11.36 – IL DISCORSO ECCLEIOLOGICO 7: IL RAPPORTO FRATERNO II (Matteo 18.15-18)


11.36 – Il discorso ecclesiologico 7, il rapporto fraterno II (Matteo 18. 15-18)

 

15Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; 16se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni.17Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. 18In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.

 

            Prima di affrontare questa seconda parte, che inizia dal verso 16, occorre ricordare che quanto esposto da Nostro Signore è solo in apparenza una procedura da seguire letteralmente perché, se si guardasse solo a quella, faremmo di queste parole un manuale di istruzioni e perderemmo di vista la sostanza, volta al recupero della persona che ha agito in maniera inopportuna nei confronti di un fratello, o sorella, oltre che a fare emergere lo spirito che la anima concretamente. Scopo di quanto descritto è quello di responsabilizzare il soggetto di fronte a un errore che solo la dinamica dell’episodio potrà determinare, ad esempio, come volontario o involontario, giustificato oppure no, come quell’ “adiratevi e non peccate”citato nel capitolo scorso in cui l’ira o lo sfogo in un determinato contesto non è visto come qualcosa di illegittimo, mentre lo è quando avviene in modo incontrollato.

Ricordiamo le parole del verso 11, “se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello”, collegabile a Proverbi 9.7-9 e 15.12: “Chi corregge il beffardo si attira insulti, chi riprende l’empio riceve affronto. Non riprendere il beffardo, per evitare che ti odi; riprendi il saggio, e ti amerà. Istruisci il saggio, e diventerà più saggio che mai; insegna al giusto e accrescerà il tuo sapere”. Spiega il principio il secondo passo, “Il beffardo non ama che altri lo riprenda; egli non va dai saggi”. Anche qui, oltre a venire rimarcato l’abisso che separa chi appartiene all’una o all’altra categorie di persone, abbiamo la possibilità di raccordarci alle parole di Gesù in esame, tese, come detto, a far emergere lo spirito della persona perché, in sostanza, “il saggio”è impossibile che non ascolti un’osservazione obiettiva e ragionata di un fratello, o di questo accompagnato dai “due o tre testimoni”qualora il primo tentativo non raggiunga il risultato sperato.

Le parole “prendi con te una o due persone”è poi un chiaro riferimento a Deuteronomio 19.15: “Un solo testimone non avrà valore contro alcuno, per qualsiasi colpa e per qualsiasi peccato; qualunque peccato uno avrà commesso, il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o tre testimoni”ed ecco perché, prima di dirlo “alla comunità”, è necessaria la presenza di più persone al confronto con chi ha commesso l’errore. Possiamo osservare che la testimonianza di più persone, all’epoca della Legge, contribuiva a rendere il fatto concreto potendo ogni testimone nella possibilità di riferire particolari e dettagli che magari erano sfuggiti ad un altro; ciò avveniva in modo più o meno concorde, da valutarsi da parte di chi era chiamato a giudicare quanto realmente avvenuto.

Trasportando poi il verso di Deuteronomio alle parole di Gesù, la presenza dei testimoni non ci parla di un processo in atto, cioè del fatto che i “due o tre”svolgano una semplice presenza per poi riferire quanto accaduto, ma di un fatto costruttivo: la loro partecipazione è giustificata dal fatto che il primo tentativo di conciliazione non ha avuto l’esito sperato, ma è richiesta la presenza di persone mature, “abituate a discernere il bene dal male”e pertanto in grado di esprimere pareri e consigli tesi a redimere la questione. I “testimoni”in questione, quindi, non sono chiamati a registrare ogni parola tenendosi in disparte, ma a rendersi conto delle ragioni dell’uno e dell’altro, valutare lo spirito che muove entrambi senza parteggiare per nessuno dei due, chiamati a valutare anche in previsione di quanto verrà poi riferito alla Chiesa. Il fatto che i testimoni siano parte attiva in questa operazione è confermato dal verso 17, e cioè “se disdegna di ascoltarli, dillo alla Chiesa”: “ascoltarli”, non “riceverli”.

Credo sia importante sottolineare che questa procedura è ben lontana da quella prevista per una querela o a un processo per calunnia che si celebra nei nostri tribunali, ma a difesa di quell’equilibrio che, se viene a mancare in una Chiesa o Comunità, la rende inevitabilmente sterile e la porta poco a poco allo spegnimento, come dalle parole di Apocalisse 2.5 in cui leggiamo “Se non ti convertirai, verrò a te e toglierò il tuo candelabro dal suo posto”. Quando infatti una Chiesa è animata da spirito di parte e non da quello Santo, quando il compromesso e il portare avanti posizioni umane non viene combattuto in egual misura da tutti i suoi membri, ecco che arriva il fallimento, l’incapacità di testimoniare e predicare il Vangelo di Gesù Cristo. Ed ecco perché, quando una Chiesa si raduna, è richiesto che ogni suo componente si misuri alla luce di Esodo 23.15, 34.20, Deuteronomio 15.13 e 16.16, tutti riportanti il medesimo concetto – si noti che i versi sono quattro –: ”Non si dovrà comparire davanti a me a mani vuote”, cioè prive di un frutto che siamo chiamati a portare continuamente perché è nell’Assemblea che il Signore è presente secondo la Sua promessa e scruta i cuori per vedere chi si presenta a Lui degnamente.

L’Assemblea cristiana infatti non si concreta né si può realizzare, risolvere in un rito religioso, ma nel contributo spirituale che ciascuno porta, nel desiderio di incontro e sostegno tra fratelli e sorelle che non fanno parte di un ordine o un’associazione più o meno benefica, ma adorano “in spirito e verità”Dio Padre e Gesù Cristo. Purtroppo, molti oggi hanno perso di vista questo principio e così le Chiese poco a poco si spengono a livello non solo di comunione fraterna, ma soprattutto nei confronti della potenza del Vangelo. Ricordiamo quanto si verificò in Atti 4.31: “Quando ebbero terminato la preghiera, il luogo in cui erano radunati tremò e tutti furono ripieni di Spirito Santo e annunziavano la parola di Dio con franchezza”.E sottolineiamo che tale manifestazione avvenne dopo una preghiera molto particolare, in cui si richiedeva l’assistenza perché il Vangelo fosse annunciato: “E ora, Signore, volgi lo sguardo alle loro minacce– Erode, Pilato e Israele – e concedi ai tuoi servi di proclamare con tutta franchezza la tua parola, stendendo la tua mano affinché si compiano guarigioni, segni e prodigi nel nome del tuo santo servo Gesù”. I presenti, cioè, si preoccuparono del recupero di quanti avrebbero creduto grazie al porgere il Vangelo nei modi opportuni per ciascuno e non dei loro problemi personali, come sappiamo fece Salomone quando, guardando alla sua persona e riconoscendosi mancante di sapienza per reggere il governo del suo popolo, la chiese, come più volte ricordato.

Tornando al nostro testo, vediamo la terza ed ultima soluzione nel caso la questione tra i due interessati non possa venire risolta: “Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità, e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano o il pubblicano”. Anche qui la Chiesa, o Comunità, è vista non come un organismo che difende i torti o le ragioni, ma guarda al principio, valuta i pro e i contro in modo spirituale per rimuovere quanto si è venuto a creare nell’interesse non di una norma, ma delle ragioni che hanno portato alla sua istituzione. E la Comunità è qui vista non a livello di insieme completo, ma di quei credenti ancora una volta in grado di esprimere un giudizio maturo e responsabile, come raccomandato più volte nelle lettere di Paolo, già applicato dagli Apostoli nella primitiva Chiesa. Abbiamo parlato di offese, ma teniamo presente che queste comprendono uno spazio molto più ampio di argomenti, come possono essere delle posizioni dottrinali che una persona può assumere, in contrasto a quanto stabilito unitariamente; ricordiamo ad esempio Atti 15.6 quando, a fronte dell’affermazione in base alla quale la circoncisione dovesse essere applicata a chi si convertiva, leggiamo “Allora si riunirono gli apostoli e gli anziani per esaminare questo problema”.

Un verso che fa da “ponte” ed amplia la panoramica della “colpa”circa gli equilibri che la Chiesa è chiamata a difendere è da vedersi in Romani 16.17,18 “Vi raccomando poi, fratelli, di guardarvi da coloro che provocano divisioni e ostacoli contro l’insegnamento che avete appreso: tenetevi lontani da loro. Costoro, infatti, non servono Cristo Nostro Signore, ma il proprio ventre e, con belle parole e discorsi affascinanti, ingannano il cuore dei semplici”. “Belle parole e discorsi affascinanti”sono collegati a quei concetti che possono suscitare la curiosità istintiva umana e interpretano, altrettanto umanamente, contenuti spirituali servendo il realtà “il proprio ventre”, espressione che si riferisce a ciò che non ha a che vedere neppure con la semplice intelligenza. Questi ragionamenti, come scritto da Paolo, “ingannano il cuore dei semplici”, cioè di coloro che stanno imparando e sono molto più vulnerabili rispetto a chi ha già effettuato un percorso di fede e confronto con la Parola di Dio.

“Sia per te come il pagano e il pubblicano”è una frase forte, che non necessita di un gran commento, poiché sappiamo che per gli ebrei tanto l’uno che l’altro erano persone ritenute impure e con le quali nessuno aveva a che fare.

È invece meritevole di attenzione l’ultimo verso, il 18, perché stabilisce l’autorità data alla Chiesa, guidata dallo Spirito Santo nel “legare”o “sciogliere”, espressione che sta a significare rendere legale o illegale una cosa oltre che porre dei vincoli, aprire o chiudere una posizione dottrinale proprio come, ad esempio, fecero gli apostoli con l’esempio di Atti 15.6 che abbiamo citato, poi risolto ai versi 19 e 20. La Chiesa è allora chiamata a intervenire, come “colonna e sostegno della verità”, in tutte quelle questioni che ogni credente può sempre porre per i problemi più svariati, e dare delle risposte e provvedimenti perché altrimenti non sarebbe tale nel senso che, non agendo, dimostrerebbe di non avere un mandato. E qui si apre un discorso assolutamente vasto, credo impossibile a svilupparsi in poco né in molto spazio. “Legare”o “Sciogliere”è una responsabilità che possono assumersi in pochi, al contrario di quanto spesso avviene perché la vera sottomissione al Signore e allo Spirito è cosa rara e le “chiavi”verranno consegnate a Pietro solo dopo la discesa dello Spirito Santo e una sua provata maturazione, non prima. Ora, vediamo che queste vengono date anche alla Chiesa, ma quanti oggi sono in grado di usarle? Ricordiamo anche Giovanni 20.23, “A coloro cui perdonerete i peccati, saranno perdonati, a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”che ha stretta attinenza con quanto esaminato e non può essere applicato alla confessione auricolare, ma rientra proprio con quanto fin qui esaminato. E il perdono è una cosa molto seria, che comprende tante situazioni che comportano il pentimento perché questo possa verificarsi perché altrimenti si cadrebbe “…sotto il potere di Satana, di cui non ignoriamo le intenzioni”(2 Corinti 2.11).

Concludendo: quando la Chiesa stabilisce che una persona debba essere considerata “come il pagano o il pubblicano”significa che quella, per le posizioni assunte di fronte a lei e non tanto di fronte a un fratello a seguito di una semplice contesa o torto, non è in possesso di quelle caratteristiche interne che portano inevitabilmente un frutto di amore, pace e fedeltà alla Parola.

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11.35 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 6: IL RAPPORTO FRATERNO I (Matteo 18.15-18)

11.35 – Il discorso ecclesiologico 6, il rapporto fraterno I (Matteo 18. 15-18)

 

15Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; 16se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni.17Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. 18In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.

 

            È la parola del verso 17, qui tradotta con “comunità”, letteralmente “assemblea”e da altri “Chiesa”che troviamo la giustificazione al titolo di queste riflessioni, “il discorso ecclesiologico”, perché qui, per la prima volta nei discorsi di Gesù riservati ai discepoli, si parla di qualcosa che va oltre alla Sinagoga ebraica, che mai avrebbe avuto il potere di“legare e sciogliere”correlato a ciò che è “in cielo”. Ricordiamo anche le due scuole rabbiniche di Hillel e Shammai, la prima più rigida e l’altra più elastica nell’interpretazione della Legge, che però non ebbero alcun potere in tal senso. Sempre per la prima volta, poi, viene descritta la comunità dei credenti come un organismo vivo, chiamato ad agire e operare anche al suo interno e non solo nella predicazione del Vangelo, in quanto composta da esseri umani che, nonostante la chiamata ad essere “santi”, possono sbagliare e non essere effettivamente liberati da quegli elementi tipici del mondo che li hanno caratterizzati prima della loro salvezza. Per molti queste parole possono costituire un controsenso, ma dobbiamo pensare che riguardano l’uomo nel profondo e dimenticano che, se Cristo li ha liberati dal peccato, non significa che di colpo hanno raggiunto la perfezione, ma sono stati posti nella condizione di perseguire un cammino di verità che richiede lo spogliarsi costante dell’ “uomo vecchio”con tutte le sue prepotenti esigenze.

Ricordiamo in proposito alcuni passi importanti, il primo dei quali già citato: “Celebriamo la festa – la Pasqua, quindi il memoriale– non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità”(1 Corinti 5.8), invito rivolto a quei credenti che non si sono ancora liberati del “lievito vecchio”, ma ancor di più Efesi 4.17-32 che descrive in modo perfetto ciò che eravamo e ciò che siamo, o dovremmo essere, condizionale che non ammetterà scusanti quando ci troveremo davanti a Lui nel “rendiconto”: “Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore– notiamo l’appello accorato dell’Apostolo – : non comportatevi più– perché il ricordo di quelle azioni non è scomparso e neppure il loro richiamo – come i pagani con i loro vani pensieri, accecati nella loro mente, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro e della durezza del loro cuore. Così, diventati insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza e, insaziabili, commettono ogni sorta di impurità. Ma voi– ecco l’identità nuova – non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità”.

In questa prima parte, allora, Paolo ricorda ciò che gli Efesi erano e ciò che sono, situazione che può dirsi ed essere stabile solo se la condotta dell’uomo vecchio viene abbandonata e si pone in opera il rinnovamento, azione che non finisce mai. Il testo prosegue: “Perciò, bando alla menzogna e dite ciascuno la verità al suo prossimo, perché siamo membra gli uni degli altri. Adiratevi, ma non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira, e non date spazio al diavolo. Chi rubava non rubi più, anzi lavori operando il bene con le proprie mani, per poter condividere con chi si trova nel bisogno. Nessuna parola cattiva esca dalla vostra bocca, ma piuttosto parole buone che possano servire per un’opportuna edificazione, giovando a quelli che ascoltano. E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione. Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato voi in Cristo”.

Ecco, quanto letto possiamo definirlo un appello,  un richiamo accorato a riconoscere i difetti ancora presenti in noi per operare alla loro eradicazione esattamente come quando, poco prima nel suo discorso, Nostro signore aveva parlato della necessità di amputare la mano, il piede e/o l’occhio a seconda della “concupiscenza”che attrae ciascun membro della Chiesa. E ricordiamo ancora Colossesi 3.10,11 che ricorda quanto avvenuto in noi un giorno: “Vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova– azione quindi che si sviluppa nel tempo e non subito – per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato. Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Sciita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti. Scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei confronti di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Ma sopra tutte queste cose, rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto”.

Appare ora evidente che, nei passi dell’Apostolo citati, la divisione netta fra chi appartiene a Dio e chi no, quindi tra “uomo vecchio”e “uomo nuovo”, diventa tale solo nel momento in cui chi ha creduto sceglie di aderire al progetto di Dio in prima persona, cioè operando in sé affinché il Signore sia posto nella condizione di agire attraverso il suo Santo Spirito; viceversa, quanto viene letto e la partecipazione alle riunioni dell’Assemblea resteranno solo atti compiuti senza altro scopo che quello dell’apparenza e della soddisfazione della carne, di quella sua parte erroneamente definita “spirituale”.

 

Fatta questa importante premessa, possiamo affrontare quanto detto da Gesù ai discepoli che, in questo intervento, forse allude a quella discussione animata avvenuta poco prima, quando vi era stata la discussione tra chi di loro fosse “il maggiore”, cioè il più importante, il più atto a comandare sugli altri, o il preferito dal Maestro. Ancora, ricordiamo quando si erano rivolti accuse reciproche perché si erano ritrovati con un solo pane sulla barca, insufficiente a sfamarli. Possiamo dire che sicuramente quanto avvenuto nei due episodi era qualcosa di tipicamente, tristemente umano e altrettanto la è l’ipotesi formulata al verso 13, “Se un tuo fratello commetterà una colpa contro di te”, dove la “colpa”, originale dal greco “peccare contro, ingiuriare”, si riferisce a torti o a litigi di natura privata. Superficialmente c’è chi è convinto che certe cose, fra veri cristiani, sia impossibile che succedano, ma qui – e non solo – emerge l’esatto contrario, anzi, vi è un richiamo a Levitico 19.17-19 “Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore. Osserverete le mie leggi”. Ed è bello considerare che, se in questo passo abbiamo delle proibizioni ferme, nelle parole che troviamo negli scritti del Nuovo Patto il motore che muove i componenti della Chiesa è l’amore che portano in e per Cristo a spingerli, che non consente l’odio covato nel cuore. L’amore per il “prossimo”viene poi purtroppo generalizzata ed estesa a chiunque, mentre in realtà è riferita a chi è “vicino”, quindi al confratello, o consorella e non può essere applicata alle persone con le quali abbiamo a che fare quotidianamente, che non fanno parte della famiglia di Dio. Non si tratta di comportarsi come dei settari, ma di dare priorità e chi la deve avere tenendo sempre presente che coloro che non conoscono l’amore di Dio possono comunque diventare suoi figli in futuro, a meno che non abbiano uno spirito di opposizione.

Possiamo dire che l’offesa e il contrasto portato da chi appartiene al mondo è naturale e inevitabile ma quella portata da un fratello, per le dinamiche che si sono instaurate, è innaturale ma possibile, e allora occorre agire affinché si pervenga ad una soluzione proprio perché quello stato di inimicizia conseguente alla “colpa”contro la persona venga a cessare: esattamente come per le amputazioni di cui Gesù ha parlato poco prima di questi versi, tese ad impedire lo sviluppo di situazioni moralmente e spiritualmente incresciose, con il “va’, e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolta, avrai guadagnato il tuo fratello”, abbiamo la cura contro il rancore, “il rancido del cuore” come qualcuno lo ha definito, che sfocerebbe inevitabilmente in astio aperto facilmente riconoscibile dagli altri componenti della Chiesa che, ignorandone le cause, potrebbero venire scandalizzati ed interrogarsi in merito senza possibilità di comprendere.

“Avrai guadagnato il tuo fratello”è il risultato del “se ti ascolta”, cioè ammette il proprio torto e qui viene chiamata in causa l’intelligenza spirituale tanto dell’una quanto dell’altra parte, poiché l’eventuale offeso deve porre amorevolmente l’offensore nelle condizioni di ammettere il proprio errore; in altri termini non basta dire “tu mi hai fatto questo”, perché altrimenti la questione verrebbe posta nello stesso ambito in cui l’offesa è stata generata e la contesa si riproporrebbe identica. Piuttosto, qui vengono chiamate in causa la verità e la carità assieme affinché il fratello sia guadagnato, cioè che la contesa cessi a vantaggio dell’amore possibile solo nel momento in cui la parte colpevole comprenda – più che ammetta, perché quello viene da sé – il proprio errore. Anche qui possiamo citare ad esempio il profeta Natan che, quando dovette far riconoscere a Davide il peccato commesso con la moglie di Uria, non andò da lui accusandolo, ma gli narrò una parabola ponendolo nella condizione di autoaccusarsi, rivelandogli successivamente che era lui ad avere sbagliato e non il personaggio ipotetico presentato (2 Samuele 12.1-12): Vi erano due uomini nella stessa città, uno ricco e l’altro povero. Il ricco aveva bestiame minuto e grosso in gran numero; ma il povero non aveva nulla, se non una sola pecorella piccina che egli aveva comprata e allevata; essa gli era cresciuta in casa insieme con i figli, mangiando il pane di lui, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno; era per lui come una figlia. Un ospite di passaggio arrivò dall’uomo ricco e questi, risparmiando di prendere dal suo bestiame minuto e grosso, per preparare una vivanda al viaggiatore che era capitato da lui portò via la pecora di quell’uomo povero e ne preparò una vivanda per l’ospite venuto da lui». Allora l’ira di Davide si scatenò contro quell’uomo e disse a Natan: «Per la vita del Signore, chi ha fatto questo merita la morte. Pagherà quattro volte il valore della pecora, per aver fatto una tal cosa e non aver avuto pietà». Allora Natan disse a Davide: «Tu sei quell’uomo»”.

Ecco allora che, porgendo ai suoi discepoli questo insegnamento, Gesù non intende esporre soltanto una formale, corretta procedura, ma sottolinea l’obiettivo primario, il “guadagnare il tuo fratello”che, “se ti ascolta”, si troverà ad essere un debitore spirituale perché, grazie a quell’intervento, sarà stato posto nelle condizioni di crescere spiritualmente avendo rimosso un’importante pietra d’inciampo nel proprio cammino. Inoltre, chiamando in causa l’intelligenza dell’offeso, avrà posto quest’ultimo nelle condizioni di utilizzare una strategia tesa non al redimere ciò che di umano si era venuto a creare, ma al ristabilimento di un equilibrio tanto necessario quanto inevitabile per entrambi perché, nel culto, la presenza dell’inimicizia e della non comunione piena non sono ammessi. L’obiettivo finale è infatti posto in risalto da Giacomo, “fratello del Signore”: “…se uno di voi si allontana dalla verità e un altro ve lo riconduce, costui sappia che chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore lo salverà dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati”(5.19,20). Perché siamo esenti dall’errore fino a prova contraria. Amen.

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11.34 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 5: LA PECORA SMARRITA (Matteo 18.24-27)

11.34 – Il discorso ecclesiologico 5: la pecora smarrita (Matteo 18. 24-27)

 

12Che cosa vi pare? Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si è smarrita? 13In verità io vi dico: se riesce a trovarla, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. 14Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda.

 

            Chi legge questa parabola prova, tecnicamente, un sottile senso di smarrimento perché è indubbio che sia connessa a quella, dal racconto più esteso, inserita in un gruppo di tre che trattano il recupero della persona (Luca 15.4-7), che svilupperemo più avanti quanto a testo: “Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non ascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: «rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta». Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione”. Si tratta indubbiamente di un’esposizione più ricca di dettagli, dedicata a chi si era radunato per ascoltarlo, “i pubblicani e i peccatori”, oltre che “i farisei e gli scribi”che “mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. Nel nostro testo, più stringato, Gesù parla ai suoi. In entrambi i racconti abbiamo però gli stessi numeri, il cento e il novantanove, che vanno esaminati per capire meglio ciò che Nostro Signore volle annunciare in entrambe le circostanze.

 

Il numero cento: già il fatto che sia il risultato della moltiplicazione di 10×10 ci dà l’idea che troviamo la figura di quanto basta agli occhi di Dio non dal punto di vista della sufficienza, ma del raggiungimento delle Sue aspettative, non di più né di meno, e quindi ci parla di ciò che Lo soddisfa. Il 100 è al tempo stesso rappresentazione di una cifra precisa, mi viene da raccordarla con “il giorno e l’ora” conosciuti solo dal Padre, vista nel massimo che l’uomo può dare, come leggiamo nel risultato della germinazione dei terreni: “Un’altra parte cadde nel terreno buono e diede il frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno”(Matteo 13.8), là dove la il “terreno buono”è identificato in “colui che ascolta la parola e la comprende”(v.23). Ascolto e comprensione formano quindi un tutt’uno e siamo responsabili dell’una e dell’altra azione perché altrimenti saremmo come colui che si guarda allo specchio in Giacomo 1.23,24: “Se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui somiglia a un uomo che guarda il proprio volto allo specchio; appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica com’era”, descrizione che purtroppo si adatta a molti.

Ricordiamo poi, tornando al tema numerico, i cento denari di debito al “servo spietato”, indice questa volta di proporzione, cioè relativi alla fattibilità del rifonderlo, i gruppi “di cento e di cinquanta”visti nel miracolo della “moltiplicazione dei pani e dei pesci”. Possiamo anche definire questo numero come quello in cui Dio e l’uomo si incontrano, perché Gesù disse “Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la ita eterna nel tempo che verrà”(Marco 10.30). Abbiamo poi gli anni di Abrahamo quando diventò padre di Isacco, appunto cento (Genesi 21.5), contrapposti agli 86 di quando ebbe Ismaele (16.16) e ai novantanove di quando gli fu promesso un figlio da Sara.

Stante ciò che il cento rappresenta va da sé che il novantanove sia un chiaro indice non tanto di inferiorità, ma di mancanza, incompletezza di fronte alla quale si rende necessario un diretto intervento di Dio perché questa venga a cessare: qui viene raccontato di un pastore che, dopo uno dei tanti conteggi di controllo durante la giornata, si accorge che una pecora manca. Rileviamo che qui Nostro Signore parla di “pecore”, cioè di un animale ben preciso affrontato già diverse volte, ma qui direi che è necessario sottolineare che la pecora in questione è già sua, quindi il riferimento è all’uomo chi gli appartiene tanto prima che dopo avere fatto la Sua conoscenza. E sono convinto che qui, a parte le riflessioni che faremo più avanti quando esamineremo la parabola nella sua forma “completa” in Luca 15, stia la totalità del principio: Gesù disse ai Giudei “voi non credete, perché non siete delle mie pecore”(Giovanni 10.26), cioè non lo erano né lo sarebbero mai stati perché il loro “padre”era un altro (8.44). Ora il discorso si fa più sottile, perché se il cristiano salvato appartiene a Dio ed è quindi una “pecora”, in un certo senso lo era anche prima pur non essendo ancora stato chiamato e salvato: se infatti i nomi scritti nel libro della vita lo sono “prima della fondazione del mondo”, va da sé che già mentre eravamo peccatori, senza rendercene conto, avevamo degli elementi in noi che sarebbero germogliati un giorno. Per non creare fraintendimento con queste mie frasi, era come se fossimo attesi ed ecco perché il nostro nome era già scritto, conosciuto.

Qui dobbiamo prestare attenzione perché ciò non ha nulla a che vedere con la predestinazione in quanto l’uomo è sempre libero di scegliere, si trova perennemente di fronte a un bivio anche solo ogni qualvolta pensa. La decisione sulla strada da percorrere viene fatta volontariamente dalla persona e senza nessuna influenza nonostante pesino le scelte fatte anzitempo dalla propria famiglia, che di lui porta tanto la responsabilità quanto gli trasmette elementi di cui farà tesoro in seguito, nel bene e nel male. La possibilità di mutare l’indirizzo della propria vita però c’è sempre, la chiamata di Dio è per ogni uomo e soprattutto è personale, per cui personalmente si accetta o personalmente si rifiuta. Poi, a rendere pratico il verso che abbiamo visto tempo fa, “Nessuno viene a me se il Padre non lo attira”, è la somma di un’infinità di elementi, tutti volontari e valutati da Colui che è.

Il pastore “lascia le novantanove sui monti”, dove non possono smarrirsi, in un recinto o sorvegliate dai cani, e va “a cercare quella che si (è) smarrita”: deve fare fatica, tornare indietro, chiedersi la direzione che un animale come la pecora, priva di orientamento, può avere preso. Deve controllare eventuali tracce sul terreno, guardare negli anfratti, fra i cespugli, tendere l’orecchio per sentire un eventuale belato. Notiamo anche come sia esclusa la possibilità che la pecora in questione sia stata rubata, ma l’esempio vale per quella che si è persa e anche qui intravediamo la verità in base al quale “nessuno può strapparle dalla mia mano”perché la pecora può perdersi, ma non morire.

