11.25- IL PROFETA ELIA III/IV: IL TEMPO A VENIRE (INTRO) (Apocalisse 11.1-14)

11.25 – Elia  III: il tempo a venire, introduzione (Apocalisse 11.1-14)

 

1 Poi mi fu data una canna simile a una verga e mi fu detto: «Àlzati e misura il tempio di Dio e l’altare e il numero di quelli che in esso stanno adorando. 2Ma l’atrio, che è fuori dal tempio, lascialo da parte e non lo misurare, perché è stato dato in balìa dei pagani, i quali calpesteranno la città santa per quarantadue mesi. 3Ma farò in modo che i miei due testimoni, vestiti di sacco, compiano la loro missione di profeti per milleduecentosessanta giorni». 4Questi sono i due olivi e i due candelabri che stanno davanti al Signore della terra. 5Se qualcuno pensasse di fare loro del male, uscirà dalla loro bocca un fuoco che divorerà i loro nemici. Così deve perire chiunque pensi di fare loro del male. 6Essi hanno il potere di chiudere il cielo, perché non cada pioggia nei giorni del loro ministero profetico. Essi hanno anche potere di cambiare l’acqua in sangue e di colpire la terra con ogni sorta di flagelli, tutte le volte che lo vorranno. 7E quando avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall’abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà. 8I loro cadaveri rimarranno esposti sulla piazza della grande città, che simbolicamente si chiama Sòdoma ed Egitto, dove anche il loro Signore fu crocifisso. 9Uomini di ogni popolo, tribù, lingua e nazione vedono i loro cadaveri per tre giorni e mezzo e non permettono che i loro cadaveri vengano deposti in un sepolcro. 10Gli abitanti della terra fanno festa su di loro, si rallegrano e si scambiano doni, perché questi due profeti erano il tormento degli abitanti della terra.11Ma dopo tre giorni e mezzo un soffio di vita che veniva da Dio entrò in essi e si alzarono in piedi, con grande terrore di quelli che stavano a guardarli. 12Allora udirono un grido possente dal cielo che diceva loro: «Salite quassù» e salirono al cielo in una nube, mentre i loro nemici li guardavano. 13In quello stesso momento ci fu un grande terremoto, che fece crollare un decimo della città: perirono in quel terremoto settemila persone; i superstiti, presi da terrore, davano gloria al Dio del cielo.
14Il secondo «guai» è passato; ed ecco, viene subito il terzo «guai».

 

Con questo terzo capitolo su Elia ci attende un compito arduo, cioè cercare di capire il suo ruolo in un tempo futuro che va inquadrato; quando infatti Gesù disse ai suoi “Elia è già venuto”si riferiva alla funzione di Giovanni Battista in quanto precursore e non al profeta propriamente vissuto nel IX secolo prima di Lui. Stante il poco spazio a disposizione e il fatto che questa parentesi su Elia viene fatta nel contesto dei Vangeli, darò solo delle aperture comprensibili per dare a chi legge l’opportunità di espanderle.

Anche a Giovanni, Autore del libro dell’Apocalisse, è affidato un incarico difficile: gli viene mostrato il piano di Dio e gli avvenimenti che caratterizzeranno un’epoca da lui enormemente distante e così si ritrova a dover descrivere situazioni e realtà di fronte alle quali gli mancano le parole. Il lessico cambia col tempo, si coniano vocaboli che prima non c’erano e si adattano al nuovo contesto che si viene a creare. Per un qualsiasi uomo dell’epoca di Giovanni sarebbe difficile descrivere anche una bicicletta, figuriamoci un carro armato, un aereo, un drone, un bombardamento, un computer e così via: non gli resta così altro modo che fare riferimenti a ciò che conosce impiegando una terminologia spirituale nota e riconoscibile da chi ama e legge le Scritture consapevole che sia l’unico modo, una volta ricevuto lo Spirito Santo, di comunicare attraverso il tempo. Ecco una delle ragioni per cui “Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e custodiscono le cose che vi sono scritte: il tempo infatti è vicino”(1.3). “Leggere” – prendere atto – “ascoltare” – riflettervi sopra, studiare, comprendere – e “custodire” – cioè conservare per il tempo opportuno, ritenere per riconoscere – sono quindi i verbi impiegati da Giovanni per un utilizzo responsabile del messaggio datogli dal Cristo glorificato. L’Apocalisse, infatti, è un libro dato alla cristianità di ogni tempo, a partire dall’anno 100, contenendo avvenimenti che si verificheranno da lì in poi, anche dentro la stessa Chiesa.

Tornando al nostro capitolo 11, la cornice temporale è quella della Gran Tribolazione, cioè quel periodo, della durata di tre anni e mezzo, a cavallo tra il rapimento della Chiesa e il Millennio. Se 1.260 giorni sembrano poca cosa, in realtà costituiranno il periodo più buio di tutta la storia umana e sembreranno trascorrere con una lentezza estrema. Questi giorni partiranno dal rapimento della Chiesa, segnale molto importante dell’amore di Dio per coloro che gli appartengono: i credenti di allora verranno infatti risparmiati dalla Gran Tribolazione, mentre tutti gli altri uomini vi resteranno coinvolti e nulla sarà loro risparmiato. Il rapimento della Chiesa infatti avverrà per toglierla dagli avvenimenti terribili che si verificheranno sulla terra; a ben vedere, questo è sempre stato il metodo di Dio per evitare che la tentazione “oltre le nostre forze”avvenga. L’intervento in proposito lo abbiamo visto con Noè e la sua famiglia ai tempi del diluvio, con il sangue spruzzato sulle porte in Egitto perché il popolo fosse risparmiato dalla strage dei primogeniti, con Lot e i suoi, fatti uscire da Sodoma prima della sua distruzione.

Un piccolo appunto sul “tentati oltre le nostre forze”: molto spesso si applica questo verso a ciò che ci spingerebbe a infrangere il decalogo, ma in realtà, come dimostra il libro di Giobbe, l’Avversario tenta anche con la sofferenza fisica e morale, senza contare quella provocata da coloro che vorrebbero aiutarci attraverso sentenze morali o falsamente spirituali.

Col rapimento della Chiesa verrà quindi a cessare la testimonianza, ma resterà ancora la Scrittura e sarà ancora possibile la conversione, ma senza l’aiuto della predicazione e del riferimento del “Corpo di Cristo”. Di fronte al rapimento, infatti, ci sarà chi lo riterrà un evento inspiegabile e chi ne cercherà le ragioni, non volendo essere coinvolto nel nuovo sistema politico satanico che sarà riconoscibile, per quanto a pochi.

Il periodo dei tre anni e mezzo (42 mesi o 1.260 giorni) vedrà l’opera di due personaggi principali, l’anticristo e il falso profeta, oltre che ad un sistema che Giovanni chiama “bestia”e che rivela in varie forme e modi. La persona dell’Anticristo non è frutto della fantasia di registi e sceneggiatori, ma è “colui che nega il Padre e il Figlio”(1 Giovanni 2.22) e che più precisamente va identificato in 4.3, sempre della stessa epistola: “Ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Questo è lo spirito dell’anticristo che, come avete udito, vieni, anzi è già nel mondo”.

L’anticristo allora è la sublimazione, l’incarnazione del principio in base il quale il Dio predicato dal cristianesimo è un’invenzione, quindi non esiste, e a Lui va sostituito l’uomo, l’Io nelle sue multiformi espressioni. Non vi è motivo per dubitare che questo personaggio, un politico, costruirà il suo potere sul mondo grazie ad un sistema che raccoglierà in sé tutti gli Stati sotto un’unica legge, la sua. Già ad esso abbiamo una Chiesa che predica l’ascolto dell’ “altro”, ma non quello di Dio.

Attenzione a non prendere il discorso dell’Anticristo alla lettera nel senso che questo personaggio non salirà al potere “umanamente”, cioè con le sue forze, ma con quelle di Satana che preparerà il sistema adatto affinché, almeno all’inizio, si possa instaurare una dittatura morbida, vale a dire una democrazia apparente: l’Anticristo non salirà al potere con una cospirazione, ma sarà acclamato da tutti, Israele compreso che individuerà in lui il Messia, per cui un altro dato certo che abbiamo è che questo personaggio sarà un ebreo.

Se quindi, come abbiamo letto e sappiamo, “lo spirito dell’anticristo è già nel mondo”, va da sé che gli eventi narrati nell’Apocalisse relativamente ai personaggi e strutture che la caratterizzeranno non compariranno tutto a un tratto, ma saranno il risultato di un’evoluzione che, in realtà, iniziò con la costruzione della torre babilonese, simbolo dell’indipendenza dell’uomo da Dio. Dopo di quella, tanti imperi si sono succeduti, anche in tempi a noi vicini. Non a caso Giovanni vede “una bestia salire dal mare”(13.1) e un’altra “che saliva dalla terra”(13.11), entrambe caratterizzate da un verbo, “salire”, che dà proprio l’idea di una progressione; viceversa Giovanni avrebbe scritto “comparire”, “apparire”. La prima bestia “sale”dalla confusione, raffigurata dal mare, la seconda dal profondo dell’orgoglio umano, visto nella “terra”. Non a caso la bestia che sale dal mare riceverà l’ammirazione dell’umanità che vorrà identificarsi in lei a tal punto dall’aderirvi completamente; in 12.4 leggiamo “…e adorarono la bestia dicendo: «Chi è simile alla bestia, e chi può combattere con lei?»”e al verso 8 “E l’adorarono tutti gli abitanti della terra, i cui nomi non sono scritti nel libro della vita dell’Agnello, che è stato ucciso fin dalla fondazione del mondo”.

Allora, con questi due versi, abbiamo un aggiornamento del verbo “adorare”, da noi istintivamente inteso in senso univoco, vale a dire con gente che si prostra, magari pregando o con altre manifestazioni; piuttosto l’adorazione di cui qui si parla consiste, ampliato e in modo ancora più marcato, a quanto da noi già visto quando abbiamo studiato o letto sulle strutture imperialiste come il Comunismo, il Fascismo o il Nazismo, sul tesseramento politico, la fede nei raduni, negli ideali, nei progetti dei vari dittatori. Lenin, Stalin, Mao, Mussolini, Pol Pot, Hitler e tanti altri, furono anche “adorati”, incensati, osannati attraverso non solo la partecipazione straordinaria di masse acclamanti, ma attraverso ritratti, statue e templi che in un certo qual modo personalizzavano, stigmatizzavano il regime. Con la Bestia, avverrà la stessa cosa, ma in modo più subdolo nel senso che sarà necessario escogitare una forma simile, ma non identica, non riconoscibile se non quando sarà, come si dice, “troppo tardi”.

Qui, con la prima bestia che formerà un tutt’uno con la seconda, abbiamo le coscienze umane compresse da ogni parte, indirizzate per non poter fare altrimenti dopo innumerevoli forme di appiattimento mentale e condizionamento di cui già oggi possiamo constatare gli effetti anche senza basarci sulla nostra esperienza di fede: se ai giovani di quaranta, trenta o anche venti anni fa si cercava di far sentire l’individuo come unico e il cinema, la televisione, insomma i media salvo rari casi indirizzavano all’espressione di un sé, per quanto discutibile, oggi tutto questo non esiste più, ma abbiamo una tecnologia che rende schiavi e atrofizza la mente, oltre a tutta una serie di input come la musica, i film, la pubblicità, che portano il giovane a identificarsi con e in modelli assolutamente vuoti, privi di un perché, di un come, di un dove. Anche gli stessi navigatori satellitari, usati come unica fonte di orientamento, impediscono alla persona di sapersi collocare consapevolmente nello spazio orizzontale, a differenza di quanto avveniva con le carte stradali. Tra l’altro tutta questa tecnologia è in grado di funzionare “fino a quando tutto va bene”, ma in caso di guasto, o per meglio dire di guerra, saranno le prime ad essere inutilizzabili. E la gente comune non saprà più come fare perché non in grado di orientarsi al di là di un raggio di 100 chilometri, ed è già una stima elevata. Potremmo continuare, ma ne uscirebbe un libro e non un capitolo.

