni 21.18). Secondo la tradizione il martirio di Pietro avvenne a Roma sotto Nerone tramite crocifissione, a testa in giù per richiesta di Pietro. Così tramandano Girolamo, Tertulliano, Eusebio e Origene vissuti attorno all’anno 200. Di certo c’è una lettera di Clemente di Roma, datata tra il 95 e il 97 in cui si legge “Per invidia e per gelosia i più validi e i più importanti pilastri della Chiesa hanno sofferto la persecuzione e sono stati sfidati fino alla morte. Volgiamo il nostro sguardo ai santi Apostoli. San Pietro, che a causa di un‘ingiusta invidia, soffrì non una o due, ma numerose sofferenze, e, dopo aver testimoniato con il martirio, assunse alla gloria che aveva meritato”.

Si conclude così quello che per Giovanni è il terzo giorno. Nel primo abbiamo avuto le risposte del battista agli Scribi, Farisei e Sadducei. Il secondo ha visto la testimonianza che indicò in Gesù “L’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo”. Quella fu l’occasione per testimoniare di ciò che aveva visto quando lo aveva battezzato, quaranta giorni prima. Nel terzo abbiamo avuto i colloqui che abbiamo esaminato e nel quarto, che vedremo, ci saranno altri due incontri, con dinamiche simili eppur diverse, con Filippo e Natanaele, chiamato anche Bartolomeo.

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02.03 – IL BATTESIMO DI GESÙ (Matteo 3.13-17)

Il battesimo di Gesù (Matteo 3.13-17)

13Allora Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui. 14Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?». 15Ma Gesù gli rispose: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia». Allora egli lo lasciò fare. 16Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. 17Ed ecco una voce dal cielo che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento».

Tutti i Vangeli sottolineano che la predicazione del Battista aveva raggiunto il suo punto culminante e per questo Gesù, “dalla Galilea” e quindi da Nazareth, venne in Betania, quella al di là del Giordano. Del suo battesimo ne parlano tutti e quattro gli Evangelisti, ciascuno con un particolare proprio, utile a contestualizzarlo anche se cronologizzare gli avvenimenti di quel giorno non è così immediato.

Giovanni Battista e Gesù erano parenti e, se non sappiano se si conoscessero di persona come avviene per gli esseri umani, indubbiamente la conoscenza spirituale era molto forte. Di certo, ricordando l’episodio in cui, concepito da sei mesi, ebbe un sobbalzo nel ventre di sua madre quando Maria andò in visita da lei, lo riconobbe. Giovanni sapeva che Gesù non aveva certo bisogno di pentimento, di confessare dei peccati e del battesimo e per questo non si riteneva degno di amministrarglielo: “Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni a me?”. La risposta è illuminante: “Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia” ed è proprio quell’ “ogni”, che si riferisce al non trascurare nulla, che ci spiega il perché Gesù voleva e doveva farsi battezzare pur non attendendo nessun salvatore essendolo lui stesso, pur non avendo peccati da confessare né essendo peccatore come tutti gli altri uomini, tali per natura a causa dell’eredità in Adamo a prescindere dai peccati specifici commessi.

Essere dei “peccatori” non indica un gruppo di persone dedite a crimini particolari contemplati da un codice penale, ma tutti coloro che, nati di donna, conducono o hanno condotto la propria vita senza avere beneficiato del perdono di Dio tramite la fede in Gesù Cristo. Il periodo in cui avvenne il battesimo di Gesù e intermedio, a cavallo tra la Dispensazione della Legge e quella della Grazia, “Legge” di cui dà un accenno Paolo in Romani 3.20-26: “20…in base alle opere della Legge nessun vivente sarà giustificato davanti a Dio, perché per mezzo della Legge si ha conoscenza del peccato. 21Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai Profeti: 22giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. Infatti non c’è differenza, 23perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, 24ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. 25È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati 26mediante la clemenza di Dio, al fine di manifestare la sua giustizia nel tempo presente, così da risultare lui giusto e rendere giusto colui che si basa sulla fede in Gesù”.       Abbiamo letto “remissione dei peccati passati”: per quelli che il credente, come essere umano, può sempre commettere, c’è la confessione e il loro abbandono.

Torniamo al battesimo di Gesù: quando disse a Giovanni Battista “Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia”, è scritto che “lo lasciò fare”, segno che comprese che il Cristo doveva condividere in tutto e per tutto la vita dell’uomo: fino ad ora sappiamo che fu circonciso, lui che non aveva bisogno di avere un segno esteriore della propria appartenenza al popolo di Dio. Sappiamo che fu osservante in tutto, restando sottomesso ai genitori per non incorrere neppure per un attimo nell’identificazione col “figlio ribelle” riportata in Deuteronomio 21.18 e segg., che la sua fu una crescita in sapienza e in grazia presso Dio e gli uomini: ricevendo il battesimo da Giovanni, iniziava il suo primo distinguersi tra coloro che, sensibili all’insegnamento ricevuto dalla Legge e dai Profeti, confessavano di avere bisogno del Messia promesso e accettavano di convertirsi, e coloro che lo rifiutavano. Battezzandosi, Gesù volle unirsi a quello che poi sarebbe diventato il Suo popolo, coloro che avrebbero creduto in lui riconoscendolo per le parole che avrebbe detto e i miracoli che avrebbe compiuto.