Mi sono chiesto a questo punto il perché e come un uomo possa smarrirsi e qui possiamo aprire due discorsi, il primo riguarda la vita condotta prima dell’incontro col Signore Gesù: come la pecora, vagavamo cercando di nutrirci con quel poco che riuscivamo a trovare. E c’era un senso di incompletezza, più o meno dominante. Aspirazioni che si inseguivano, ideali di vita che a volte sembravano vicini, altre si allontanavano, ma la consapevolezza di essere persi non c’era e ci si limitava a rincorrere un vuoto lontanamente consapevole. E quando siamo stati trovati, tutto è cambiato, siamo stati portati in una dimensione prima sconosciuta.

L’essere credenti, però, non ci garantisce l’ingresso in una sorta di paradiso terrestre in cui “tutto è bellissimo” e si vive perennemente con “la pace nel cuore”, ma siamo sempre in un mondo che richiede adesione, che tenta, propone modelli di vita e ideali di fronte ai quali esiste sempre il rischio di soccombere, soprattutto se non si hanno conosciuto quegli spazi e sistemi che fanno maturare. E allora anche in questo caso è facile perdersi, come la pecora della parabola che, probabilmente, è rimasta indietro nel percorso del gregge. E qui si parla comunque di un animale preciso, quindi, in base a questa seconda classificazione, di un appartenente della Chiesa, di un salvato il cui nome è scritto nel libro della vita, perché altrimenti la classificazione sarebbe diversa (ricordiamo le parole su quelli che “se sono caduti, è impossibile rinnovarli una seconda volta portandoli alla conversione”in Ebrei 6.6). Ebbene, anche qui l’opera del pastore è la stessa, si mette a cercare.

Notiamo che al verso 11 Gesù non dà per scontato il fatto che la sua ricerca abbia un esito felice: “Se riesce a trovarla”perché trovare una pecora implica tanto la messa in atto degli accorgimenti citati poco prima, quanto il chiamarla e soprattutto che lei risponda, come in effetti avviene ancora oggi, fatto di cui troviamo traccia anche nelle parole che descrivono il rapporto del Pastore: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”(Giovanni 10.27). Nel nostro caso, allora, quel “Se riesce a trovarla”implica il fatto che la pecora risponda, si metta a belare per farsi sentire e sappiamo che in quel caso il ritrovamento è inevitabile.

La parabola qui esposta credo abbia un significato diverso da quella che ritroveremo in Luca, poiché, ricordando le parole citate all’inizio, leggiamo che il pastore “va in cerca di quella perduta, finché non la trova. Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici, e dice loro «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta»”(15.5,6).

In questa di Matteo leggiamo “…si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite”, e qui abbiamo qualcosa per noi umanamente poco comprensibile: novantanove pecore sono un bel numero e una in meno, dal punto di vista del profitto, è poca cosa soprattutto secondo la mentalità dell’allevamento moderno, ma il discorso di Gesù è distante anni luce da questo ragionamento perché qui la pecora è vista come valore per la vita che porta e per il fatto che è stata affidata a quel Pastore che considera le novantanove che ha già come un dato di fatto. Quella che si è persa, però, rappresenta una sconfitta nei confronti della totalità del gregge. E infatti non a caso il testo conclude con “Così è la volontà del Padre vostro, che nessuno di questi piccoli si perda”.

Dalle parole di Gesù, come in effetti è, sembra che la perduta ritrovata abbia un valore maggiore rispetto alle altre rimaste e così è perché la considerazione che fa il Pastore di quell’animale è simbolicamente la stessa che troviamo sul figlio prodigo tornato alla casa paterna: “…questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”(Luca 15.24). Lo stesso non poteva dirsi delle altre pecore che non si erano smarrite ed ecco perché è scritto che “vi sarà più gioia nel cielo per un peccatore che si converte, più che per novantanove giusti che non han bisogno di conversione”(Luca 15.7). È proprio per questa “gioia nel cielo”avvenuta nel momento in cui ci siamo arresi all’amore di Dio che abbiamo il dovere di perseverare nel cammino che ci è destinato. E siamo responsabili anche di quella gioia. Amen.

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11.33 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 4: LA MONETA D’ARGENTO (Matteo 17.24-27)

11.33 – Il Discorso Eccleiologico 4: La moneta d’argento (Matteo 17. 24-27)

 

24Quando furono giunti a Cafàrnao, quelli che riscuotevano la tassa per il tempio si avvicinarono a Pietro e gli dissero: «Il vostro maestro non paga la tassa?». 25Rispose: «Sì». Mentre entrava in casa, Gesù lo prevenne dicendo: «Che cosa ti pare, Simone? I re della terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli o dagli estranei?». 26Rispose: «Dagli estranei». E Gesù replicò: «Quindi i figli sono liberi. 27Ma, per evitare di scandalizzarli, va’ al mare, getta l’amo e prendi il primo pesce che viene su, aprigli la bocca e vi troverai una moneta d’argento. Prendila e consegnala loro per me e per te».

 

            Può sembrare strano che venga inserito, in mezzo al discorso ecclesiologico, un episodio che, in realtà avvenne poco prima. Credo che però, considerata la frase del verso 27, “per evitare di scandalizzarli”, sia giusto inserirlo dopo l’insegnamento sullo skàndalon, per poter fare alcune precisazioni-estensioni, nonostante quanto letto preceda la trattazione di Nostro Signore in merito.

I soggetti del racconto sono tre: “quelli che riscuotevano la tassa per il tempio”, Pietro che risponde prima a loro e poi a Gesù, ed infine Lui, che gli ordina di pescare un pesce per prendere la moneta d’argento, nel testo originale “statére” e consegnarla “a loro per te e per me”. La nostra versione interpreta correttamente il testo originale che scrive “quelli che raccoglievano le due dramme”, o “didramme” per distinguerli dai pubblicani che si occupavano di riscuotere la “moneta del censo”, cioè “un denaro”, tributo imposto dal governo romano menzionato in 22.17 e seguenti: quando i discepoli dei farisei chiesero a Gesù se era o meno lecito pagare il tributo a Cesare, la Sua risposta fu “«Perché mi tentate, ipocriti? Mostratemi la moneta del tributo». Quelli gli presentarono un denaro. E disse loro «Di chi è questa immagine e l’iscrizione?». Gli dissero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Date dunque a Cesare le cose di Cesare e a Dio le cose di Dio»”.

Le due dramme, o mezzo siclo, circa sette grammi d’argento, erano la somma che doveva essere pagata da ogni maschio dai trent’anni in su per il mantenimento e il servizio nel Tempio. L’istituzione di tale offerta, che era obbligatoria ma in realtà tutti davano volontariamente, trae la sua origine in Esodo 30.12-14: “Quando per il censimento conterai uno per uno gli Israeliti, all’atto del censimento ciascuno di essi pagherà al Signore il riscatto della sua vita, perché non li colpisca un flagello in occasione del loro censimento. Chiunque verrà sottoposto al censimento, pagherà un mezzo siclo, conforme al siclo del santuario, il siclo di venti ghera – tradotto anche “il siclo contiene venti oboli” –. Questo mezzo siclo sarà un’offerta prelevata in onore del Signore. Ogni persona sottoposta al censimento, dai venti anni in su, corrisponderà l’offerta prelevata per il Signore. Il ricco non darà di più e il povero non darà di meno di mezzo siclo, per soddisfare all’offerta prelevata per il Signore, a riscatto delle vostre vite. Prenderai il denaro espiatorio ricevuto dagli Israeliti e lo impiegherai per il servizio della tenda del convegno – il Tempio non c’era ancora –. Esso sarà per gli Israeliti come un memoriale davanti al Signore, per il riscatto delle vostre vite”. Abbiamo letto che il testo parla di “censimento”, ma dopo il ritorno dalla deportazione a Babilonia sotto Nabucodonosor  tra il VII e il VI secolo a.C., diventò un tributo da pagare annualmente.

Ecco allora che gli ignoti riscossori delle due dramme, una volta presentatisi, furono molto meravigliati del fatto che, alla loro vista, Pietro e il suo Maestro non avessero messo le mani alla cassa per dare il tributo, che non veniva mai chiesto, ma dato spontaneamente stante il forte senso religioso allora presente. Il testo originale non recita “Il vostro maestro non paga la tassa”, ma “le didramme”, a sottolineare la sorpresa di quelli e non una frase pronunciata, come avvenuto per i farisei e gli scribi, per tentare Gesù. Questa disposizione d’animo è molto importante per le applicazioni che faremo.

Alla domanda Pietro risponde “Sì” dando per scontato che, appartenendo allo stesso popolo e conscio che il servizio al Tempio era comunque svolto per onorare il Padre, e rientra in casa per raccogliere le due dramme che ciascuno avrebbe dovuto dare agli incaricati. Viene però prevenuto dalla domanda del Maestro: “Che cosa ti pare, Simone? I re della terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli, o dagli estranei?”.

Qui Nostro Signore, con le sue parole “i figli sono liberi”, fa un parallelismo fra i re della terra ed il Re assoluto cui le due dramme andavano date, e il senso di ciò che spiega a Pietro è chiaro: se i figli dei sovrani del mondo non pagavano certo il tributo che davano le persone comuni, Lui, quale Figlio di Dio, era esente dal dare l’offerta, tanto più che avrebbe dato se stesso. Vediamo però che, a differenza di tutte le volte in cui si trovò a difendere un principio dottrinale senza mai cedere, diremmo con un’espressione popolare “di un millimetro”, qui si comporta diversamente, cioè: le persone che avevano chiesto a Pietro se Gesù non pagasse le due dramme lo avevano fatto esprimendo la loro meraviglia, anticipando il loro turbamento qualora ciò non fosse avvenuto e per questo, per non porre a loro un motivo di inciampo, acconsente a pagare anche se in un modo particolare.

Abbiamo allora da questo episodio un insegnamento preciso, parente stretto di quanto già osservato nel citare l’insegnamento di Paolo da Tarso a proposito dello scandalizzare i deboli su cose di poco conto: certo Gesù avrebbe potuto mettersi a spiegare a quegli esattori il motivo per cui non era tenuto a pagare il tributo, ma non avrebbero capito e sarebbero rimasti turbati e interdetti sul fatto che, proprio Lui che predicava ed era indubbiamente un profeta, non avesse dato quanto chiesto. Per questo motivo abbiamo qui un miracolo in un certo senso anomalo, che non viene mai in mente a nessuno quando si tratta di elencare quanto di soprannaturale fatto da Gesù in terra. Eppure è Lui il “figlio dell’uomo” di cui parla Davide in Salmo 8.6-10: “Davvero lo hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi: tutte le greggi e gli armenti e anche le bestie della campagna, gli uccelli del cielo e i pesci del mare, ogni essere che percorre le vie dei mari”.

Ecco perché Gesù sapeva quanto sarebbe successo: “Va’ al mare, getta l’amo e prendi il primo pesce che viene su, aprigli la bocca e troverai una moneta d’argento – il testo originale ha “statére” –. Prendila e consegnala loro per te e per me”. Va ricordato che lo statére era una moneta attica che valeva l’esatto quadruplo di una dramma, cioè di un siclo ebraico, quindi Pietro estrasse dal pesce due didramme.

Possiamo aprire anche una parentesi a proposito del pesce, che fu sicuramente il cosiddetto Chronis Simonis, dal ciclo vitale molto particolare: la femmina depone le uova tra la vegetazione sott’acqua e il maschio le raccoglie in bocca conservandole fino a quando i piccoli raggiungono la lunghezza di circa dieci millimetri. Per espellerli, il maschio incubatore introduce nella sua bocca un sassolino o un oggetto che provoca l’uscita dei piccoli, ma rimane nella sua bocca per qualche tempo. Nel nostro caso, quel pesce trovò uno statére che fece la stessa funzione del sasso, o del ciottolo.

“Prendile e consegnala a loro per te e per me”. E gli altri? Essendo una “tassa” riservata solo agli israeliti e tali essendo i discepoli, l’unica spiegazione possibile è che, stante il poco valore delle due dramme, undici di loro ne fossero in possesso, tranne Pietro. Potremmo anche supporre che gli altri undici non fossero ancora in casa, stante il fatto che gli evangelisti si preoccupano sempre del senso degli episodi e spesso non sono così minuziosi nel descrivere il contesto. Abbiamo letto infatti “Quando furono giunti a Capernaum”, ma non che tutti entrarono nella casa in cui Gesù abitava.

Tornando all’episodio, Nostro Signore, quand’anche avesse avuto le due dramme, non era tenuto a pagarle per cui nello statére raccolto dalla bocca del pesce vediamo Gesù come Figlio di Dio che, pur non dovendo dare nulla, pagò comunque ma solo da un punto di vista tecnico. Allo stesso modo Pietro qui è visto come figura della Chiesa nel senso che, come tutti gli altri e noi, sarebbe diventato un figlio di Dio assumendo in quanto tale l’identità del suo Maestro: “a quanti lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio”. Il cristiano infatti rientra nel Suo progetto, “Poiché quelli che ha sempre conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito di molti fratelli; quelli poi che ha predestinato li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati” (Romani 8.29,30).

È allora chiaro che Gesù non era tenuto a dare nulla in quanto Figlio del Padre cui era dedicato il Tempio con le sue funzioni, ma se gli altri discepoli, rappresentati qui da Pietro, avessero dovuto osservare strettamente quella prescrizione dando anch’essi le due dramme, certamente in quel pesce si sarebbe trovato mezzo siclo e non uno intero. Nostro Signore non fa presente a Pietro che avrebbe dovuto restituirgli la parte eccedente, ma gli dice “consegnala loro per te e per me”, a conferma del fatto che considerava quell’apostolo come simbolo di tutti coloro che avrebbero creduto in Lui un giorno. E qui si potrebbe aprire un capitolo a parte sull’identità che hanno i credenti col Padre e il Figlio, ma credo non ve ne sia bisogno perché tutto il Vangelo è improntato su questa verità predicata, che emergerà in tutta la sua forza e potenza dopo la resurrezione e la discesa dello Spirito Santo.

Possiamo concludere anche evidenziando ciò che Gesù avrebbe potuto fare e non fece, a parte lo spiegare agli “esattori” il motivo per cui non pagava: non disse “voi non sapete chi sono io”. Non li cacciò, con le buone o le cattive non importa. Non disse “Guarisco muti, sordi, lebbrosi e paralitici e questo vi deve bastare”. Non si sottrasse al pagamento, dimostrando ai discepoli col miracolo del pesce che comunque era esente da quel tributo, come in effetti lo rimase, non mettendolo “di tasca propria”.

Invece, pensò a non turbare gli esattori, in buona fede, che si aspettavano di ricevere le due dramme da lui: ricevendole, avrebbero potuto testimoniare che Gesù, come tutti gli altri, aveva dato il proprio contributo al mantenimento del Tempio, quello stesso edificio che verrà distrutto nel 70 mettendo la parola “fine” ad un culto che non avrebbe avuto più ragione di essere stante l’apertura della nuova dispensazione voluta proprio da Dio Padre.

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11.32 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 3: NOTE SU MATTEO 18.9-11 (Prima parte)

11.32 – Il discorso ecclesiologico 3: note su Matteo 18. 9-11 (Prima parte)

 

9(…). È meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna del fuoco.10Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli. [ 11] Poiché il figlio dell’uomo è venuto a salvare ciò che era perduto.

 

            Quando si esamina un testo fondamentale del Vangelo, è naturale seguire e cercare di approfondire gli insegnamenti più immediati, ma così facendo vi sono dei particolari che sfuggono; ecco allora che è necessario esaminare gli ultimi tre versi, ma anche aprire un collegamento ancora sugli scandali, alla luce di un episodio avvenuto prima del discorso ecclesiologico cui abbiamo dedicato, per ora, due capitoli. La postilla è un’annotazione fatta a mano su un testo e così, figurativamente, voglio intendere questo intervento e il successivo.

Prima nota va apposta alla seconda parte del verso nono: si tratta di una considerazione importante per chi rimane perplesso a fronte della necessità, per quanto figurata, di amputare la mano o il piede o cavare l’occhio, nel senso che “entrare nella vita con un occhio solo”, vale più che “con due occhi essere gettato nella Geènna del fuoco”;l’attaccamento a ciò che siamo, quindi che ci caratterizza e ci fa muovere nella vita decidendo cosa e come fare ed agire, qui si ferma, chiede una spiegazione. Preso con le faccende dell’esistenza, alcune obbligatorie ed altre per il suo esclusivo piacere o benessere, l’uomo dà molte cose per scontate: pensa che il domani gli appartenga e prende appuntamenti e impegni, sceglie e programma magari dove trascorrere l’estate o le feste, è intento a soddisfarsi o cercare di farlo e per questo cerca di mantenersi in salute, ma il verso in esame, parente di quello che invita a considerare l’utilità di guadagnare il mondo a fronte della perdita dell’anima, avverte che due mani, due piedi e due occhi non servono se poi si viene “gettati nella Geènna del fuoco”, espressione forte che conosciamo perché la Geènna era la valle di Ennon fuori da Gerusalemme dove ardevano perennemente dei fuochi che bruciavano i rifiuti. Mi sento di sottolineare quel “gettato”, che conferma il fatto che coloro i quali subiranno tale sorte avranno perso quell’autonomia a lungo cercata: nonostante la loro opposizione, verranno “gettati nella Geènna”perché considerati, appunto, rifiuti. E il rifiuto è un materiale di scarto o avanzo che non può essere utilizzato in alcun modo, per cui viene distrutto, eliminato.

Pensiamo: da individuo che voleva essere al centro di tutto, convinto di valere, chi si perderà finirà per non contare più nulla, sarà così stimato da Colui che avrà l’ultima parola, Gesù Cristo. Si tratta di una descrizione che, pur non con le stesse parole, troviamo in molte parabole, parte delle quali sono state esaminate.

Arriviamo così al verso 10, in cui Gesù torna al bambino che aveva chiamato e posto in mezzo a loro. Nostro Signore parla di “piccoli”, ma in modo diverso perché il riferimento non è più a chi è innocente o senza diritti, ma a chi deve crescere, pervenire allo stato adulto, di persona responsabile. Il bambino, qui, è allora colui che ha ancora tutto un cammino da percorrere sul quale non bisogna interferire scandalizzandolo e il verso prosegue in modo impegnativo per il lettore: “io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli”. Sono quindi angeli presenti alla Corte Celeste e questo verso potrebbe lasciar supporre, a livello immediato, che i “piccoli”godano di una protezione tutta particolare vista nell’opera dell’ “angelo custode”, ma questa idea andrebbe a scontrarsi con gli innocenti periti per la strage voluta da Erode il Grande e tutti quei bambini che da sempre muoiono nelle guerre, carestie o, purtroppo, per mano dei loro stessi genitori.

“I loro angeli”, invece, appare più un’espressione riferita a quegli esseri che Paolo, probabile autore della lettera agli Ebrei, definisce “spiriti amministratori mandati a servire coloro che lo temono”(Ebrei 1.14), diretti operatori attivi a seguito della venuta di Gesù profetizzata anche in Salmo 33.7 “Calerà l’Angelo del Signore attorno a coloro che lo temono, e li libererà”. Quella descritta in Ebrei 1.14 è una realtà difficile da enucleare, che va oltre l’assistenza ufficiale che troviamo negli annunci a Zaccaria, Elisabetta, Maria o Giuseppe, con gli inviati a sostenere Gesù dopo il digiuno nel deserto o, uscendo dal contesto dei Vangeli, con l’episodio in cui Pietro fu liberato quando era in carcere (Atti 12.6-12). Credo che il ruolo dell’angelo, tenendo presente comunque questi episodi, sia da connettere a quello descritto in Esodo 23.20-24 quando il popolo di Dio, Israele, era destinato ad entrare nella terra promessa, quella di Canaan, come oggi la Chiesa attende i “nuovi cieli e nuova terra”e i suoi componenti di incontrare il Dio Vivente e Vero dopo la morte del corpo.

Prima di leggere il passo di Esodo, teniamo presente che il popolo di Dio è sempre esistito ed è uno, Israele prima della venuta del Figlio, e la Chiesa da allora in poi che li comprende entrambi, pagani ed ebrei, perché sono stati “riconciliati tutti e due con Dio in un corpo unico mediante la sua croce, sulla quale fece morire la loro inimicizia”(Efesi 2.16) in quanto, per la carne, lontani. Vediamo allora quanto ci è stato tramandato, inframmezzandolo con un breve commento: “Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti nel cammino e per farti entrare nel luogo che io ti ho preparato– notiamo il verbo “preparare” usato anche da Gesù quando disse ai suoi “vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto tornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io”(Giovanni 14.1-3) –. Abbi rispetto della sua presenza, dà ascolto alla sua voce e non ribellarti a lui”. Anche oggi quell’ “angelo”parla a noi attraverso la Scrittura e lo Spirito Santo, il Consolatore. Attenzione ora a come prosegue il testo: “Egli infatti non perdonerebbe la vostra trasgressione, perché il mio nome è in lui”: anche qui viene spontaneo, riguardo alle parole “perché il mio nome è in lui”, il collegamento con quanto detto da Gesù dopo la Sua risurrezione, “Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra”(Matteo 28.18) e altri, come il fatto che Lui e il Padre siano una cosa sola (Giovanni 10.30). Nel termine “Gli angeli loro”, quindi, si riassume tutto questo: promessa di assistenza e guida, presenze reali che spesso sottovalutiamo quali “spiriti amministratori”. Lo stesso velo, che le sorelle dovrebbero indossare nelle Assemblee cristiane, costituisce un segno distintivo da indossare per loro (1 Corinti 11.10 “Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli”).

Torniamo al testo: “Se tu dai ascolto alla sua voce e fai quello che io ti dirò, io sarò il nemico dei tuoi nemici e l’avversario dei tuoi avversari”. È quindi il comportamento dell’uomo, in positivo o in negativo, che determina il comportamento dell’ “angelo”, “Se fai quello che io ti dirò”. Abbiamo allora questo essere da una parte e l’uomo dall’altra che non può più agire, per l’elezione e le promesse ricevute, come se fosse indipendente, dando retta solo a se stesso e ai suoi progetti perché intimamente, indissolubilmente legato a Dio. E il “non separi l’uomo ciò che Dio ha unito”non vale solo per il matrimonio, ma per quel legame che il Signore stesso ha voluto, scegliendo la persona per farla sua. Nel nostro testo di Esodo 23, infatti, il credente è chiamato ad assumere una posizione netta, senza restare un punto di domanda di fronte agli altri: “Quando il tuo angelo camminerà alla tua testa e ti farà entrare presso l’Amorreo, l’Evveo, il Gebuseo e io– non tu – li distruggerò, tu non ti prostrerai davanti ai loro dèi e non li servirai; tu non ti comporterai secondo le loro opere, ma dovrai demolire e frantumare le loro stele”.

Ora questi versi, scritti riguardo a popoli che vivevano un’altra dispensazione così come un modo di vivere diverso, parlano anche a noi per il comportamento che dobbiamo adottare nei confronti di chi ha dèi estranei, allora come oggi, visti in uno stile di vita, modo di ragionare, agire, pensare al di fuori di quel Dio di cui magari hanno sentito parlare, ma che non vogliono conoscere per dar luogo all’amore della verità per essere salvati. A volte tendiamo a sottovalutare il fatto che “tu non ti comporterai secondo le loro opere”non si riferisce soltanto a rimanere influenzati da un modo di ragionare e fare, ma sia un errore anche solo il salutare una persona e quindi parlare con essa ponendola sul nostro stesso piano. Così infatti scrive l’apostolo Giovanni: “chi va oltre e non rimane nella dottrina del Cristo, non possiede Dio. Chi invece rimane nella dottrina, possiede il Padre e il Figlio. Se qualcuno viene a voi e non porta questo insegnamento, non ricevetelo in casa e non salutatelo, perché chi lo saluta partecipa alle sue opere malvagie”(2 Giovanni 1. 8-11).

Ricevere una persona in casa equivale a renderla partecipe del nostro mondo, condividere con lei pensieri e dati facendolo un nostro pari. Giovanni qui non parla di una separazione di tipo farisaico, cioè porsi su un piano di superiorità arrogante, ma del fatto che si è diversi perché tra luce e tenebre non esiste cosa in comune e chi appartiene a Dio sarà sempre oggetto di attenzione distruttiva da parte di chi non è come lui, esattamente come fu per Abele con Caino.

Il nostro verso 10, allora, ha riferimento agli angeli come testimoni dello sviluppo del “bambino”o del “piccolo”, identificato in chi ha creduto, più che a un’attività di custodia e protezione perché altrimenti, nel caso citato di Caino e Abele, questi avrebbero clamorosamente fallito mentre spettava a Caino, primogenito, la responsabilità di essere tanto d’esempio, quando di rispettare e in un certo qual modo proteggere il fratello. E infatti il giudizio su di lui non fu da poco e, per coloro che scandalizzeranno i “piccoli”, vale l’esempio della macina da mulino.

“Disprezzare uno solo di questi piccoli”significa sminuire la loro testimonianza e la loro fede, certo quando è portata con parole e comportamento appropriato perché“chi accoglie voi, accoglie me”.

Altra postilla riguarda il verso undicesimo, non citato nella nostra versione ma presente in altre, che è un parallelo di Luca 19.10: “È venuto infatti il figlio dell’uomo a salvare ciò che era perito”, utilizzato come ponte tra l’insegnamento sui piccoli e la parabola della pecora perduta che esamineremo a breve.

Per riallineare poi il racconto cronologico ed estendere un poco quanto già scritto a proposito dello scandalo, resta da considerare un episodio avvenuto prima dell’inizio del discorso ecclesiologico, che sempre Matteo riporta in 17.24-27: di questo ci occuperemo nel prossimo capitolo.

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11.31 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 2: MANO – PIEDE – OCCHIO (Matteo 18.8-11)

11.31 – Il discorso Ecclesiologico 2: mano – piede- occhio (Matteo 18. 8-11)

 

8Se la tua mano o il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo e gettalo via da te. È meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, anziché con due mani o due piedi essere gettato nel fuoco eterno. 9E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te. È meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna del fuoco.10Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli. [ 11]

 

            Prima di iniziare a lavorare su questi versi, vale la pena ricordare la sintesi espressa da Gesù ai discepoli che verrà espressa da lì a poco: “In verità io vi dico, chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso”(Marco 10.15). È una frase che sconfessa la teoria universalista, che purtroppo ha trovato adesioni in diverse Chiese, che sostiene che Dio sia troppo buono per non accogliere tutti nel suo regno perché il vero inferno è qui, su questa terra.

L’accoglienza del regno di Dio, fatta con la semplicità e l’innocenza di un bambino perché tali si diventa nel momento in cui lo si accetta assieme a Gesù Cristo, è però correlata a versi che già conosciamo sono parole che abbiamo cercato di affrontare quando abbiamo visto il sermone sul monte e che pongono il bambino da una parte e l’uomo maturo dall’altra perché, spiritualmente parlando, non ci può essere l’uno senza l’altro.

Gesù, trattando il tema dello scandalo, prima ha parlato di quello provocato da terze persone ed ora qui passa ad esaminare ciò che può sempre sorgere all’interno di noi stessi riguardo la mano, il piede e l’occhio, organi che ci parlano delle scelte che la nostra persona compie quotidianamente. Per evitare di lasciare nei discepoli l’idea che la colpa possa sempre venire da altri, ecco che subito il tema si sposta sull’individuo, sul singolo che molto spesso è il vero nemico di se stesso, principio confermato dal possessivo “tua”e “tuo”. Esaminiamo allora le tre parti anatomiche citate da Nostro Signore.