Se la prima bestia attirerà a sé la parte istintiva-terrena delle persone, la seconda agirà in modo diverso: “esercitava tutta l’autorità della prima bestia davanti a lei e faceva sì che la terra e i suoi abitanti adorassero la prima bestia”(13.12). Il terribile è che “faceva sì che tutti coloro che non adoravano l’immagine della bestia fossero uccisi”, quindi coloro che, nonostante la Chiesa assente, crederanno.

Lo scenario sarà tale che “faceva sì che a tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e servi, fosse posto un marchio sulla loro mano destra o sulla loro fronte, e che nessuno potesse comperare o vendere, se non chi aveva il marchio o il nome della bestia o il numero del suo nome”(13.16,17). Ora non è difficile connettere la seconda parte del verso a quelle che per il momento sono schede elettroniche come Bancomat, Carte di Credito o di Identità, ma che in futuro – e se ne parla già da tempo – convergeranno tutte in un unico microchip che si pensa di inserire – e così oggi avviene per gli animali domestici o a esseri umani volontari in alcune aziende – proprio nella mano destra o sopra una delle due sopracciglia (per gli esseri umani). Non è un caso se, al momento in cui scrivo queste pagine, i Governi stiano facendo forti pressioni per eliminare il consumo del denaro contante. Anche qui, ciò avviene per gradi ma, se ci voltiamo indietro anche oggi, non possiamo che prendere atto del numero di libertà che abbiamo perso anche sulle cose minime: tutto dev’essere registrato o registrabile, tracciato o tracciabile, compresi non solo i nostri spostamenti, ma ciò che mangiamo, cosa consumiamo, quali siti visitiamo in Internet.

Ora questo sistema convergerà in uno solo, sotto il controllo dell’anticristo (capo politico) e di un personaggio religioso, il falso profeta che, identificandosi nella bestia che “sale dalla terra”, ha “due corna, simili a quelle di un agnello, ma parlava come un dragone”(13.11), quest’ultima figura dell’Avversario. Il falso profeta è caratterizzato dal numero 666, oggetto di interpretazioni innumerevoli da quando il libro dell’Apocalisse è stato divulgato e sul quale non mi soffermo, a parte una sottolineatura della triade del 6 e un rimando a quanto già scritto su questo numero. È importante tener presente che quanto troviamo scritto sulla Gran Tribolazione è fondamentalmente per quei credenti che, attraverso le parole di Giovanni, riconosceranno inequivocabilmente il loro tempo e avranno modo di orientarsi in quel periodo così terribile, traendone consolazione per il premio a loro riservato. Avranno, in poche parole, un’identità certa a differenza di tutti gli altri, come accade da sempre, ma che lì sarà ancora più accentuato.

Va sottolineato che tutto quanto fin qui ho riferito, purtroppo, riporta una visione molto limitata di quello che sarà la vita nella Gran Tribolazione; la mia descrizione non tiene conto degli avvenimenti, come le catastrofi naturali, che caratterizzeranno questo periodo di cui Gesù, aprendo una finestra temporale nel suo complessissimo sermone profetico, dice “Se quei giorni non fossero abbreviati, nessun vivente si salverebbe; ma a causa degli eletti, quei giorni saranno abbreviati”(Mt 24.21).

Ed eccoci, fatta questa premessa, giungere ai due testimoni, di cui abbiamo letto al verso 3 che sarà dato loro di “profetizzare milleduecentosessantagiorni”, lo stesso tempo, più o meno, dei 42 mesi (42×30=1260) dati alla “bestia che sale dal mare”. Siccome però non esistono mesi di 30 giorni uno dopo l’altro, ma anche di 31 e febbraio di 28 (o 29 se cade in un anno bisestile), i giorni dati alla bestia sono, o sarebbero, poco di più. Il contesto della Gran Tribolazione sarà terribile perché, a parte il regime che si instaurerà, vi saranno eventi climatici e astronomici che sconvolgeranno la terra provocando miliardi di morti; ricordiamo ad esempio 9.15 “Furono liberati i quattro angeli, pronti per l’ora, il giorno, il mese d l’anno, al fine di sterminare un terzo dell’umanità”, oppure i flagelli del fumo, del fuoco e dello zolfo al verso 18: inquinamento? Guerra nucleare? Noi lo possiamo ipotizzare, ma chi vivrà il tempo di quelle manifestazioni le riconoscerà con certezza.

Così infatti si apre il libro scritto da Giovani; “Rivelazione di Gesù Cristo, al quale Dio la consegnò per mostrare ai suoi servi le cose che dovranno accadere tra breve”(1.1): noi, per le condizioni in cui versa la terra e gli uomini, per il degrado delle menti e dei cuori che vediamo, possiamo solo capire che gli ultimi tempi li stiamo vivendo, e che il ritorno del Signore Gesù Cristo è veramente vicino. Nel prossimo capitolo, l’ultimo su Elia, cercheremo di concludere la lettura dei dati che l’apostolo Giovanni ha lasciato per il nostro, e soprattutto l’altrui, orientamento. Amen.

* * * * *

10.12 – IL PANE DELLA VITA (Giovanni 6.45-51)

10.12 – Il pane della vita (Giovanni 6.41-51)

48Io sono il pane della vita. 49I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; 50questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. 51Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».”.

I versi da 26 a 58 di questo capitolo sono dedicati alla presentazione di Gesù come “Pane della vita”con un discorso in cui si rivela non solo come unica fonte di salvezza per l’uomo, ma dà anche per la prima volta un’identità precisa di sé riguardo al proprio corpo e sangue. Già qui abbiamo un’incommensurabile distanza tra ciò che fu Lui come uomo e ciò che siamo noi: le parole “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno”(v. 54) fanno riferimento al Suo potere salvifico in contrapposizione alla nostra incapacità risolutiva in tal senso perché la nostra “carne e sangue – cioè così come siamo– non possono ereditare il regno di Dio” (1 Corinti 15.50).

Per quanto noi possiamo fare, allora, non abbiamo nessun potere su ciò che esula dal nostro ambiente terreno per quanto, anche in quel contesto, non possiamo fare “un solo capello bianco o nero”. Si tratta di un’impossibilità già espressa nel dialogo con Nicodemo in cui leggiamo“Se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito”(Giovanni 3.5,6).

“Io sono il pane della vita”viene ripetuto per la seconda volta a distanza di poco tempo così come il richiamo alla manna nel deserto ad esso simbolicamente collegato. Mi sono chiesto quali applicazioni si potessero fare sul “pane” nella Scrittura, che simboleggia ciò che alimenta l’uomo e troviamo menzionato la prima volta in Genesi 3.19: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e polvere ritornerai”. Per poter sopravvivere, quindi, Adamo e la sua discendenza avrebbero dovuto lavorare con fatica, a differenza di quanto avveniva in Eden, quel luogo che il Creatore aveva personalmente realizzato per loro e in cui non si conosceva la fame né altre problematiche legate all’esistenza. Ricordiamo che Adamo e sua moglie avevano a disposizione tutti i frutti del giardino, ma ancora di più quelli dell’ “albero della vita”che si trovava al centro di esso, cioè sempre raggiungibile, mai distante da qualunque punto si trovassero. Contrariamente il pane che Adamo si sarebbe procurato lavorando, lo avrebbe nutrito fino a quando egli non sarebbe ritornato polvere.

Il pane, certo non quello contaminato che abbiamo oggi, è figura di ciò che necessita all’uomo per vivere e infatti è uno dei soggetti di preghiera nel “Padre Nostro”, ma nelle parole di Gesù è un elemento che si trasforma sempre in un concetto di più ampia portata: “l’uomo non vive di solo pane, ma di ciò che procede dalla bocca di Dio”, quindi c’è un nutrimento diverso che va assunto per vivere davvero, al di là di quello che conosciamo. Nella seconda parte del verso 50, poi, c’è un “pane che discende dal cielo perchéchi ne mangia non muoia”essendo il Cristo l’unica opportunità offerta per perché l’uomo si possa appropriare di quella vita eterna che altrimenti gli sarebbe negata. E il paragone con la “manna del deserto”, rivolto al popolo che ben conosceva l’episodio, fu quanto mai pertinente, perché la citazione di quanto avvenuto in Esodo ci parla di un intervento di Dio perché gli israeliti non morissero di stenti in un territorio ostile. Ma c’è di più perché, se per i Giudei la citazione dell’episodio della manna fu il punto di partenza per rifiutare Gesù come riportato al verso 31 (“I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto”), per Nostro Signore fu quello di arrivo: certo i loro padri l’avevano mangiata e morirono, ma “questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia”(v.50).

Il primo pane, quindi, era per la sopravvivenza temporanea, ma il nuovo, quello “che discende dal cielo”, lo sarebbe stato per la vita eterna. È e fu punto di arrivo perché, dopo di quello, l’uomo non può desiderare altro: cibandosene ha finalmente un ruolo, una prospettiva, una destinazione, una dignità vera. Da notare che i pronomi “Io”e “Me”compaiono in questo capitolo per 35 volte, 5×7, a sostegno della totalità e perfezione dell’opera del Figlio. In quel “sono morti”, infatti, abbiamo un rimando alla descrizione obiettiva che Salomone fa dell’esistenza umana nel libro del Qoèlet quando scrive “Una generazione se ne va e un’altra arriva, ma la terra resta sempre la stessa (…) nessun ricordo resta degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso quelli che verranno in seguito”(1.4,11): ora il “ricordo degli antichi”non è riferito ai grandi della storia – anche quelli che troviamo nell’Antico Patto –, ma a tutto quel patrimonio di vissuto, nel bene e nel male, di aspirazioni, esperienze e speranze di tutti quelli che sono stati, in un modo o in un altro, protagonisti della loro storia e che è svanito, di quella verità reale, non ufficiale, che non ci è stata tramandata e che non conosciamo. Credo che lo studio della storia umana sia uno dei più grossi inganni che possiamo subire perché scritta sempre dai vincitori che l’hanno piegata ai loro scopi e dagli storici che, per quanto riguarda quella recente, l’hanno omessa in quei dettagli che avrebbero potuto modificarne il senso.

Certo la manna nel deserto ebbe una valenza spirituale assoluta perché stava a testimoniare l’amore di Dio per il suo popolo, ma costituiva, dal momento in cui Gesù parlava in poi, un evento passato: uno dei tre artefici della manna nel deserto stava lì, davanti a quei Giudei che lo contestavano incapaci di capire e privi della volontà di comprenderne il senso.

Ricordiamo infatti le parole di Proverbi 8.21-31 quando parla la Sapienza “Quando egli fissava i cieli, io ero là, quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti così che le acque non oltrepassassero i loro confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo”(Proverbi 8.21-31). Sicuramente da sottolineare il “globo terrestre”, descrizione che sta a indicare come gli uomini di Dio già sapessero che la terra non era piatta, come si riteneva nel mondo antico estraneo alla Rivelazione.