Chi infatti si estraniava dal battesimo di Giovanni, interrogandolo senza capire e restando in quella categorie di persone che lui stesso aveva definito “Razza – inteso come appartenenza ad esse, o “progenie” come altri traducono – di vipere”, ne rigetterà tanto gli insegnamenti che i miracoli, trovando ogni giustificazione e pretesa pur di negarli.

Gesù fu così battezzato pubblicamente. Quello che avvenne dopo lo riportano anche gli altri tre Vangeli, ma con piccole differenze: per Marco “Subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba” (1.10), l’apostolo Giovanni fa dire al Battista, anche se in un momento successivo, “Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui” (1.12); Luca invece, in 3.21-22 21Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì 22e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento»”.

Gesù dunque, ricevuto il battesimo, si mise a pregare, ponendosi poco distante. Non ci è detto quanto, ma di certo era ben consapevole che da quel momento sarebbe iniziato per lui quel cammino di sofferenza e rinuncia che non aveva fatto prima: in Nazareth era cresciuto, spostandosi per i pellegrinaggi a Gerusalemme, aveva condiviso la vita di famiglia con i suoi fratelli e le sue sorelle, si era caratterizzato come una persona diversa crescendo come sappiamo, ma dal battesimo in poi sarebbe diventato un personaggio pubblico, avrebbe avuto davanti un’esistenza fatta di predicazione, miracoli e guarigioni, spostamenti da una città ad un’altra, si sarebbe scontrato con l’ottusità delle persone, avrebbe subìto una morte considerata ignominiosa e tutto questo lo sapeva. Così come sapeva la quantità enorme di anime che avrebbe salvato col suo sacrificio.

La preghiera al Padre era inevitabile e necessaria perché da Lui poteva ottenere la sola assistenza e approvazione di cui aveva bisogno. La risposta del Padre fu duplice: scese lo Spirito Santo su di lui sotto forma di colomba dopo che i cieli furono aperti. Giovanni Battista dirà “Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui” (Giovanni 1.32). Colomba, non le “lingue di fuoco” con cui si manifestò sui credenti della Chiesa di Gerusalemme: la colomba, lo stesso animale che Noè aveva mandato fuori dall’arca e che era tornata con un ramoscello di ulivo. La colomba che è collegata all’oppresso e all’indifeso: “Timore e spavento mi invadono e lo sgomento mi opprime. Chi mi darà ali come di colomba per volare e trovare riposo?” (Salmo 55.6-7). Colomba che si collega al ritorno degli esuli: “Accorreranno come uccelli dall’Egitto, come colombe dell’Assiria e li farò abitare nelle loro case” (Osea 7.11). Soprattutto, qui la colomba ha riferimento all’episodio di Noè: l’ulivo che gli portò era il segno ufficiale che l’ira di Dio, che aveva risparmiato lui e la sua famiglia ma aveva inesorabilmente condannato gli altri uomini che popolavano la terra, era finita ed era imminente la sua uscita dall’arca.

Allo stesso modo lo Spirito Santo, sceso “in forma di colomba” dal cielo e non da altre direzioni, stava a significare la benevolenza di Dio sull’uomo e che di lì a poco sarebbe giunta la salvezza per tutti coloro che l’avrebbero accolta: “…e a tutti coloro che l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio”.

Giunse una voce dal cielo: chi l’avrà sentita? I presenti o solo Giovanni? Non ci è detto, manca la frase “E tutti si meravigliarono” alla quale chi ha letto i Vangeli fin qui è abituato, ma è probabile che, a un atto pubblico e ufficiale di Gesù, abbia fatto seguito un’altrettanto pubblica e ufficiale manifestazione del Padre e dello Spirito Santo.

Un particolare essenziale, a questo punto, lo riporta l’apostolo Giovanni in 1.29-34:

29Il giorno dopo, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! 30Egli è colui del quale ho detto: «Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me». 31Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele». 32Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. 33Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: «Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo». 34E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».