 

LA MANO

Ha connessione con la volontà immediata, indica lo strumento con il quale concretiamo i nostri progetti, idee, intenzioni dirette. Compare per la prima volta in Genesi 3.22 con le parole “Poi il Signore disse: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi quanto alla conoscenza del bene e del male– senza però essere in grado di portarla –. Che ora egli non stenda la mano e non prenda anche dell’albero della vita– diventato per lui incompatibile –, ne mangi e viva per sempre!»”. Ricordiamo poi Caino, che “alzò la mano contro il fratello Abele e l’uccise”(4.8), quella di Noè che, quando la colomba tornò all’arca, “stese la mano, la prese e la fece rientrare presso di sé”.

Si prende per mano in segno di protezione (21.18, “Àlzati, prendi il fanciullo per mano, perché io ne farò una grande nazione”) e la si può tendere per lo stesso motivo, ma qui deve essere la persona ad accettarla. La mano è quella che constata gli effetti dell’assistenza-esistenza di Dio e qui gli esempi sono innumerevoli, da Mosè con bastone tramutato in serpente e viceversa, per non parlare della lebbra (Esodo 4: “Il Signore gli disse ancora – a Mosè –: «Introduci la mano nel seno!». Egli si mise in seno la mano e poi la ritirò; ecco, la sua mano era diventata lebbrosa, bianca come la neve. Egli disse: «Rimetti la mano nel seno!». Rimise in seno la mano e la tirò fuori: ecco, era tornata come il resto della sua carne”) fino a Tommaso, che voleva metterla nel fianco di Gesù (Giovanni 20.25).

Arto delicato per l’ambivalenza che può assumere, veniva protetto per legge da cattive intenzioni: “Questi precetti che oggi ti do(…) te li legherai alla mano come un segno”(Deuteronomio 6.8). La mano rappresenta anche tutto ciò che potrebbe essere dato ad altri e invece viene tenuto per sé, quindi l’altruismo o l’egoismo: “Non chiuderai la mano al tuo fratello bisognoso, ma gli aprirai la mano e gli presterai quanto occorre alla necessità in cui si trova.(…) Dagli generosamente e, mentre gli doni, il tuo cuore non si rattristi. Proprio per questo, infatti, il Signore tuo Dio ti benedirà in ogni lavoro e in ogni cosa a cui avrai messo mano”(Deuteronomio 15.8-10).

In 1 Timoteo 2.8 l’apostolo Paolo scrive “Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza polemiche”dove abbiamo un importante insegnamento perché pregare con le “mani pure”implica un esame di coscienza preventivo, a ricordare che la preghiera viene elevata senza che vi siano peccati non confessati, a Dio o a un fratello o sorella, che la renderebbero vana. È scritto infatti che “Mosè stese le mani verso il Signore: i tuoni e la grandine cessarono e la pioggia non si rovesciò più sulla terra”(Esodo 9.33), cosa impossibile se non si fosse trovato in condizioni di purezza, nonostante la sua condizione di uomo. Ma era uno strumento di Dio e tale doveva rimanere.

La letteratura sapienziale, poi, collega quest’arto all’operosità o alla negligenza: ricordiamo Proverbi 21.25 (“Il desiderio del pigro lo porta alla morte, perché le sue mani rifiutano di lavorare”), Qoelet 10.18 (“Per negligenza il soffitto crolla e per l’inerzia delle mani piove in casa”, Siracide 2.12 (“Guai ai cuori pavidi e alle mani indolenti e al peccatore che cammina su due strade”).

 

 

IL PIEDE

Se la mano agisce nell’ambito del perimetro raggiungibile dalla persona ferma, il piede è quello che consente al corpo di spostarsi e quindi, all’occorrenza, amplia enormemente le possibilità della mano. Si tratta però di un’applicazione secondaria perché il piede è visto più come arto deputato alla stabilità, oltre che mobilità. La parola “piede” compare per la prima volta in Genesi 8.9 quando “la colomba, non trovando dove posare la pianta del piede, tornò a lui nell’arca, perché c’era ancora l’acqua su tutta la terra”. Al plurale, invece, abbiamo Genesi 18.2 quando alle querce di Mamre si presentarono ad Abrahamo “tre uomini che stavano in piedi presso di lui”. Prima che allo spostarsi, allora, il primo riferimento è all’equilibrio, che può essere stabile o precario. Anche questo è importante a tal punto da venire citato, assieme agli altri due oggetto di riflessione, nel famoso verso della Legge “Occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede”in Esodo 21.24.

La sua stabilità o meno è correlata all’ubbidienza a Dio: “Non permetterò più che il piede degli Israeliti erri lontano dal suolo che io ho dato ai loro padri, purché si impegnino ad osservare tutto quello che ho comandato loto, secondo tutta la legge che ha prescritto loro il mio servo Mosè”(2 Re 21.8); ricordiamo Salmo 26.12 “Il mio piede sta su terra piana; nelle assemblee benedirò il Signore”. Certo il piede è indispensabile per spostarsi, ma ha sempre riferimento al cammino spirituale, in bene o in male: “Poiché egli conosce la mia condotta; se mi mette alla prova, come oro puro io ne esco. Alle sue orme si è attaccato il mio piede, al suo cammino mi sono attenuto e non ho deviato”(Giobbe 23. 10,11).

Eloquente in proposito il libro dei Proverbi, “Allora camminerai sicuro per la tua strada e il tuo piede non inciamperà,(…) perché il Signore sarà la tua sicurezza e preserverà il tuo piede dal laccio.(…) Bada alla strada dove metti il piede e tutte le tue vie saranno sicure,(…) non deviare né a destra né a sinistra, tieni lontano dal male il tuo piede.(…) Quale dente cariato e quale piede slogato, tale è l’appoggio del perfido nel giorno della sventura”(3.23; 4.26; 25.19).

Da citare il calcagno, l’osso più voluminoso del tarso, che costituisce il tallone: conosciamo l’espressione “alzare il calcagno” contro qualcuno, che allude al ferire con frode, ma anche tendere delle trappole per neutralizzare. Il verso più noto in proposito è quello relativo al giudizio sul serpente, “Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe – quindi figli di Dio e figli dell’Avversario –: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”(Genesi 3.15): effettivamente Gesù fu dato in mano agli uomini che fecero di lui non quello che vollero, ma ciò che fu loro concesso. Lui stesso, parlando di Giuda ai Suoi, disse “…deve compiersi la Scrittura: Colui che mangia il mio pane ha alzato contro di me il suo calcagno”(Giovanni 13.18).

 

 

L’OCCHIO

Organo della vista, ne abbiamo parlato affrontando il sermone sul monte. Se mano e piede necessitano di comandi per lo più coscienti da parte del cervello, l’occhio spesso agisce autonomamente in base alla personalità, all’indole dell’individuo e va qui affrontato non sotto l’aspetto neurologico, ma psicologico perché la funzione visiva in un soggetto sano è costituita non solo dalle sue caratteristiche anatomo-funzionali, ma comprende anche processi percettivi, cognitivi ed emozionali. L’occhio allora è uno strumento di analisi, ma agisce anche in autonomia, istintivamente ed è su questa caratteristica che Gesù intende spostare l’attenzione dei suoi uditori, essendo nota la massima secondo la quale “l’occhio non si stanca mai di guardare né l’orecchio di udire”; può allora far cadere la persona in peccato non tanto senza che questa se ne accorga, ma innescando dei processi giustificativi dell’azione facendo che la mente, che dovrebbe controllarlo e dominarlo, venga messa in subordine.

Ricordiamo le parole che descrivono il primo peccato: “Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per avere saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò”(Genesi 3.6). L’occhio fu responsabile di tutta una catena di processi che portarono al diluvio, quando leggiamo nella sua premessa “Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro delle figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli a loro scelta”(Genesi 6. 1,2); questo verso non pone l’accento sul fatto che costituisca un peccato sposare una bella donna, ma il sistema che si era venuto a costituire visto nel degrado dell’umanità. Rileggiamolo: “I figli di Dio– cioè quelli che avrebbero dovuto metterLo al centro della loro vita – videro– l’occhio – che le figlie degli uomini– cioè di persone che non avevano la loro stessa elezione – erano belle– cioè potevano costituire un’alternativa molto più immediata alla loro realizzazione, per quanto carnale – e se ne presero per mogli a loro scelta– cioè più di una, secondo il loro capriccio –“. “Figli di Dio” e “figlie degli uomini” sono termini che alludono alla mescolanza di due stirpi diverse. E dopo un certo tempo, che possiamo calcolare ma che non viene specificato, leggiamo che “Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male, sempre”(v.5).

L’occhio, allora, aveva preso il sopravvento sulla ragione quasi senza che quelle persone se ne rendessero conto e la concupiscenza non solo verso il corpo femminile, ma tutto ciò che poteva costituire attrattiva per essere posseduta, era diventato dominante, unica ragione di vita. Come oggi. L’occhio fu anche causa della rovina di Acan, personaggio davvero emblematico che non ho mai dimenticato dalla prima volta in cui ho letto di lui, e della sconfitta degli Israeliti nella battaglia contro “quelli di Ai”: dalla lettura dei capitoli 6 e 7 del libro di Giosuè apprendiamo che, contrariamente alla legge dello sterminio che proibiva a chiunque di impadronirsi degli averi del nemico, Acan non fu in grado di distogliere il suo occhio da un mantello, duecento sicli d’argento e un lingotto d’oro che prese per sé durante la presa di Gerico. Ricordiamo infine un altro episodio già citato, quello di Davide che vide nuda alla finestra la moglie di Uria e questo fatto, di per sé banale, non controllato, portò a un adulterio, a un omicidio e alla morte del bimbo da lei partorito.

 

Ho citato tre casi, quelli per me più degni di nota, che ci parlano del fatto che l’occhio può portare molta rovina se non viene gestito a monte dallo Spirito ed è proprio a questa realtà cui fa riferimento Gesù quando parla di tagliare, cavare e gettare via: sono azioni che alludono ad una procedura particolare vista nella costante vigilanza sulla carne riguardo ai tre organi citati, la cui cattiva gestione può portare a conseguenze imprevedibili anche perché, come esseri umani, saremo sempre pronti a giustificare ogni nostro comportamento negativo, a distrarci sottovalutando la rovina cui possono portare. Ecco la necessità di pregare il Solo che può preservarci, mantenerci vigili, aiutarci a combattere senza pietà – uso un’espressione forte – noi stessi, il nostro “uomo vecchio”.

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11.30 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 1: I BAMBINI E GLI SCANDALI (Matteo 18.1-7)

11.30 – Il discorso Ecclesiologico 1: i bambini e gli scandali (Matteo 18.1-7)

 

1 In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: «Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?». 2Allora chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro 3e disse: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. 4Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli. 5E chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me.6Chi invece scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare. 7Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che vengano scandali, ma guai all’uomo a causa del quale viene lo scandalo!

 

            Per ragioni di spazio e per non appesantire queste letture che credo non facili, non è stato detto che la questione su chi fra i discepoli fosse il maggiore provocò un insegnamento molto più articolato di Gesù, rivolto strettamente a loro, noto come “discorso Ecclesiologico” che affronteremo in più parti. Prima di iniziare la prima di questo discorso, non possiamo ignorare la differenza fra il racconto di Marco, che abbiamo affrontato nel capitolo precedente, “Per la strada avevano discusso su chi di loro fosse il più grande”, e la narrazione di Matteo, che riporta un’apparente, analoga domanda a tal punto che verrebbe da chiedersi quali furono davvero le parole pronunciate da entrambe le parti. In realtà Gesù non disse una sola cosa, ma tante che ciascun evangelista riporta a seconda dell’accento che intende dare al discorso.

Marco, allora, riferendociallo scorso capitolo, riporta la prima risposta alla questione che i discepoli non osarono porre al loro Maestro, cioè chi tra loro fosse il più grande, mentre Matteo la inquadra secondo un contesto più ampio, “Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?”: notiamo che viene omessa la parte che più riguardava i dodici da vicino, “di noi”, ma viene estesa anche al futuro, o se vogliamo al “non tempo” dell’eternità. “Regno dei cieli”come realtà presente, ma anche definita con la sua struttura eterna, con l’avvento dei “Nuovi cieli e nuova terra”. E qui la risposta di Gesù si rifà a quel particolare riferito alla nuova nascita nel senso pratico, quello di convertirsi e diventare come i bambini.

Nei versi che abbiamo letto il discorso verte su tre argomenti che nessuno può interpolare: la conversione coi suoi effetti, la mutazione della persona ad essa conseguente, gli scandali. Stupisce soprattutto la nuova descrizione della conversione, perché se Giovanni Battista la predicava come mezzo per andare verso Cristo, “ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino”, quello che voleva dire Gesù sarà spiegato proprio da Pietro nel tempio: “Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati e così possano giungere i tempi della consolazione da parte del Signore ed egli mandi colui che vi aveva destinato come Cristo, cioè Gesù”(Atti 3.19). La cancellazione dei peccati implica un rapporto nuovo con Dio, che prima si teneva lontano dal peccatore. Poiché il popolo, tramite i suoi capi, aveva già crocifisso Nostro Signore, questi non sarebbe stato potuto essere mandato se non con una rivoluzione interiore e non eclatante come si credeva: “vi mandi”nel senso che sarebbe stato inviato a ciascuno individualmente e non collettivamente, come popolo eletto. Scopo della conversione, allora, è quella di ricevere l’Unico Autore della salvezza, con lo Spirito Santo promesso.

Ricordiamo che, quando Nicodemo incontrò Gesù per la prima volta, riteneva il tornare bambino, il “rinascere”una cosa inconcepibile: vedeva infatti l’uomo come il risultato di un processo di crescita, in peso, statura e coscienza, ma dimenticava l’atteggiamento, l’essenza, le caratteristiche del bambino rapportate a Dio Padre. Davide, nonostante fosse uomo di guerra, re vittorioso, ma purtroppo anche adultero e omicida (perdonato) così parla in Salmo 131.1,2:“Signore, non si esalta il mio cuore né i miei occhi guardano verso l’alto; non vado cercando cose grandi né meraviglie più alte di me – come fanno tutti gli uomini che appartengono a questo mondo –. Io invece– cioè in opposizione alla corrente, al contrario degli altri che la seguono – resto quieto e sereno: come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l’anima mia”. L’anima, il suo essere, in contrasto al suo aspetto di uomo di guerra e re d’Israele.

Non può sfuggire il fatto che siamo chiamati ad essere bambini solo di fronte a Dio, e non ai nostri simili che altrimenti ne approfitterebbero e ci sfrutterebbero, per quanto sappiamo che “i figli di questo mondo sono più avveduti di quelli della luce”;questo si verificherà, potenzialmente, sempre. Quello dell’essere o diventare bambini è un aspetto molto importante che verrà approfondito tanto da Pietro quanto da Paolo che mettono in guardia i credenti perché non lo impieghino unilateralmente: “Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi– che richiedono maturità e la consapevolezza di trovarsi in un “terreno minato” –. Quanto a malizia, siate bambini, ma quanto a giudizi, comportatevi da uomini maturi”(1 Corinti 14.20). Pietro, poi, scrive “Come bambini appena nati, desiderate avidamente il genuino latte spirituale, grazie al quale voi possiate crescere verso la salvezza, se davvero avete gustato che buono è il Signore”(1 Pietro 2.2,3). Bambini da un lato, uomini dall’altro. E come un bambino si trova al sicuro e tranquillo nella propria casa coi propri genitori, così dovrebbe essere per il credente la Chiesa, sua nuova famiglia, cosa che purtroppo non sempre avviene; qui entriamo nel discorso degli scandali, cioè in quei sassi posti perché gli altri possano inciampare. E penso a certi pastori, anziani o sacerdoti che con il loro comportamento allontanano le anime anziché recuperarle e parlare amorevolmente con loro.

Ancora una volta è d’obbligo il confronto con il Dio Vivente: “Poiché così parla l’Alto e l’Eccelso, che ha una sede eterna e il cui nome è santo: «In un luogo eccelso e santo io dimoro, ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati, per ravvivare lo spirito degli umili e rianimare il cuore degli oppressi. Poiché io non voglio contendere sempre né per sempre essere adirato; altrimenti davanti a me verrebbe meno lo spirito e il soffio vitale che ho creato”(Isaia 57.15,16).

Capiamo? Qui c’è la descrizione dell’irraggiungibilità di YHWH, “Alto”ed “Eccelso”che abita in un luogo dalle stesse caratteristiche, precluse all’uomo, che però è coi bambini visti nella figura degli “oppressi e umiliati”perché così sono, come abbiamo visto quando abbiamo parlato del bambino come essere privo di diritti. Se Dio fosse sempre adirato con la sua creatura “verrebbe meno lo spirito e il soffio vitale che ho creato”, cioè vi sarebbe un altro diluvio, per quanto con forme diverse, come sarà con la Grande Tribolazione e la fine del tempo che non vivremo.

E possiamo affermare che fino a quando l’uomo resterà sempre quello che è, penserà sempre alle cose basse e ad esse si dedicherà perché non potrà farne a meno, si porrà sempre come oppositore di Dio, precludendogli ogni intervento. Invece “Umiliatevi davanti al Signore, ed egli vi esalterà”(Giacomo 4.10) e, dopo questa esperienza personale, l’essere umano, una volta saputo che il proprio nome era scritto nel libro della vita e che farà parte della Chiesa, troverà ragione e scopo quanto scrive Pietro nella sua prima lettera, 5. 5,6: “Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili. Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, affinché vi esalti al tempo opportuno, riversando su di lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi”. E l’umiliazione consiste nel confessare al Signore la propria bassezza, rinunciare a qualsiasi pretesa e affidarsi a Lui.

Solo il diretto interessato (e naturalmente Dio che vaglia, premia o riprende) può sapere se veramente si sarà fatto piccolo e notiamo che l’apostolo Pietro parla di “rivestirsi di umiltà”, quella vera che, essendo un vestito, può essere simulato, indossato da chi bambino non è; ecco perché si parla di individui “che vengono voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci”. Lupi che sbranano, ma anche pongono ostacoli nel cammino di fede anziché correggerlo e indirizzarlo correttamente. Qui viene chiamato il discernimento degli spiriti, che vanno provati “per vedere se sono da Dio”, e soprattutto l’indossare quell’armatura di cui abbiamo già parlato in un precedente capitolo, che abbiamo visto proteggere tutti gli organi vitali, reperibile in Efesi 6. Un’armatura che chiaramente un bambino non indossa, ma un uomo chiamato al combattimento certamente sì: “Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo”(Efesi 6.11). Il “bambino”non è in antitesi all’uomo maturo, ma ci parla dell’innocenza e dell’essere indifeso che trova nel Signore l’unico riparo e conforto possibile. Il “bambino”è anche quello che è appena “nato di nuovo”, che ha bisogno di un sostegno particolare da parte di chi gli ha presentato il Vangelo: portare infatti un’anima a Cristo implica un esempio e soprattutto  una guida dottrinale e spirituale che non può essere lasciata al caso, per cui “scandalo”non è solo ciò che incanala verso pratiche estranee al cristianesimo, il più delle volte importate dall’ambiente pagano, ma anche quella promiscuità che fa leva sulla carne, incompatibile con lo Spirito.

Abbiamo parlato dei “lupi rapaci”, ma guardando alle parole sugli scandali che riporta Luca troviamo un particolare importante e cioè in 17.1,2 Gesù dice “…è meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli. State attenti a voi stessi!”. L’ultima frase, la messa in guardia di Gesù, riguarda anche i discepoli ed è pronunciata proprio in vista del ruolo che avrebbero avuto, quello di pascere il gregge, compito impossibile a farsi senza una dedizione che nella Chiesa è reciproca. Ricordo, quando fui battezzato, che mi si avvicinò un fratello che mi disse “Adesso io sono responsabile di te, e tu sei responsabile di me”, a sottolineare che anch’io avevo una funzione da adempiere perché il mio comportamento, per quanto elementare, poteva edificare quanto distruggere, rallegrare spiritualmente quanto contristare. Ero chiamato alla maturità che avrei conseguito negli anni, ad un cammino, ad una crescita che si realizzasse attraverso il confronto con la Parola di Dio, ma anche con i fratelli.

La frase di Gesù “State attenti a voi stessi!”implica il procedere attraverso passi ponderati, come ad esempio il caso di quei credenti in Roma che, consapevoli di non peccare, mangiavano liberamente qualunque cibo, quando c’erano altri che si scandalizzavano di questo. Paolo scrive allora “Se per il cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti secondo carità. Non mandare in rovina per il tuo cibo colui per il quale Cristo è morto!”(14.13-15).

Ancora, in 1 Corinti 8.9-13: “Non sarà certo un alimento ad avvicinarci a Dio: se non ne mangiamo, non veniamo a mancare di qualcosa e se ne mangiamo, non abbiamo un vantaggio. Badate però che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli. Se uno infatti vede te, che hai la conoscenza, stare a tavola in un tempio di idoli, la coscienza di quest’uomo debole non sarà forse spinta a mangiare le carni sacrificate agli idoli? Ed ecco, per la tua conoscenza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo. Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò più carne, per non dare scandalo al mio fratello”.

Entriamo qui allora in un ambito particolare, vale a dire ciò che è alla radice dell’animo di chi è in grado di discernere – seguendo l’esempio citato da Paolo – che il mangiare delle carni sacrificate a idoli pagani non è più un peccato, ma nel momento in cui questo è di intoppo per gli altri, allora questo gesto diventa dannoso perché ostacolo per un credente debole, “un fratello per il quale Cristo è morto”. Si tratta di un tema da trattare con attenzione, perché qui non si parla di fratelli pettegoli, chiusi e rigidi sempre pronti a giudicare, ma di persone la cui coscienza viene turbata realmente e nel profondo a fronte di argomenti di importanza del tutto secondaria, come dalle parole “se non ne mangiamo, non veniamo a mancare di qualcosa e se ne mangiamo, non ne abbiamo alcun vantaggio”.

Diverso fu il caso di quanto Pietro fu rimproverato dai Giudei con le parole “Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme con loro!”(Atti 11.2), evidentemente riferendosi a quanto avvenuto in casa del centurione Cornelio; quei Giudei, ascoltate le sue precisazioni, è scritto che “si calmarono e cominciarono a glorificare Dio dicendo: «Dunque anche ai pagani Dio ha concesso che si convertano perché abbiano la vita!»”(v.18).

L’avviso “State attenti a voi stessi”viene formulato da Gesù proprio perché spesso è la struttura del nostro essere umano che può portarci ad azioni avventate, come fu per Pietro che, lasciando agire il suo essere umano, ebbe per un certo periodo un comportamento poco corretto nella Chiesa: “Quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma, dopo la loro venuta, cominciò ad evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, tanto che pure Barnaba si lasciò attrarre nella loro ipocrisia. A quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del Vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?”(Atti 2,11-14).

L’attenzione verso noi stessi è primo vero metodo se intendiamo prima progredire e poi essere d’aiuto per portare il Vangelo al nostro prossimo. Siamo chiamati a curarci, sempre, ed in questo vediamo l’impegno nel togliere la trave dal nostro occhio, le domande su cosa abbiamo fatto di giusto o sbagliato nel giorno che Dio ci ha mandato, i frutti portati, siano essi rappresentati dal trenta, sessanta o cento. Amen.

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11.29 – IL SECONDO ANNUNCIO DELLA PASSIONE (Marco 9.30-37)

11.29 – Il secondo annuncio della passione e chi sia il più grande (Marco 9. 30-37)

 

30Partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. 31Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». 32Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.

33Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». 34Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. 35Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». 36E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: 37«Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

 

Esaurite le circostanze relative alla guarigione del ragazzo epilettico, tormentato da uno spirito muto e sordo, Gesù rimane solo coi discepoli e inizia un cammino che li porterà nuovamente a Capernaum, ma contrariamente a quanto avvenuto in passato il tempo che rimaneva era poco per cui la Sua attenzione non si sposta più sulla predicazione, che certo continuerà anche se in forme più dirette e individuali, ma sulla formazione dei dodici. Nostro Signore considera quindi concluso il suo operato nei confronti della folla e sceglie di dedicarsi ai Suoi, bisognosi di insegnamenti profondi che dessero i frutti non nell’immediato, ma al momento opportuno. Teniamo presente che tra questi c’era Giuda Iscariotha, che fu sempre testimone, al pari degli altri, dei miracoli e dei discorsi del suo Maestro, restandone impermeabile.

Proprio sotto la necessità della formazione si spiega quel “ma egli non voleva che alcuno lo sapesse”, che questa volta si concreta attraverso un viaggio in incognito. Qui la domanda su come ciò sia stato possibile diventa importante, perché sappiamo che ogni volta che Gesù approdava da qualche parte in barca o attraversava un villaggio veniva puntualmente riconosciuto attirando attorno a sé molta gente. Una prima risposta, la più umanamente ovvia, si riferisce ad una scelta che tutti noi avremmo fatto, cioè percorrere sentieri e strade poco frequentate fino alla destinazione, ma questo non regge perché il gruppo avrebbe dovuto prima o poi entrare in un villaggio per comprare da mangiare e sarebbero stati riconosciuti. La domanda al verso 33, “Di che cosa stavate discutendo per la strada?”, lascia intendere che il cammino dalla regione di Cesarea alla Galilea sia avvenuto per vie normali, non essendo nominati sentieri o mulattiere.

Credo che questa volta Gesù sia intervenuto personalmente perché Lui e i dodici non fossero riconosciuti, come avverrà per i due discepoli incontrati sulla strada tra Gerusalemme ed Emmaus, dove in Luca 24.16 leggiamo che “…i loro occhi erano impediti a riconoscerlo”: il cammino con il Maestro doveva essere caratterizzato dalla calma e dal silenzio e comunque non poteva avere interferenze di sorta. Il verso del nostro episodio, “Insegnava ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà»”, ci fornisce il soggetto principale dell’insegnamento di Gesù, ma non veniva compreso e, a differenza di quanto avvenuto nel caso delle parabole in cui i discepoli non avevano alcuna remora a chiedergli chiarimenti, qui rimasero zitti, non osando domandare spiegazioni.

I motivi di questa ritrosia non stanno solo nel fatto che “non capivano”, ma in tutta una serie di sentimenti e idee che li assalivano ogni qualvolta Gesù parlava della sua morte e resurrezione. Prima di tutto, vediamo la morte: per i dodici, o per meglio dire “gli undici” anche se Giuda era ancora tra loro, era assolutamente inconcepibile che Lui potesse morire. Egli era “Il Cristo, il figlio dell’Iddio vivente”: come avrebbe potuto venire ucciso o “patire molto” dagli altri uomini, Lui, così infinitamente potente e superiore? Ecco una delle ragioni per cui Pietro fu scandalizzato e Gesù altrettanto quando lo rimproverò chiamandolo “Satana” e dicendogli che aveva “il senso non alle cose di Dio, ma a quelle degli uomini”.

Non una confusione minore, poi, era provata riguardo al fatto che il loro Maestro sarebbe risorto, altro punto incomprensibile perché strideva con l’insegnamento che tutti avevano ricevuto fin dall’infanzia, coi Rabbi che insegnavano loro che sì, vi sarebbe stata la resurrezione, ma nell’ultimo giorno e, ad eccezione dei Sadducei, tutta la nazione ebraica riteneva quella dottrina per vera. E si può dire lo stesso valga anche per noi. Teniamo anche presente che di resurrezione i discepoli non solo ne avevano sentito parlare dai testi antichi, ad esempio con quella operata proprio da Elia, ma erano stati loro stessi testimoni di altre, pensiamo alla figlia di Giairo o al figlio della vedova di Nain. Ecco perché era inconcepibile che l’Autore di quelle resurrezioni fosse ucciso per poi – secondo loro –  resuscitare se stesso.

Altro punto grandemente oscuro per gli undici fu la frase esposta al verso 31, quel “Il figlio dell’uomo verrà consegnato nelle mani degli uomini”, frase cui non facciamo molto caso perché sappiamo che così doveva essere, ma per loro proprio quel “consegnato” costituiva motivo di angoscia in quanto il verbo greco impiegato implica la presenza del tradimento, per cui capirono – o sospettarono – che Gesù sarebbe stato consegnato a seguito di un’azione indegna. Quindi in loro si sommarono tutta una serie di dati ai quali ora si aggiungeva anche il tradimento.