Un giorno ho pensato che l’opera della creazione di Dio fu un atto non meno complesso del piano di salvezza per l’uomo: il Padre scrisse, nel Libro che solo l’Agnello sarà in grado di aprire, i nomi di tutti coloro che sarebbero stati salvati. Diede loro un posto, un ruolo tanto nella vita terrena che in quella eterna provvedendo alla cancellazione del loro peccato, come troviamo scritto, “…e non mi ricorderò più dei loro peccati”(Geremia 31.31): in Ebrei 8.13 infatti leggiamo “Dicendo alleanza nuova– quella di cui Geremia ha parlato –  Dio ha dichiarato antica la prima; ma, ciò che diventa antico e invecchia, è prossimo a scomparire”. Non credo che possa esservi passo migliore, a commento di quanto stava avvenendo nella Sinagoga di Capernaum, di Ebrei 1.1-4 che, in poche parole, traccia il senso della storia umana raccordata a quella della Creazione Nuova di cui Gesù è il responsabile: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo. Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato”.

È proprio questo ultimo verso a spiegare cosa volesse dire Gesù: il mangiare “di questo pane”è la chiave del discorso, una direzione unica e precisa che ogni uomo, da quando furono pronunciate queste parole, è chiamato a prendere. Per ora stiamo ancora considerando la prima parte di quanto detto da Nostro Signore: mangiare “di questo pane”è un’azione che comporta l’avvicinarsi, prenderlo e cibarsene, cioè farlo profondamente proprio, assimilarlo, quindi ha riferimento con il “credere”che, come più volte sottolineato, è tutt’altro che una semplice presa d’atto. E, certo, comporta delle prese di posizione viste nei due veri “sacramenti” del cristianesimo, il battesimo e la santa cena in cui, assumendo pane e vino, i credenti rinnovano la loro adesione a Cristo obbedendo al comandamento “Fate questo in memoria di me, finché io venga”.

“Se  uno mangia di questo pane vivrà in eterno”, esprime così una condizione, l’unica perché ciò possa avvenire essendo la conseguenza del credere. Poi leggiamo “il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”(v.51), frase che ha generato da allora in avanti una confusione enorme perché presa letteralmente. Subito infatti i Giudei dissero “Come può costui– in senso spregiativo – darci la sua carne da mangiare?”(v.52) e “da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui”(v.66). Sono passi che affronteremo, ma che dicono molto sull’incapacità dell’uomo naturale di comprendere qualsiasi concetto spirituale: esistono le parabole – o per lo meno alcune di loro –, racconti semplici, che rimangono impressi e il più delle volte sono interpretabili anche da un bambino, ma nel momento in cui ci si addentra nelle prime verità nascoste di Dio ecco che la mente carnale subito interviene volendo interpretare correttamente e, non riuscendovi, si arrende nel modo sbagliato, cioè rifiutandole invece che chiedere umilmente a Lui di illuminarlo. Rifiutare un concetto spirituale comporta sia il respingerlo che il giudicarlo, allontanandosene.

Rimaniamo un poco su quanto detto da Gesù finora: la vita eterna la possiede “chi mangia di questo pane”, ma prima, al verso 40, le parole furono “La volontà di colui che mi ha mandato è questa: che chiunque vede il Figliolo e crede in lui, abbia vita eterna, e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”, due concetti diversi che portano al medesimo risultato comprendendoli entrambi; “vedere”e “credere”, quindi riconoscere la sua esistenza e presenza spirituale indipendentemente dal tempo in cui si vive. Quando Gesù era sulla terra la gente poteva vederlo di persona e credere o meno, allora come oggi. Ogni credente vissuto dalla morte e resurrezione del Cristo in poi, noi compresi, lo ha visto con gli occhi di chi ce lo ha descritto, in parole e opere, nel Vangelo e in tutti gli scritti che compongono il cosiddetto “Nuovo Testamento”.

Quindi: chi ha mangiato la manna nel deserto morì confermando l’amara constatazione di Salomone “Tutti sono diretti nel medesimo luogo: tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna”(Qoèlet 3.20); chi però afferra l’opportunità di cibarsi del pane disceso dal cielo “vivrà in eterno”perché, pur passando attraverso la morte del corpo, eviterà quella seconda riservata ai “codardi, gli increduli, gli immondi, gli omicidi, i fornicatori, i maghi, gli idolatri e tutti i bugiardi”(Apocalisse 21.8). Si tratta di categorie illuminanti che riguardano tutti coloro che non fanno proprio il sacrificio di Cristo per essere salvati senza produrre quei “frutti degni del ravvedimento”indispensabili a confermare la nuova nascita. Si tratta, ancora, delle stesse tipologie di persone alle quali appartenevamo un tempo. Scrive l’apostolo Paolo che “Tali eravate alcuni di voi, ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio!”( 1 Corinti 6.11).

Ancora, sempre in Apocalisse 20.15 leggiamo che “chi non risultò scritto nel libro della vita fu gettato nello stagno di fuoco”, per cui l’uomo non può avere alternative di scampo se non in quel “pane vivo disceso dal cielo”oggi liberamente a disposizione di chiunque. Sono queste parole importanti e mettere i versi di Apocalisse che abbiamo riportato in relazione tra loro è fondamentale perché, lungi dal dividere l’umanità in “buoni e cattivi”, in realtà crea l’insieme dei credenti e dei non credenti, cioè di coloro si nutrono delle parole del Figlio di Dio oppure no, su Lui fanno affidamento e in Lui si nutrono. Amen.

* * * * *

 

02.12 – L’AMICO DELLO SPOSO (Giovanni 3.22-36)

2.11 – L’amico dello sposo (Giovanni 3.22-36)

 

22Dopo queste cose, Gesù venne con i suoi discepoli nel territorio della Giudea, e là rimase con loro e battezzava. 23Ora anche Giovanni battezzava in Enon, vicino a Salim, perché là c’era abbondanza di acqua e la gente veniva e si faceva battezzare 24perché Giovanni non era ancora stato gettato in prigione. 25Sorse allora una discussione da parte dei discepoli di Giovanni con i Giudei attorno alla purificazione. 26Così vennero da Giovanni e gli dissero «Maestro, chi era con te al di là del Giordano, a cui hai reso testimonianza, ecco che battezza tutti quelli che vanno da lui» 27Giovanni rispose e disse: «L’uomo non può ricevere nulla, se non gli è dato dal cielo. 28Voi stessi mi siete testimoni che io ho detto «Io non sono il Cristo, ma sono stato mandato davanti a lui». 29Colui che ha la sposa è lo sposo, ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, si rallegra grandemente alla voce dello sposo; perciò la mia gioia è completa. 30Bisogna che egli cresca e che io diminuisca. 31Colui che viene dall’alto è sopra tutti; colui che viene dalla terra è della terra e parla della terra; colui che viene dal cielo è sopra tutti. 32Egli attesta ciò che ha visto e udito, ma nessuno riceve la sua testimonianza. 33Colui che ha ricevuto la sua testimonianza ha solennemente dichiarato che Dio è verace. 34Infatti colui che Dio ha mandato proferisce le parole di Dio, perché Dio non gli dà lo Spirito con misura. 35Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa. 36Chi crede nel Figlio ha vita eterna, ma chi non ubbidisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio dimora su di lui»”.

Dopo il discorso di Gesù a Nicodemo, abbiamo le parole del Battista ai suoi discepoli che mette a confronto la sua opera con quella di Gesù che, dopo quel colloquio, ritenendo di aver concluso la sua permanenza in città, fosse meglio rivolgersi alle zone di campagna circostanti. Si mise così a predicare battezzando proprio come faceva Giovanni Battista che si trovava ad Enon (o Ainon) più a Nord anche se, come leggiamo in Giovanni 4.2, “non era Gesù a battezzare, ma i suoi discepoli”. Ci fu una disputa sulla “purificazione” con un giudeo, nei testi più accreditati al singolare e non al plurale, sulla differenza tra il purificarsi secondo la tradizione e quella del battesimo predicato da Giovanni e quello dai discepoli di Gesù, allora ancora identici nella forma e nella sostanza.

Giovanni, prima dell’inizio della vita pubblica di Gesù, era l’unico accreditato ad amministrare il battesimo in quanto era colui che Dio aveva designato per essere la “Voce d’uno che grida nel deserto «Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri»”. Non era ancora venuto il tempo in cui Gesù avrebbe detto a chi guariva “La tua fede ti ha salvato” e i miracoli fatti in Gerusalemme avevano lo scopo di qualificarlo esattamente come disse Nicodemo: “Noi sappiamo che nessuno può compiere i segni che tu fai, se Dio non è con lui”.

I discepoli di Giovanni, evidentemente convinti dell’unicità della predicazione del loro Maestro, avevano preso con una certa gelosia la notizia in base alla quale Gesù predicava e battezzava al pari suo, interrogati forse sulla eventuale differenza tra i due battesimi e sul perché uno amministrasse in un luogo e l’altro in un altro. Le parole dei suoi discepoli, con quell’ “a cui hai reso testimonianza” mostrano quanto non avessero capito che era in atto un profondo mutamento nella storia della salvezza, quasi a sottintendere “Guarda, tu l’hai qualificato davanti a tutti i presenti come l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo, e lui ti ricambia in questo modo”; per questo era necessario un distinguo tra di due ruoli, tra il privilegio che aveva avuto Giovanni, “mandato davanti a lui” e la persona del Cristo, dell’inviato con un unzione non umana, profondamente diversa per compiti e origine. E Giovanni Battista si qualifica, con un termine che per i lettori del vangelo è nuovo, “l’amico dello sposo”, proponendo un tema che verrà poi sviluppato in particolare dall’apostolo Paolo. L’insegnamento del Battista potrà essere qui visto per sommi capi e verrà ripreso più avanti, quando Gesù esporrà delle importanti parabole su questo tema.

Il distinguo tra le opere del precursore del Messia e il Messia stesso è definito con vari concetti e una premessa in base alla quale “L’uomo non può ricevere nulla se non gli è dato dal cielo” là dove il ricevere implica anche, nel verbo greco originale, “prendere”. I doni di Dio vengono dispensati, ma tocca al destinatario – appunto – prenderli e usarli, come nella parabola dei talenti esposta in Luca 19.12-27 (leggere) che ci parla di un uomo che parte per un paese lontano per ricevere il titolo di re e tornare, e dei servi che prendono dalle sue mani una moneta d’oro per farle fruttare nell’attesa.

Giovanni dice ai suoi discepoli, con questa frase, che solo nel caso di un dono dall’alto vi può essere un risultato, altrimenti la sostanza, il raccolto incorruttibile, non può esistere, come testimoniato dalle vicende esposte da Gamaliele e di cui abbiamo parlato in un’altra riflessione a proposito dei tanti sorti dal nulla che pretendevano di essere il Messia o un suo inviato, che poi scomparvero sepolti dalla storia o, nella storia della Chiesa, tanti fautori di errori interpretativi penalizzanti alcuni durati pochi anni, altri esistenti ancora oggi. Ogni uomo mandato veramente da Dio ha un’opera e un campo d’azione assegnatogli a prescindere da titoli e riconoscimenti umani; nel caso di Giovanni il ruolo che aveva era quello di essere “mandato davanti a lui” sì come voce nel deserto, ma anche come “amico dello sposo”, definizione nuova che non troveremo più, nella Scrittura, per nessun altro.

L’amico dello sposo, per i matrimoni di allora, chiamato dai greci Paranymphos, era l’incaricato di tutti i preliminari del matrimonio ed aveva una funzione tecnico-giuridica: domandava la mano della sposa, stringeva il contratto di matrimonio stabilendo la sua dote, preparava e presiedeva la festa nuziale e l’onore che aveva era direttamente proporzionale al rango delle due famiglie. Si trattava di un incarico delicato che richiedeva una fiducia assoluta e un’amicizia intima tra lo sposo e il suo amico. Per usare questi termini, sicuramente alla presenza dell’apostolo Giovanni e forse anche degli altri tre (Andrea, Pietro e Giacomo), il Battista doveva avere ricevuto un insegnamento molto profondo dallo Spirito perché vide, anche se in modo diverso, ciò che descrive il suo omonimo discepolo, poi diventato apostolo, in Apocalisse quando scrive “Udii poi come una voce di una folla immensa, simile a fragore di grandi acque e a rombo di tuoni possenti, che gridavano «Alleluia! Ha preso possesso del suo regno il Signore, il nostro Dio, l’Onnipotente. Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché sono giunte le nozze dell’Agnello; la sua sposa è pronta: le fu data una veste di lino puro e splendente». La veste di lino sono le opere giuste dei santi” (19.6-8).