 

L’agnello di Dio. Così diverso da quello che veniva sacrificato per la Pasqua. Un uomo innocente a tal punto da essere paragonato a un agnello che, a differenza degli altri, toglie il peccato del – e non “dal” – mondo. Sono parole che ogni israelita avrebbe dovuto comprendere, poiché non solo avevano riferimento all’agnello che si sacrificava per la Pasqua, ma a quello che ogni sabato veniva offerto nel Santuario alla mattina e alla sera come sacrificio per il peccato (Esodo 29.38; Numeri 28.3-10). Se andiamo poi a prendere il verbo usato per “togliere”, vediamo che ha come significato anche quello di “prendere su di sé” e di “portare”. Pietro scrive nella sua seconda lettera “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime” (2.24,25). Sempre Giovanni nella sua prima lettera dice “Voi sapete che egli si manifestò per togliere i peccati e che in lui non vi è peccato” (3.5).

Nella lettera ai Galati 1.3 Paolo scrive “Grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo, che ha dato se stesso per i nostri peccati al fine di strapparci da questo mondo malvagio”, bellissimo ritratto che racchiude lo scopo del sacrificio dell’Agnello di Dio: per strapparci, cioè togliere, portare via con un movimento violento e rapido. Lo strappo si rende necessario quando occorre togliere in fretta qualcosa di ancorato ad una struttura. Chi quindi crede è strappato dal mondo, da tutte quelle cose alle quali dava un valore e che lo condizionavano. Strappato da una falsa morale, rispettabilità, tendenze, trapiantato in realtà nuove. Strappato al campo del mondo dominato da Satana, per essere impiantato nel campo di Dio. Nato di nuovo, d’acqua e di spirito.

Ma ancora di più, lo strappo si riferisce al destino che ha “questo mondo malvagio”, destinato a perire e ad essere distrutto assieme a tutti coloro che, a quell’Agnello di Dio, non avranno voluto guardare.

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02.01 – INTRODUZIONE A GIOVANNI BATTISTA (Marco 1.1-8)

Introduzione a Giovanni Battista (Marco 1.1-8)

Della persona e opera di Giovanni Battista parlano tutti e quattro gli Evangelisti che, in base base al loro carattere e agli scopi che si prefiggono, forniscono un quadro esauriente del profeta che segna lo spartiacque tra l’Antico e il Nuovo Testamento. Gesù infatti disse, in Matteo 11.13, “…tutti i profeti e la legge hanno profetizzato fino a Giovanni, e se lo volete accettare, egli è l’Elia che doveva venire”. Si trattava di quell’Elia che gli israeliti attendevano quale profeta che avrebbe preceduto il Messia secondo Malachia 4.5: “Ecco, io vi mando Elia il profeta prima che venga il giorno dell’Eterno, giorno grande e spaventevole”; si tratta di un verso che riassume quel periodo iniziato con la venuta del Cristo e terminerà con il giudizio di Dio sul mondo. I riferimenti a Giovanni Battista, che secondo l’annuncio angelico avrebbe camminato “davanti a lui con lo spirito e la potenza di Elia” sono tanti; il significato del suo messaggio è semplice, ma al tempo stesso ha molte sfaccettature, difficili da affrontare esaurientemente anche in più incontri. Per presentarlo, è possibile iniziare dal racconto di Marco 1.1-8.

1 Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio. 2Come sta scritto nel profeta Isaia:Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. 3Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri.4Vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. 5Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. 6Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. 7E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. 8Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».

Marco è una persona che ebbe un’esperienza particolare: come Luca, non faceva parte dei 12 apostoli anche se, rispetto a lui, abbiamo più dati biografici. Non sappiamo se conobbe Gesù direttamente quando predicava, ma sicuramente era presente nell’orto degli ulivi quando fu arrestato ed è opinione consolidata che lui stesso si citi in un episodio che gli altri evangelisti omettono quando, 14.50-51, scrive “Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono. Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo”. Secondo l’uso degli ebrei che erano in contatto con romani e greci, è quel “Giovanni detto Marco” che Barnaba voleva prendere con sé prima di partire con Paolo verso la Macedonia (Atti 15.37). Sua madre Maria ospitava la Chiesa di Gerusalemme che aveva in Pietro uno degli uomini più autorevoli (leggere Atti 12.1-18).

Marco aveva già allora un rapporto molto diretto con Pietro, che lo definisce “figlio mio”, a tal punto da seguirlo a Roma, indicata dall’apostolo come “Babilonia” nella sua prima lettera in 5.13: “Vi saluta la comunità che vive in Babilonia e anche Marco, figlio mio”. Pietro, quindi, stante il rapporto con questo giovane, gli raccontò gli episodi di cui fu testimone spiegandogli i loro significati dottrinali, mettendolo in condizione di scrivere un Vangelo molto spontaneo e colorito che è il più breve dei quattro. San Girolamo, vissuto nella seconda metà del 300, padre e dottore della Chiesa che tradusse per primo la Bibbia in latino, scrive in proposito “Evangelium, Petro narrante et illo scribente, compositum est”.