Ora i discepoli furono grandemente afflitti perché, come precisa Marco, “non capivano queste parole e avevano timore a interrogarlo”, sapendo di trovarsi di fronte a qualcosa di ben più pesante a sopportarsi rispetto al fallimento con il ragazzo epilettico poc’anzi avvenuto: se le cose stavano veramente così, che ne sarebbe stato di loro? Dove avrebbero potuto andare e soprattutto, citando Pietro, “A chi ce ne andremo noi?”. Queste furono le ragioni che li indussero a non chiedere nulla, spinti da un sentimento e da una serie di pensieri sovrapposti che Gesù conosceva benissimo. E da qui farà anche di tutto perché quanto da lui enunciato fosse almeno capito in futuro: Luca infatti scrive “«Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini». Essi però non capivano queste parole: restavano per loro così misteriose che non ne coglievano il senso, e avevano timore di interrogarlo su questo argomento” (9. 43-45).

È molto importante sottolineare che gli apostoli, nonostante il loro entusiasmo per seguire il Maestro, il loro impegno, i sacrifici, le rinunce, erano sempre ancora privi della capacità di comprendere che avranno più avanti grazie allo Spirito Santo e che qui l’avvenimento da Lui annunciato è estraneo alla logica quotidiana “spezzando – come scrive un fratello – la trama abituale dell’esperienza costruita in base ai desideri e alle previsioni umane”. Pensiamo: quegli uomini con Gesù si sentivano sicuri, protetti e il fatto che venga annunciato loro che fra non molto ne sarebbero stati privati non può aver che provocato uno sconforto tale da fargli dimenticare quelle parole, talché si misero a discutere su chi fra loro fosse il più grande. Un modo infantile per cacciare il problema? Forse, ma era anche, stante le loro condizioni, l’unico ed ecco perché i due episodi sono collegati fra loro.

Ed ecco anche perché, anche qui, i discepoli tacciono: “«Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano.” (vv 33,34). Curiosamente, abbiamo a distanza di poco tempo due domande dirette; ricordiamo la prima, quando viene chiesto agli scribi “Di che cosa discutete con loro?”: è Gesù che interviene per correggere, chiarire, ma anche fare emergere quelli che sono i pensieri (o le azioni anche se non è questo il caso) che non Gli vorremmo far sapere. E a quella discussione avevano partecipato tutti, Giuda Iscariotha compreso, che dato il carattere carnale della discussione si sentì coinvolto. La discussione fu certo animata, perché ciascuno di loro avrà portato agli altri il proprio curriculum di esperienze, primi fra tutti Pietro, Giacomo e Giovanni. Ora teniamo ben presente che se Pietro fosse stato destinato ad essere il “capo della Chiesa”, quella sarebbe stata certamente l’occasione giusta per rivelarlo, dando così seguito alla curiosità dei discepoli e risolvendola una volta per tutte.

Ma la risposta di Gesù, alle parole che abbiamo letto, “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”, aggiunge un gesto denso di significati, cioè prende un bambino, lo pone in mezzo a loro e lo abbraccia: sulla figura del bambino abbiamo già parlato dicendo che è simbolo dell’innocenza, che ha bisogno dell’adulto che gli insegni e lo guidi, etc.; tutte certo cose vere, ma in questo caso il bambino è la figura dell’ultimo perché ai tempi di Gesù, come in altri più o meno antichi, era un essere privo di diritti. Su questo dovrebbero meditare quelli che affermano “la strage degli innocenti” non essere mai esistita perché Giuseppe Flavio ne sarebbe stato indignato e l’avrebbe certamente citata. Il bambino allora era un essere considerato insignificante, condannato a subire l’autorità paterna che spesso si manifestava con battiture e umiliazioni. Ed ecco perché Nostro Signore lo pone al centro e lo abbraccia. Chissà se, una volta cresciuto, se ne sarebbe ricordato. Chissà se poi, col passare del tempo, avrà fatto delle scelte che lo avranno caratterizzato, qualificato come figlio di Dio. Non lo sappiamo.

Ciò che emerge come dato incrollabile è che la Chiesa non può essere un’organizzazione umana basata sul potere umano. “Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così, ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà il vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Matteo 20.25-28).

Gesù quindi prende come esempio un bambino, un essere privo anche di prestigio non potendo ancora caratterizzarsi in bene o in male, dimostrando così di non volere un successore negli uomini né un Vicario; al contrario incarica lo Spirito Santo di tutto questo: “Io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi sempre: lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce” (Giovanni 14.23).

E arriviamo così alle ultime parole di Gesù in questo episodio,  “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome:  ci vuole un bambino, quindi un innocente ultimo, come può essere un uomo appena “nato di nuovo”, ma questo a nulla serve se questo non viene fatto “nel nome di Gesù Cristo” perché la persona che viene aiutata, sollevata, di cui la persona curata deve sapere il motivo per cui questo avviene. Accoglie me – prima identità con Gesù –. E chi accoglie me non accoglie me, ma Colui che mi ha mandato – quindi la reciprocità di Gesù col Padre, che ha parlato agli uomini per mezzo dei profeti e, in questi ultimi giorni, per mezzo della Sua Parola –.

Ecco, credo che un essere umano non possa ricevere onore più grande, tanto nel dare, che nel ricevere. Amen.

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11.28 – IL FANCIULLO EPILETTICO II (Marco 9.20-29)

11.28 – Il fanciullo epilettico, II (Marco 9. 20-29)

 

20E glielo portarono. Alla vista di Gesù, subito lo spirito scosse con convulsioni il ragazzo ed egli, caduto a terra, si rotolava schiumando. 21Gesù interrogò il padre: «Da quanto tempo gli accade questo?». Ed egli rispose: «Dall’infanzia; 22anzi, spesso lo ha buttato anche nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo. Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci». 23Gesù gli disse: «Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede». 24Il padre del fanciullo rispose subito ad alta voce: «Credo; aiuta la mia incredulità!». 25Allora Gesù, vedendo accorrere la folla, minacciò lo spirito impuro dicendogli: «Spirito muto e sordo, io ti ordino, esci da lui e non vi rientrare più». 26Gridando e scuotendolo fortemente, uscì. E il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano: «È morto». 27Ma Gesù lo prese per mano, lo fece alzare ed egli stette in piedi.28Entrato in casa, i suoi discepoli gli domandavano in privato: «Perché noi non siamo riusciti a scacciarlo?». 29Ed egli disse loro: «Questa specie di demòni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera».

 

Prima di iniziare l’analisi del testo, vanno ricordate le parole del padre del giovane a Gesù: “Dovunque lo afferri, lo getta a terra ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce”, descrizione dell’epilessia. Il nome “epilessia” deriva dal greco epi-lambano, cioè cogliere di sorpresa. È una malattia caratterizzata da crisi improvvise dovute ad una scarica abnorme del nostro cervello dovute a cause più varie, come predisposizione genetica, lesioni cerebrali, ma un 40% è dovuto anche a predisposizioni costituzionali. La malattia si esprime con varie manifestazioni, a seconda della zona del cervello interessate dalla scarica e questa, una o più, partono autonomamente, non sono prevedibili. In un terzo dei casi le crisi continuano e in questo caso i pazienti sono a rischio di SUDEP, cioè a morte improvvisa, non prevedibile. Molto spesso l’epilessia compare in età giovanile e con lo sviluppo della persona scompare; chi è predisposto ha una fase in cui le crisi si manifestano e poi, in alcuni, la tendenza alla crisi diminuisce spontaneamente non tanto per i farmaci, ma perché l’epilessia si scontra fra la predisposizione e lo sviluppo cerebrale. Ci sono dei pazienti che nonostante la terapia continuano a presentare le crisi che solitamente rientrano sotto controllo nel momento in cui viene usato il farmaco più adatto. Individuato il farmaco giusto, dopo un certo tempo si diminuiscono gradualmente le dosi per verificare se le crisi ritornano o meno; in questo caso, se il paziente sta bene con una dose bassa, significa che la possibilità dell’insorgere di crisi ulteriori diminuiscono.

Questa è l’epilessia moderna, che in comune con quella descritta da Marco e dagli altri ha il “cogliere di sorpresa”, ma qui le “scariche cerebrali” insorgono proprio alla vista di Gesù: coincidenza? Non credo, perché Matteo, Marco e Luca non scrivono autonomamente, ma spinti dallo Spirito Santo che, se quella malattia fosse dovuta alle cause illustrate dalla medicina, avrebbero parlato di un ragazzo infermo, e non epilettico e indemoniato. Non tutti gli epilettici, dunque, sono indemoniati. Alla luce delle conoscenze mediche in merito, sappiamo che quel giovane, senza l’intervento di Gesù, sarebbe morto di SUDEP, cioè per arresto cardiaco causato dall’apnea prolungata per le manifestazioni motorie che impediscono alla persona di respirare.

Quel ragazzo sarebbe morto, ucciso apparentemente dalla malattia, ma in realtà dallo spirito che lo abitava e lo possedeva a suo piacimento, caratterizzandolo anche col mutismo e la sordità. Assistiamo però a un fatto per così dire anomalo, e cioè che Nostro Signore, chiamato dal padre del ragazzo “Maestro”al verso 17 (titolo onorifico solitamente impiegato per gli esorcisti che erano scribi e farisei), a fronte della richiesta “se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci”, non interviene prontamente, ma lascia il giovane in balia dello spirito immondo che, sapendo che stava per essere sconfitto, lo straziava.

Il ragazzo, innominato come il padre, era tormentato fin dall’infanzia, quando la persona è più indifesa e questo ci parla del fatto che l’Avversario e il peccato non hanno pietà di nessuno: da bambino, il demone lo aveva “spesso buttato nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo”, due elementi opposti, ma ugualmente letali a significare che non esiste un luogo sicuro per nessuno, a meno che non si eserciti la fede. Acqua e fuoco sono elementi utili perché l’uno riscalda e l’altra disseta ma che, se usati in modo sbagliato, uccidono.

A questo punto avviene qualcosa di molto singolare perché c’è una trasformazione nel cuore di quel padre dopo aver detto “Se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci”. Si tratta di una frase che non può essere in alcun modo paragonata al “Se tu vuoi, puoi guarirmi”espressa dal lebbroso in Matteo 8.1-4: mentre infatti per quest’ultimo c’era la certezza che se Gesù avesse voluto avrebbe risolto la malattia, qui abbiamo “se tu puoi qualcosa”, quasi a dire “le ho provate tutte e adesso sono qui”. Forse quell’uomo metteva Gesù sullo stesso piano di altri che aveva consultato, ma non sapeva fino a che punto arrivasse il suo potere. E quel ragazzo, come scrive Luca, era figlio unico.

È bello vedere che Nostro Signore qui non assume le vesti del pronto soccorritore, ma aspetta ad intervenire perché, nonostante l’urgenza della situazione, era più importante portare quell’uomo alla fede, e infatti gli risponde “Se puoi! Tutto è possibile per chi crede”, a sottolineare che la richiesta, per come gli era stata presentata, non era corretta e che la guarigione dipendeva dalla fede riposta in Lui. E qui abbiamo una confessione particolare, perché la risposta fu ad alta voce in modo che tutti sentissero: “Credo; aiuta la mia incredulità”. In questa versione manca “Signore”, dopo il “Credo”, che ci rivela come il concetto su Gesù fosse cambiato: non è più chiamato “Maestro”, ma “Signore”. In più, con la richiesta di venire aiutato nella sua incredulità, quel padre manifesta tutta la consapevolezza dell’avere poco dentro di sé e la certezza di venire aiutato nel suo credere.

E questo dialogo è stato riportato da Marco proprio per tutti quelli che, guardando dentro di loro, non possono far altro se non ammettere la loro poca fede; è lì, qui, che la porta che Dio può aprire non resta chiusa: se mai siamo noi a temere forse perché abbiamo qualcosa da abbandonare, o perché dubitiamo di saper gestire correttamente quanto ci verrebbe dato. I problemi del vivere la fede sono tanti, a cominciare da noi stessi e infatti quel padre chiede a Gesù di aiutare la “mia”incredulità, cioè tutta quella zavorra che lo tiene attaccato al contingente senza sapere come liberarsene. Allora, accanto alla consapevolezza del potere di guarigione verso il figlio, si aggiunge anche quella della liberazione dal poco credere: la richiesta è quella di arrivare a una fede compiuta nel Signore. E notiamo che Marco scrive che quelle parole furono pronunciate di getto, e sono proprio le reazioni immediate che testimoniano di ciò che alberga nel cuore e nella mente di un uomo.

Al verso 25 leggiamo che Gesù agisce“vedendo accorrere la folla”che evidentemente si stava avvicinando attratta dalle parole di quell’uomo pronunciate ad alta voce. Certo, senza la preghiera di aiuto in campo spirituale, “aiuta la mia incredulità”, non avrebbe fatto nulla. Abbiamo allora l’ordine: “Spirito muto e sordo, io ti ordino, esci da lui e non vi rientrare più”. Sono parole importanti, unitamente alla descrizione di come questo reagì, perché quel giovane non era neppure in grado di parlare e udire. “Esci da lui”è un imperativo riferito al presente, “e non vi rientrare più”rappresenta la garanzia della continuità della guarigione, suggerisce il fatto che quando Dio interviene in una persona è per sempre, come lo stesso accade in tutti coloro che hanno creduto dopo essere stati realmente convinti di peccato, giustizia e giudizio: sanno che, senza l’intervento del Signore che li ha salvati, sarebbero destinati alla morte eterna, al pianto e allo stridore dei denti.

Altro dato importante, ma di cui abbiamo già parlato nell’affrontare l’indemoniato nella Sinagoga di Capernaum, è il modo con cui lo spirito immondo tratta quel ragazzo, cioè “gridando e scuotendolo fortemente, uscì. E il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano: «È morto»”.Così uno “spirito immondo”tratta una persona prima di lasciarlo definitivamente, come già visto in altri casi, come gli indemoniati gadareni, con la differenza che qui sostenere l’ipotesi della possessione come risultato di una serie di peccati consapevoli non regge, ma è sostenibile quella relativa all’azione di Satana sul territorio, su una condizione della lontananza da Dio dell’umanità che, a quei tempi, doveva constatare la differenza tra gli interventi del Messia promesso e la realtà in cui viveva, oggi apre le porte all’avversario con le sostanze stupefacenti, gli alcoolici e soprattutto i falsi profeti che vorrebbero imporre uno stile di vita a tutti, giovani e vecchi, “piccoli e grandi”.

Tornando al nostro episodio, vediamo che nessuno salvo Gesù ha contatti col ragazzo, questo perché i presenti non osavano avvicinarsi per non incorrere nell’impurità che contraeva chiunque avesse toccato un cadavere. Leggiamo “Ma– perché c’è un “ma” di Dio nella storia di ciascuno – Gesù lo prese per mano, lo fece alzare ed egli stette in piedi”. Tre azioni, le prime due fatte da Lui: prende per mano, una mano che rassicura e promette ogni intervento e guida, lo fa alzare in quanto Signore anche del corpo umano, al che il giovane non può fare a meno che stare in piedi, questa volta senza nessun aiuto, autonomamente. E Luca aggiunge un gesto di una carità e amore unico, cioè “…guarì il fanciullo e lo consegnò a suo padre. E tutti restavano stupiti di fronte alla grandezza di Dio”.

Nostro Signore non si limitò a guarire, ma consegnò personalmente quel ragazzo al proprio padre ed evidentemente i loro sguardi si incrociarono. In pratica, quell’uomo fu esaudito due volte, prima con l’aiuto al soccorso della sua poca fede, poi con la guarigione del figlio.

Sappiamo che poi i nove domandarono a Gesù le ragioni del loro insuccesso, e qui le versioni di Marco e Matteo si completano: il primo pone l’accento sulla preghiera, il secondo sulla poca fede. Ora chiaramente le domande che ci dobbiamo porre sono due, la prima delle quali è se sia necessaria una preghiera specifica per quella possessione, oppure se questa debba rientrare nell’orazione come metodo, chiedendo al Padre la capacità di gestire quell’autorità che come credenti abbiamo o dovremmo avere, poiché se come uomini siamo poca cosa, come cristiani siamo chiamati a gestire lo Spirito e così il discernimento e l’autorità, se abbiamo dei doni.

Matteo, come visto, pone l’accento sulla poca fede dei discepoli: “In verità io vi dico: se avrete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte– l’Hermon – «Spostati da qui a là», ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile”(17.20). Possiamo concludere chiedendoci, alla luce di queste parole, quale sia la nostra fede e quanto preghiamo il Padre perché, come uno dei protagonisti del nostro episodio, ci sia dato un aiuto nell’esercitare la fede. Quella poca che abbiamo. Amen.

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11.27 – IL FANCIULLO EPILETTICO, I (Marco 9.14-19)

11.27 – Il fanciullo epilettico, I (Marco 9. 14-19)

 

14E arrivando presso i discepoli, videro attorno a loro molta folla e alcuni scribi che discutevano con loro. 15E subito tutta la folla, al vederlo, fu presa da meraviglia e corse a salutarlo. 16Ed egli li interrogò: «Di che cosa discutete con loro?». 17E dalla folla uno gli rispose: «Maestro, ho portato da te mio figlio, che ha uno spirito muto. 18Dovunque lo afferri, lo getta a terra ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti». 19Egli allora disse loro: «O generazione incredula! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo da me». 

 

Ho scelto la narrazione di Marco, rispetto a quella di Matteo e Luca, perché molto più ricca di particolari e connessioni a tal punto di rendere necessaria una suddivisione in due parti. Ricordiamo che quanto avvenne è collocato da Luca il giorno successivo alla trasfigurazione, che infatti fu di notte, e qui possiamo fare la prima nota sulla enorme distanza tra quanto avvenuto poche ore prima, cioè quei momenti spirituali così intensi da mutare l’aspetto di Gesù (“Il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce”), e il ritorno nella sua dimensione di uomo fra gli uomini, con gli scribi che questionavano con gli altri nove discepoli che non erano riusciti a guarire un indemoniato. Cessò allora la sublimità di quegli istanti, in cui per poco tempo Gesù aveva potuto vivere un episodio così estraneo alla vita quotidiana; dopo la trasfigurazione e aver parlato con Mosè ed Elia del passato, presente e futuro raccordato all’eternità, “arrivando presso i discepoli”, viene in un certo senso proiettato violentemente a terra, constatando ancora una volta gli effetti del peccato e della miseria umana.

Ricordiamo che anche il tragitto dal monte a dove si trovava il resto dei Suoi fu caratterizzato dalla sopportazione, perché i Pietro, Giacomo e Giovanni non avevano capito le parole più importanti, “anche il Figlio dell’uomo dovrà soffrire per opera loro”, ma si concentrarono sul perché gli scribi sostenevano “che prima deve venire Elia”. E credo che qui possano essere date due letture, una umana che vede nei dodici delle persone lente a capire – e senza lo Spirito Santo ogni recepimento delle cose di Dio è impossibile – e una spirituale che vede l’Avversario impegnato a distogliere la loro attenzione da ciò che è alto e da approfondire, per ciò che riveste un importanza secondaria: non era così necessario sapere “perché dicono gli scribi che prima deve venire Elia”, ma, a fronte di quanto detto ai discepoli, cosa avrebbe implicato il fatto che il loro Maestro fosse “dato in mano agli uomini e patire molte cose per opera loro”.

Esaminiamo ora i versi 14 e 15: Gesù arriva al luogo dove aveva lasciato gli altri discepoli e trova una situazione particolare, e cioè i nove intenti a discutere con degli scribi, circondati da “molta folla”che, quando Lo vide, “fu presa da meraviglia e corse a salutarlo”. Ora il motivo di quella discussione non ci viene detto chiaramente, ma è facile immaginare che riguardasse il fatto che i discepoli non erano riusciti a scacciare il demonio che affliggeva il giovane epilettico; di qui derivarono tutta una serie di questioni dottrinali che sicuramente quei sapienti avranno eruditamente esposto, soddisfatti di mettere i discepoli in difficoltà per il loro fallimento.

C’è però un particolare sul quale è necessario spostare la nostra attenzione, e cioè che la folla “fu presa da meraviglia”: perché? Cosa poteva esservi di straordinario nel vedere Gesù, che era noto che raramente si separava dai dodici, o nel vederlo arrivare? Non poteva che essere nei paraggi. Evidentemente, come avvenne nel caso di Mosè, gli effetti visibili della trasfigurazione non erano svaniti. Leggiamo in Esodo 34.30 che “Quando Mosè scese dal monte Sinai, le due tavole della Testimonianza si trovavano nelle sue mani mentre egli scendeva dal monte. Non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, perché aveva conversato con lui”. Pensiamo all’esperienza che provò Mosè e possiamo dire che ogni volta che il credente si ritrova a conversare con Dio, a pregare, a interrogare la Scrittura, insomma entrare in un ambito spirituale, fa un’esperienza di consolazione e rivelazioni entrando in uno stato d’animo non definibile a parole. Certo la sua pelle non si trasforma, ma come torna nel mondo normale prova questo senso di enorme distanza tra le due dimensioni, soprattutto quando ha a che fare con i propri simili, quando ritorna alla vita nel mondo naturale.

In proposito possiamo anche sottolineare che se un figlio di Dio resta spesso in comunione con il Padre attraverso lo Spirito, questo sarà inevitabilmente notato dagli altri perché avrà modi e comportamenti che rifletteranno il suo rapporto con Lui. Ecco perché, spesso, i credenti si riconoscono tra loro anche senza necessariamente parlare di Cristo. Nella seconda lettera ai Corinti, Paolo parla della trasformazione operata in chi crede: “E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito nel Signore”(3.18). È una trasformazione lenta, profondamente interna, che viene data a chi cerca ed è disposto ad abbandonare i suoi perni umani perché destinati a crollare in un modo o in un altro. E ricordiamo anche il verso di Salmo 34.5 “Guardate a lui e sarete raggianti, non saranno confusi i vostri occhi”: si parla non di felicità incontenibile, ma dell’irradiazione della luce di Dio, mentre quel “non saranno confusi i vostri occhi”ci parla degli effetti insiti nella rivelazione di Gesù Cristo, che Giovanni descrive in 1.9, “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”, certo disposto ad accettarla, altrimenti è e rimarrà per sempre cieco.

La folla dunque corre a salutare Gesù, ma  immediatamente Marco sposta l’attenzione del lettore sulla Sua domanda che, dalla nostra traduzione, non è chiaro a chi fu rivolta, se ai discepoli rimasti ad attenderlo, o agli scribi: “di che cosa discutete con loro?”. Certo Gesù era l’Onnisciente e conosceva tutti i discorsi avvenuti, ma voleva una risposta. Sono convinto che anche noi, se ci fosse rivolta la stessa domanda quando discutiamo col nostro prossimo, a volte ci troveremmo in imbarazzo, ma qui il contesto è differente perché i discepoli diventano timorosi di confessare un fallimento, non essendo riusciti a guarire un epilettico indemoniato. I nove non sanno cosa rispondere e così interviene una terza persona, estranea al gruppo, che afferma “…ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti”(v.18). Per inciso, altre versioni riportano correttamente il testo, cioè “Egli domandò agli scribi: «Di che questionate tra voi?»

In altre parole, quei discepoli avevano certamente vivo in loro il ricordo di quanto avvenuto nell’occasione del loro invio in missione: “Chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità”(Matteo 10.1). Questo è il preambolo, poiché dopo troviamo scritto l’ordine “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni”(v.8). Ritennero quindi quel mandato ancora valido e sopravvalutarono le loro forze. Gesù allora, quando tornò dai suoi, dalla folla e anche dagli scribi, si scontrò ancora una volta con l’ignoranza: la pretesa di essere quando non si è, di sapere quando non si sa, dell’aver bisogno senza conoscere di chi o di che cosa, tutti elementi correlati tra loro che caratterizzano l’uomo vecchio, sempre convinto di potere e volere.

 

Essere quando non si è.

L’uomo solitamente, dall’infanzia in poi, cerca di caratterizzarsi in modo tale da avere un ruolo, nella famiglia e poi gradualmente nel contesto sociale in cui fa il suo ingresso; che sia una persona di valore oppure no, assumerà un ruolo di comodo, tanto più marcato quanto più sarà il proprio orgoglio a spingerlo. Combatterà chi è al suo pari e disprezzerà i deboli, non importa se fisicamente, finanziariamente o anche solo persone a lui sottoposte. Non ammetterà critiche o rimproveri ed attribuirà i suoi eventuali insuccessi agli altri. E i discepoli non avevano capito che il mandato ricevuto era temporaneo perché avevano ancora tanto da imparare e, senza lo Spirito Santo non ancora disceso su di loro, non avevano ancora acquisito quel discernimento spirituale atto ad orientarli anche nelle situazioni più oscure.

 

Sapere quando non si sa.

Anche qui, senza lo Spirito di Dio, si costruisce sul nulla, o meglio si lavora sulla sabbia. Le conoscenze acquisite – e qui il riferimento è agli scribi – autorizzavano al pronunciarsi sulle cose inerenti alle Scritture, che però erano da loro interpretate e distorte, come sappiamo, a loro vantaggio o in funzione di una religione. Agli scribi non pareva vero trovarsi di fronte all’insuccesso dei discepoli di Gesù e di attribuirGli il loro fallimento. I discepoli, e con loro oggi i cristiani, erano e sono i suoi rappresentanti per cui, come noi, avrebbero dovuto prestare attenzione a ciò che facevano o dicevano. Per il cristiano l’attenzione va anche rivolta a chi frequenta, a come si pone di fronte agli altri per non avere atteggiamenti contraddittori rispetto alla fede che professa. Se fossero stati accorti, i nove avrebbero dovuto attendere prudentemente il ritorno del Maestro, non essendo ancora compiuta la loro formazione. Più avanti infatti, interrogandolo in proposito, si sentirono rispondere: “Questa specie di demòni non si può scacciare in alcuno modo, se non con la preghiera”, oppure “Per la vostra poca fede”secondo Matteo 17.20. Ricordiamo che, nel caso di questo episodio, erano molti che pretendevano di cacciare gli spiriti impuri, come quegli esorcisti giudei che a volte menzioniamo in Atti 19.13 che si sentirono rispondere “Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete?”, e uscirono dallo scontro con l’indemoniato “nudi e feriti”. Anche per quegli esorcisti vale il principio della pretesa di essere quando non si è. Per i discepoli quell’insuccesso  fu sicuramente motivo di vergogna, l’esatto contrario di quanto avvenuto tempo prima, quando “Al loro ritorno, gli apostoli raccontarono a Gesù tutto quello che avevano fatto”(Luca 9.10). Allora, non avevano certo motivo di tacere.

L’aver bisogno senza sapere di chi o di cosa lo vediamo in particolare nella folla, che corre da Gesù per meglio vederlo, stante le caratteristiche avute in quel momento, che lo saluta forse con la parola “Shalom”, ma di circostanza. Una folla che era lì in gran parte per vedere e stupirsi, ma non per credere. Così è l’uomo anche oggi che preferisce, quando raggiunge la consapevolezza delle sue imperfezioni, affidarsi ad attività estranee come lo Yoga o molte altre pratiche anziché andare a bussare a quella porta di cui è promessa l’apertura.

Tornando al nostro testo, vediamo che la domanda “di cosa discutevate con loro?”resta senza risposta. O, meglio, questa la dà il diretto interessato, il padre del ragazzo epilettico: “Maestro, ho portato da te– ecco l’identificazione di Lui coi discepoli e della prudenza che questi avrebbero dovuto esercitare – mio figlio, che ha uno spirito muto. Dovunque lo afferri– quindi in modo imprevedibile senza distinzione per il luogo – , lo getta a terra ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli di cacciarlo, ma non ci sono riusciti”(vv.17-18). Mi sono chiesto se quel “ma”,che suona con un rimprovero prima di tutto ai nove, fosse rivolto anche a Gesù, che secondo quell’uomo non li aveva formati abbastanza. Ecco l’ignoranza con la quale si scontrò Nostro Signore, che ebbe una reazione particolare, dicendo “O generazione incredula– Matteo aggiunge “e perversa”–; fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo da me”.