Qualificandosi così davanti a quei discepoli, Giovanni Battista fa un paragone perfetto. Lui preparava, poneva le basi per una Chiesa di cui, pur dovendo ancora formarsi, ne vedeva le sembianze nel suo futuro immediato e lontano, mentre l’apostolo la vide in tutta la sua perfezione nella visione della Gerusalemme celeste in cui “quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello” formeranno un tutt’uno con essa (Apocalisse 21.9-27). Giovanni Battista, da uomo attento e consapevole del proprio ruolo, sa che il momento in cui dovrà farsi da parte è imminente: “Bisogna che lui cresca e che io diminuisca” (v.30) e infatti la sua funzione diminuirà in modo proporzionale a quella con cui Gesù illuminava le persone coi suoi insegnamenti indicando la via verso il cielo, cioè lui stesso: “Io sono la via, la verità e la vita”. È l’amore vero, quello che non cerca il tornaconto personale, ma l’altrui. L’apostolo Paolo, poi, si servirà della relazione tra Cristo e la Chiesa per descrivere il rapporto matrimoniale tra credenti consapevoli: “Mariti, amate le vostre mogli come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Efesi 5.25-27).

Le parole di Giovanni Battista furono capite dai suoi discepoli, segno che non si era limitato a predicare il ravvedimento, ma aveva comunicato loro anche il piano di Dio tanto per il popolo eletto quanto per tutti quelli che sarebbero venuti un giorno, spiegando loro quanto fossero fuori luogo i sentimenti tipicamente umani che provavano, gli stessi che animarono poi i discepoli di Cristo quando gli dissero “Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e volevamo impedirglielo – originale “noi glielo impedivamo” – perché non ci seguiva” (Marco 9.38). Il problema non era che i discepoli di Gesù battezzassero e la gente accorresse a lui, ma la distinzione dei ruoli: stava per arrivare il tempo in cui Giovanni avrebbe dovuto mettersi da parte e Gesù diventare sempre più importante, accentrando su di sé la predicazione sostenuta dai miracoli, ciascuno dei quali illuminanti per i significati spirituali che rivestono. “Lui deve crescere, io invece diminuire” sono parole molto importanti, un rimprovero amorevole a quei discepoli che invece avrebbero voluto vedere il loro maestro crescere di importanza stante la vita che aveva condotto e la gente che veniva ad ascoltarlo: Giovanni, con quelle parole, ricorda loro che non aveva mai nascosto di essere un semplice messaggero: “Dopo di me, viene uno che è più grande di me”. Quel “più grande di me” era arrivato e non era uno qualunque, ma uno che “viene dall’alto” ed “è al di sopra di tutti” perché “viene dal cielo”, cioè da un luogo alto, inaccessibile, è l’unico che possa avere l’autorità per parlare di cose che altrimenti sarebbero ignorate e lo fa non perché ha studiato, ma “attesta ciò che ha visto e udito”.

In pratica, senza di lui, senza la sua voce che molti udirono allora ma che noi leggiamo, proseguiremmo la nostra esistenza nelle tenebre dell’ignoranza. Ecco il perché “Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una gran luce”! Ogni essere umano cammina alla luce del giorno, se non altro per un certo numero di ore per cui non ha bisogno di una luce supplementare a meno che questa non sia per illuminare la parte nascosta di lui, quella spirituale.

L’uomo, da solo, non ha modo di conoscere la verità. Lo dimostra la ricerca millenaria di un senso della vita attraverso la filosofia e la religione che, a volte, può anche giungere a frammenti di vero perché un cuore e una mente onesta non possono non pervenire alla conclusione che ciò che abbiamo è illusorio e non può salvare, ma qui il discorso è profondamente diverso: la verità è una, non irraggiungibile anzi vicina perché c’è chi l’ha portata e spiegata; uno che viene dall’alto, è al di sopra di tutti, che attesta ciò che ha visto e udito, verbi che non lasciano scampo perché escludono il sentito dire o una libera interpretazione di cui tanti si nutrono.

Come già avvenuto nel colloquio con Nicodemo nei versi da 16 a 21, non si può escludere che in quelli da 31 a 36 che stiamo leggendo vi sia un intervento dell’evangelista, essendovi parentela di contenuti e di forma col primo capitolo, l’inno di apertura, ma poco cambia perché l’apostolo Giovanni, eventuale autore dei versi, in questo caso estende i concetti che il Battista aveva ben chiari, salvo un dubbio che lo attanagliò quando era imprigionato nella fortezza del Macheronte sotto Erode Antipa: “Sei tu quello che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro?

Egli attesta ciò che ha visto e udito, eppure nessuno accetta la sua testimonianza”, “nessuno” usato per contrapposizione al “chi” successivo, che “conferma che Dio è veritiero” e il confronto “nessuno – chi” lo troviamo nell’episodio dei dieci lebbrosi guariti in Luca 17.11-19: qui, leggiamo che uno solo, samaritano quindi non appartenente alla congregazione di Israele, con gli altri nove ebrei che guarivano lungo il cammino, tornò indietro prostrandosi davanti a Gesù per ringraziarlo. “Ma Gesù osservò «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio all’infuori di questo straniero?» E gli disse «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato”.

A questo punto, abbiamo una descrizione dello sposo: “Colui che Dio ha mandato dice le parole di Dio: senza misura Egli dà lo spirito. Il Signore gli ha dato in mano ogni cosa”. Chi ha parlato delle cose del cielo, che ha visto e udito, non è un ambasciatore: ricordiamo le parole “Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra” (Matteo 28.18), che l’apostolo Paolo spiegò agli Efesini con queste parole: 1…7affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; 18illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi 19e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore. 20Egli la manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli 21al di sopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione
e di ogni nome che viene nominato non solo nel tempo presente ma anche in quello futuro.
22 Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose:
23essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose”
(Efesini 1.20-22). “Perché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami Gesù Cristo è il Signore» a gloria di Dio Padre” (Filippesi 2.10,11). Ogni cosa il Padre ha dato il mano al Figlio, l’unico ad averlo rivelato.

E per concludere, Giovanni conclude il suo intervento con parole di netta separazione, le stesse che costituirono la prima azione di Dio alla creazione, quando con la luce divise la luce dalle tenebre: “Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane su di lui”.

* * * * *

02.08 – LE NOZZE DI CANA (Giovanni 2.1-11)

Le nozze di Cana (Giovanni 2.1-11)

 

1 Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. 2Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. 3Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». 4E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». 5Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». 6Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. 7E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. 8Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. 9Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo 10e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». .11Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

 

“Il terzo giorno”, stando alla cronologia di Giovanni, è da intendersi come terzo dopo il colloquio avuto con Natanaele-Bartolomeo e Andrea ed infatti sono diverse le traduzioni che riportano “Tre giorni dopo”. Il miracolo della trasformazione dell’acqua in vino è il primo di Gesù in Galilea ed è quello che costituisce l’apertura ufficiale del Suo ministero. È anche quello che ha visto il maggior numero di interpretazioni dottrinali a seconda della provenienza tradizionale dei vari commentatori antichi e moderni. I particolari che però l’apostolo Giovanni inserisce nel racconto aiutano molto la sua comprensione e significato. Prima di esaminare l’episodio è bene dare un accenno su cosa significasse la festa di nozze per il popolo ebraico e dare qualche particolare che verrà utile per comprendere anche la parabola delle dieci vergini che Matteo racconta in 25.1-13.

A prescindere dal rango sociale degli sposi, che caratterizzavano la festa di nozze in modo proporzionale alle loro possibilità, il pranzo nuziale era il momento più solenne della vita della persona e si concludeva un anno dopo il fidanzamento che, a differenza di quello occidentale che manifesta e sottintende solo un’intenzione di sposare una persona e può vedere le parti recedere in qualunque momento, equivaleva al matrimonio per quanto il futuro marito e la futura moglie non vivessero ancora assieme. La festa di nozze poteva durare anche più giorni: la sposa attendeva lo sposo sul far della sera, con le amiche, truccata e agghindata con vari monili e una corona sul capo come lo sposo che la andava a prendere a casa sua per condurla nella loro. Si formava così un corteo che raggiungeva la nuova casa, al quale partecipava quasi tutto il paese, con gli amici degli sposi che portavano lampade con suoni e canti. Non era infrequente che le scuole rabbiniche interrompessero le lezioni per partecipare almeno al corteo che si concludeva nella nuova casa nel quale era offerto il pranzo con canti e discorsi augurali.

In quella casa si beveva e si mangiava copiosamente anche perché l’occasione di partecipare a una festa di nozze, per chi abitava in quei territori dove conduceva una vita solitamente povera e parsimoniosa, significava interrompere anche per poco, ore o giorni poco importava, un’esistenza spesso condotta negli stenti, scandita dal lavoro e dal sole. In quella festa un ruolo fondamentale lo aveva il vino non perché la gente se ne approfittava per ubriacarsi, ma perché, messo in serbo da tempo apposta per l’occasione, era molto buono. Il vino delle nozze era conservato in giare e tenuto nell’angolo più buio delle case fino a quando non arrivava il giorno della festa. Il vino era visto come una benedizione assieme al frumento e all’olio – 14io darò alla vostra terra la pioggia al suo tempo: la pioggia d’autunno e la pioggia di primavera, perché tu possa raccogliere il tuo frumento, il tuo vino e il tuo olio” (Deuteronomio 11.14) -, una bevanda che “rallegra il cuore dell’uomo” (Salmo 104.15). Ricordiamo che, in antitesi, la Scrittura lo indica come sostanza che può fare compiere azioni sconsiderate come nel caso di Noè che si ubriacò denudandosi (Genesi 9.21 e segg.) e ancora di più il caso delle figlie di Lot, che si unirono al loro padre facendolo bere al fine di avere una discendenza (Genesi 19.32 e segg.). Salomone in Proverbi 10.1 scrive che “il vino è beffardo, il liquore è tumultuoso; chiunque si perde dietro ad esso non è saggio” e in 4.17, parlando degli uomini malvagi, dice che “mangiano il pane dell’empietà e bevono il vino della violenza”, a sottintendere la sua pericolosità e non per niente il Nazireo doveva astenersi da esso.

Gesù fu invitato alle nozze a Cana, dove già si trovava sua madre, coi suoi discepoli probabilmente perché Natanaele era di quelle parti: ci volle andare perché nella Sua onniscienza sapeva che lì avrebbe potuto compiere il suo primo miracolo, denso di significati. Abbiamo letto al verso 11 “Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i discepoli credettero in lui”. “Manifestò la sua gloria” nel senso che si rivelò come Signore (anche) degli elementi mutandone radicalmente le proprietà e non col fine di risolvere un problema contingente che sua madre, conscia tanto dell’imbarazzo che aveva creato la mancanza di vino quanto che il Figlio era l’unico che avrebbe potuto intervenire, gli aveva posto. Sono da notare infatti tre frasi: la prima “non hanno più vino” in cui Maria pone al Figlio il problema che si era venuto a creare. Non chiede un miracolo, ma certamente un intervento senza sapere cosa Gesù avrebbe fatto. La sua risposta, “che vi è fra te e me, donna”, è stata sicuramente strumentalizzata nel corso del tempo dalla cristianità, cattolica romana ed evangelica in particolare: i primi vedono in Maria l’inizio della sua opera mediatoria e di intercessione presso il Figlio, i secondi pongono l’accento quel “Che vi è tra te e me” facendo osservare che la stessa espressione si trova usata nell’episodio dell’indemoniato nella sinagoga di Capernaum quando i demoni che possedevano quell’uomo dicono “Che vi è tra noi e te, Gesù Nazareno? Sei venuto a tormentarci prima del tempo?” (Marco 1.24).