Papia, vissuto tra il 70 e il 130, così scrive di Marco: “Marco, divenuto interprete di Pietro, scrisse accuratamente, ma non in ordine, tutto ciò che ricordava delle cose dette o fatte dal Signore. Non era lui, infatti, che Marco aveva visto o seguito, ma come ho già detto fu Pietro. E quest’ultimo impartiva i suoi insegnamenti secondo le necessità del momento, senza dare una raccolta ordinata dei detti del Signore, di modo che non fu Marco a sbagliare scrivendone alcuni così come li ricordava. Di una sola cosa infatti si dava pensiero nei suoi scritti: non tralasciare niente di ciò che aveva udito e non dire niente di falso”.

Marco scrive per far conoscere il Vangelo ai pagani: pochi i riferimenti profetici, poche le parabole e i discorsi, ma fatti circostanziati spesso non in ordine cronologico, con ritratti e particolari vivaci dei personaggi e degli avvenimenti in modo tale che possano essere ricordati facilmente. Marco è anche quello che più di tutti usa il termine “subito” o “prontamente” per descrivere le reazioni della gente che ebbe a che fare con Gesù. L’essenzialità dei suoi racconti, allora, appare adatta per presentare anche Giovanni Battista, introdotta con un verso che è sia di Malachia (3.1) che di Isaia (40.8).

“Ecco, dinnanzi a te mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via” è un verso che si richiama all’uso orientale di inviare dei messaggeri: quando una persona importante stava per mettersi in viaggio, li inviava ad avvisare i villaggi del suo passaggio per provvedere agli approvvigionamenti della scorta e per allestire la tenda per la sosta. La seconda parte, di Isaia, indica il luogo in cui la voce si sarebbe fatta sentire: il deserto, luogo in cui ci vuole un motivo per recarvisi e ancor più per viverci, come aveva fatto Giovanni Battista. “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”, è invece più particolare: lo abbiamo già incontrato tempo fa e allora lo avevamo messo in connessione col cammino del popolo che, di ritorno dall’esilio, aveva bisogno di chi spianasse la strada per rientrare nella propria terra, ma qui, per le parole di Giovanni che esamineremo, ha riferimento a un percorso interiore che ciascun uditore era chiamato a fare per ricevere Colui che stava per arrivare.

Quando si muoveva una personalità eminente, l’arrivo del messaggero in un villaggio provocava sempre scompiglio, turbava la sua quiete fatta di tutta una serie di eventi abituali: occorreva allora fare dei preparativi, cercare materiali, allestire cose. Allo stesso modo “Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati”, provocava inevitabilmente una profonda riflessione e sconvolgimento in coloro che lo ascoltavano e sceglievano volontariamente di farsi battezzare: confessavano i loro peccati non privatamente, ma pubblicamente.

Prima di esaminare il battesimo praticato da Giovanni, bisogna analizzare alcuni elementi suoi caratteristici. Sul vestito avevamo già accennato in precedenza; in particolare va rilevato che Elia vestiva allo stesso modo: “…domandò loro: «Qual era l’aspetto dell’uomo che è salito incontro a voi e vi ha detto simili parole?» Risposero: «Era un uomo ricoperto di peli; una cintura di cuoio gli cingeva i fianchi». Egli disse «Quello è Elia, il Tisbita»” (2 Re 1.7,8).

Ricordiamo che Elia non morì come tutti gli altri uomini, ma scomparve dalla vista del profeta Eliseo nel corso di un avvenimento che troviamo in 2 Re 2.11: “Mentre continuavano a camminare conversando, ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco si interposero tra loro due. Elia salì nel turbine verso il cielo” (2.11). Basandosi sulla profezia di Malachia era così opinione diffusa che quel profeta, assunto in cielo, sarebbe ritornato poco prima di quel giorno “grande e spaventevole” profetizzato. In realtà, quel giorno deve ancora venire e i suoi tempi sono descritti nel libro dell’Apocalisse 11.1-13. Ecco perché Giovanni, a quanti lo interrogavano chiedendogli se fosse Elia, rispose negativamente.

Giovanni vestiva in un modo che lo qualificava quanto ad abbigliamento, ma questo non dava teoricamente alcuna garanzia che fosse un profeta, poiché prima di lui erano giunti diversi personaggi che avevano preteso di essere Elia, se non addirittura il Messia. Testimonianza di ciò la dà lo stesso Gamaliele, maestro di Paolo, quando prese la parola davanti al Sinedrio di Gerusalemme che voleva processare gli apostoli:Tempo fa sorse Tèuda, infatti, che pretendeva di essere qualcuno, e a lui si aggregarono circa quattrocento uomini. Ma fu ucciso, e quelli che si erano lasciati persuadere da lui furono dissolti e finirono nel nulla. Dopo di lui sorse Giuda il Galileo, al tempo del censimento, e indusse molta gente a seguirlo, ma anche lui finì male, e quelli che si erano lasciati persuadere da lui si dispersero. Ora perciò io vi dico: non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se infatti questo piano o quest’opera fosse di origine umana, verrebbe distrutta; ma, se viene da Dio, non riuscirete a distruggerli. Non vi accada di trovarvi addirittura a combattere contro Dio!” (Atti 5.36,39).