Il rimprovero di Gesù qui è universale e non esclude nessuno. Come ha scritto un fratello, «è un rimprovero che, seppure con altri termini, ricorre sovente nei Vangeli per mettere in evidenza che l’uomo, chiunque esso sia, non può avere un comportamento corretto, in parole e in opere, senza la guida dello Spirito Santo. Tutto ciò che gli uomini desiderano compiere al di fuori di tutto ciò che Dio ha predisposto è da Lui considerato “un panno sporco”. E i verbi utilizzati, “stare” e “sopportare” sono indicativi di un tempo che stava per concludersi perché il Suo sacrificio stava per compiersi».

“Portatelo da me”, è un imperativo rivolto a tutti con cui Gesù si pone tanto come riparatore all’errato atteggiamento dei suoi discepoli, quando una promessa di intervento. L’unico possibile, risolutore, vincitore su ogni elemento terreno o negativamente spirituale.

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11.26 – IL PROFETA ELIA IV/IV: DINAMICHE PROFETICHE (Apocalisse 11.1-14)

11.26 – Elia  IV: dinamiche profetiche (Apocalisse 11.1-14)

 

1 Poi mi fu data una canna simile a una verga e mi fu detto: «Àlzati e misura il tempio di Dio e l’altare e il numero di quelli che in esso stanno adorando. 2Ma l’atrio, che è fuori dal tempio, lascialo da parte e non lo misurare, perché è stato dato in balìa dei pagani, i quali calpesteranno la città santa per quarantadue mesi. 3Ma farò in modo che i miei due testimoni, vestiti di sacco, compiano la loro missione di profeti per milleduecentosessanta giorni». 4Questi sono i due olivi e i due candelabri che stanno davanti al Signore della terra. 5Se qualcuno pensasse di fare loro del male, uscirà dalla loro bocca un fuoco che divorerà i loro nemici. Così deve perire chiunque pensi di fare loro del male. 6Essi hanno il potere di chiudere il cielo, perché non cada pioggia nei giorni del loro ministero profetico. Essi hanno anche potere di cambiare l’acqua in sangue e di colpire la terra con ogni sorta di flagelli, tutte le volte che lo vorranno. 7E quando avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall’abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà. 8I loro cadaveri rimarranno esposti sulla piazza della grande città, che simbolicamente si chiama Sòdoma ed Egitto, dove anche il loro Signore fu crocifisso. 9Uomini di ogni popolo, tribù, lingua e nazione vedono i loro cadaveri per tre giorni e mezzo e non permettono che i loro cadaveri vengano deposti in un sepolcro. 10Gli abitanti della terra fanno festa su di loro, si rallegrano e si scambiano doni, perché questi due profeti erano il tormento degli abitanti della terra.
11Ma dopo tre giorni e mezzo un soffio di vita che veniva da Dio entrò in essi e si alzarono in piedi, con grande terrore di quelli che stavano a guardarli. 12Allora udirono un grido possente dal cielo che diceva loro: «Salite quassù» e salirono al cielo in una nube, mentre i loro nemici li guardavano. 13In quello stesso momento ci fu un grande terremoto, che fece crollare un decimo della città: perirono in quel terremoto settemila persone; i superstiti, presi da terrore, davano gloria al Dio del cielo.
14Il secondo «guai» è passato; ed ecco, viene subito il terzo «guai».

 

Veniamo ora al nostro testo, dopo aver brevemente cercato di inquadrare l’ambito nello scorso capitolo: a Giovanni viene detto, non scrive da chi, di misurare il tempio di Dio e l’altare, il numero di quelli che adoravano in esso, ma di tralasciare l’atrio: nessuno prende le misure di qualcosa se non ha un progetto che le richiede. Qui, oltre al tempio nella sua parte più sacra, viene detto di contare quelli che adorano, altro indice progettuale non più rivolto a una struttura, ma alle persone. “L’atrio fuori dal tempio” non viene calcolato e quindi, se nell’Antico Patto era figura della benevolenza e del futuro accoglimento dei pagani nel popolo di Dio perché chiunque poteva accedervi, qui è indice di esclusione: nelle parole rivolte a Giovanni si dice che quella porzione del tempio “è stato dato in balìa dei pagani, che calpesteranno la città santa per quarantadue mesi”, lo stesso tempo in cui la bestia eserciterà il suo potere. Nel verbo qui usato, calpestare, abbiamo un riferimento alla profanazione, all’indifferenza, all’ostilità verso tutto ciò che è sacro, a maggior ragione verso la Parola di Dio. Ma il tempio, nella sua parte più vera, viene misurato, reso inattaccabile, a differenza di quello naturale distrutto nel 70 dalle truppe romane. E quando il periodo dato all’uomo per ravvedersi scade, se non ha è provveduto diversamente, porta inevitabilmente con sé una grande rovina.

Gerusalemme quindi sarà il teatro di questi avvenimenti e diventerà un centro di potere perché l’Avversario, nella sua volontà di onnipotenza e oltraggio, mira proprio a considerare la città che più di tutte è stata testimone degli avvenimenti profetizzati e adempiuti, della sofferenza e delle benedizioni di Israele, come sua. O, meglio, vorrà toglierla dalle mani di Dio, conoscendo i Suoi progetti, altrimenti non sarebbe il Distruttore.

A questo punto, al verso tre, vengono nominati i due testimoni, che non possono essere che Elia ed Enoc nonostante siano stati proposti altri nomi, ma tutti di uomini che, a parte il loro valore e funzione avuta in determinati tempi storici, hanno conosciuto la morte. Posto che Dio può sempre fare come vuole e quindi far risorgere Mosè, Giosuè o Zorobabele, questi ultimi citati in Zaccaria 4 nella visione del candelabro e dei due olivi, non si capisce perché debba agire in tal senso quando Elia ed Enoch vennero rapiti nel corpo a voler sottolineare un mettere da parte per un ritorno, come fu e sarà per Nostro Signore. Non si tratta qui di avere la pretesa di capire i piani di Dio stante la limitatezza della mente umana, ma di un processo logico molto semplice visto nel “prendere” che, per il Signore, non è mai per sé, ma per dare. Noi stessi, quando prendiamo qualcosa e lo mettiamo da parte, è perché sappiamo che verrà un momento opportuno perché questo venga utilizzato.

Inoltre va tenuto presente che la morte sancisce per tutti il compimento, la fine di tutto quanto si poteva fare e si è fatto oppure no: il concluso e il sospeso rimangono e il finito incontra l’infinito in salvezza o in condanna, ma Elia ed Enoch? La loro vita non conclusa come tutti gli altri uomini implica che debba ancora risolversi con altri compiti e che solo quando questi saranno esauriti potrà avvenire la loro morte, come sarà e di cui leggiamo al verso 7: “E, quando avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall’abisso li vincerà, e li ucciderà”. Uno degli ultimi poteri dategli.

Elia ed Enoch “sono i due olivi e i due candelabri che stanno davanti al Signore della terra” (v.4), qui descritti nella loro funzione: l’olivo dà frutti che producono olio, figura dello Spirito Santo oltre che del conferimento di un ruolo spirituale che non può scadere. “Due olivi davanti al Signore della terra”, così chiamato perché è Lui che dirige e ordina, stanno a significare la funzione produttiva dei due profeti: al tempo opportuno daranno e olive e l’olio puro. Il candeliere, o candelabro, è la prima cosa che vede Giovanni al capitolo 1, quando si volta “per vedere la voce che parlava con me” (1.12); se, come gli spiega lo stesso Gesù glorificato, “i sette candelabri sono le sette Chiese”, è facile comprendere l’importanza che hanno i due testimoni: faranno luce, illumineranno prima di tutto i credenti di quella dispensazione che li riconosceranno, ma anche gli altri uomini che proprio per questo li combatteranno. Gli uni da quella luce riceveranno calore e guida, gli altri fastidio e “tormento” perché non potranno negare quanto verrà loro dimostrato, cioè la profonda falsità del loro stile di vita, e per questo gioiranno alla loro morte giungendo addirittura a “scambiarsi doni” come a Natale o a Pasqua, festività che oramai hanno totalmente perso il loro significato, se mai ne hanno avuto uno.

Occorre prestare attenzione a un elemento molto importante e cioè che i grandi miracoli, che caratterizzarono le antiche dispensazioni torneranno perché fonte di richiamo al ravvedimento diverso da come oggi opera il Vangelo: “uscirà dalla loro bocca un fuoco che divorerà i loro nemici” è frase che parla dell’azione dello Spirito Santo, paragonato a “un fuoco” che non può esprimersi altrimenti se non divorando, vale a dire rendendo al nulla tutti quanti sono a Lui contrari; costoro combatteranno i due testimoni in quanto Sua chiara emanazione, personificazione, strumento.

C’è poi il richiamo ad Elia, che faceva la stessa cosa (vedi i versi di 1 Re che abbiamo ricordato), mentre di Enoc sappiamo molto meno: “essi hanno potere di chiudere il cielo, perché non cada pioggia nei giorni del loro ministero profetico. Essi hanno anche potere di cambiare l’acqua in sangue e di colpire la terra con ogni sorta di flagelli tutte le volte che vorranno” (v.6). L’unica cosa che sappiamo del secondo testimone è che “Enoc camminò con Dio, poi scomparve perché Dio lo aveva preso” (Genesi 5.24), reputandolo utile al pari di Elia, sicuramente per come aveva vissuto.

L’autorità che Dio concederà loro sarà quindi totale in quanto “ulivi” e “candelabri”. Teniamo presente questo secondo termine, “candelieri” o “candelabri”, perché non allude solo a degli strumenti che illuminano, ma la cui luce proviene dal creatore: dobbiamo infatti pensare alla “Menorah”, il vero candelabro ebraico a sette braccia, che ardeva con olio puro. Le sue braccia simboleggiano la luce divina che si diffonde, ma anche i sette giorni della Creazione con il sabato come luce centrale così come, secondo altre interpretazioni, il sistema planetario col sole al centro, o l’alfabeto ebraico, quindi la capacità di parlare in modo appropriato con Dio e tra uomini e uomini.

I due testimoni costituiranno per la Bestia e il falso profeta un problema molto serio perché, al verso 10, “questi due profeti erano il tormento degli abitanti della terra” e riusciranno ad ucciderli, lasciano i loro corpi esposti a sostegno della vittoria ottenuta su di loro. La “grande città”, Gerusalemme, al contrario di tutti i significati che riveste negli scritti dell’Antico e del Nuovo Patto, è qui chiamata “simbolicamente Sodoma ed Egitto”, sinonimo di tutte le forme di libertà umane nel peccato che si concreteranno da un lato nella totale e sfrenata “libertà sessuale” – vedi i movimenti per la libera espressione dell’omosessualità, la liberalizzazione della droga etc. – e dall’altro nella schiavitù in cui verranno tenuti da una parte i santi consapevolmente, e gli altri uomini senza rendersene conto in quanto dipendenti in tutto dal proprio Io e dal sistema cui avranno aderito. Fondamentalmente, il “tormento degli abitanti della terra” che i due testimoni avranno esercitato prima del loro venire uccisi, sarà consistito nel richiamo al ravvedimento e allo smascherare gli inganni della struttura satanica che fino ad allora sarà stata impotente contro di loro. Abbiamo letto del tramutare l’acqua in sangue, miracolo che anche i magi d’Egitto furono in grado di riprodurre, ma non in senso inverso, non potendo cioè far tornare il sangue in acqua, a tal punto che “Tutti gli egiziani scavarono allora nei dintorni del Nilo per attingervi acqua da bere, perché non poterono bere le acque del Nilo” (Esodo 7.24). Satana è in grado di essere imitatore di Dio, mai però in senso costruttivo. È un riproduttore astuto al di là di qualsiasi immaginazione, ma resta sempre un ignorante.

Altra riflessione possibile può essere fatta al verso 9, quando leggiamo che “uomini di ogni popolo, lingua e nazione vedono i loro cadaveri per tre giorni e mezzo e non permettono che i loro cadaveri vengano deposti in un sepolcro”: abbiamo qui una divisione formale molto netta, perché gli uomini che “vedono i loro cadaveri” non sono gli stessi che “non permettono che i vengano esposti in un sepolcro”. I primi sono gli abitanti della terra, che potranno seguire l’avvenimento attraverso la televisione, Internet e sui propri smartphone ciascuno nella propria lingua, i secondi saranno i rappresentanti delle varie nazioni e popoli che avranno un potere legislativo tale da vietare la sepoltura dei due corpi.

“Tre giorni e mezzo” è un’espressione che troviamo solo qui. È in contrapposizione ai tempi della triade satanica, che ci ha messo millenni per realizzare il suo progetto, da Babilonia all’epoca degli avvenimenti illustrati, e quarantadue mesi per gestire la terra quando ogni cosa sarà sotto il suo potere. Ora, dopo quei tre giorni e mezzo, la metà di sette, i due testimoni non solo risorgono, ma salgono al cielo dopo “un grido possente dal cielo che diceva: «salite quassù» e salirono al cielo in una nube, mentre i loro nemici li guardavano”. Un altro “rapimento”, dunque, che nella memoria dei loro avversari sarà troppo vicino all’altro, quello della Chiesa, per non fare le necessarie connessioni.

Penultima considerazione è sui superstiti del terremoto che, “presi da terrore, davano gloria al Dio del cielo”: non credo questa sia un’espressione, dare gloria, vada letta in senso positivo. Il vedere i due testimoni ascendere al cielo e il terremoto con le relative vittime non portò ad alcun risultato spirituale, anzi in quattro passi (9.20; 9.21; 16.9; 16.11) leggiamo che “non si ravvidero delle loro opere”. Piuttosto, quel “dare gloria al Dio del cielo” implica l’ammissione del fatto che quanto stava avvenendo era vero, ma senza che possa scoccare la scintilla della conversione, di quel profondo esame che segue l’obiettiva constatazione di un percorso sbagliato. Un parallelo possibile è col pentimento di Giuda Iscariotha, che come sappiamo fu “secondo il mondo”, non certo secondo Dio.

E giungiamo così alla fine di questo nostro breve percorso, la nota che Giovanni pone a metà del capitolo undicesimo, “Il secondo «guai» è passato; ecco, viene subito il terzo «guai»”: non “guaio” come ci si aspetterebbe, ma indicazione relativa alle parole dell’aquila “che gridava a gran voce: «Guai, guai, guai agli abitanti della terra, al suono degli ultimi squilli di tromba che i tre angeli stanno per suonare” (8.13).

Qui credo sia giusto fermarsi: sono tempi imminenti, non nostri, per quei “servi” che li vivranno e che era giusto osservare, da lontano ma al tempo stesso vicini, perché credo che il ruolo di Elia non dovesse essere lasciato in sospeso. Per noi, vale quanto scrive l’apostolo Paolo in 1 Tessalonicesi 4.16,17: “…il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i mirti in Cristo; quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così saremo per sempre col Signore”. Amen.

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11.25- IL PROFETA ELIA III/IV: IL TEMPO A VENIRE (INTRO) (Apocalisse 11.1-14)

11.25 – Elia  III: il tempo a venire, introduzione (Apocalisse 11.1-14)

 

1 Poi mi fu data una canna simile a una verga e mi fu detto: «Àlzati e misura il tempio di Dio e l’altare e il numero di quelli che in esso stanno adorando. 2Ma l’atrio, che è fuori dal tempio, lascialo da parte e non lo misurare, perché è stato dato in balìa dei pagani, i quali calpesteranno la città santa per quarantadue mesi. 3Ma farò in modo che i miei due testimoni, vestiti di sacco, compiano la loro missione di profeti per milleduecentosessanta giorni». 4Questi sono i due olivi e i due candelabri che stanno davanti al Signore della terra. 5Se qualcuno pensasse di fare loro del male, uscirà dalla loro bocca un fuoco che divorerà i loro nemici. Così deve perire chiunque pensi di fare loro del male. 6Essi hanno il potere di chiudere il cielo, perché non cada pioggia nei giorni del loro ministero profetico. Essi hanno anche potere di cambiare l’acqua in sangue e di colpire la terra con ogni sorta di flagelli, tutte le volte che lo vorranno. 7E quando avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall’abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà. 8I loro cadaveri rimarranno esposti sulla piazza della grande città, che simbolicamente si chiama Sòdoma ed Egitto, dove anche il loro Signore fu crocifisso. 9Uomini di ogni popolo, tribù, lingua e nazione vedono i loro cadaveri per tre giorni e mezzo e non permettono che i loro cadaveri vengano deposti in un sepolcro. 10Gli abitanti della terra fanno festa su di loro, si rallegrano e si scambiano doni, perché questi due profeti erano il tormento degli abitanti della terra.11Ma dopo tre giorni e mezzo un soffio di vita che veniva da Dio entrò in essi e si alzarono in piedi, con grande terrore di quelli che stavano a guardarli. 12Allora udirono un grido possente dal cielo che diceva loro: «Salite quassù» e salirono al cielo in una nube, mentre i loro nemici li guardavano. 13In quello stesso momento ci fu un grande terremoto, che fece crollare un decimo della città: perirono in quel terremoto settemila persone; i superstiti, presi da terrore, davano gloria al Dio del cielo.
14Il secondo «guai» è passato; ed ecco, viene subito il terzo «guai».

 

Con questo terzo capitolo su Elia ci attende un compito arduo, cioè cercare di capire il suo ruolo in un tempo futuro che va inquadrato; quando infatti Gesù disse ai suoi “Elia è già venuto”si riferiva alla funzione di Giovanni Battista in quanto precursore e non al profeta propriamente vissuto nel IX secolo prima di Lui. Stante il poco spazio a disposizione e il fatto che questa parentesi su Elia viene fatta nel contesto dei Vangeli, darò solo delle aperture comprensibili per dare a chi legge l’opportunità di espanderle.

Anche a Giovanni, Autore del libro dell’Apocalisse, è affidato un incarico difficile: gli viene mostrato il piano di Dio e gli avvenimenti che caratterizzeranno un’epoca da lui enormemente distante e così si ritrova a dover descrivere situazioni e realtà di fronte alle quali gli mancano le parole. Il lessico cambia col tempo, si coniano vocaboli che prima non c’erano e si adattano al nuovo contesto che si viene a creare. Per un qualsiasi uomo dell’epoca di Giovanni sarebbe difficile descrivere anche una bicicletta, figuriamoci un carro armato, un aereo, un drone, un bombardamento, un computer e così via: non gli resta così altro modo che fare riferimenti a ciò che conosce impiegando una terminologia spirituale nota e riconoscibile da chi ama e legge le Scritture consapevole che sia l’unico modo, una volta ricevuto lo Spirito Santo, di comunicare attraverso il tempo. Ecco una delle ragioni per cui “Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e custodiscono le cose che vi sono scritte: il tempo infatti è vicino”(1.3). “Leggere” – prendere atto – “ascoltare” – riflettervi sopra, studiare, comprendere – e “custodire” – cioè conservare per il tempo opportuno, ritenere per riconoscere – sono quindi i verbi impiegati da Giovanni per un utilizzo responsabile del messaggio datogli dal Cristo glorificato. L’Apocalisse, infatti, è un libro dato alla cristianità di ogni tempo, a partire dall’anno 100, contenendo avvenimenti che si verificheranno da lì in poi, anche dentro la stessa Chiesa.

Tornando al nostro capitolo 11, la cornice temporale è quella della Gran Tribolazione, cioè quel periodo, della durata di tre anni e mezzo, a cavallo tra il rapimento della Chiesa e il Millennio. Se 1.260 giorni sembrano poca cosa, in realtà costituiranno il periodo più buio di tutta la storia umana e sembreranno trascorrere con una lentezza estrema. Questi giorni partiranno dal rapimento della Chiesa, segnale molto importante dell’amore di Dio per coloro che gli appartengono: i credenti di allora verranno infatti risparmiati dalla Gran Tribolazione, mentre tutti gli altri uomini vi resteranno coinvolti e nulla sarà loro risparmiato. Il rapimento della Chiesa infatti avverrà per toglierla dagli avvenimenti terribili che si verificheranno sulla terra; a ben vedere, questo è sempre stato il metodo di Dio per evitare che la tentazione “oltre le nostre forze”avvenga. L’intervento in proposito lo abbiamo visto con Noè e la sua famiglia ai tempi del diluvio, con il sangue spruzzato sulle porte in Egitto perché il popolo fosse risparmiato dalla strage dei primogeniti, con Lot e i suoi, fatti uscire da Sodoma prima della sua distruzione.

Un piccolo appunto sul “tentati oltre le nostre forze”: molto spesso si applica questo verso a ciò che ci spingerebbe a infrangere il decalogo, ma in realtà, come dimostra il libro di Giobbe, l’Avversario tenta anche con la sofferenza fisica e morale, senza contare quella provocata da coloro che vorrebbero aiutarci attraverso sentenze morali o falsamente spirituali.

Col rapimento della Chiesa verrà quindi a cessare la testimonianza, ma resterà ancora la Scrittura e sarà ancora possibile la conversione, ma senza l’aiuto della predicazione e del riferimento del “Corpo di Cristo”. Di fronte al rapimento, infatti, ci sarà chi lo riterrà un evento inspiegabile e chi ne cercherà le ragioni, non volendo essere coinvolto nel nuovo sistema politico satanico che sarà riconoscibile, per quanto a pochi.

Il periodo dei tre anni e mezzo (42 mesi o 1.260 giorni) vedrà l’opera di due personaggi principali, l’anticristo e il falso profeta, oltre che ad un sistema che Giovanni chiama “bestia”e che rivela in varie forme e modi. La persona dell’Anticristo non è frutto della fantasia di registi e sceneggiatori, ma è “colui che nega il Padre e il Figlio”(1 Giovanni 2.22) e che più precisamente va identificato in 4.3, sempre della stessa epistola: “Ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Questo è lo spirito dell’anticristo che, come avete udito, vieni, anzi è già nel mondo”.

L’anticristo allora è la sublimazione, l’incarnazione del principio in base il quale il Dio predicato dal cristianesimo è un’invenzione, quindi non esiste, e a Lui va sostituito l’uomo, l’Io nelle sue multiformi espressioni. Non vi è motivo per dubitare che questo personaggio, un politico, costruirà il suo potere sul mondo grazie ad un sistema che raccoglierà in sé tutti gli Stati sotto un’unica legge, la sua. Già ad esso abbiamo una Chiesa che predica l’ascolto dell’ “altro”, ma non quello di Dio.

Attenzione a non prendere il discorso dell’Anticristo alla lettera nel senso che questo personaggio non salirà al potere “umanamente”, cioè con le sue forze, ma con quelle di Satana che preparerà il sistema adatto affinché, almeno all’inizio, si possa instaurare una dittatura morbida, vale a dire una democrazia apparente: l’Anticristo non salirà al potere con una cospirazione, ma sarà acclamato da tutti, Israele compreso che individuerà in lui il Messia, per cui un altro dato certo che abbiamo è che questo personaggio sarà un ebreo.

Se quindi, come abbiamo letto e sappiamo, “lo spirito dell’anticristo è già nel mondo”, va da sé che gli eventi narrati nell’Apocalisse relativamente ai personaggi e strutture che la caratterizzeranno non compariranno tutto a un tratto, ma saranno il risultato di un’evoluzione che, in realtà, iniziò con la costruzione della torre babilonese, simbolo dell’indipendenza dell’uomo da Dio. Dopo di quella, tanti imperi si sono succeduti, anche in tempi a noi vicini. Non a caso Giovanni vede “una bestia salire dal mare”(13.1) e un’altra “che saliva dalla terra”(13.11), entrambe caratterizzate da un verbo, “salire”, che dà proprio l’idea di una progressione; viceversa Giovanni avrebbe scritto “comparire”, “apparire”. La prima bestia “sale”dalla confusione, raffigurata dal mare, la seconda dal profondo dell’orgoglio umano, visto nella “terra”. Non a caso la bestia che sale dal mare riceverà l’ammirazione dell’umanità che vorrà identificarsi in lei a tal punto dall’aderirvi completamente; in 12.4 leggiamo “…e adorarono la bestia dicendo: «Chi è simile alla bestia, e chi può combattere con lei?»”e al verso 8 “E l’adorarono tutti gli abitanti della terra, i cui nomi non sono scritti nel libro della vita dell’Agnello, che è stato ucciso fin dalla fondazione del mondo”.

Allora, con questi due versi, abbiamo un aggiornamento del verbo “adorare”, da noi istintivamente inteso in senso univoco, vale a dire con gente che si prostra, magari pregando o con altre manifestazioni; piuttosto l’adorazione di cui qui si parla consiste, ampliato e in modo ancora più marcato, a quanto da noi già visto quando abbiamo studiato o letto sulle strutture imperialiste come il Comunismo, il Fascismo o il Nazismo, sul tesseramento politico, la fede nei raduni, negli ideali, nei progetti dei vari dittatori. Lenin, Stalin, Mao, Mussolini, Pol Pot, Hitler e tanti altri, furono anche “adorati”, incensati, osannati attraverso non solo la partecipazione straordinaria di masse acclamanti, ma attraverso ritratti, statue e templi che in un certo qual modo personalizzavano, stigmatizzavano il regime. Con la Bestia, avverrà la stessa cosa, ma in modo più subdolo nel senso che sarà necessario escogitare una forma simile, ma non identica, non riconoscibile se non quando sarà, come si dice, “troppo tardi”.

Qui, con la prima bestia che formerà un tutt’uno con la seconda, abbiamo le coscienze umane compresse da ogni parte, indirizzate per non poter fare altrimenti dopo innumerevoli forme di appiattimento mentale e condizionamento di cui già oggi possiamo constatare gli effetti anche senza basarci sulla nostra esperienza di fede: se ai giovani di quaranta, trenta o anche venti anni fa si cercava di far sentire l’individuo come unico e il cinema, la televisione, insomma i media salvo rari casi indirizzavano all’espressione di un sé, per quanto discutibile, oggi tutto questo non esiste più, ma abbiamo una tecnologia che rende schiavi e atrofizza la mente, oltre a tutta una serie di input come la musica, i film, la pubblicità, che portano il giovane a identificarsi con e in modelli assolutamente vuoti, privi di un perché, di un come, di un dove. Anche gli stessi navigatori satellitari, usati come unica fonte di orientamento, impediscono alla persona di sapersi collocare consapevolmente nello spazio orizzontale, a differenza di quanto avveniva con le carte stradali. Tra l’altro tutta questa tecnologia è in grado di funzionare “fino a quando tutto va bene”, ma in caso di guasto, o per meglio dire di guerra, saranno le prime ad essere inutilizzabili. E la gente comune non saprà più come fare perché non in grado di orientarsi al di là di un raggio di 100 chilometri, ed è già una stima elevata. Potremmo continuare, ma ne uscirebbe un libro e non un capitolo.

Se la prima bestia attirerà a sé la parte istintiva-terrena delle persone, la seconda agirà in modo diverso: “esercitava tutta l’autorità della prima bestia davanti a lei e faceva sì che la terra e i suoi abitanti adorassero la prima bestia”(13.12). Il terribile è che “faceva sì che tutti coloro che non adoravano l’immagine della bestia fossero uccisi”, quindi coloro che, nonostante la Chiesa assente, crederanno.