La realtà è molto più semplice e credo vada oltre il parteggiare per qualcuno: Maria era la sola in quel luogo a conoscere bene il Gesù e sapeva, per tutti gli avvenimenti di cui era stata testimone, che se avesse voluto avrebbe potuto intervenire per togliere i presenti dall’imbarazzo e soprattutto la famiglia degli sposi dal disonore. La reazione immediata di Gesù è quella di mettere un confine tra quelle che sono le aspettative umane, viste nella richiesta della propria madre, e la Sua totale autonomia operativa. Quel “Che vi è tra me è te, o donna” richiama proprio due realtà, quella divina di Gesù e quella umana di sua madre, essendo strettamente collegata alle parole successive che spiegano il motivo di quella reazione, cioè “Non è ancora giunta la mia ora”, quel momento in cui sarebbe stato dato in mano agli uomini che avrebbero fatto di Lui ciò che avrebbero voluto.

La terza frase riporta il secondo intervento di Maria, non più rivolta al Figlio, ma ai servi presenti, “Qualunque cosa vi dica, fatela”, o “Fate quello che vi dice” secondo la traduzione letterale, in cui rimette al figlio ogni cosa, ogni potere decisionale e pone i servi addetti alla mescita del vino, o della distribuzione dell’acqua, in uno stato di attesa. Era un’acqua serviva alla pulizia delle mani e delle stoviglie (ecco perché Giovanni aggiunge “per la purificazione dei Giudei”).

L’acqua non era contenuta in anfore, ma in recipienti, in pietra e non in cotto perché secondo i rabbini la pietra non conteneva impurità. Notiamo le misure: “da ottanta a centoventi litri”, traduzione che evita di fare i calcoli del testo letterale, “capaci da due o tre metrete”, o “misure”, ciascuna delle quali si aggirava attorno ai 39 litri.

Gesù ordina di riempire i contenitori e i servi lo fecero fino a quando non furono colmi, il che escludeva la possibilità sia di versarvi una sostanza che potesse ingannare il palato facendo scambiare l’acqua con vino, ma che ci parla della perfetta capacità che ha lo Spirito di coinvolgere tutta la persona dell’uomo. Quanto successe dopo è ben spiegato dalle parole del direttore di mensa, un amico dello sposo, che si accorge della differenza tra il vino di prima e quello che gli viene appena portato. Dobbiamo pensare che quello che era stato distribuito dall’inizio della festa, come abbiamo visto, non era un vino ordinario, ma già pregiato e messo da parte da tempo per l’occasione: il vino di Gesù, però, era tale da fare classificare il precedente come “meno buono”. Questo ci parla del fatto che tutto ciò che Dio trasforma non può competere con nient’altro e io penso che, al di là di tutti gli innumerevoli significati che acqua e vino hanno nella Scrittura e sui quali sarebbero possibili molti studi, nel nostro caso specifico è sulla trasformazione che si devono basare le riflessioni: Dio non crea, né ha creato, né muta, ha mai mutato nulla dal nulla, ma è sempre intervenuto dagli elementi: l’universo stesso è stato costruito su materiali preesistenti. Ricordiamo le parole di apertura del libro del Principio: “La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano la faccia dell’abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque”. La terra era “informe”, non troviamo scritto che c’era solo il vuoto.

Allo stesso modo a Cana c’era dell’acqua, attinta da un pozzo, in contenitori di pietra. Il significato del miracolo risiede allora in cosa può diventare un elemento là dove Dio opera: in quel l’acqua, destinata “alla purificazione dei giudei”, diventa vino, migliore di quello servito fino ad allora, mutando radicalmente scopo e destinazione, rimanendo comunque un liquido.

Se dunque il Signore interviene nella vita dell’uomo che si affida in lui, lo trasforma radicalmente e si aprono per lui una vita e uno scopo totalmente differenti, pur mantenendo la stessa fisionomia: a Cana mutò il contenuto, non i contenitori, che rimasero gli stessi. Quindi il miracolo ci parla, anche, di una vita nuova. Scrivendo ai Corinzi Paolo scrive “Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove” (2 Corinzi 5.17), di modo che: “Se” – la condizione, perché uno può pensare di essere quello che non è – “uno è in Cristo” – cioè ha posto la sua fede con una vita in Lui e in Lui vuole viverla – “è una nuova creatura”. Nuova nel senso di diversa perché “le cose vecchie sono passate” cioè tutto quello che è stato non gli appartiene più, non lo interessa a prescindere, non ha senso che si guardi indietro come fece la moglie di Lot che, rimpiangendo il suo passato, si voltò a guardare Sodoma per l’ultima volta.

Nelle “cose vecchie” che sono passate Paolo include tutto: non solo qualunque peccato commesso, ma l’essenza profonda di un essere incompatibile con Dio, ora trasformato e in grado di esserGli accetto. Resta il problema del contenitore, che rimane lo stesso: questo ci parla della responsabilità che ogni credente – ricordiamo “Se uno è in Cristo” – ha e con la quale si ritrova a fare i conti quotidianamente. Molti credono, secondo la filosofia di numerosi appartenenti alla Chiesa di Corinto, che, se sono stati liberati dal peccato, non abbiano senso degli sforzi per liberarsene ancora, ma l’essere delle creature nuove comporta il ritrovarsi a vivere in un mondo che non solo non ci appartiene più, ma che soprattutto non cambia, non è nuovo, è incapace a rinnovarsi salvo nella tecnologia o esasperando sempre di più i suoi contrassegni negativi.

La vita cristiana è basata anche su questo continuo fare i conti con una duplice realtà tra la natura umana e quella spirituale, con un involucro esterno suscettibile a sofferenze morali, spirituali e fisiche perché non siamo, per la nuova nascita e lo stato di “nuova creatura” acquisita, trasportati automaticamente in un Eden in cui possiamo vivere liberi dal dolore e dipendenti, per mantenere quello stato, da un solo comandamento. L’essere “Nuove creature”, implica l’essere detentori di una promessa, di un futuro che chi non ha il nostro stato non può avere, ma anche di sofferenze e scelte che gli altri non hanno. Non si deve sottovalutare l’acqua, figura di qualcosa di presente, né il vino, figura della trasformazione che Cristo opera in ciascuno che lo ha cercato e trovato, né il contenitore, figura di ciò che non cambia, il nostro corpo che, in quanto di carne e non di pietra, tenderà a volere il sopravvento sfruttando quei sentimenti e reazioni che, di base e per natura, non possiamo non avere. In questo, nell’uomo naturale, siamo come tutti gli altri e commette un grave errore chi sottovaluta questo dato ritenendo che, una volta salvato e nuova creatura, non debba fare altro.

Gesù, il solo a poterlo fare, tramutò l’acqua in vino e “i suoi discepoli credettero in lui”, frase che indica un primo rafforzamento nella fede in lui ed è che troveremo altre volte. L’uomo che oggi crede in Lui può farlo perché ha accettato il contenuto della Scrittura, ma personalmente ritengo che le ragioni della fede risiedano nel fatto che, una volta conosciuta la nostra natura e inferiorità davanti a Dio, non si abbia un’alternativa: siamo acqua in un recipiente di pietra. Acqua non da bere, ma per un uso secondario.

Il vino di Gesù è stato ritenuto dal direttore del banchetto, che si occupava della direzione dei servi alla mensa e di tutto quanto la concerneva, come “buono” a tal punto da mettere quello precedente in subordine. Il direttore di mensa era una persona autorevole e il fatto che fossero presenti molti servi lascia intendere che l’ambiente fosse composto da persone altolocate nella società di allora. Era però necessario il suo giudizio, un’autenticazione ufficiale, e questo fu il motivo per cui Gesù disse di portarlo a lui per primo e non di servirlo come se niente fosse: la Sua opera andava certificata, quel vino andava classificato come migliore di qualunque altro e il mastro non sapeva del miracolo che, come leggiamo, fu abbondante, andando oltre le aspettative, di qualità eccellente e gratuito.

Ultima osservazione può essere fatta col numero delle “anfore”, sei, figura dell’imperfezione e dell’incompletezza sulla quale Gesù intervenne ordinando prima di riempirle fino all’orlo e poi mutandone il contenuto. Il Maestro, quindi, ha guardato in basso, all’imperfezione. “Ha guardato alla bassezza della sua serva”, come disse Maria nel suo cantico e guarda ad ogni essere umano che lo cerca, trasformandone aspettative, scopo ed esistenza.

C’è chi ha fatto osservare che, per far scaturire il vino della gioia, bisogna riempire abbondantemente il vuoto che si sente e si vive, con l’acqua della vita: è la vita del cristiano che va riempita con la luce e i progetti di Dio. Altri hanno notato che il primo miracolo di Mosè fu quello di cambiare l’acqua in sangue: esso portava giudizio e distruzione. Il primo miracolo di Gesù fu cambiare l’acqua in vino, figura di conforto e consolazione.

* * * * *

 

02.07 – I PRIMI DISCEPOLI II/II (Giovanni 1.45-31)

I primi discepoli II/II (Giovanni 1.43-51)

 

43Il giorno dopo Gesù volle partire per la Galilea; trovò Filippo e gli disse: «Seguimi!». 44Filippo era di Betsàida, la città di Andrea e di Pietro. 45Filippo trovò Natanaele e gli disse: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nàzaret». 46Natanaele gli disse: «Da Nàzaret può venire qualcosa di buono?». Filippo gli rispose: «Vieni e vedi». 47Gesù intanto, visto Natanaele che gli veniva incontro, disse di lui: «Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità». 48Natanaele gli domandò: «Come mi conosci?». Gli rispose Gesù: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi». 49Gli replicò Natanaele: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!». 50Gli rispose Gesù: «Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto l’albero di fichi, tu credi? Vedrai cose più grandi di queste!». 51Poi gli disse: «In verità, in verità io vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo».

 

Giunti al quarto giorno dopo la fine della tentazione di Nostro Signore nel deserto, va fatta una precisazione importante: dopo l’episodio dei quaranta giorni nel deserto, i sinottici scrivono che Gesù, una volta saputo che il Battista era stato arrestato da Erode, si ritirò nella Galilea, lasciò Nazareth e andò ad abitare a Cafarnao (Matteo 4.12,13) e che la sua fama si diffuse in tutta la regione, insegnava nelle sinagoghe tutti gli rendevano lode (Luca 4.14-15). A questo episodio Matteo e Marco fanno seguire la chiamata dei discepoli, Simon Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni mentre erano sulla riva del Mare di Galilea. Bisogna sapere che Matteo, Marco e Luca parlano del secondo viaggio in quella regione, mentre Giovanni del primo, che gli altri tre non raccontano, cioè quando il Battista stava ancora predicando.