Gamaliele in quell’occasione riassunse personaggi noti perché già falsi predicatori messianici erano sorti, sfruttando le attese del popolo per ottenerne vantaggi personali o fomentare ribellioni di cui a pagare non fossero loro, ma quelli che li seguivano. I predicatori messianici parlavano partendo dal presupposto che gli ebrei erano il primo popolo della terra, che avrebbero ottenuto la vittoria contro i romani e, raccolta gente attorno a loro, saccheggiavano quando potevano depositi di armi, si proclamavano re, si davano ai saccheggi, pretendevano di aver fatto miracoli o li promettevano, cercavano in tutti i modi di fare proseliti e tutto, presto o tardi, veniva represso nel sangue o si estingueva quando i loro seguaci capivano di trovarsi di fronte a battaglie perse in partenza.

C’è però un dato da considerare: nonostante tutti quei precedenti Elia era aspettato da tempo in Israele e, quando Giovanni iniziò a predicare, il popolo non rimase indifferente alla notizia, ma accorreva per vedere e sentire da vicino le sue parole, sperando che non fosse uno dei tanti impostori che lo avevano preceduto. Giovanni era cresciuto nel deserto rinunciando alla vita sociale, a un lavoro e quindi alla possibilità di mangiare in modo umanamente decente anziché le locuste e il miele selvatico che riusciva a recuperare, quello che le api producevano nelle cavità degli alberi o delle rocce. Era il suo uno stile di vita che manifestava l’intenzione di vivere alla completa dipendenza da Dio senza preoccuparsi di ciò che avrebbe portato il domani avendo la certezza che Lui avrebbe provveduto; atteggiamento ben diverso da quello del popolo ebraico antico che, liberato dalla schiavitù dell’Egitto, proprio nel deserto mormorava continuamente perché non riusciva a capire come avrebbe potuto trovare acqua e cibo, per non parlare di tutte le volte in cui rimpianse la vita che conduceva in quel Paese.

Giovanni inizia a predicare. Cosa? Vi è un annuncio base visto nelle parole “Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Matteo 3.2) e leggiamo da Matteo “Allora Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui e si facevano battezzare nel fiume Giordano, confessando i loro peccati” (3.5). L’imperativo è “metanoièite”, cioè un invito a considerare non solo il proprio stile di vita, ma il pensiero e i sentimenti presenti nella persona di ciascuno per cambiarli. Tra i significati possiamo includere anche il “cambiare modo di pensare”. Il corrispettivo ebraico allude anche al ritornare indietro da una falsa strada per rimettersi su quella buona. La necessità del ravvedimento predicata dal Battista trovava il suo perché nella vicinanza del “regno dei cieli”, termine che usa solo Matteo (gli altri scrivono “regno di Dio”). “Regno” sta ad indicare un territorio, un insieme di cittadini che vivono tutti sotto una precisa autorità.

Giovanni Battista quindi, rinunciando a qualsiasi egocentrismo nel quale si erano crogiolati i suoi predecessori che agivano spinti dai loro interessi, predica la necessità del ravvedimento non come atteggiamento religioso, ma come esame profondo della propria vita e delle proprie opere per essere pronti, quando sarebbe venuto, ad accogliere quel “Re dei giudei che è nato” che i magi d’oriente erano venuti ad adorare. Chi fra quelli che andavano a lui erano disposti ad operare questo severo inventario della loro vita, lo facevano e “si facevano battezzare da lui nel Giordano, confessando i loro peccati” (Marco 1.5), cioè: la fede nelle parole di Giovanni, la certezza acquisita che il regno dei cieli fosse prossimo, li spingevano a dichiarare il proprio stato di peccatori attraverso una confessione pubblica e questo significava spesso rinunciare a quell’alone di rispettabilità che molti avevano costruito attorno a sé per essere considerati dal loro prossimo. I rispettabili tra il popolo, vale a dire scribi, farisei, sadducei e dottori della Legge, salvo eccezioni che non possiamo escludere, non andavano da lui, ma inviavano delle loro spie nei luoghi in cui predicava.

Alla confessione seguiva il battesimo, l’immersione nelle acque che stava a significare la purificazione del cuore, dichiarava la volontà di cambiare, di acquisire la cittadinanza di quel regno di Dio che stava per arrivare ed era così distante da quello degli uomini peccatori che appartenevano ad un regno diverso, un regno che non fa altro che opprimere e umiliare la persona da un lato e glorificare il monarca, un uomo peccatore al pari dei suoi sudditi.