Lo scenario sarà tale che “faceva sì che a tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e servi, fosse posto un marchio sulla loro mano destra o sulla loro fronte, e che nessuno potesse comperare o vendere, se non chi aveva il marchio o il nome della bestia o il numero del suo nome”(13.16,17). Ora non è difficile connettere la seconda parte del verso a quelle che per il momento sono schede elettroniche come Bancomat, Carte di Credito o di Identità, ma che in futuro – e se ne parla già da tempo – convergeranno tutte in un unico microchip che si pensa di inserire – e così oggi avviene per gli animali domestici o a esseri umani volontari in alcune aziende – proprio nella mano destra o sopra una delle due sopracciglia (per gli esseri umani). Non è un caso se, al momento in cui scrivo queste pagine, i Governi stiano facendo forti pressioni per eliminare il consumo del denaro contante. Anche qui, ciò avviene per gradi ma, se ci voltiamo indietro anche oggi, non possiamo che prendere atto del numero di libertà che abbiamo perso anche sulle cose minime: tutto dev’essere registrato o registrabile, tracciato o tracciabile, compresi non solo i nostri spostamenti, ma ciò che mangiamo, cosa consumiamo, quali siti visitiamo in Internet.

Ora questo sistema convergerà in uno solo, sotto il controllo dell’anticristo (capo politico) e di un personaggio religioso, il falso profeta che, identificandosi nella bestia che “sale dalla terra”, ha “due corna, simili a quelle di un agnello, ma parlava come un dragone”(13.11), quest’ultima figura dell’Avversario. Il falso profeta è caratterizzato dal numero 666, oggetto di interpretazioni innumerevoli da quando il libro dell’Apocalisse è stato divulgato e sul quale non mi soffermo, a parte una sottolineatura della triade del 6 e un rimando a quanto già scritto su questo numero. È importante tener presente che quanto troviamo scritto sulla Gran Tribolazione è fondamentalmente per quei credenti che, attraverso le parole di Giovanni, riconosceranno inequivocabilmente il loro tempo e avranno modo di orientarsi in quel periodo così terribile, traendone consolazione per il premio a loro riservato. Avranno, in poche parole, un’identità certa a differenza di tutti gli altri, come accade da sempre, ma che lì sarà ancora più accentuato.

Va sottolineato che tutto quanto fin qui ho riferito, purtroppo, riporta una visione molto limitata di quello che sarà la vita nella Gran Tribolazione; la mia descrizione non tiene conto degli avvenimenti, come le catastrofi naturali, che caratterizzeranno questo periodo di cui Gesù, aprendo una finestra temporale nel suo complessissimo sermone profetico, dice “Se quei giorni non fossero abbreviati, nessun vivente si salverebbe; ma a causa degli eletti, quei giorni saranno abbreviati”(Mt 24.21).

Ed eccoci, fatta questa premessa, giungere ai due testimoni, di cui abbiamo letto al verso 3 che sarà dato loro di “profetizzare milleduecentosessantagiorni”, lo stesso tempo, più o meno, dei 42 mesi (42×30=1260) dati alla “bestia che sale dal mare”. Siccome però non esistono mesi di 30 giorni uno dopo l’altro, ma anche di 31 e febbraio di 28 (o 29 se cade in un anno bisestile), i giorni dati alla bestia sono, o sarebbero, poco di più. Il contesto della Gran Tribolazione sarà terribile perché, a parte il regime che si instaurerà, vi saranno eventi climatici e astronomici che sconvolgeranno la terra provocando miliardi di morti; ricordiamo ad esempio 9.15 “Furono liberati i quattro angeli, pronti per l’ora, il giorno, il mese d l’anno, al fine di sterminare un terzo dell’umanità”, oppure i flagelli del fumo, del fuoco e dello zolfo al verso 18: inquinamento? Guerra nucleare? Noi lo possiamo ipotizzare, ma chi vivrà il tempo di quelle manifestazioni le riconoscerà con certezza.

Così infatti si apre il libro scritto da Giovani; “Rivelazione di Gesù Cristo, al quale Dio la consegnò per mostrare ai suoi servi le cose che dovranno accadere tra breve”(1.1): noi, per le condizioni in cui versa la terra e gli uomini, per il degrado delle menti e dei cuori che vediamo, possiamo solo capire che gli ultimi tempi li stiamo vivendo, e che il ritorno del Signore Gesù Cristo è veramente vicino. Nel prossimo capitolo, l’ultimo su Elia, cercheremo di concludere la lettura dei dati che l’apostolo Giovanni ha lasciato per il nostro, e soprattutto l’altrui, orientamento. Amen.

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11.24 – IL PROFETA ELIA II/IV: L’INTERPRETAZIONE (Matteo 17.3-8)

11.24 – Elia  II: l’interpretazione (Matteo 17. 3-8)

 

10Allora i discepoli gli domandarono: «Perché dunque gli scribi dicono che prima deve venire Elia?». 11Ed egli rispose: «Sì, verrà Elia e ristabilirà ogni cosa. 12Ma io vi dico: Elia è già venuto e non l’hanno riconosciuto; anzi, hanno fatto di lui quello che hanno voluto. Così anche il Figlio dell’uomo dovrà soffrire per opera loro». 13Allora i discepoli compresero che egli parlava loro di Giovanni il Battista.

 

Redatta, per quanto brevemente, la “carta di identità” di Elia, cercheremo di affrontare un problema piuttosto ostico, e cioè la domanda dei discepoli, “perché dunque gli scribi dicono che prima deve venire Elia?”che riflette l’opinione degli ebrei del tempo. La risposta di Gesù è lapidaria, va al nocciolo della questione e presenta ciò che i dodici dovevano sapere per non sviarsi, e cioè “Elia è già venuto e non l’hanno riconosciuto; anzi, hanno fatto di lui quello che hanno voluto”, con chiaro riferimento alla persona e all’opera di Giovanni Battista. Qui Gesù dà ai suoi discepoli l’interpretazione corretta a fronte di una quantità di opinioni che li disorientavano, cosa che per noi non è perché, a differenza di loro, possiamo contare sulla totalità del Vangelo scritto e delle Epistole.

Per avere un quadro generale delle opinioni attorno a Elia a quel tempo occorre prendere in esame gli scritti di allora, come la letteratura intertestamentaria, cioè quella costituita dagli scritti non ritenuti sacri oltre i libri non accettati dal canone ebraico (Giuditta, Tobia, I e II Maccabei, Sapienza, Siracide, Baruc e la versione greca del libro di Ester). Accanto a questi ve ne sono altri che, nonostante non accolti e posti sullo stesso piano degli altri, forniscono comunque testimonianza non della Verità, ma di quella che era l’opinione dell’autore e di quanti la condividevano.

Si riteneva ad esempio che Elia, con Mosè, Isacco, Giacobbe, Giosuè e Daniele, sarebbe tornato con tutti gli altri profeti che il popolo aveva ucciso oppure che, giungendo su un carro di fuoco, quel profeta avrebbe comunicato i segni che avrebbero annunciato la fine del mondo, come tenebre, fuoco e caduta delle stelle. Potrebbe sembrare un estensione  di Malachia 3.23, (“Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore”), ma in realtà era interpretato come evento autonomo. Del I sec. a.C. è il libro di Enoch, che collega Elia strettamente al Messia in una visione nella quale agisce prima del giorno del giudizio come Suo precursore ma, nonostante questo, pare essere considerato come figura salvifica autonoma.

Abbiamo poi la letteratura di Qumran, nella quale il profeta è presente in un solo frammento in aramaico in cui leggiamo “Vi manderò prima Elia” senza specificare di cosa. L’ attesa di un precursore, comunque, non si era interrotta, ma continuava in molti ambienti, compreso quello degli Esseni che gli attribuivano un ruolo di riconciliazione visto nella frase “In verità i padri vanno dai figli”. Si tratta di due frammenti importanti, perché testimoniano che nella Palestina in cui poi operò Gesù c’era effettivamente questa attesa elianica prima di un evento che avrebbe risollevato il popolo d’Israele. Una visione certo confusa, ma corretta se interpretata alla luce dei dati che abbiamo oggi.

Nella letteratura Targumica, cioè quella inerente la versione aramaica della Bibbia, andando l’ebraico progressivamente in disuso, Elia è raccordato a Fineas, uno dei capi delle casate dei leviti secondo Edodo 6.25. Fineas uccise con una lancia Zimbri con la moglie Cozbi, madianita, perché la loro unione aveva violato il divieto di Dio di unirsi con pagani; successivamente, in Numeri 13.6-7, Fineas è citato come uno dei capi nella spedizione contro i madianiti, rei di aver portato il popolo di Israele all’idolatria. Fineas, che nella tradizione dell’Antico Patto ricopre il ruolo di chi punisce l’idolatria e la contaminazione coi pagani,  è definito in un manoscritto “l’altro sacerdote Elia, che alla fine dei giorni sarà mandato dagli esuli di Israele”, identificazione fatta perché le parole “messaggero” e “alleanza” vengono usate nella Scrittura per entrambi, Elia e Finees.

Abbiamo infine gli scritti rabbinici che presentano il tema del ritorno di Elia molto frequentemente: nella maggioranza di questi testi il fatto che avrebbe convertito “il cuore dei padri ai figli”e viceversa era interpretato col fatto che avrebbe risolto tutte le dispute al fine di costruire la pace nel mondo, ma anche tutte quelle questioni teologiche sulle quali i rabbini non erano d’accordo o non in grado di fornire delle risposte. Elia sarebbe stato l’arbitro definitivo, decidendo sulle questioni genealogiche, regolarizzando i matrimoni misti in vista della purità rituale e, in altri passi, sarebbe stato anche responsabile della resurrezione dei morti.

Riassunto, forse banale ma stringato di tutte le convinzioni, è che il riferimento al Messia era secondario e la convinzione più forte era quella che Elia avrebbe caratterizzato l’era messianica, anche se non si sapeva bene come. Una forte traccia di questa confusione la vediamo alla croce, quando in Matteo 27.47-49, al grido “Elì, Elì, lemà sabactàni?” udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Costui chiama Elia».(…) Gli altri dicevano: «Lascia! Vediamo se Elia viene a salvarlo!»”.

Tenendo presente il principio rivelato da Gesù “Elia è già venuto e non l’hanno riconosciuto, anzi hanno fatto di lui ciò che hanno voluto”, in un manoscritto del III secolo d.C., ci si chiede se si può bere vino nel giorno della venuta del Messia e si risponde che è vietato “perché Elia non è ancora venuto”.

È indubbio che in molti scritti giudei del I secolo a.C. era radicata la convinzione che Elia sarebbe venuto prima del “giorno del Signore”e, di conseguenza, era facile considerarlo come precursore del Messia.

“Prima”, quindi riprendendo la domanda dei discepoli, “deve venire Elia”: è un’opinione alla quale dovevano aver creduto e sarebbe rimasta latente in loro se non lo avessero visto – e sentito – parlare con Gesù alla trasfigurazione; da quella visione sul monte, allora, derivò un disorientamento perché non riuscivano a capire come mai proprio quell’Elia, presente fisicamente a poca distanza da loro, non fosse venuto “prima”, ma si fosse rivelato solo in quella circostanza.

A questo punto Gesù fuga ogni dubbio, e cioè che l’insegnamento degli scribi era corretto, perché “Sì, verrà Elia e ristabilirà ogni cosa”, oppure “Veramente deve prima venire Elia”(Marco 9.13) dove quel “prima”si riferisce proprio a “prima”di Gesù. Per inquadrare correttamente i due versi, in cui il “venire” è messo da Matteo al futuro perché gli preme collegarsi a Malachia, occorre rifarsi alle nozioni che già possediamo su Giovanni Battista e andare a quegli episodi che abbiamo già esaminato, dall’annuncio a Zaccaria alle sue risposte alla delegazione venuta a Gerusalemme per interrogarlo. Il “ristabilirà ogni cosa”detto da Gesù non vuol dire che la predicazione dell’Elia che lo aveva preceduto avrebbe avuto un effetto immediato negli uomini, ma rivela le intenzioni di Dio riguardo ad Israele, cioè che avrebbe potuto convertirsi. Il “ricondurre il cuore dei padri verso i figli”e viceversa è una verità riferita alla connessione fra l’Antico e il Nuovo patto in un legame indissolubile di continuità e aggiornamento, rivelazione. E il “ristabilirà”di Elia-Giovanni Battista non si riferisce ad una sorta di edificazione miracolosa, ma al verificarsi di una serie di eventi riconoscibili da chi avrebbe voluto davvero accogliere il Cristo e non altri. Giovanni, infatti, sappiamo che è l’ultimo profeta della dispensazione della Legge, il ponte fra la vecchia e la nuova, e il primo della Grazia.

Come la storia di ogni uomo è costituita da piccoli, ma incessanti passi e tappe, così avviene per il popolo di Dio, sia questo Israele oppure la Chiesa. Ricordiamo le parole di Gabriele: “Ricondurrà molti figli di Israele al Signore loro Dio”, cioè porrà le basi perché questo possa avvenire. Nel suo ministero, Giovanni Battista fece proprio questo, cioè predicò il ravvedimento, in vista del Salvatore. Nel “ristabilirà ogni cosa”possiamo così discernere tutti i tentativi possibili perché gli uomini potessero porsi nelle condizioni di accogliere il Cristo e, se leggiamo gli episodi in cui Giovanni fu protagonista, vediamo che ebbe sempre una funzione perché il cuore degli uomini fosse mosso all’accoglimento del Figlio di Dio: predicò, battezzò, quando venne il momento indicò in Gesù “l’Agnello di Dio”e si mise da parte con le parole “Lui deve crescere; io, invece, diminuire”(Giovanni 3.30), a conferma del fatto che la sua opera stava per concludersi.

Il “ristabilire” di Elia-Giovanni è poi collegato a quello di Gesù Cristo, secondo il discorso di Pietro nel Tempio: “Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati e così possano giungere i tempi della consolazione da parte del Signore ed egli mandi – nei vostri cuori – colui che vi aveva destinato come Cristo cioè Gesù. Bisogna che il cielo lo accolga fino ai tempi della ricostituzione di tutte le cose, della quali Dio ha parlato per bocca dei suoi santi profeti fin dall’antichità” (Atti 3. 19-21). Questa è stata la funzione di Giovanni Battista-Elia, un tassello importante in vista della realizzazione di quel progetto, di respiro ben più ampio, che è la nuova creazione in cui vivranno tutti coloro che hanno creduto e agito secondo quanto è a loro stato dato.

“Elia è venuto e non l’hanno riconosciuto”: c’è una chiara accusa in queste parole, riferita alla cecità della mente e del cuore che il Battista stesso aveva denunciato con la frase “Razza di vipere, chi vi ha insegnato a fuggire l’ira futura?”(Marco 1.15), domanda che viene rivolta perché lì il loro “maestro” non poteva essere che l’Avversario cui gli scribi e i farisei davano ascolto.

“Anzi, hanno fatto di lui ciò che hanno voluto”, chiaro riferimento da un lato alla congiura dei due gruppi perché fosse arrestato da Antipa, e allo stesso re che non diede ascolto alle sue parole e a quel senso di timore che queste generavano il lui. “Ciò che hanno voluto”, cioè consapevolmente, per quell’ “ignoranza” che non è frutto di un non sapere, ma di un non voler distinguere i segni dei tempi non accogliendo le Parole di vita eterna. “Tu solo hai parole di vita eterna”.

Gesù conclude il suo intervento con parole semplici, “così anche il figlio dell’uomo dovrà soffrire per opera loro”: la Parola che “si è fatta carne e venne ad abitare in mezzo a noi”, che avrebbe dovuto suscitare la conversione del Suo popolo, verrà da lui condannata a morte e uccisa; così fanno tutti coloro che hanno uno spirito contrario. È probabile che Matteo qui riporti questa frase impiegata nel tentativo di far comprendere ai discepoli un principio che per loro rimase incompreso e che Marco ci consente di identificare: “Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti”(9. 9,10).

Con l’espressione “soffrire molte cose”, Gesù allude poi alle sofferenze morali e spirituali che il Suo Sacrificio avrebbe comportato, condizione che Marco descrive col termine “annichilito”, più corretto rispetto a “disprezzato” che altri riportano. “Annichilire” ha infatti tra i suoi sinonimi “annientare”, “ridurre al nulla”, distruggere”. E qui sempre l’apostolo Pietro dice “Voi, per mano di pagani, l’avete crocifisso e l’avete ucciso. Ora Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere”(Atti 2.23,24). La volontà degli iniqui a fronte di quella di Dio. “Voi avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse consegnato un assassino. Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio lo ha risuscitato dai morti”(3.14).

Il verso che conclude l’episodio in cui Gesù scendeva dal monte coi suoi, testimonia quanto sia distante l’insegnamento dello Spirito da quello della carne: “Allora essi compresero che parlava di Giovanni Battista”: per loro era importante capire “Perché dicono gli scribi che prima deve venire Elia”, lasciando in secondo ordine la morte del loro Maestro. È bello però vedere che, dalle parole di Pietro citate poco prima in Atti, parlò proprio di quella morte salvifica facendo riferimento alle verità infinite contenute nella morte e resurrezione di Gesù. La rivelazione pose lui e gli altri undici in un altro ambito di conoscenza ed esperienza oggi a portata di ogni cristiano, ma cui ben pochi pensano. Amen.

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11.23 -IL PROFETA ELIA I/IV: LA VITA (MATTEO 17.3-8)

11.23 – Elia I/IV: la vita (Matteo 17. 3-8)

 

10Allora i discepoli gli domandarono: «Perché dunque gli scribi dicono che prima deve venire Elia?». 11Ed egli rispose: «Sì, verrà Elia e ristabilirà ogni cosa. 12Ma io vi dico: Elia è già venuto e non l’hanno riconosciuto; anzi, hanno fatto di lui quello che hanno voluto. Così anche il Figlio dell’uomo dovrà soffrire per opera loro». 13Allora i discepoli compresero che egli parlava loro di Giovanni il Battista.

 

La domanda dei discepoli a Gesù “Perché dunque gli scribi dicono che prima deve venire Elia”sappiamo che fu rivolta a Gesù dopo la proibizione di parlare a chiunque dell’evento di cui erano stati testimoni, la Sua trasfigurazione. Notiamo che non viene chiesto il motivo del divieto, ma che l’attenzione dei discepoli si sposta sull’identità di Elia che avevano visto poco prima parlare con Lui: Pietro, Giacomo e Giovanni, infatti, probabilmente non avevano ancora capito che Mosè, a parte il ruolo fondamentale da lui avuto, rappresentava ormai il passato pur nella sua continuità e grandissima importanza, ma attorno ad Elia avevano certamente delle conoscenze confuse, al pari dei loro conterranei. Credo allora sia necessario aprire una parentesi in questi nostri studi che hanno la persona e l’opera di Gesù al centro, e compilare una carta d’identità di questo profeta così importante, inquadrandolo tanto per la vita che ebbe, quanto riportando le credenze attorno a lui, per poi finire sviluppando il ruolo che gli è riservato nel tempo futuro. Molti versi che riporterò sono solo la parte indispensabile, riassuntiva.

Elia è detto “il tisbita”perché originario di Tisbah, nel paese di Galaad; apparteneva alla tribù di Beniamino e visse nel IX secolo a.C.; nulla si sa della sua formazione né della sua vita fino al momento in cui il suo nome irrompe nel primo libro dei Re al capitolo 17 quando si presenta davanti al re Acab di cui è detto, al capitolo 16, che “fece ciò che è male agli occhi del Signore più di tutti quelli prima di lui. Non gli bastò imitare il peccato di Geroboamo– l’idolatria –, figlio di Nebat, ma  prese anche in moglie Gezabel, figlia di Etbàal, re di quelli di Sidone, e si mise a servire Baal e a prostrarsi davanti a lui. Eresse  un altare a Baal nel tempio di Baal, che aveva costruito a Samaria. Eresse anche il palo sacro – tradotto anche con “bosco” inteso come luogo per i sacerdoti e i riti esterni –e continuò ad agire provocando a sdegno il Signore, Dio di Israele, più di tutti i re di Israele prima di lui”(vv.31-33). È importante tenere a mente le parole di Elia ad Acab: “Per la vita del Signore, Dio di Israele, alla cui presenza io sto, in questi anni non ci sarà né rugiada, né pioggia, se non quando lo comanderò io”(17.1).

Nello stesso capitolo abbiamo il miracolo della farina e dell’olio della vedova di Sarepta, citato a proposito di quello dei pani e dei pesci operato da Gesù, donna presa da Lui ad esempio quando disse “C’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova a Sarepta di Sidone”(Luca 4. 25.26). Oltre ai due miracoli citati, Elia fu anche protagonista della resurrezione del figlio di quella vedova.

Proseguendo, al capitolo 18, abbiamo il famoso incontro coi profeti di Baal che, nonostante i loro riti prolungatisi per ore, non riuscirono a compiere il miracolo richiesto, cosa che invece fece Elia, ed il loro sterminio. Il capitolo successivo, il 19, dà dei cenni sulla psicologia e le azioni di Gezabel, ma soprattutto fornisce dati fondamentali sull’esperienza del profeta: mentre dormiva nel deserto in cui si era rifugiato, fu svegliato da un angelo che gli aveva portato da mangiare “una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio d’acqua”(1 Re 19.5): ricordiamo la presenza degli angeli quando Gesù terminò il suo digiuno, che  quando “il diavolo lo lasciò, ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano”(Matteo 4.11).

Elia, al pari di Mosè – e qui c’è un’altra connessione interessante con l’episodio della trasfigurazione appena esaminato – “camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb”, sul quale erano state consegnate le Tavole. E qui abbiamo un episodio particolarissimo: “Là entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco gli fu rivolta la parola del Signore in questi termini: «Che cosa fai qui, Elia?». Egli rispose: «Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita». Gli disse: «Esci e fèrmati sul monte alla presenza del Signore». Ed ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna”(vv.9-13).

Confrontando ora ciò di cui Elia fu testimone col racconto del libro dell’Esodo riferito a Mosè, abbiamo delle differenze sostanziali: “Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore.(…) Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco, e ne saliva il fumo come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto. Il suono del corno diventava sempre più intenso: Mosè parlava e Dio gli rispondeva con una voce”(Esodo 19. 16-19).

Quando allora è il popolo a venire chiamato a seguire il Signore, questi si rivela con potenza, ma quando ad essere chiamato è il singolo, allora abbiamo una manifestazione molto più particolare, che punta dritto alla persona nel modo più naturale possibile. Ricordiamo come Iddio si presentò a Mosè la prima volta: con il pruno ardente. Non vi erano terremoti o vento, ma lo stesso monte, l’Oreb, e una fiamma di fuoco in mezzo al pruno, o “roveto” come altri traducono. Per Elia in particolare la brezza leggera fu un insegnamento che andò al di là del messaggio che Dio aveva per lui, preceduto dalla domanda “Che cosa fai qui, Elia?”, alla quale anche noi dovremmo dare una risposta ogni qualvolta ci avviciniamo a Lui.

“Cosa fai qui”è una domanda molto impegnativa perché coinvolge tutta la persona: deve dare ragione della sua presenza davanti a Dio, di quello che ha fatto, pensato. Si trova di fronte al Dio in ascolto che automaticamente lo valuta: siamo lì per chiedere o per ascoltare? Quanto portiamo della nostra umanità carnale davanti a Lui? Ci presentiamo a mani vuote?

Tornando al modo con cui il Signore si rivelò, se terremoto, fuoco, vento impetuoso, tuoni e fulmini sono elementi che spaventano, che ci parlano di giudizio, vaglio, potenza, la brezza certamente no: questa si riferisce alla tranquillità di Dio, che ricordiamo “passeggiava nel giardino alla brezza del giorno”(Genesi 3.8). Mosè ed Elia, quindi, avevano bisogno di conoscere, attraverso il modo con cui si rivelò, un altro aspetto di Dio, che contempla anche le cose minime, del tutto naturali e sommesse, che non suscitano ammirazione o timore per la loro fragorosità e imponenza, che non lo fanno conoscere come giusto giudice, ma come Padre prima di tutto amorevole. Non a caso la “brezza”, a parte questi due versi, è impiegata nella Scrittura nel Cantico, dove in 2.17 leggiamo “Prima che spiri la brezza del giorno e si allunghino le ombre, ritorna, amato mio, simile a gazzella o a cerbiatto, sopra i monti degli aromi”. Ancora in 4.6, “Prima che spiri la brezza del giorno e si allunghino le ombre, me ne andrò sul monte della mirra e sul colle dell’incenso”. E il Cantico ci parla di un amore senza errori né fine, in cui la visuale dell’Altro non è inquinata da un sentimento generico, ma dall’unicità della Sposa e dello Sposo visto nella frase “Come un giglio fra i rovi, così l’amica mia fra le ragazze. Come un melo fra gli alberi del bosco, così l’amato mio fra i giovani”.

Elia, proseguendo nei suoi dati biografici, chiamò Eliseo gettandogli il suo mantello. Poi fu al tempo stesso strumento di Dio perché Acab si pentisse: nonostante le parole “In realtà nessuno si è mai venduto per fare il male agli occhi del Signore come Acab, perché sua moglie Gezabel l’aveva istigato”(21.25), ai versi 27-29 leggiamo “Quando sentì tali parole– quelle che Elia gli rivolse per ordine di YHWH –, Acab si stracciò le vesti, indossò un sacco sul suo corpo e digiunò; si coricava con il sacco e camminava a testa bassa, La parola del Signore fu rivolta a Elia, il Tisbita: «Hai visto come Acab si è umiliato davanti a me? Poi ché si è umiliato davanti a me, non farò venire la sciagura durante la sua vita; farò venire la sciagura sulla sua casa durante la vita di suo figlio”, Achazia, anch’egli idolatra e col quale Elia avrà a che fare.

Elia, per il potere datogli da Dio, fece piovere fuoco dal cielo per una volta (1 Re 18.38) più due (2 Re 1.10), uccise i profeti di Baal, percosse le acque del Giordano col proprio mantello arrotolato “che si divisero di qua e di là”(2 Re 2.8), altro riferimento a Mosè, e infine, quando era in compagnia di Eliseo, “mentre continuavano a camminare conversando, ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco si interposero fra loro due. Elia salì nel turbine verso il cielo”(Re 2.11).

Questo breve excursus sul profeta altro scopo non ha se non quello di raccogliere dei dati strettamente inerenti al piano che ho previsto per lo studio su di lui e non può in alcun modo sostituire la lettura individuale, ma possiamo comunque raccogliere in sintesi ciò che effettivamente fu: un uomo di Dio da Lui chiamato. Con questa qualifica, che non scelse ma evidentemente accettò, fu un uomo che riprese comportamenti volutamente errati e devianti altrui in quanto la Legge esisteva ed era nota. I suoi miracoli da sottolineare, non perché più importanti, ma perché verranno utili più avanti, sono quelli della siccità e della pioggia, ed infine il fuoco che divorò per due volte gli inviati di Achazia, in altrettanti gruppi di cinquanta più il loro comandante, oltre che l’olocausto che i profeti di Baal non riuscirono a bruciare. Inoltre, fu rapito da Dio, azione avvenuta certamente non senza scopo.

Se Gesù era disceso dal cielo, cioè quella dimensione a noi inaccessibile, e al cielo tornava, non così può dirsi di Elia e, prima di lui, Enoch, che vennero dalla terra, ma a lei non tornarono come tutti gli altri uomini. E poiché Iddio non fa nulla senza uno scopo, il loro rapimento ci parla di un essere messi da parte per uno scopo preciso, unico, che è stato rivelato nel capitolo 11 dell’Apocalisse, ma che non si è ancora compiuto perché i tempi non sono ancora quelli in cui dovranno operare. Tra l’altro, proprio la vicenda del rapimento di Elia sarà quella su cui si interrogheranno e Maestri per secoli, basandosi su Malachia 3.23 già citato in altro studio: “Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore”.

Ultimo riferimento possibile è al libro del Siracide, deuterocanonico, che nel capitolo 48 parla di Elia (e poi Eliseo) con parole molto importanti soprattutto al verso 10 in cui è impossibile non discernere l’opera dello Spirito Santo nella rivelazione: “Tu sei stato assunto in un turbine di fuoco, su un carro di cavalli di fuoco; tu sei stato designato a rimproverare i tempi futuri, per placare l’ira prima che divampi, per ricondurre il cuore del padre verso il figlio e ristabilire le tribù di Giacobbe”.