Per inquadrare ciò che avvenne nel quarto giorno occorre tenere presente quanto avvenne in precedenza, quando Andrea, Giovanni e Simone fecero il loro primo incontro con Gesù: tutti e tre abitavano a Betsaida, erano discepoli di Giovanni Battista – probabilmente anche Pietro, anche se non è espressamente citato come tale – ed è naturale che Andrea e Giovanni parlassero di Lui, prima che ad estranei, a quelli che o erano della cerchia del loro maestro. Possiamo dire che, fino ad allora, la predicazione del Battista aveva prodotto tre risultati: prima venero i suoi discepoli, che erano stati convinti dalla sua predicazione, si erano battezzati e lo assistevano. Poi ci furono quelli che ne condivisero il messaggio, capendo che il regno di Dio era effettivamente vicino, convinti della necessità che il Messia che stava per arrivare andava accolto previo un cambiamento interiore visto in una revisione della loro vita e in un cambiamento di mentalità e azioni, e infine quelli che provavano sentimenti ostili perché sapevano che il sistema religioso sul quale avevano basato la loro esistenza e falsa rispettabilità poteva essere sconvolto.

Certo che Andrea e Giovanni, che avevano incontrato Gesù, (“venite e vedete”) ed aveva parlato loro brevemente tanto quanto bastava per convincerli e suscitare in loro la gioia vista nella frase “Noi abbiamo trovato il Messia”, non potevano fare altro che informare quanti avevano condiviso con loro i momenti del discepolato con Giovanni Battista. Fu così che Gesù, volendo partire per la Galilea perché si era compiuto l’incontro con il suo precursore e intendeva recarsi a Nazareth, oppure perché sapeva di doversi recare a Cana dove ci era stato invitato alle nozze, incontrò una persona, Filippo, cui gli disse “Seguimi”. È la prima chiamata diretta di Gesù a un uomo a cui non si rivolse a caso, ma sapendo che uno dei tre, o tutti, lo avevano informato.

Quel “Seguimi” da parte di Gesù indica la conoscenza che aveva non solo di Filippo, ma dell’uomo in genere: così come sapeva delle domande e delle aspettative di Filippo, conosce ciò che anima tutto l’essere di ciascuno anche oggi e interviene nel momento esatto in cui una persona lo cerca. Va rifiutata l’idea che vorrebbe i futuri apostoli seguire Cristo in base a una forza misteriosa che li spinse a farlo: questo può emergere se si legge superficialmente la cronaca dei sinottici, che ci parlano di un immediato abbandono delle “proprie reti” e del seguirlo immediatamente; Pietro e gli altri, in realtà, lo seguirono per delle ragioni che trovavano la loro radice nell’aver compreso che Lui era quello di cui parlavano la Legge e i profeti, dopo averlo ascoltato in privato e avere visto i miracoli che faceva: avevano individualmente sperimentato quel “Preparate le sue vie, raddrizzate i suoi sentieri” di cui abbiamo letto.

Così Filippo, che rientrerà nel numero dei dodici, seguì Gesù al suo solo invito, fondandosi sulla testimonianza che gli era stata riferita, riversando su di Lui la certezza che Lui solo era quello che era stato annunziato e che ora gli si rivelava. Andrea, Pietro e Giovanni dovettero aver parlato a Filippo con termini illuminanti, senza dubbi sul suo ruolo; dubbi che, se presenti, erano stati dissipati sia attraverso la visione dello Spirito sceso sotto forma di colomba, ma anche dai dialoghi che avevano avuto nel luogo in cui Gesù abitava temporaneamente. Eppure, nonostante tutto il loro impegno e fervore nel descrivere ciò che da Lui avevano sentito, a niente sarebbero approdate le loro parole se anche Filippo non fosse stato nelle loro condizioni, quelle di riconoscersi nell’attesa e di credere che questa stava per finire perché i tempi erano giunti.

Il testo evangelico ci propone due verbi con tempi diversi, “seguimi” e “Filippo trovò Natanaele”, il che ci parla di un intervallo di tempo: “Seguimi” allora si riferisce a un invito con uno scopo preciso, perché Gesù chiede a Filippo di condividere parte della sua vita terrena con uno scopo che dichiarerà più avanti proprio sulle rive del Mare di Galilea, “Vi farò pescatori di uomini”, intendendo un guadagno spirituale e non economico.

Giovanni, tornando all’incontro con Filippo, non riferisce il dialogo tra i due, ma ne riassume il senso: lo invita a seguirlo, ma gli lascia del tempo per riflettere; altrimenti quell’uomo non avrebbe mai potuto cercare e trovare Natanaele, o incontrarlo non per caso, e portarlo da lui.

C’è dunque un tempo che Dio dà all’uomo per considerare le sue proposte. Un tempo costruttivo in cui la mente ragiona, valuta le Sue proposte e decide di conseguenza. Così, a prescindere di quello che Gesù e Filippo si siano detti, l’importante è il risultato: Filippo dopo quell’incontro trovò – quindi lo andò a cercare – Natanaele e gli disse «Noi abbiamo trovato colui del quale Mosè nella Legge, e i profeti, hanno scritto: Gesù, figlio di Giuseppe, che è da Nazareth»”. Sono parole identiche, nel loro entusiasmo, a quelle che aveva detto Andrea a suo fratello Simone, ma più dettagliate, che rivelano il desiderio di Filippo di essere esauriente con l’amico. Sono parole che indicano anche una liberazione dall’attesa e al tempo stesso la gioia dell’aver trovato senza sapere cosa questo avrebbe implicato nel tempo. Non importava il futuro non perché poteva essere affrontato a caso sperando in qualcosa, ma l’aver trovato.

A questo punto emerge la persona di Natanaele, chiamato nell’elenco dei dodici Bartolomeo, cioè “Figlio di Tolomeo” che nell’elenco apostolico è nominato sempre accanto a Filippo. Bartolomeo-Natanaele era nato e vissuto a Cana di Galilea, lo stesso paese in cui Gesù andrà alle nozze che verranno celebrate da lì a tre giorni e in cui farà il suo primo miracolo. Cana era vicina a Nazareth e Natanaele conosceva bene il carattere primitivo e rozzo degli abitanti di Nazareth a tal punto da replicare “Da Nazareth può venire qualcosa di buono?”. Tradotto letteralmente si legge “Da Nazareth può esservi qualcosa di buono?”. Forse Natanaele, uomo istruito, alludeva anche al fatto che nessuna profezia menzionava mai quel paese, anche se sappiamo la sua etimologia, Nezer, “Germoglio”, riferito a Gesù, che sarebbe stato chiamato Nazareno.

La risposta di Filippo, “Vieni e vedi” è illuminante perché, di fronte all’amico che partiva già prevenuto a quell’annuncio, non cerca di convincerlo facendo di lui un proselito, ma gli lascia la libertà di restare nella sua convinzione o di modificarla.

Come Gesù aveva dimostrato ore prima di conoscere profondamente Simone a tal punto da dirgli come sarebbe stato chiamato alludendo alla posizione che avrebbe occupato, parla a Natanaele prima al presente e poi al passato; infatti “Ecco un israelita in cui non vi è inganno” (termine preferibile al tradotto “falsità”) è l’analisi del suo carattere di base e la frase “Prima che Filippo ti chiamasse, ti ho visto quando eri sotto il fico” ci parla dei suoi pensieri ed è quella che lo convinse.

Riflettendo sui due periodi che abbiamo letto, possiamo dire che il primo avrebbe potuto essere letto anche come una specie di saluto o il tentativo di un imbonitore di far presa su uno sprovveduto perché a tutti, anche a quelli che onesti non sono, fa piacere ricevere un complimento, per quanto immeritato. Ma se Gesù fosse appartenuto alla categoria degli impostori, non avrebbe mai potuto rispondere al “Come mi conosci?” di Natanaele rispondendogli di averlo visto, ancora prima di quell’incontro, quando era sotto il fico.

Cosa voleva dire? In questa frase di Gesù c’è la descrizione di due luoghi, uno fisico e uno spirituale. Non erano pochi gli ebrei che, per riposare, meditare o pregare, si recavano sotto un albero di fico, pianta che si trovava molto frequentemente da quelle parti o che avevano nel recinto che circondava la loro casa. Sotto il fico spesso si pregava anche ed è a questa azione che Gesù fa riferimento parlando con Natanaele, dimostrandogli di conoscere il contenuto delle preghiere che rivolgeva a Dio e che contemplavano soprattutto, alla luce della predicazione di Giovanni Battista, la rivelazione al popolo di Colui che sarebbe venuto dopo Giovanni. Credo che sia stato quell’ “Io ti ho visto” a colpire Natanaele: “visto” non perché di passaggio, ma perché era lì, presente in spirito. E qui il vedere di Gesù implica l’ascoltare. Se Natanaele sotto il fico non avesse pregato specificamente per la venuta del Cristo, non sarebbe stato così colpito dalle parole di Gesù.

Allo stesso modo Nostro Signore vede quelli che pregano oggi, allo stesso modo è presente, secondo la Sua promessa, nella Chiesa: “Dove due o tre sono radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Matteo 18.20). Vedere implica quindi l’ascolto e soprattutto, come nel caso di Natanaele, la conoscenza perfetta che Gesù ha dell’essere umano, la stessa che incontreremo nell’episodio in cui, trovandosi a Gerusalemme, leggeremo che “Molti, vedendo i segni che compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno delle testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo” (Giovanni 2.23-25). Notiamo i verbi, che potrebbero sembrare grammaticamente scorretti, ma che in realtà sono riportati in un’ottica spirituale: “conosceva quello che c’è – non “c’era” –: allora come oggi, niente è cambiato. Per questa Sua conoscenza, anche quindi anche di Natanaele e di tutti, sappiamo che è impossibile che non ci sia un piano per tutti coloro che sono chiamati da Dio.

Natanaele capì di essere conosciuto e gli rispose “Maestro, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il Re di Israele”, riconoscendogli in tal modo tanto la dignità personale – Figlio di Dio –, quanto quella ufficiale – Re di Israele – per la quale era atteso e per la quale non fu creduto dalla maggioranza del popolo, autorità religiose in primis.

A questo punto, negli ultimi due versetti, Gesù rispose al nuovo discepolo che avrebbe visto cose ben maggiori e, rivolto anche a Filippo, una frase che ha riferimento al sogno di Giacobbe che troviamo descritto in Genesi 28.12: “Una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa”. Quello, assieme ad altri che ebbero a tanti uomini nell’Antico Testamento, fu un sogno profetico contemporaneo e futuro al tempo stesso: gli angeli, fedeli messaggeri di Dio, vengono descritti come portatori di messaggi dalla terra al cielo e viceversa. La storia letta nel libro della Genesi fino a quel punto, aveva mostrato episodi di quel tipo: pensiamo agli interventi su Agar, schiava di Sarai quando le predisse la nascita di Ismaele (Genesi 16), alla distruzione di Sodoma e Gomorra (19) o all’angelo che fermò Abrahamo poco prima che sacrificasse Isacco (22).

Nel sogno di Giacobbe gli angeli salivano e scendevano dal cielo, figura di un luogo inaccessibile all’uomo, mentre qui “D’ora innanzi vedrete il cielo aperto”, cioè la benevolenza di Dio rivelata, se non addirittura la rivelazione di Dio stesso. Presi in disparte i Suoi, disse loro “Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono” (Luca 10.24). Andrea e Filippo, certo con tutti gli altri e tutti gli uomini, peccatori salvati, avrebbero visto, letteralmente o figurativamente, il cielo aperto perché l’identità di Dio non sarebbe più stata vista attraverso un velo, ma per testimonianza diretta del Figlio di Dio, “Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, ma la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Giovanni 1.17,18). Legge da una parte, Grazia e Verità dall’altra. Legge come figura del cielo chiuso, Grazia e Verità come figura del cielo aperto.

Dalle parole di Gesù, i discepoli avrebbero visto gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo: pensiamo all’episodio della tentazione nel deserto o all’angelo venuto per confortarlo al Getsemani (Luca 22.42), e quel “sopra” indica l’oggetto delle loro attenzioni: Lui, annunciato a Maria e ai pastori. Ci sono anche le parole di Gesù che, testimoniando davanti ai farisei, dirà “…allora conoscerete che Io Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato. Colui che mi ha mandato non mi ha lasciato solo, perché faccio sempre le cose che gli sono gradite” (Giovanni 8.28,299.