“Regno dei cieli”, “Regno di Dio” in opposizione soprattutto a quello di Satana, che nel mondo domina e ha tutto l’interesse a che l’uomo si perda, illuso da quella realtà tangibile ai suoi sensi e che gli fa credere di essere immortale o comunque possessore di qualcosa. L’uomo illuso da Satana si rifugia in se stesso, nei suoi averi, nella sua “fede”, nel suo quotidiano convinto di poter disporre liberamente del proprio tempo escludendo la presenza di Dio nella sua vita né più né meno di quel ricco della parabola che Gesù espose in Luca 12.13-21.

In questa parabola, al di là di tutte le riflessioni sull’io di quell’uomo, colpisce il fatto che Dio pone chi si ritiene padrone di sé e delle sue cose di fronte a un termine: “Questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita”, il cui testo letterale dice “richiedono da te la tua anima”, temine che sta ad indicare tutto il suo essere, le sue intenzioni, i suoi progetti perché siano pesati, misurati, vagliati. Chi spiegherà molto bene con figure questo principio sarà più avanti l’apostolo Paolo in 1 Corinti 3.11-15: “Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: infatti quel giorno la farà conoscere, perché con il fuoco si manifesterà, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera, che uno costruì sul fondamento, resisterà, costui ne riceverà una ricompensa. Ma se l’opera di qualcuno finirà bruciata, quello sarà punito; tuttavia egli si salverà, però quasi passando attraverso il fuoco”. Viviamo in un periodo storico in cui, purtroppo, il cristianesimo predica un Dio amorevole, ma spesso omette di dire le Sue esigenze.

Altra parabola importante è quella della casa costruita sulla roccia (Matteo 7.24-29): tanto in questa che nella precedente è utilizzato il termine “stolto”, che indica chi ha poca intelligenza e si comporta in modo insensato.

Giovanni, con la sua predicazione, preparava il terreno con lo scopo di mettere in grado quanti lo ascoltavano di recepire il messaggio che sarebbe stato rivolto a loro da Gesù e di riconoscerlo.

Per ora abbiamo visto solo il senso generale del significato di quel “ravvedetevi”, che Marco ci ha riportato quale base di tutto un messaggio più profondo, rivolto a diverse categorie di persone, che esamineremo nel prossimo capitolo.

“Ravvedetevi perché il Regno dei cieli è vicino” va bene, ma c’è anche l’annuncio dell’imminente arrivo di una persona ben precisa:“Viene dopo di me Colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma Egli vi battezzerà con lo Spirito Santo” (v.8). È un verso che si divide in due periodi ben distinti e il primo riguarda il sciogliere e lacci dei sandali: si tratta di un’usanza molto antica che veniva praticata in pubblico quando una persona rinunciava a un proprio diritto per darlo ad un altro. È probabile che Giovanni si riferisse all’opera di Gesù, che consegnò con il suo sacrificio un popolo nuovo al Padre. Con questa espressione Giovanni spiega ai presenti che non era lui il Messia atteso, ma solo un suo messaggero, quello che l’autorità inviava nei paesi per avvisare del suo transito. Addirittura Giovanni, con l’immagine del sciogliere i lacci dei sandali, arriva quasi ad estraniarsi, annullarsi di fronte alla santità di chi sarebbe venuto dopo di lui, evidenziando la differenza dei ruoli: “Io vi ho battezzato con acqua, ma Egli vi battezzerà con lo Spirito Santo”, parole che si compirono nel giorno della Pentecoste quando lo Spirito Santo scenderà sui membri della primitiva Chiesa di Gerusalemme in Atti 2.1-13.

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01.08 LA NASCITA DI GIOVANNI BATTISTA (Luca 1-57-66)

01.08 – Nascita di Giovanni Battista (Luca 1.57-66)

 

57Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. 58I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei.
59Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria. 60Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». 61Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». 62Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. 63Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. 64All’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. 65Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. 66Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui.”.

La nascita di un bambino è un evento naturale, non certo qualcosa di speciale o eccezionale salvo che per i genitori che lo attendono e i loro parenti. L’episodio appena letto riporta però un’altra tappa importante verso quella che possiamo definire una “nuova creazione spirituale” di Dio in cui Lui stesso pose le fondamenta per l’apertura della nuova dispensazione della Grazia. Personalmente, a partire dall’annuncio a Zaccaria, vedo sempre tante tappe, dei passi in avanti verso questa nuova era e mi piace accostare idealmente l’immagine di Dio Padre intento a costruire con cura estrema ogni passaggio del Suo progetto esattamente come quando, creando Adamo, ideò e formò ogni suo organo, ogni osso, muscolo, tendine. Anche per la creazione stessa abbiamo delle immagini poetiche che integrano il racconto della Genesi, dalle quali traspare una cura assoluta per la realizzazione del mondo in cui l’uomo avrebbe dovuto vivere: “Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri? Dimmelo, se sei tanto intelligente! Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai, o chi ha teso su di essa la corda per misurare? Dove sono fissate le sue basi o chi ha posto la sua pietra angolare, mentre gioivano in coro le stelle del mattino e acclamavano tutti i figli di Dio?” (Giobbe 38.4-7).