Questo verso allora esprime tre periodi: il primo è quello della storia passata, di cui molto abbiamo letto. Il secondo, contrariamente ad ogni logica o possibilità carnale, anticipa l’impiego di Elia nei tempi a venire, per noi e per l’autore del libro, mentre il terzo ha connessione con l’opera di Giovanni Battista e del Signore Gesù Cristo perché le parole dell’Angelo a Zaccaria furono, tra le altre “Egli camminerà innanzi a lui con lo spirito e la potenza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto”(Luca 1.13). Attenzione che Gabriele non disse che suo figlio ed Elia sarebbero stati la stessa persona, ma che Giovanni, che avrebbe avuto il suo stesso “spirito e potenza”, avrebbe potuto essere a lui assimilabile. Per Gesù Cristo, invece, valgono le parole del cantico di Paolo nella lettera agli Efesi sullo scopo del piano di salvezza per ogni credente: “Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi – la grazia – con ogni sapienza e intelligenza, facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra”. Amen.

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11.22 – LA TRASFIGURAZIONE III/III: MOSÈ ED ELIA

11.22 – La trasfigurazione III: Mosè ed Elia  (Matteo 17. 3-8)

 

3Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. 4Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». 5Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». 6All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. 7Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». 8Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo. 9Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».

 

L’estrema particolarità del racconto si apre con “Ed ecco”, riferita al momento in cui il volto e il vestito di Gesù raggiunsero il massimo del loro splendore. Solo allora “apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui”. A questo punto è spontaneo chiedersi come abbiano fatto i tre testimoni a sapere chi fossero i “due uomini” (Luca 9.30) che apparvero e parlarono con Lui. Il fatto che Luca li descriva così, “due uomini” e che solo dopo precisi la loro identità ci dice che, quando apparvero, i discepoli non sapevano chi fossero, per cui solo ascoltando le parole che si dissero Gesù, Mosè ed Elia, arrivarono a scoprirne l’identità.

Matteo e Marco tacciono sull’argomento, ma Luca, evidentemente dopo avere interrogato Pietro sullo specifico, scrive “…parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme” (v.31): il rappresentante della Legge, in quando fu Mosè a darla al popolo per ordine di Dio, e quello dei profeti, ci parlano di perfetta congiunzione, continuità perché tanto l’una che l’altra – Legge e Profezia – convergevano in un unico punto, il Figlio di Dio fattosi uomo. È molto importante la presenza di Elia perché, come Enoch, non conobbe la morte venendo rapito mentre era ancora in vita.

Ciò a cui i tre discepoli assistevano, era proprio questo: Mosè ed Elia parlano con Gesù del suo “esodo”, cioè della morte che avrebbe affrontato ed è singolare il termine usato, “exodos”, non confondibile con “exitus” perché qui Luca usa lo stesso termine impiegato per descrivere l’uscita degli Israeliti dall’Egitto per la terra di Canaan. L’ “exodos”, che qui ci dà l’idea della morte, in realtà allude alla Sua resurrezione ed ascensione al cielo con cui Gesù abbandonerà – come uomo – fisicamente per sempre la Terra.

Mosè incontrava di persona Colui del quale aveva profetizzato, “il fine – cioè lo scòpo – della Legge”, Elia Colui che nei tempi antichi gli aveva parlato e la sua presenza lì, ad esempio al posto di Isaia, Daniele, Geremia o altri profeti illustri, trova la sua ragione nel fatto che la sua persona, unitamente a quella di Enoch, è conservata per il tempo della fine quando torneranno entrambi sulla terra per esercitare la loro testimonianza. Ricordiamo sempre che Gesù è al tempo stesso punto di arrivo per le profezie dell’Antico Patto, per lo meno di molte, e di partenza per la Nuova Creazione, avvenuta o che si sta costruendo spiritualmente, ma non ancora materialmente nel senso di manifestazione chiara, ufficiale, come verrò definitivamente sancito con l’avvento dei “Nuovi cieli e nuova terra dove dimora stabile la giustizia”.

Sull’opera dei due testimoni, va detto che sarà talmente grande e importante da rendere impossibile riferimenti diversi al di fuori di Elia ed Enoch proprio perché il loro rapimento, avvenuto nell’antichità, non avrebbe altrimenti senso. Leggiamo ciò che scrive di loro Giovanni, tenendo presente che usa un linguaggio figurato, compatibile con le sue conoscenze di uomo del primo secolo: “Questi sono i due olivi – simbolo di giustizia e sapienza – e i due candelabri – simbolo di luce – che stanno davanti al Signore della terra. Se qualcuno pensasse di far loro del male, uscirà dalla loro bocca un fuoco che divorerà i loro nemici. Così deve perire chiunque pensi di far loro del male. Essi hanno potere di chiudere il cielo, perché non cada pioggia nei giorni del loro ministero profetico. Essi hanno anche potere di cambiare l’acqua in sangue e di colpire la terra con ogni sorta di flagelli, tutte le volte che lo vorranno. E quando avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall’abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà. I loro cadaveri rimarranno esposti sulla piazza della grande città, che simbolicamente si chiama Sodoma ed Egitto, dove anche il loro Signore fu crocifisso. Uomini di ogni popolo, lingua e tribù, lingua e nazione vedono i loro cadaveri – televisione satellitare o internet – per tre giorni e mezzo e non permettono che i loro cadaveri vengano deposti in un sepolcro. Gli abitanti della terra fanno festa su di loro, si rallegrano e si scambiano doni, perché questi due profeti erano il tormento degli abitanti della terra. Ma dopo tre giorni e mezzo un soffio di vita che veniva da Dio entrò in essi e si alzarono in piedi, con un grande terrore di quelli che stavano a guardarli. Allora udirono un grido possente dal cielo che diceva loro: «Salite quassù» e salirono in cielo in una nube, mentre i loro nemici li guardavano. In quello stesso momento ci fu un grande terremoto che fece crollare un decimo della città: perirono in quel terremoto settemila persone; i superstiti, presi da terrore, davano gloria al Dio del cielo” (Apocalisse 11.6-13).

Ho voluto aprire questo squarcio sul futuro per non lasciare un vuoto sulla funzione di Elia, che come quella di Enoch deve ancora concludersi non essendo entrambi passati attraverso la morte del corpo, ma l’oggetto della sua conversazione con Gesù fu comunque imperniata sul Suo “esodo” perché solo grazie alla Sua morte e resurrezione sarebbe stata rivelata in modo inequivocabile l’immortalità di tutti coloro che a Cristo sarebbero appartenuti: la loro vita non cesserà con la morte del corpo, ma il nostro spirito e anima torneranno a Dio.

Non avendoci lasciato le parole che si dissero Gesù, Mosè ed Elia, non possiamo ipotizzare quanto tempo durò il loro dialogo; fatto sta che, avuta l’occasione, Pietro non esitò a caratterizzare la propria natura con un intervento inopportuno, dovuto alla paura irrazionale per tutto ciò di cui non riusciva a capacitarsi, oltre al sopravvalutare la sua persona. Marco dice che Pietro “non sapeva cosa dire, perché erano spaventati”, Luca “Egli non sapeva quello che diceva” e ricordiamo che Mosè stesso, quando si trovò sul Sinai, è scritto che “Lo spettacolo era così terrificante che Mosè disse «Ho paura e tremo»” (Ebrei 12.21).

Nel nostro caso Pietro, spaventato, non sa cosa fare – ma non sarebbe stato sufficiente ascoltare, dato che era protetto comunque dal suo Signore? – e si indirizza verso un gesto teso a trattare tutti grossolanamente nello stesso modo, pur rivolgendosi a Gesù per primo: “Signore, è bello per noi essere qui! – e “bello” non ha nulla a che vedere con la paura, per cui pronuncia una frase di circostanza – Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia”. Era la sua reazione di fronte a ciò che non comprendeva, ponendo comunque se stesso e Giacomo con suo fratello in secondo piano, perché le tende per loro non le menziona.

Pietro s’inserisce così a sproposito in un contesto di una tangibilità spirituale unica, ma provoca un evento teso a distruggere qualunque attività superstiziosa o comunque fuori luogo, estranea dalla logica ed aspettative di Dio Padre: “Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!”. I traduttori del nostro testo, però possono generare confusione con quel “li”, poiché non è chiaro se si riferisca ai discepoli o a Gesù, Mosè ed Elia. Luca scrive “Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura”. La traduzione Diodati, meno interpretativa, riporta “Mentre egli diceva queste cose, venne una nuvola che adombrò quelli, e i discepoli temettero, quando quelli entrarono nella nuvola”.

Va prestata attenzione al tipo di nube, che Matteo non a caso è l’unico a specificare poiché parla di “una nube luminosa” affinché i suoi lettori ebrei potessero identificarla con la Sekinah, la stessa che indicava al popolo che Dio era presente in mezzo a loro, quella che lo condusse nel deserto, che prese possesso nel tempio di Salomone e che accolse Cristo nella sua ascensione. La nube copre Gesù, Mosè ed Elia e la voce del Padre esorta i testimoni, e quindi noi, ad ascoltare “il Figlio mio, l’amato, in cui ho preso il mio compiacimento”, non altri, non i presenti all’incontro con Gesù nonostante la loro autorevolezza. Allo stesso modo il cristiano si deve ben guardare dall’ascoltare altri voci che non siano quelle del Cristo e soprattutto non farle ascoltare, come fa la Chiesa di Roma promuovendo, fortunatamente non sempre, un politeismo anomalo o, meglio, inserendo degli dèi minori quali coadiutori del Padre e del Figlio.

Eppure, il concetto dell’Unicità e Identità di Dio risiede nel concetto stesso della nuvola che significava la presenza dell’Eterno agli occhi degli uomini dell’Antico Patto, che qui avvolge Gesù, Mosè ed Elia e, dopo l’invito ad ascoltare il Figlio, si dissolve lasciandolo solo, non più trasfigurato. Pietro, Giacomo e Giovanni udirono la voce di Dio, e “caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore”: fu una voce diversa da quella di Gesù, che parlava con un timbro umano quindi rapportata al loro udito limitato.

Mi sono chiesto perché gli apostoli furono presi da timore e credo che la risposta risieda nel fatto che capirono sia cosa fosse quella nube, sia che la voce di Dio aveva nelle sue corde il passato, il presente e il futuro oltre che la stesa eternità. Il loro timore fu provocato, come fu per altri che li avevano preceduti, dalla limitatezza che ogni essere umano ha a prescindere perché di fronte alla perfezione e alla santità di YHWH nessuna imperfezione può esistere. La paura che sorse provenne da questo e Gesù dovette fare due cose per risollevare quelle persone impaurite, toccarli e parlare loro dicendo di non temere, rivelandosi ancora una volta come tramite fra la potenza e l’infinito assoluto del Padre e l’uomo. Perché dove interviene Nostro Signore non esiste più timore, né angoscia, né soprattutto l’ignoto e lo fa “toccando”, dimostrando la propria identità corporea, e parlando, la via più diretta per la comunicazione, per lo meno in quel caso.

Abbiamo infine la proibizione al parlare a chiunque di quanto avevano ascoltato e visto, se non dopo la Sua resurrezione, cioè quando lo Spirito Santo avrebbe consentito la comprensione di quell’evento, anch’esso avvenuto perché il Signore non ha lasciato nulla, “neppure uno iota” perché l’essere umano da Lui salvato rimanesse privo di elementi per la propria salvezza e cammino. Amen.

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11.21 – LA TRASFIGURAZIONE II/II (Matteo 17.2)

11.21 – La trasfigurazione II: connessioni  (Matteo 17. 2)

 

 2E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce”.

 

Prima di affrontare quanto narrato dai sinottici sulla trasfigurazione, vanno ricordate le circostanze precedenti l’episodio, avvenuto di notte, quando Pietro, Giacomo e Giovanni giunsero stremati su quella che era probabilmente la cima maggiore dell’Hermon, a 2.815 metri. Sappiamo che Luca ha aggiunto un particolare, “Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui”. Vi fu dunque qualcuno dei tre che nonostante la stanchezza era in dormiveglia, stante il fatto che, sempre Luca, al verso 29 scrive “Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante”: se non ci fosse stato almeno un testimone oculare, quel “mentre” non avrebbe senso. Uno di loro, probabilmente due secondo la Legge, fu allora testimone della progressività dell’evento. Matteo scrive che “Il suo volto brillò come il sole”, l’unica parola a sua disposizione per fare un paragone con quanto visto.

Anche Giovanni, cercando di descrivere il volto del Cristo glorificato in Apocalisse 1, riporta “Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro. I capelli del suo capo erano candidi, simili a lana candida come neve. (…) e il suo volto era come il sole quando splende in tutta la sua forza” (vv.12-16). Il sole, però, è anche un riferimento sottile a qualcosa di temporaneo, a sostegno del fatto che il paragone fatto è limitato, perché l’eternità sarà diversa: “Non vi sarà più notte, e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà. E regneranno nei secoli dei secoli” (22.5).

Possiamo anche fare queste quattro connessioni che troviamo nel libro dei Salmi: in 49.6 leggiamo “Molti dicono: Chi ci fa vedere il bene? Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto”, che comporta quel bene o prosperità spirituale che l’uomo ha assoluto bisogno di ricevere dopo essere stato spogliato, privato della comunione con Dio a causa del peccato di Adamo ed Eva.

Seconda connessione in Salmo 16.11: “Tu mi mostrerai il sentiero della vita; sazietà di ogni gioia è sul tuo volto; ogni diletto è nella tua destra in sempiterno”, dichiarazione profetica fatta propria da Gesù come Figlio dell’uomo che, posto nel sepolcro nuovo di Giuseppe d’Arimatea, sapeva che la morte non lo poteva trattenere. Dio, allora, si riserva la sovranità di salvare l’uomo per la sua parola e, con l’apparizione nelle nuvole, noi che abbiamo sperato in lui saremo trasformati in un batter d’occhio e lo vedremo nella sua realtà.

Terza, in Salmo 21.6: “Poiché tu lo ricolmi di benedizioni in perpetuo, lo riempi di gioia nella tua presenza. Contrariamente sarà per coloro che non avranno amato la sua apparizione, perché temeranno il suo giudizio”, verso che parla della vittoria che il Signore ha riportato sul peccato e sulla morte e del giudizio verso coloro che non si identificano in Lui.

Quarta ed ultima in Salmo 31.16: “Fa risplendere il tuo volto sul tuo servitore; salvami, per la tua benignità”, frase che ci accomuna, della quale ci possiamo appropriare a pieno titolo. La luce che brilla è per il “servitore” quella dello Spirito che guida, chiama  e richiama chi ha creduto in Lui.

 

Prima di esaminare un altro particolare, quello della veste di Nostro Signore, va fatta anche una precisazione sui tre testimoni dell’evento: è stato scritto nel capitolo precedente che Gesù scelse Pietro, Giacomo e Giovanni per salire con sé sul monte e della fatica che fecero, essendo uomini di lago o di pianura, ma non di montagna. Non erano abituati a quel tipo di fatica e per loro quella salita rappresentò sicuramente uno sforzo notevole, ma comunque alla loro portata perché altrimenti sarebbero stati scelti altri, che però non c’erano stante il fatto che erano loro i prescelti ad essere testimoni di quell’avvenimento. Gesù però non li costrinse a compiere un percorso che avrebbe comportato per loro un rischio – ad esempio – cardiaco o di altra natura. Camminarono patendo, ma anche sicuri, consapevoli chi era Colui che li guidava e che probabilmente li precedeva nel percorso. Credo che questo fatto possa essere messo in relazione, per ciò che riguarda il nostro cammino,  con quei carichi di pena o di responsabilità che ciascuno di noi porta e che può venire individuato nel fatto che “non siamo mai tentati oltre le nostre forze”. Ciò a meno che non sia un percorso in cui ci troviamo invischiati per la nostra defettibilità umana e incapacità di valutare correttamente situazioni destinate a sovrastarci e coprirci di sofferenza. Apriamo allora questa breve parentesi ricordando Proverbi 6.1-5: “Figlio mio, se hai garantito per il tuo prossimo, se hai dato la tua mano per un estraneo, se ti sei legato con ciò che hai detto e ti sei lasciato prendere dalle parole della tua bocca, figlio mio, fa’ così per liberartene; poiché sei caduto nelle mani del tuo prossimo, va’, gettati ai suoi piedi, importuna il tuo prossimo; non concedere sonno ai tuoi occhi né riposo alle tue palpebre, così potrai liberartene come la gazzella dal laccio, come un uccello nelle mani del cacciatore”. Anche qui è promesso l’intervento di Dio perché “Chi abita al riparo dell’Altissimo, passerà la notte all’ombra dell’Onnipotente. Io dico al Signore: «Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio in cui confido». Egli ti libererà dal laccio del cacciatore, dalle peste che distrugge” (Salmo 91.1-3).

A Pietro, Giacomo e Giovanni fu quindi chiesto uno sforzo che, nonostante la sua pesantezza, era alla loro portata e non si lamentarono; il testo dice soltanto che, giunti a destinazione, la loro stanchezza di manifestò con forza, facendoli addormentare, a differenza di Gesù che, mettendosi a pregare, ancora una volta si qualificò come loro punto di riferimento, oltre che garante delle loro vite. E qui ciascuno può fare le proprie considerazione sul cammino da lui percorso, sulle cose cui dà continuità e importanza, ma anche su come si caratterizzano i suoi passi: spediti, incerti, impacciati, ondivagamente, a scatti, variando il passo, a tentoni, responsabilmente o irresponsabilmente.

 

Ultimo elemento, almeno per quelle che sono le mie possibilità, è costituito dalla veste di Gesù, cronologicamente la terza delle sette da lui vestite nei Vangeli, che credo sia necessario esaminare, per quanto brevemente: la prima fu costituita dalle fasce con le quali fu avvolto, neonato, da Maria prima di porlo nella mangiatoia, avvenimento che ci parla della perfetta identità di Gesù, nella sua incarnazione, con l’uomo. Come tutti, venne al mondo, provò il trauma del passaggio dal ventre materno al mondo e pianse. L’autore della lettera agli Ebrei scrive “…entrando nel mondo, Cristo dice: «Tu non hai voluto sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato»” (10.4): un corpo “preparato” per una vita di luce, testimonianza, operosità e, infine, sacrificio come l’Agnello di Dio che non poteva che prendere su di sé “il peccato del mondo”.

La seconda veste fu la tunica che portava nei suoi viaggi e con la gente, il cui orlo fu toccato dalla donna emorroissa. Abbiamo parlato dei filatteri, per ricordarsi “tutti i miei comandi, li metterete in pratica e sarete santi per il vostro Dio”, “comandi” che furono interamente osservati da Gesù al punto che leggiamo “Ora il termine della Legge è Cristo, perché sia data giustizia a chiunque crede” (Romani 10.4).

Terza veste fu proprio quella della trasfigurazione in cui emerge per la prima volta il fatto che nessun abito avrebbe mai potuto trattenere né velare lo splendore della Sua gloria, visione che stiamo cercando di affrontare e che rimase impressa nel cuore e nella mente dei tre apostoli. E abbiamo visto che ne parlarono a distanza di anni istruendo la Chiesa.

Quarta veste fu quella del servizio, quando Gesù lavò i piedi dei discepoli, episodio che dobbiamo ancora affrontare, ma dal quale emerge la Sua benedizione e la carità. In proposito è scritto che “Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita” (Giovanni 13.3,4).

Quinta veste fu la tunica dell’innocenza, ma anche dello scherno quando “…anche Erode – Antipa – coi i suoi soldati, lo insultò, si fece beffe di lui, gli mise addosso una splendida veste e lo rimandò a Pilato” (Luca 23.11). Quando Pilato vide tornare Gesù, disse “Ecco, io l’ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in quest’uomo nessuna delle colpe di cui lo accusate, e neanche Erode: infatti ce l’ha rimandato”. Il termine “splendida veste”, che altri traducono “veste bianca”, colore non dell’innocenza come saremmo portati a supporre, ma dei re giudei. Anche la “splendida veste” ha comunque un significato analogo, vale a dire la derisione della persona di Gesù, che Erode vestì come lui.

Sesta fu la tunica di porpora che i soldati di Pilato, anche qui come scherno, gli misero addosso prima di percuoterlo: se Erode Antipa lo aveva vestito di bianco, o “splendidamente” alludendo ai re, i romani fecero lo stesso a modo loro, ad imitazione della porpora imperiale, mettendogli in mano una canna a simboleggiare lo scettro e una corona di spine ad imitazione della corona.

Settima veste furono i teli coi quali Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo avvolsero il corpo di Gesù prima di coprirlo con un lenzuolo nuovo, nell’altrettanto  nuovo sepolcro di Giuseppe: “Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme agli aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura. Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato posto” (Giovanni 19.40,41). Matteo parla di Giuseppe che, con Nicodemo “lo avvolsero in un lenzuolo nuovo” – non “pulito” come altri traducono – e lo depose nel suo sepolcro nuovo, che si era fatto scavare nella roccia” (27.59,60). Per Marco, Giuseppe, “comprato un lenzuolo, lo depose dalla croce, lo avvolse con il lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia” (15.46).

Ognuna di queste vesti, qui brevemente accennate, ha un suo significato, ma quella di Gesù nella trasfigurazione ci parla di presente e di eternità futura: Egli, da Figlio dell’uomo, quindi nell’esteriore in tutto simile a noi, s’illumina – Lui sì – d’immenso visibile ai tre apostoli. Sappiamo che subito dopo appaiono Mosè ed Elia a conversare con Lui, ma senza possedere le caratteristiche di luce di Gesù, venendosi così a stabilire una sorta di scala gerarchica, pur in un confronto denso di significati che esamineremo nel prossimo capitolo.

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11.20 – LA TRASFIGURAZIONE I/III (Matteo 17.1,2)

11.20 – La trasfigurazione I/III (Matteo 17. 1,2)

 

 1Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. 2E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. 

 

È giusto portare la nostra attenzione sullo spazio temporale intercorso tra le parole di Gesù rivolte ai presenti sulle implicazioni del discepolato e l’episodio della trasfigurazione, “sei giorni” secondo Matteo e Marco, “circa otto giorni” secondo Luca dove quel “circa” non esclude il “sei” degli altri due che lo indicano con sicurezza. Essendo Matteo e Pietro presenti, possiamo quindi prendere come esatta la cifra da loro indicata.

Riferendoci ai significati del numero sei esposti in un precedente capitolo, possiamo fare gli stessi collegamenti, aggiungendo però un’applicazione specifica: tanto i discepoli che il loro Maestro stavano vivendo un tempo nuovo, quello dell’istruzione specificamente dedicata alla Sua morte, che prima non era stata affrontata. Ecco allora che quei “sei giorni”, in cui non sappiamo cosa avvenne, possono essere paragonati a quelli della creazione in cui Iddio, “giorno dopo giorno” costituisce i presupposti per la realizzazione di qualcosa che prima non c’era: non si trattò di rendere i discepoli testimoni di miracoli e guarigioni, di aggiornare la conoscenza imperfetta che avevano delle Scritture, ma di entrare nella Sua Identità di Figlio di Dio che avrebbe dovuto “soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e dopo tre giorni risorgere” (Marco 8.31). Accanto al significato profondo di questa morte, pensiamo che Giuda, che aveva già in animo di tradire il suo Maestro, si ritenne autorizzato ad agire con un ragionamento assolutamente basso, del tipo “Se deve morire, tanto vale che io contribuisca a questo, guadagnando del denaro”.

Ai discepoli, una volta compreso che Gesù era “il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente” furono allora impartiti insegnamenti particolari che nessuno riportò, tranne pochi cenni come quelli di Marco 8.31 che abbiamo appena letto. È ancora Marco, ad esempio, a scrivere le dirette parole di Gesù: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, risorgerà” (9.31). Possiamo, riguardo al silenzio dei Vangeli su quanto avvenuto nei “sei giorni”, fare una connessione a quanto si sentì dire l’apostolo Giovanni in Apocalisse 10.4: “Dopo che i sette tuoni ebbero fatto udire la loro voce, io ero pronto a scrivere, quando udii un voce dal cielo che diceva: «Metti sotto sigillo quello che hanno detto i sette tuoni e non scriverlo».

Quei sei giorni di istruzione, quindi, si conclusero, o “iniziarono” nuovamente, con la manifestazione di Gesù trasfigurato alla quale ebbero il privilegio di assistere Pietro, Giacomo e Giovanni, i testimoni più attendibili sui quale Nostro Signore poteva contare, come prescritto dalla legge che richiedeva, perché un fatto fosse accettato come vero, la parola di “due o tre testimoni”, lo stesso numero perché una Chiesa sia formata. È allora probabile che Luca, visto che la trasfigurazione avvenne solo una volta e in un momento preciso, abbia utilizzato il numero otto – ci parla di “otto giorni dopo” – perché indice di un periodo nuovo: i discepoli avrebbero dovuto iniziare ad avere una visione sempre più dettagliata di Gesù che proprio da lì iniziò ad ampliarsi, a prescindere dall’ordine “Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo sia risorto dai morti”. Pietro, Giovanni e Giacomo, erano stati comunque presenti. Certo, ad accettare che il loro Maestro sarebbe morto e poi risorto ci volle molto tempo.

I tre Apostoli furono condotti “in disparte”, espressione che allude sempre a un fatto privato, a un discorso, all’espressione di uno stato d’animo o un avvenimento cui persone estranee non devono assistere perché a nulla gioverebbe, non lo capirebbero, non lo saprebbero valutare. “Su un alto monte”, poi, pur parlandoci di un percorso di fatica, simbolo anche di un percorso spirituale, attesta la completa fiducia che riposero il Lui i tre discepoli, che accettarono di affrontare quella saluta senza chiedergli nulla, forse soltanto informati del fatto che lo scopo di recarsi là era di pregare. Ricordiamo che quel monte fu l’Hermon, non il Tabor come molti hanno sostenuto, formato da tre cime – numero certamente non casuale – la più alta delle quali raggiunge i 2.800 metri circa, sicuramente tanti calcolando che, sei giorni prima, Gesù e i suoi si trovavano nella zona di Cesarea, che si trova alle prime pendici di quel monte. Gente di lago, tutt’al più di pianura, si trovò così nella necessità di affrontare un percorso di montagna che fu sicuramente lungo e faticoso, come avvenne per Mosè, quando salì sul monte Horeb per ricevere le tavole della Legge; ricordiamo Esodo 24.13 “Il Signore disse a Mosè: «Sali, verso di me sul monte e rimani lassù: io ti darò le tavole di pietra, la legge e i comandamenti che io ho scritto per istruirli»”. Anche in questo caso abbiamo una fatica, ma doppia perché quando Mosè scese, portava le tavole di pietra scritte dal dito di Dio.

Nostro Signore quindi salì sul monte con uno scopo preciso: Luca scrive “per pregare” (9.28) quindi è probabile che fu quello il motivo che spinse i tre discepoli a seguire Gesù e forse avvertirono meno la fatica del percorso, certi che avrebbero imparato per lo meno qualcosa; ricordiamo infatti la loro richiesta, “Signore, insegnaci a pregare”, sgorgata spontaneamente dai loro cuori quando videro il loro Maestro intento nell’orazione. Luca 11.1: “Gesù si trovava in un luogo a pregare. Quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli»”.

A questo punto è facile supporre quanto avvenne una volta arrivati: Gesù lascia i suoi tre testimoni e si scosta da loro qualche metro, come farà anche nel Getsemani: lì lasciò gli altri discepoli in un luogo scostandosi poi con Pietro, Giovanni e Giacomo, per poi andare da solo “un poco più avanti” (Matteo 26.39) dopo aver detto loro “restate qui, e vegliate con me” (v.41). Anche qui, nell’episodio della trasfigurazione come al Gestemani, abbiamo la stanchezza che s’impossessò di Pietro, Giovanni e Giacomo; Luca scrive “Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno” (9.32).