Ecco il cielo aperto: il profeta dell’Antico Patto aveva il compito, più che predire il futuro secondo la nostra parziale concezione occidentale, di trasmettere quanto Dio voleva rivelare: rimproveri, eventi, giudizi e soprattutto la venuta del Cristo; ora che questi era giunto, altro non restava che rivelare il piano individuale che Dio aveva ed ha per ciascun essere che il Lui crede. La via del cielo, della dimensione nuova ed eterna, non è più chiusa: “Nessuno può venire al Padre se non per mezzo di me”.

* * * * *

2.06 – I PRIMI DISCEPOLI I/II (Giovanni 1.35-42)

2.06 – I primi discepoli  I/II (Giovanni 1.35-42)

 

35Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli 36e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». 37E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. 38Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa Maestro -, dove dimori?». 39Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio. 40Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. 41Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – 42e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro.

 

Dopo la tentazione nel deserto vista nel capitolo scorso, riannodare le file della cronologia non è facile. Un punto fermo è che solo superando le tentazioni nel deserto Gesù avrebbe potuto iniziare ad organizzarsi chiamando attorno a sé dei discepoli. Poiché a Matteo premono i contenuti, presenta un racconto essenziale collocando la chiamata dei primi discepoli dopo l’arresto di Giovanni, il suo abbandono di Nazareth con relativo trasferimento a Capernaum. Quasi lo stesso fa Marco, Luca parla del suo ritorno in Galilea e del fatto che insegnava nelle sinagoghe. L’apostolo Giovanni però era presente fin dall’inizio, essendo già discepolo del Battista e ci scrive dati più particolari senza però riferire il momento preciso in cui avvenne il battesimo di Gesù. In compenso è molto attento a contare i giorni. Leggiamo il racconto, su cui ci siamo già soffermati, delle sue risposte ai sacerdoti e ai leviti, poi quelle che diede ai farisei fino a quando non scrive “Il giorno dopo”: al capitolo 1 leggiamo “29Il giorno dopo, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! 30Egli è colui del quale ho detto: «Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me». 31Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele». 32Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. 33Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: «Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo». 34E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio»”. Viene quindi da pensare che Giovanni inizi a parlare del Battista dopo il battesimo di Gesù e che il racconto delle sue risposte alle domande prima agli inviati dei sacerdoti e loro associati e poi a loro stessi, sia stato scritto per dare una sorta di contemporaneità al racconto della tentazione nel deserto di Gesù. In 1.19 Giovanni scrive “Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo”, poi abbiamo una delegazione non più di inviati, ma di farisei che gli chiedevano ragione del suo battezzare, segno che tra un incontro e l’altro dovette passare del tempo: tempo per gli inviati di tornare a Gerusalemme, tempo per i farisei e loro simili di riflettere, decidere di recarsi là di persona, tempo per recarsi sulle rive del giordano: uno spazio che può essere ragionevolmente compreso nei quaranta giorni delle tentazioni. Gesù allora ritorna da Giovanni, o meglio passa nei pressi dove stava con due dei suoi discepoli, “il giorno dopo” che il Battista aveva risposto alle domande che gli furono rivolti dalle autorità religiose di allora.

Iniziano qui i primi incontri con quegli uomini, ma nel corso della vita terrena di Gesù anche donne, determinanti nella storia della salvezza in base alle loro caratteristiche interiori. I primi, futuri discepoli di Gesù lo erano di Giovanni Battista, segno che avevano creduto al suo messaggio, avevano ricevuto il segno esteriore del ravvedimento, del volersi predisporre a ricevere il Cristo che sarebbe venuto di lì a poco, quindi che aspettavano la sua manifestazione. Erano Andrea, fratello di Pietro, e Giovanni autore del Vangelo che, secondo la sua abitudine, preferisce parlare di sé in terza persona, senza nominarsi direttamente. A questi, ebrei osservanti che ben sapevano la funzione dell’agnello come animale sacrificale, il Battista indicò Gesù che passava: “Ecco l’Agnello di Dio”, che loro potevano intravedere come Colui che li avrebbe liberati dal peccato e che per noi è immagine della trasformazione secondo 1 Pietro 1.18,19: “Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi”.

Ecco un nuovo elemento che in quel momento Andrea e Giovanni non potevano sapere: Gesù venne nel tempo opportuno, ma prima che l’universo fosse creato aveva già accettato il suo compito, in previsione della rovina portata da Satana in Eden. “Negli ultimi tempi”, cioè in quello spazio breve della storia in rapporto all’eternità, si è manifestato per noi, cioè per ogni individuo che crede. E vengono in mente le parole di Maria, “Ha guardato alla bassezza della sua serva”.

 

Preso atto delle parole del Battista, ad Andrea e Giovanni non rimaneva altro che cercare di capire chi fosse quell’uomo che stava passando nei pressi: va bene, era l’Agnello di Dio, ma cosa pensava, dove viveva, cosa avrebbe fatto? Per loro nulla era più importante dell’attesa di qualcosa che non conoscevano nei dettagli, ma che prima o poi si sarebbe verificata. “Lo seguirono” indica una reazione immediata, dettata dall’interesse, di conoscere. Gesù, voltandosi, li vede e si rivolge a loro con una semplice domanda, non “chi”, ma “Cosa cercate”, un distinguo fondamentale: è molto facile sapere chi si cerca. Quando cerchiamo una persona, c’è sempre un motivo. Ma la domanda “cosa cerchi”, a meno che non si tratti di un oggetto, un utensile, richiede una risposta molto più impegnativa, obbliga a guardarsi dentro. Se uno chiede al suo prossimo cosa cerca, lo mette solitamente in imbarazzo perché lo obbliga a rivelare i suoi pensieri, ammesso che intenda rispondere. Forse, cosa cerca non lo sa nemmeno. Allora, se la risposta giunge, il risultato è sempre riferito al benessere della persona: sto male e vorrei stare bene, sto bene ma vorrei stare meglio; pochi sono coloro che si accontentano del proprio stato, quando non intervengono patologie gravi che portano l’essere umano ad una smodata ricerca di denaro, averi e potere.

Andrea e Giovanni gli chiedono dove abitasse. Non fu una risposta dettata dall’imbarazzo o perché, colti alla sprovvista, gli chiesero la prima cosa che venne loro in mente: lo avevano appena chiamato “Rabbi”, cioè Maestro, e il chiedergli dove abitasse implicava che lo volevano ascoltare così come la risposta che ebbero, “Venite e vedete”, era spesso data dai rabbini ai loro discepoli quando dovevano affrontare delle importanti questioni dottrinali. “Venite e vedete” nel senso di considerare, di ascoltare e fare le relative, autonome valutazioni. Gesù non impone loro nulla, non li chiama per primo, ma sono Andrea e Giovanni a farsi notare seguendolo e da lì poi si instaurerà una profonda relazione, dopo che saranno andati e lo avranno ascoltato.

Andarono dunque e videro dove egli dimorava”, non in una casa perché non si era ancora trasferito, ma era solo giunto lì per farsi battezzare. È molto probabile che Gesù abitasse in una specie di capanna, di quelle usate allora dai guardiani dei campi. Era quello un periodo particolare: abitava a Nazareth, ma aveva trascorso i quaranta giorni nel deserto, si sarebbe trasferito dalla sua città a Capernaum, Giovanni Battista stava per essere arrestato da Erode Antipa e c’era l’imminente viaggio a Cana con sua madre e i parenti, per cui un’abitazione nel senso vero e proprio del termine non sarebbe servita a nulla.

C’è però un particolare che Giovanni inserisce nel suo racconto ed è, oltre che “quel giorno rimasero con lui”, l’orario, che la nostra traduzione italiana riporta ne “le quattro del pomeriggio” dall’originale “era intorno le dieci ore”; si tratta dei diverso modo di contare le ore del giorno secondo i romani, che come ancora oggi si calcolano dalla mezzanotte, e gli ebrei, che iniziano a partire dalle nostre sei del mattino.

Ritengo che Giovanni annota l’orario per un motivo preciso, far sapere che lui e Andrea si intrattennero con Gesù per circa due ore poiché alle sei del pomeriggio si chiudeva la giornata secondo il giudaismo. Tale chiusura non va intesa come se da quell’ora esistesse un coprifuoco e nessuno potesse uscire di casa per cui l’ipotesi che si può fare è che, prima che arrivasse un nuovo giorno, Andrea e Giovanni restassero con Gesù a parlare, Andrea trovasse Pietro e lo conducesse al suo nuovo Maestro.

Giovanni, che allora doveva avere tra i 19 e i 20 anni, che sarà il più giovane dei gruppo dei dodici, non scrive il contenuto dei dialoghi intercorsi quel giorno, ma furono intensi ed esaustivi a tal punto da riferire di Andrea che, non appena incontrato Simone, gli disse entusiasta “Noi abbiamo incontrato il Messia”: non un Rabbi qualunque, ma quello che tutto Israele attendeva da tempo. La presentazione che Andrea fece a Simone, forse anche lui discepolo del Battista, fu presa sul serio visto che entrambi sapevano molto bene che Giovanni Battista annunciava l’arrivo di qualcuno molto più grande di lui, uno a cui lui non era degno di sciogliere il laccio dei sandali e neppure di portarli.

A differenza di quanto avvenuto precedentemente, Giovanni riporta un particolare dell’incontro di Gesù con Pietro: lo guarda in volto e gli dice “Tu sei Simone, figlio di Giona; tu sarai chiamato Cefa (che vuol dire Pietra)”. Qui possiamo fare qualche osservazione, la prima tecnica: come abbiamo avuto modo di leggere precedentemente, Giovanni inserisce delle brevi note: spiega che Cefa vuol dire Pietra – alcuni traducono “Pietro” –, prima informa i lettori che il termine Messia “interpretato vuol dire il Cristo”, prima ancora che Rabbi “tradotto, significa Maestro”, segno che scrive per lettori non ebrei. Cefa, per inciso, può essere tradotto anche con “roccia”.

La seconda osservazione è che lo chiama per nome e gli ricorda il padre, come farà spesso nelle occasioni importanti, come ad esempio dopo l’averlo riconosciuto come “il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”: “Tu sei beato Simone, figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (Matteo 16.17); ancora ritroviamo questo ricordo nelle tre domande dopo la resurrezione, per riabilitarlo dei suoi tre rinnegamenti: “Simone, figlio di Giona, mi ami tu?” (Giovanni 21.15,16,17). Simone era il primogenito e non possiamo escludere che avesse ereditato il carattere del padre o che comunque fosse per lui importante per ragioni a noi ignote. Può anche essere più semplicemente che, chiamandolo “figlio di Giona”, Gesù volesse ulteriormente personalizzare il suo messaggio alludendo al fatto che, se di “Simone” potevano essercene tanti, solo lui era “figlio di Giona”.

Simone, figlio di Giona, sarebbe stato chiamato Cefa, così come Saulo di Tarso sarebbe stato chiamato Paolo. Cefa è una parola aramaica che significa pietra, o roccia e che ha connessione al carattere di quest’uomo che, da impulsivo, sanguigno, tendente a fare affermazioni avventate o a contare troppo sulle sue forze salvo poi pentirsene, fu trasformato dalla Grazia in un personaggio determinante e dominante nel libro degli Atti. Primo a riconoscere Gesù come Figlio di Dio, ma anche unico a rinnegarlo perché terrorizzato; pronto a difendere il suo maestro anche con le armi, diventerà un Suo potente testimone e il personaggio più importante della Chiesa di Gerusalemme.