Ecco, nel rispetto dei tempi naturali, Elisabetta arriva al nono mese e partorisce il bambino; per la sua nascita non vi furono né segni in cielo o in terra, ma un messaggio chiaro di speranza, dei segni intimi che pochi notarono ma, come abbiamo letto, li conservarono nel cuore. C’è una grandezza tutta particolare nel fatto che “i vicini e i parenti (…) si rallegrarono” con Elisabetta perché da come si svolgeranno i fatti vediamo che, nonostante le manifestazioni di congratulazioni e i modi che quella gente aveva per manifestarle la loro vicinanza, la presenza dei vicini di casa e dei parenti era importante perché avrebbe costituito una testimonianza degli eventi che si sarebbero verificati in quella casa.

Molto spesso nella vita di una persona capita che, per giungere a una convinzione o per avere un’illuminazione, sia necessario mettere insieme e collegare più dati; questo era ciò che il Creatore desiderava avvenisse, perché chi avesse voluto indagare criticamente su Giovanni Battista per avere un quadro chiaro su di lui e su tutti gli altri avvenimenti collegati alla sua persona, avrebbe dovuto considerare la sua storia fin dall’inizio a partire dai molti che avevano assistito, nove mesi prima della sua nascita, all’uscita di suo padre dal luogo santo: a quel tempo “Zaccaria non poteva parlare loro, allora compresero che aveva avuto una visione nel tempio” (Luca 1.22). Teniamo presente che un simile evento è impossibile che non sia stato divulgato per tutta Gerusalemme, stante la sua eccezionalità. Poi abbiamo la stirpe sacerdotale di entrambi, la gravidanza andata a buon fine nonostante la sterilità e l’età avanzata di Elisabetta; tutti eventi che, assieme ad altri che vedremo, porranno le persone in grado di collegarli e riconoscere in Giovanni un profeta diverso dai suoi predecessori non solo per il suo modo di vestire e per le parole di verità che pronunciava, ma per il suo curriculum costituito da tutte queste manifestazioni. Dio non manda mai un profeta senza credenziali.

Usanza dettata dalla tradizione voleva che un bambino venisse chiamato preferibilmente col nome del nonno, o del padre, o comunque di un parente stretto e i “vicini e parenti” che erano andati a trovare Elisabetta dopo il parto, si ripresentarono per la circoncisione del bambino, “segno” esterno dell’appartenenza al popolo eletto di Dio. In Genesi 17.12 leggiamo: “All’età di otto giorni ogni maschio tra voi sarà circonciso, di generazione in generazione tanto quello nato in casa, come quello comprato con denaro da qualunque straniero che non sia della tua discendenza”. La circoncisione quindi era il segno esteriore di appartenenza al popolo ebraico oltre che di igiene, e venne ribadito anche nella dispensazione successiva, quella della Legge: “L’ottavo giorno si circonciderà la carne del prepuzio del bambino” (Levitico 12.3).

Elisabetta però, confermando di aver compreso il piano di Dio per suo figlio e di averlo pienamente accettato, prese a dire tra lo stupore dei presenti “No, anzi, sarà chiamato Giovanni”: quando sta per iniziare un periodo nuovo, anche nella banale storia umana, lo vediamo da tanti particolari, anche dai piccoli. E ogni volta che Dio o la Sua volontà fanno irruzione nella vita dei singoli come dei tanti, succedono sempre degli avvenimenti che stravolgono la norma, l’omeostasi, la tradizione, l’abitudine. Fin dall’età di otto giorni, per bocca di sua madre prima e di suo padre poi, l’esistenza di Giovanni irrompe nel ragionare umano e spezza una consuetudine: nonostante la singolarità delle circostanze che avevano caratterizzato quella nascita, per i presenti era inconcepibile che il bambino non avesse il nome del padre o di un congiunto e infatti, convinti che Zaccaria avrebbe dato loro ragione e disprezzando evidentemente sua moglie, “con cenni domandarono al padre come voleva che egli fosse chiamato. E lui, chiesta una tavoletta, scrisse in questa maniera: «il suo nome è Giovanni»”. La “tavoletta” chiesta da Zaccaria era fatta di legno di pino sottile, ma poteva essere anche di piombo, rame o avorio a seconda di chi la usava, sopra il quale era versato uno strato di cera che poi si incideva con uno stilo di ferro.