Cefa fu così indicato dal suo futuro Maestro e sarà oggetto di numerosi suoi interventi che gli anticiperanno il suo destino: sulla sua affermazione che vede in lui “il figlio dell’Iddio vivente” edificherà la Sua Chiesa (Matteo 16.18), di fronte alla dichiarazione in base alla quale si credeva pronto a seguire Gesù fino alla morte, gli viene ricordato che lo avrebbe rinnegato tre volte prima del canto di un gallo. Poi abbiamo la frase che allude al martirio che avrebbe subìto: “In verità, in verità io ti dico che quando tu eri giovane, ti cingevi e andavi dove volevi, ma quando sarai vecchio stenderai le tue mani e un altro ti cingerà e ti condurrà là dove tu non vorrai” (Giovanni 21.18). Secondo la tradizione il martirio di Pietro avvenne a Roma sotto Nerone tramite crocifissione, a testa in giù per richiesta di Pietro. Così tramandano Girolamo, Tertulliano, Eusebio e Origene vissuti attorno all’anno 200. Di certo c’è una lettera di Clemente di Roma, datata tra il 95 e il 97 in cui si legge “Per invidia e per gelosia i più validi e i più importanti pilastri della Chiesa hanno sofferto la persecuzione e sono stati sfidati fino alla morte. Volgiamo il nostro sguardo ai santi Apostoli. San Pietro, che a causa di un‘ingiusta invidia, soffrì non una o due, ma numerose sofferenze, e, dopo aver testimoniato con il martirio, assunse alla gloria che aveva meritato”.

Si conclude così quello che per Giovanni è il terzo giorno. Nel primo abbiamo avuto le risposte del battista agli Scribi, Farisei e Sadducei. Il secondo ha visto la testimonianza che indicò in Gesù “L’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo”. Quella fu l’occasione per testimoniare di ciò che aveva visto quando lo aveva battezzato, quaranta giorni prima. Nel terzo abbiamo avuto i colloqui che abbiamo esaminato e nel quarto, che vedremo, ci saranno altri due incontri, con dinamiche simili eppur diverse, con Filippo e Natanaele, chiamato anche Bartolomeo.

* * * * *

 

 

02.03 – IL BATTESIMO DI GESÙ (Matteo 3.13-17)

Il battesimo di Gesù (Matteo 3.13-17)

13Allora Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui. 14Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?». 15Ma Gesù gli rispose: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia». Allora egli lo lasciò fare. 16Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. 17Ed ecco una voce dal cielo che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento».

Tutti i Vangeli sottolineano che la predicazione del Battista aveva raggiunto il suo punto culminante e per questo Gesù, “dalla Galilea” e quindi da Nazareth, venne in Betania, quella al di là del Giordano. Del suo battesimo ne parlano tutti e quattro gli Evangelisti, ciascuno con un particolare proprio, utile a contestualizzarlo anche se cronologizzare gli avvenimenti di quel giorno non è così immediato.

Giovanni Battista e Gesù erano parenti e, se non sappiano se si conoscessero di persona come avviene per gli esseri umani, indubbiamente la conoscenza spirituale era molto forte. Di certo, ricordando l’episodio in cui, concepito da sei mesi, ebbe un sobbalzo nel ventre di sua madre quando Maria andò in visita da lei, lo riconobbe. Giovanni sapeva che Gesù non aveva certo bisogno di pentimento, di confessare dei peccati e del battesimo e per questo non si riteneva degno di amministrarglielo: “Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni a me?”. La risposta è illuminante: “Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia” ed è proprio quell’ “ogni”, che si riferisce al non trascurare nulla, che ci spiega il perché Gesù voleva e doveva farsi battezzare pur non attendendo nessun salvatore essendolo lui stesso, pur non avendo peccati da confessare né essendo peccatore come tutti gli altri uomini, tali per natura a causa dell’eredità in Adamo a prescindere dai peccati specifici commessi.

Essere dei “peccatori” non indica un gruppo di persone dedite a crimini particolari contemplati da un codice penale, ma tutti coloro che, nati di donna, conducono o hanno condotto la propria vita senza avere beneficiato del perdono di Dio tramite la fede in Gesù Cristo. Il periodo in cui avvenne il battesimo di Gesù e intermedio, a cavallo tra la Dispensazione della Legge e quella della Grazia, “Legge” di cui dà un accenno Paolo in Romani 3.20-26: “20…in base alle opere della Legge nessun vivente sarà giustificato davanti a Dio, perché per mezzo della Legge si ha conoscenza del peccato. 21Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai Profeti: 22giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. Infatti non c’è differenza, 23perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, 24ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. 25È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati 26mediante la clemenza di Dio, al fine di manifestare la sua giustizia nel tempo presente, così da risultare lui giusto e rendere giusto colui che si basa sulla fede in Gesù”.       Abbiamo letto “remissione dei peccati passati”: per quelli che il credente, come essere umano, può sempre commettere, c’è la confessione e il loro abbandono.

Torniamo al battesimo di Gesù: quando disse a Giovanni Battista “Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia”, è scritto che “lo lasciò fare”, segno che comprese che il Cristo doveva condividere in tutto e per tutto la vita dell’uomo: fino ad ora sappiamo che fu circonciso, lui che non aveva bisogno di avere un segno esteriore della propria appartenenza al popolo di Dio. Sappiamo che fu osservante in tutto, restando sottomesso ai genitori per non incorrere neppure per un attimo nell’identificazione col “figlio ribelle” riportata in Deuteronomio 21.18 e segg., che la sua fu una crescita in sapienza e in grazia presso Dio e gli uomini: ricevendo il battesimo da Giovanni, iniziava il suo primo distinguersi tra coloro che, sensibili all’insegnamento ricevuto dalla Legge e dai Profeti, confessavano di avere bisogno del Messia promesso e accettavano di convertirsi, e coloro che lo rifiutavano. Battezzandosi, Gesù volle unirsi a quello che poi sarebbe diventato il Suo popolo, coloro che avrebbero creduto in lui riconoscendolo per le parole che avrebbe detto e i miracoli che avrebbe compiuto.

Chi infatti si estraniava dal battesimo di Giovanni, interrogandolo senza capire e restando in quella categorie di persone che lui stesso aveva definito “Razza – inteso come appartenenza ad esse, o “progenie” come altri traducono – di vipere”, ne rigetterà tanto gli insegnamenti che i miracoli, trovando ogni giustificazione e pretesa pur di negarli.

Gesù fu così battezzato pubblicamente. Quello che avvenne dopo lo riportano anche gli altri tre Vangeli, ma con piccole differenze: per Marco “Subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba” (1.10), l’apostolo Giovanni fa dire al Battista, anche se in un momento successivo, “Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui” (1.12); Luca invece, in 3.21-22 21Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì 22e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento»”.

Gesù dunque, ricevuto il battesimo, si mise a pregare, ponendosi poco distante. Non ci è detto quanto, ma di certo era ben consapevole che da quel momento sarebbe iniziato per lui quel cammino di sofferenza e rinuncia che non aveva fatto prima: in Nazareth era cresciuto, spostandosi per i pellegrinaggi a Gerusalemme, aveva condiviso la vita di famiglia con i suoi fratelli e le sue sorelle, si era caratterizzato come una persona diversa crescendo come sappiamo, ma dal battesimo in poi sarebbe diventato un personaggio pubblico, avrebbe avuto davanti un’esistenza fatta di predicazione, miracoli e guarigioni, spostamenti da una città ad un’altra, si sarebbe scontrato con l’ottusità delle persone, avrebbe subìto una morte considerata ignominiosa e tutto questo lo sapeva. Così come sapeva la quantità enorme di anime che avrebbe salvato col suo sacrificio.

La preghiera al Padre era inevitabile e necessaria perché da Lui poteva ottenere la sola assistenza e approvazione di cui aveva bisogno. La risposta del Padre fu duplice: scese lo Spirito Santo su di lui sotto forma di colomba dopo che i cieli furono aperti. Giovanni Battista dirà “Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui” (Giovanni 1.32). Colomba, non le “lingue di fuoco” con cui si manifestò sui credenti della Chiesa di Gerusalemme: la colomba, lo stesso animale che Noè aveva mandato fuori dall’arca e che era tornata con un ramoscello di ulivo. La colomba che è collegata all’oppresso e all’indifeso: “Timore e spavento mi invadono e lo sgomento mi opprime. Chi mi darà ali come di colomba per volare e trovare riposo?” (Salmo 55.6-7). Colomba che si collega al ritorno degli esuli: “Accorreranno come uccelli dall’Egitto, come colombe dell’Assiria e li farò abitare nelle loro case” (Osea 7.11). Soprattutto, qui la colomba ha riferimento all’episodio di Noè: l’ulivo che gli portò era il segno ufficiale che l’ira di Dio, che aveva risparmiato lui e la sua famiglia ma aveva inesorabilmente condannato gli altri uomini che popolavano la terra, era finita ed era imminente la sua uscita dall’arca.

Allo stesso modo lo Spirito Santo, sceso “in forma di colomba” dal cielo e non da altre direzioni, stava a significare la benevolenza di Dio sull’uomo e che di lì a poco sarebbe giunta la salvezza per tutti coloro che l’avrebbero accolta: “…e a tutti coloro che l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio”.

Giunse una voce dal cielo: chi l’avrà sentita? I presenti o solo Giovanni? Non ci è detto, manca la frase “E tutti si meravigliarono” alla quale chi ha letto i Vangeli fin qui è abituato, ma è probabile che, a un atto pubblico e ufficiale di Gesù, abbia fatto seguito un’altrettanto pubblica e ufficiale manifestazione del Padre e dello Spirito Santo.

Un particolare essenziale, a questo punto, lo riporta l’apostolo Giovanni in 1.29-34:

29Il giorno dopo, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! 30Egli è colui del quale ho detto: «Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me». 31Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele». 32Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. 33Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: «Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo». 34E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».

 

L’agnello di Dio. Così diverso da quello che veniva sacrificato per la Pasqua. Un uomo innocente a tal punto da essere paragonato a un agnello che, a differenza degli altri, toglie il peccato del – e non “dal” – mondo. Sono parole che ogni israelita avrebbe dovuto comprendere, poiché non solo avevano riferimento all’agnello che si sacrificava per la Pasqua, ma a quello che ogni sabato veniva offerto nel Santuario alla mattina e alla sera come sacrificio per il peccato (Esodo 29.38; Numeri 28.3-10). Se andiamo poi a prendere il verbo usato per “togliere”, vediamo che ha come significato anche quello di “prendere su di sé” e di “portare”. Pietro scrive nella sua seconda lettera “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime” (2.24,25). Sempre Giovanni nella sua prima lettera dice “Voi sapete che egli si manifestò per togliere i peccati e che in lui non vi è peccato” (3.5).

Nella lettera ai Galati 1.3 Paolo scrive “Grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo, che ha dato se stesso per i nostri peccati al fine di strapparci da questo mondo malvagio”, bellissimo ritratto che racchiude lo scopo del sacrificio dell’Agnello di Dio: per strapparci, cioè togliere, portare via con un movimento violento e rapido. Lo strappo si rende necessario quando occorre togliere in fretta qualcosa di ancorato ad una struttura. Chi quindi crede è strappato dal mondo, da tutte quelle cose alle quali dava un valore e che lo condizionavano. Strappato da una falsa morale, rispettabilità, tendenze, trapiantato in realtà nuove. Strappato al campo del mondo dominato da Satana, per essere impiantato nel campo di Dio. Nato di nuovo, d’acqua e di spirito.

Ma ancora di più, lo strappo si riferisce al destino che ha “questo mondo malvagio”, destinato a perire e ad essere distrutto assieme a tutti coloro che, a quell’Agnello di Dio, non avranno voluto guardare.

* * * * *