È quindi possibile affermare che la prima parola scritta del Nuovo Testamento sia stata Giovanni, cioè “Dio è grazia”, o “Dio è benevolenza”, quando l’ultima scritta dell’Antico è “sterminio”, parola con la quale si conclude il libro di Malachia. Anche con quelle parole Zaccaria e sua moglie, come faranno Maria e Giuseppe, apporranno il loro definitivo, ufficiale benestare alla volontà del Signore che li aveva scelti come genitori del precursore di Gesù. Dio si presenta quindi, nel Nuovo Patto, con queste parole. Possiamo anche ricordare quelle con cui inizia il Vangelo di Giovanni, “Nel principio era il verbo”, presenza rilevabile in quel “facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza” (Genesi 1.26) in cui la Parola era destinata a rivelarsi nella dispensazione della grazia.

Nel momento in cui Zaccaria rivelò il nome del figlio, “la sua bocca fu aperta e la sua lingua sciolta”, e usò parole di benedizione nei confronti di Dio, ben sapendo non solo di essere stato perdonato, ma constatando anche la veridicità delle promesse alle quali non aveva creduto. Ritengo che la gioia di Zaccaria sia stata difficilmente contenibile e avrebbe potuto trovare uno sfogo umano e spirituale solo attraverso il cantico che esamineremo nel capitolo successivo. È importante sottolineare che la gioia di Zaccaria si espresse attraverso parole di profonda verità, dettate dallo Spirito Santo che lo aveva illuminato. Quell’uomo, abituato al servizio sacerdotale, a parlare e a gestire la propria vita senza particolari problemi fino al giudizio dell’angelo, era rimasto sordo e muto per circa nove mesi, pensando a quanto gli era stato detto e a chiedersene il significato; aveva senz’altro meditato sia sulla sua incredulità, sia su chi sarebbe diventato un giorno suo figlio. Quello che dirà, sarà il risultato delle sue considerazioni alla luce di quanto Dio gli aveva fatto comprendere.

Riflettendo su quanto accaduto, possiamo concludere che è solo quando un uomo sperimenta su di sé l’amore di Dio che può essere in grado di parlare di Lui, di esserne testimone: Zaccaria, e con lui chiunque ha provato su di sé gli effetti di una grazia procedente dall’Alto, poteva parlare, dire, raccontare.

Luca conclude l’episodio accennando al timore dei vicini una volta che Zaccaria concluderà il cantico; la traduzione letterale di questi due versi è: “E ci fu timore su tutti i loro vicini di casa e in tutta la regione montuosa della Giudea: tutte queste parole erano oggetto di commenti. E tutti coloro che ascoltarono se le posero nei loro cuori dicendo «Che cosa sarà dunque questo bambino?» E infatti la mano del Signore era con lui”. Qui il testo pone deliberatamente l’accento sull’attesa. Mi piace pensare questi uomini e donne che, senza una rivelazione di Dio, non capiscono quello che sta succedendo, ma s’interrogano “ponendosi nel cuore” le parole udite che “furono oggetto di commenti”: ciascuno diceva la sua, ma nessuno riusciva a trovare una spiegazione soddisfacente.

Il cuore era il posto migliore in cui custodire tanto le parole quanto la notizia dell’accaduto: quando si custodisce qualcosa lì, significa che si vuole ricordare, mettere da parte qualcosa temporaneamente in attesa che giunga il momento della rivelazione, l’occasione per capire. E il racconto di ciò che avvenne in casa di Zaccaria ed Elisabetta fu tramandato perché un giorno, se qualcuno avesse voluto indagare su Giovanni Battista, non avrebbe potuto trovare un solo punto che non lo collegasse a una missione divina.

Quel bambino, una volta divenuto adulto, non sarebbe stato un profeta come gli altri, ma colui che avrebbe dovuto indicare in Gesù “L’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”, una definizione che avrebbe avuto bisogno di un personaggio autorevole per essere quanto meno presa in considerazione. Quando un profeta parla, per prima cosa chi lo ascolta si chiede chi sia e da dove venga, e poi con quale autorità si ponga innanzi a lui. Ebbene, di nessun profeta dell’Antico Patto è detto “Venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui” (Giovanni 1.8) e Nostro Signore parlò del Battista definendolo “Più che un profeta” qualificando il suo ruolo con: “Io vi dico in verità che fra i nati di donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni Battista, ma il più piccolo del regno dei cieli è più grande di lui” (Matteo 11.11).

Gesù disse questo per far capire la differenza tra Legge e Grazia in cui chi opera non è più un servo, ma un figlio e alla domanda “Che sarà mai questo bambino?” risponde il profeta Malachia con parole sulle quali torneremo: “Ecco, io mando il mio messaggero a preparare la via davanti a me. E subito il Signore che voi cercate entrerà nel suo tempio. L’angelo del patto in cui prendete piacere, ecco, verrà” (3.1). Ogni cosa sarebbe accaduta nel momento opportuno e, per l’episodio che abbiamo visto brevemente, quel “messaggero” era nato e avrebbe preparato “la via”, cioè preannunciato l’arrivo del Salvatore, allora in gestazione di tre mesi, in Maria.

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