Mi sono chiesto quale fu, o furono, il soggetto/i della preghiera di Gesù sul monte: pur non avendo la pretesa di elencarli tutti, certo Nostro Signore presentò al Padre i discepoli e le Sue imminenti sofferenze perché, certo solo come uomo, si sentiva prigioniero del tempo che si avvicinava inesorabilmente verso la croce. Un Dio perfetto scelse volontariamente di vivere prigioniero in un corpo umano. E qui vediamo il confitto che provò tra l’essere uomo e l’essere Dio: è qualcosa di enormemente grande il fatto che come Dio potesse ogni cosa, ma come uomo fosse subordinato al Padre di cui cercava continuamente la comunione.

È a questo punto che avviene qualcosa di spiazzante, totalmente diverso dal sudare sangue che si verificherà da lì a un anno circa: qui “il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce”, Marco aggiunge “bianchissime, nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche” (9.3).

La trasfigurazione di Nostro Signore fu questa e tutto converge su due punti basilari: primo, Gesù è il nuovo Mosè descritto in quel passo già citato “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me – nell’esteriore –; a lui darete ascolto”; secondo, abbiamo una descrizione simile a quella riportata in Daniele 7.13-15: “Guardando nelle visioni notturne ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno simile a un figlio dell’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno che non tramonta mai e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto”.  Gesù si trasfigura non in una maschera di morte, ma nella luce, nella Vita assoluta e soprattutto potente e gloriosa. Quello che i tre discepoli videro, non era un uomo incamminato verso Gerusalemme per morire, ma appunto il Signore che avrebbe vinto la morte nell’attesa di sedere alla destra del Padre, Unico a poter aprire il libro della vita.

Ecco perché, idealmente assieme ai tre apostoli, ci troviamo di fronte a qualcosa che ribalta profondamente, da un punto di vista umano, il concetto del Cristo che sta per essere condannato a morte, quindi provando orrore e tristezza: Gesù va incontro ad essa sapendo che le sofferenze che gli verranno inflitte, anziché preludere alla fine, costituiranno il veicolo verso la Gloria definitiva e solo dopo averla acquisita verrà definito “il primogenito di molti fratelli”. Come anticipato poco prima a proposito dell’ “otto” citato da Luca, la trasfigurazione va letta non come punto di arrivo, ma come un anticipo, un accenno del futuro e la via da percorrere doveva essere la croce, non altre. Scrive un fratello: ”La trasfigurazione non è il segno conclusivo né per Gesù, né per i discepoli: da questo momento in poi la narrazione evangelica non descriverà più momenti come questo, ma scorrerà senza intoppi verso la croce”.

La trasfigurazione, al di là di questi significati, ebbe però uno scopo, cioè quello di formare i tre sui quali Gesù faceva affidamento nel senso che a loro affiderà la costruzione della prima Chiesa. Se molto sappiamo di Pietro e Giovanni, non possiamo non attribuire anche a Giacomo un ruolo determinante perché fu il primo dei dodici a subire il martirio sotto Erode Agrippa nell’anno 44, alcuni dicono al ritorno da un viaggio in Spagna dove si era recato a portare il Vangelo, ma questo è attestato da fonti del 600 (Isidoro di Siviglia) e da due del 1600, per questo poco credibili (Maria di Ágreda e Anna Katarina Emmerick). La morte di Giacomo, a parte l’indubbio dolore per la perdita nelle Comunità cristiane, fu un esempio da un lato e dall’altro stravolse il principio in base al quale davanti a Dio esista una scala di preferenze per cui tanto più si è vicini a lui, quanto più si è protetti nel senso umano del termine. Il problema è che la sofferenza è l’unico modo per acquistarsi un premio, e questo vale per tutti, in un modo o in un altro, perché corpo e anima si muovono su percorsi diversi, anche se spesso paralleli.

Per certo quello della trasfigurazione fu un episodio che Pietro e Giovanni compresero molto bene quando diventarono portatori della Parola di Dio al mondo; il primo, nella sua seconda lettera, riporta le parole udite proprio in quella circostanza: “Egli ricevette onore e gloria da Dio Padre quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: «Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento». Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte” (1.17.18.

Giovanni, invece, lascia traccia anche di questo episodio quando afferma in 1.14 “Noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come unigenito dal Padre”, o ancora nella sua prima lettera in 1.1-3 quando scrive “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, (…) quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi state in comunione con noi”.

Così parlarono questi due testimoni del nostro episodio, una volta che fu compreso, a tal punto che furono in grado di istruire perfettamente e senza esitazioni coloro che si univano alla Chiesa, risollevando vite affaticate, stremate dal peccato, che altro non è se non il vivere lontani da Dio, in modo deliberato o perché affetti da una forma di cecità dalla quale, volendolo, si può sempre guarire.

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11.19 – RENDERÀ A CIASCUNO SECONDO LE LORO AZIONI II/II (Matteo 16.27.28)

11.19 – Renderà a ciascuno II (Matteo 16. 27,28)

 

 27Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni28In verità io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver visto venire il Figlio dell’uomo con il suo regno».

Il tema del rendiconto, cioè quel momento in cui l’uomo dovrà rispondere delle sue azioni, è stato accennato diverse volte nel corso di questa serie di studi. Gesù lo ha presentato anche attraverso le parabole, cioè quei messaggi figurati studiati appositamente perché rimanessero nella mente delle persone semplici molto meglio dei discorsi dedicati a chi della Legge e degli altri scritti aveva una conoscenza più approfondita. Qui, dopo aver parlato di rinnegamento di sé, di fare attenzione a come si considera la propria vita, della necessità di appartenergli perché altrimenti non avremmo nulla da dare in cambio per la nostra salvezza, ecco presentarci il motivo di tutta questa serie di esortazioni: la venuta del “Figlio dell’uomo nella gloria del Padre suo” è imminente. “Sta per venire” e “verrà” sono i modi con cui l’espressione originale è tradotta ed è da sottolineare che Gesù, allora sottomesso come tutti gli uomini anche allo scorrere del tempo, qui si apre ad una visione che gli appartiene come Dio. E qui l’apostolo Pietro, spinto dallo Spirito Santo, scrive “Carissimi, c’è una cosa che non dovete dimenticare: per il Signore, lo spazio di un giorno è come mille anni e mille anni sono come un giorno solo. Il Signore non ritarda a compiere la sua promessa: alcuni pensano che sia in ritardo, ma non è vero. Piuttosto egli è paziente con voi, perché vuole che nessuno di voi si perda e che tutti abbiate la possibilità di cambiare vita. Il giorno del Signore verrà all’improvviso, come un ladro. Allora i cieli spariranno con grande fracasso, gli astri del cielo saranno distrutti dal calore e la terra, con tutto ciò che essa contiene, cesserà di esistere” (1 Pietro 3.1-10).

A parte che questi versi aprono varie prospettive sulle quali torneremo, è la proporzione tra i “mille anni” e “un giorno” a dirci che qui Gesù parla come Dio all’uomo, per cui non possiamo aspettarci un avvenimento imminente secondo il nostro metro valutativo e soprattutto in base quell’istinto che ci spinge a considerare procedente in un tempo misurabile ciò che il Signore classifica come “breve”. E infatti per questo abbiamo letto “Il Signore non ritarda a compiere l’adempimento della sua promessa, come alcuni credono”.

Su questo “Sta per venire”, o “verrà”, possono valere le stesse considerazioni fatte quando Nostro Signore operò una rilevante distinzione fra “L’ora viene, ed è questa, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata vivranno”, e “Viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno” (Giovanni 5.25-28) in cui due periodi per noi distanti nel tempo vengono da Lui divisi dalla specificazione “ed è questa”, ma utilizzando lo stesso tempo, al presente. Una cosa sono i nostri tempi, un’altra i Suoi.

Studiando i versi in esame occorre distinguere il 27 dal 28, poiché il termine “regno” implica la presenza di più significati. “Il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà conto a ciascuno secondo le sue azioni” si riferisce all’ultima fase della storia umana, quando avranno avuto fine tutti gli eventi che caratterizzeranno il periodo dato all’umanità per salvarsi tra cui vengono annoverati, oltre alla Grazia e il rapimento della Chiesa, la Gran Tribolazione e il Millennio. Gesù, che qui non parla di questi eventi, va dritto al nocciolo della questione visto nel giudizio finale, chiaramente collegato alla retribuzione, al “rendere a ciascuno secondo le sue opere”, principio noto dai tempi antichi quando Salomone, in Proverbi 24.12 scrive “Se tu dicessi: «Io non lo sapevo», credi che non l’intenda colui che pesa i cuori? Colui che veglia sulla tua vita lo sa; egli renderà a ciascuno secondo le sue opere”.

Ora è stato detto da molti, me compreso, che gli uomini dell’Antico Patto potevano constatare la maledizione o benedizione su di loro in base alla qualità di vita, per cui la presenza di malattie era sintomo di un peccato, così come la prosperità rivelava loro il premio per l’osservanza alla Sua Legge; eppure, qui abbiamo la conferma che il verbo “rendere” espresso al futuro non si riferisce necessariamente a qualcosa di immediato, come la diretta constatazione dell’essere benedetti. È un futuro che riguarda l’anima. Da sottolineare anche il vegliare di Dio sull’uomo perché “Io, il Signore, scruto la mente e saggio i cuori, per dare a ciascuno secondo la sua condotta, secondo il frutto delle sue azioni” (Geremia 17.10): qui il Signore va oltre a ciò che facciamo, ma ne guarda il “frutto” con gli occhi della Sua Santità e Onniscienza. Stessa cosa in 32.19 in cui Geremia parla degli occhi di Dio “aperti su tutte le vie degli uomini, per dare a ciascuno secondo la sua condotta”, ancora “secondo il frutto delle sue azioni”, per cui quando Gesù parla di un rendiconto futuro sa bene di essere capito. Teniamo anche presente che gli Autori dei Vangeli scrivono un riassunto anche dei discorsi fatti alle persone sapendo che, attraverso lo Spirito Santo, sarebbero stati compresi dai loro lettori.

Nel Nuovo Patto il principio del rendiconto non viene ampliato come in molti casi, ma confermato perché l’uomo rimane sempre lo stesso: lo vediamo dal comportamento crudele e prevaricatore che ha in guerra, sempre lo stesso nonostante passino gli anni a migliaia, nel giudicare frettolosamente, nel compiere sempre le stesse trasgressioni davanti a Dio. Se c’è un progresso, questo è tecnologico, mai interiore. Ecco perché “Tu, con il tuo cuore duro e ostinato, accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusti giudizio di Dio, che renderà a ciascuno secondo le sue opere – stesse parole rivolte agli antichi -: la vita eterna a coloro che, perseverando nelle opere di bene, cercano gloria, onore, incorruttibilità; ira e sdegno contro coloro che, per ribellione, disobbediscono alla verità e obbediscono all’ingiustizia” (Romani 2.6), dove “cercare”, “disobbedire” e “obbedire” sono i cardini di tutto il discorso.

Per fugare ogni dubbio va precisato che esiste un giudizio di Dio che sarà rivolto agli uomini che non lo avranno posto nelle condizioni di agire perché a lui “ribelli”, ma che non riguarderà i credenti, poiché – parole di Gesù – “chi ascolta la mia parola e crede in Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.24). Questo però non esime dal comparire “davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno – perché individuale è il messaggio di Dio come individuale la risposta – la ricompensa dalle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male” (2 Corinti 5.10). Questo è imbarazzante per quelli che predicano unicamente la salvezza di chi crede vedendo il cristiano come un privilegiato dall’amore di Dio, fatto indubbio, ma a scapito delle responsabilità che occupa come tale. È un ripetersi della dottrina che alcuni predicavano nella Chiesa di Corinto.

In pratica, ogni credente scamperà al Giudizio, perché “passato dalla morte alla vita”, come descritto in 2 Tessalonicesi 1.7-9: “…quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo, insieme agli angeli della sua potenza, con fuoco ardente, per punire quelli che non riconoscono Dio e quelli che non obbediscono al vangelo del Signore nostro Gesù. Essi saranno castigati con una rovina eterna, lontano dal volto del Signore – che è calore e luce – e dalla sua gloriosa potenza. In quel giorno egli verrà per essere glorificato dai suoi santi ed essere riconosciuto mirabile da tutti quelli che avranno creduto, perché è stata accolta la nostra testimonianza in mezzo a voi”.

Ma c’è di più, come leggiamo nel libro dell’Apocalisse: in tutte le lettere alle sette chiese si leggono elogi e rimproveri, ma a tutte loro, quindi a ogni cristiano, viene detto “Ecco, io vengo presto – ecco perché “il Figlio dell’uomo sa per venire” – e ho con me il mio salario per rendere a ciascuno secondo le sue opere” (22.12): di qui la responsabilità che abbiamo, correlata a quel verso più volte ricordato in base al quale “il fuoco darà la prova dell’opera di ciascuno”, cioè il passaggio di tutto ciò che abbiamo fatto attraverso la visione di Colui che ha “gli occhi di fuoco”, Gesù Cristo glorificato e il solo ad avere diritto di valutazione sull’operato dei credenti.

 

Tutte queste parole sono e furono considerate dagli uomini, quindi allora come oggi, solo come teoriche e per questo il verso successivo fornisce un elemento fonte di accurata meditazione: “In verità io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver visto venire il Figlio dell’uomo con il suo regno”. Qui purtroppo la traduzione è errata perché non si tratta di “con il suo”, ma “nel suo”, dove Luca precisa per i non ebrei “prima di aver visto il regno di Dio”: è un verso che ha fatto inciampare molti che hanno sostenutoo che qui non è stato detto il vero, fraintendendo il regno di Dio con il ritorno di Gesù per giudicare. “Vedere il regno” ha qui il significato delle Sue manifestazioni a prescindere dal tipo, perché sono multiformi, ma va precisato che la traduzione del verso 28 “con il suo regno” è frutto di interpretazione.

In proposito ricordiamo le parole di Gesù in Matteo 12.28: “Ma se io scaccio i demòni per mezzo dello Spirito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio”. Se allora l’espressione “regno di Dio” comprende molte realtà, qui abbiamo un riferimento alla Sua resurrezione, con la relativa ascensione con la quale Nostro Signore abbandonò questa terra perché ogni cosa era stata compiuta e adempiuta per la salvezza dell’uomo, ma anche alle altri avvenimenti, come tutto ciò che caratterizzò la Sua morte, e qui possiamo pensare sicuramente all’oscurità che cadde sulla terra, al terremoto, alla resurrezione di molti, ma soprattutto alla cortina del tempio che si crepò in due lasciando aperta la visione del luogo santissimo, a conferma dell’abolizione del Vecchio Patto con il popolo di Israele. Ancora, pensiamo alla discesa dello Spirito Santo sui centoventi e alla distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio ad opera delle truppe romane di Tito, avvenuta nel 70 d.C.

C’è anche però un altro riferimento, molto più immediato, che quanto avverrà davvero “a breve” secondo il metro umano, ed è quello alla trasfigurazione di Gesù, evento al quale Pietro, Giacomo e Giovanni avranno il privilegio di essere testimoni, che sii verificherà sei giorni dopo queste parole.

Ecco allora che le parole di Gesù qui esaminate ci parlano dell’assoluta necessità di recepirle: a un avvenimento allora lontano del rendiconto così come espresso al verso 27, ne fa da contrappunto un altro, quello del “Figlio dell’Uomo venire nel suo regno” a garanzia del primo, qui enunciato, che ogni vero cristiano attende.

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11.18 – RENDERÀ A CIASCUNO SECONDO LE LORO AZIONI I/II (Matteo 16.27,28)

11.18 – Renderà a ciascuno I, riassunto (Matteo 16. 27,28)

 

 27Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni28In verità io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver visto venire il Figlio dell’uomo con il suo regno».

            Purtroppo la necessità di approfondire le parole di Gesù, nonostante la limitatezza dello spazio e della comprensione umana, ha fatto sì che il Suo discorso sia stato spezzato in più capitoli. Riassumiamo allora brevemente quando da Lui detto finora, dapprima chiama i presenti e parla tanto a chi lo seguiva quando a chi lo voleva fare avvertendoli che avrebbero dovuto rinnegare loro stessi ed essere disposti a perdere la loro vita; dopo di che invita tutti a riflettere sul fatto che il guadagnare “il mondo intero” non avrebbe avuto alcun senso a fronte della morte, inevitabile.

La vita, infatti, assume un significato diverso a seconda di come l’uomo si colloca di fronte a lei e agli interessi che lo spingono ad agire: una vita vissuta orizzontalmente provoca una tensione e mobilità verso tutto ciò che è terreno; chi ha questo in sé sarà quindi portato ad agire in funzione della sua sopravvivenza “fisica” entrando in un circuito mentale, quindi dell’anima, descritto in Proverbi 30.16: “La sanguisuga ha due figlie: «Dammi! Dammi!». Tre cose non si saziano mai, anzi quattro non dicono mai «Basta!»: il regno dei morti, il grembo sterile, la terra mai sazia d’acqua, e il fuoco che mai dice »Basta!»”.

È importante l’animale scelto da Agur, autore del capitolo 30: la sanguisuga, anellide che, quando succhia il sangue, produce un potente anticoagulante e un anestetico per poter meglio ingerire il sangue e impedire alla vittima di provare dolore. La sanguisuga è caratterizzata da una grande voracità al punto che riesce a conservare notevoli quantità di sangue nel suo tubo digerente ed è in grado di resistere anche per un anno senza nutrirsi. Si può dire che, figurativamente, essa è l’immagine dell’assorbimento indolore e continuo della vita, qui raffigurata nel sangue. Essa ha due figlie, “Dammi! Dammi!” che chiaramente si riferisce ai desideri che non saziano mai e che qui Agur spiega all’uomo, preda di essi senza che se ne accorga: l’autocritica, o l’autoesame per risolvere, è qualcosa che si rifugge, pervenendo ad uno stato in cui si è preda continua dei propri desideri. Ed il paragone poi passa alle “tre cose”, “anzi quattro” perché tale è il numero dell’uomo, che “non si saziano mai”, con riferimento alla terra sulla quale viviamo e dalla quale traiamo la nostra esperienza.

Abbiamo allora “il regno dei morti”, qui visto come il luogo in cui vanno tutti gli uomini secondo la visione sapienziale, “il grembo sterile”, cioè la mancata rassegnazione della donna che vuole avere figli e non accetta la sua condizione e per riflesso l’uomo che non accetta fallimenti ai suoi progetti, “la terra mai sazia d’acqua” e “il fuoco”: in questo caso vengono presentati due elementi opposti, incompatibili fra loro, ma ugualmente ingordi con la differenza che il primo ha bisogno di regolarità – perché gli effetti delle alluvioni sono ben noti – e il secondo non si ferma mai nella sua opera distruttrice.

Ora questi versi descrivono la vita terrena e l’avidità cui questa naturalmente porta; poco importa se vi siano persone che non manifestino chiaramente ossessività e compulsività perché, di fatto, ciascuno ha uno spazio al quale non è disposto a rinunciare ed è quello di cui Gesù parla utilizzando i termini “rinunzi a se stesso”“propria vita”.

“Guadagnare il mondo intero” è un’espressione che allude chiaramente ad un ipotetico punto di arrivo di un imperatore, e non può non venire in mente Carlo V d’Asburgo che disse “Sul mio regno non tramonta mai il sole”. Gesù quindi non solo vuol dire che “Guadagnare il mondo intero” non serve a nulla se poi lo si perde con la morte e il terrore di essa affrontando poi un’eternità negativa, ma anche come si può giungere a un punto d’arrivo in cui la fame e sete di possesso non potrebbe andare oltre perché si avrebbe già tutto. L’essere ingordi quindi conoscerebbe un termine in ogni caso, con la morte o con l’arrivare a possedere tutto il mondo, ma non per questo la sete di avere finirebbe. L’orizzontalità della vita è destinata comunque a finire.

C’è poi una domanda, rivolta a tutti i presenti ma anche a tutti quelli che leggono queste parole: “Che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?”. È un invito a rispondere, ma per quanto uno possa pensare, non troverà mai il modo di farlo adeguatamente perché fu la stessa che venne rivolta, in modo indiretto, al “ricco stolto” dell’omonima parabola quando leggiamo “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” (Luca 12.20). Quell’uomo rimase muto perché obiettivamente tutto quello che avrebbe potuto dare in cambio perché il tempo del “rendiconto” fosse procrastinato, ammesso che Dio fosse un mercante, non avrebbe avuto per Lui alcun valore.

Mi sono chiesto il perché di questo “nulla da dare in cambio” e non ho trovato altra risposta se non andare al libro della Genesi, quando vediamo il Creatore, dare una vita perfetta infondendola ad Adamo, collocato in un recinto costruito perché si sentisse protetto. Adamo, e poi sua moglie, erano esseri che a differenza di noi potevano vederlo e parlargli, vivendo quell’autonomia di compiti che erano propri a ciascuno di loro e che trovavano in Eden un punto di intersezione. Adamo, e poi sua moglie, avevano da dare a Dio “in cambio”  il lavoro gioioso nel Giardino e il loro esistere in un reciproco rapporto di amore che si sviluppava nell’innocenza.

Una volta che tutto quell’equilibrio si ruppe, e che nulla fu come prima, Adamo e la sua discendenza non avrebbero potuto dare in cambio proprio nulla se non – attenzione – una costanza di pensieri a Lui rivolti, trovandosi debitori comunque in un rapporto che certo non era più alla pari come un tempo. “Dare a Dio” fu ciò che fece Abele come secondogenito, fatto che lascia stupiti in quanto la benedizione apparteneva al primo figlio. Possiamo ipotizzare che Caino ricevette l’influsso orgoglioso della madre, che lo chiamò infatti “Acquisto”, dal quale si aspettava che fosse lui a schiacciare il capo al serpente per poter tornare quella di prima.

Abele, invece, fu quello che si poneva dei problemi, delle domande, occupandosi di pecore mentre il fratello lavorava la terra, due attività che dicono molto sulle attitudini di entrambi. Mentre il primo tendeva a Dio offrendogli in sacrificio la parte migliore dei suoi animali, “primogeniti del suo gregge e il loro grasso”, Caino non è detto che facesse altrettanto coi prodotti del suo raccolto, già sbagliando in partenza perché era il sacrificio dell’innocente ad avere valore e non i frutti della terra.

Abele non pensava di “dare a Dio qualcosa in cambio”, ma gli premeva manifestare a Lui il proprio timore e la riconoscenza perché, nonostante la condanna ai suoi genitori da lui ereditata, provava gratitudine e ossequio, per cui fu ricambiato: “Il Signore gradì Abele e la sua offerta” (Genesi 4.3). Abele sapeva, ai fini del suo esistere, di non avere nulla da offrire, ma da manifestare cercando un contatto sicuramente sì, e questo era la disposizione del cuore, cosciente che senza la benedizione di Dio non avrebbe concluso assolutamente nulla e rinunciava al suo, visto nei primogeniti e nel grasso degli agnelli.

Gli uomini che gli successero, fecero altrettanto e così sappiamo che si crearono due generazioni che si svilupparono in perenne lotta fra loro, quella degli uomini di Dio e quella dei loro avversari. Anch’essi non avevano nulla da dare in cambio, salvo l’orientamento della loro vita e dei loro pensieri e non uno di loro non fu premiato, ponendosi così automaticamente nell’avere aperto davanti al Creatore un “conto di giustizia” nonostante giusti non lo fossero: scelsero la via del bene, quella “della benedizione” al posto dell’altra, “della maledizione” e così vissero, dando a Dio quanto potevano nonostante sapessero che nulla sarebbe stato mai sufficiente a colmare la distanza tra loro e YHWH. Ma agirono con fede, a tal punto che Dio arrivò a chiamare Abrahamo “mio amico” in Isaia 41.8: “Ma tu, Israele, mio servo, tu Giacobbe, che ho scelto, discendente di Abrahamo, mio amico”, parole che mi fanno rabbrividire ogni volta che le leggo per l’amore e il rapporto che sottintendono, per la profonda imperfezione che si compensa nelle perfezioni di Dio, che guarda all’uomo solo perché pone in lui la fede.

Ecco allora che, da questi passi che ho volutamente scelto dall’Antico Patto per rimarcare ancora di più il concetto dello sviluppo della relazione con l’Eterno Iddio, appare chiaro come sia la fede l’unica cosa che abbiamo da dare a Lui in cambio, riconoscendolo come unico riferimento di vita.

Dal Nuovo Patto in poi, però, l’amore di Dio che già contemplava il sacrificio del Suo Agnello “fin dalla fondazione del mondo”, ha squarciato definitivamente il velo dell’ignoranza giungendo al suo massimo punto di espressione, cioè dando il Figlio in sacrificio per tutti quelli che avrebbero voluto appropriarsene, aggrappandosi ad esso. Chi crede nel Figlio, “pane disceso dal cielo”, sarà “simile a Lui” perché “noi siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che, quando si sarà manifestato – e qui vengono chiamati in causa i versi che esamineremo e che abbiamo letto all’inizio – noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1 Giovanni 3.2).

Sempre Giovanni scrive, in un verso a noi noto, che “Iddio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito perché chiunque creda in lui non vada perduto, ma abbia vita eterna” (3.16) per cui ecco che, pur non avendo nulla da “dare in cambio”, c’è quel “creda in lui” che implica quel “dare in cambio” non nostro, ma acquisito perché in noi “non abita alcun bene”.

La domanda di Gesù “Cosa un uomo potrà dare in cambio per la propria vita?” ha come risposta “nulla”, se non il fatto di appartenergli. Non “alla notte, né alle tenebre” (1 Tessalonicesi 5.5), ma “al giorno” (v.8) perché, come in Romani 8.39, “né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore”. E “Cosa mi dai in cambio?” è una domanda che non verrà rivolta a nessun credente. Amen.

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11.17 – CHI VUOL SALVARE LA PROPRIA VITA, LA PERDERÀ (Matteo16.25,20)

11.17 – Chi vuol salvare la sua vita (Matteo 16. 25,26)

 

 25Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. 26Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? 

            Siamo qui al seguito del discorso di Gesù dopo le parole su cui abbiamo cercato di meditare nei due capitoli precedenti, relative alla necessità di prendere ciascuno la propria croce, e seguirlo. Dopo questa massima, vengono esposte le ragioni: chi avrà soluto salvare la propria vita, la perderà, ma chi l’avrà persa per causa Sua, la troverà. “Volere”, “salvare” e “perdere” sono allora i tre perni attorno ai quali ruota il principio espresso da Nostro Signore. Il primo è un verbo che significa “Tendere con decisione, o anche soltanto con il desiderio, a fare o conseguire qualcosa”. Quando è seguito da un verbo all’infinito, come in questo caso, esprime per lo più la tendenza a conseguire, o la determinazione a fare qualcosa. Voler “salvare la propria vita” è quasi un’azione obbligata perché tutti tendono a questo: sottrarsi a un pericolo, a un danno che, in questo caso, si riferisce chiaramente alla morte.

Una prima lettura del testo è quindi quella letterale, rivolta nella prospettiva a quanti saranno uccisi per la loro testimonianza alla Parola di Dio: ricordiamo Stefano e l’apostolo Giacomo, fratello di Giovanni, il primo dei Dodici a venire ucciso per mano di Erode Agrippa I, come leggiamo in Atti 12.1-3, “In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa. Fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni. Vedendo che ciò era gradito ai giudei, fece arrestare anche Pietro”.

Sono personalmente convinto che il senso del verso 25 sia quello che ho riportato, ma poiché la Scrittura parla a tutti gli uomini indipendentemente dall’epoca nella quale vivono, è giusto sottolineare che, se per noi europei la persecuzione contro i cristiani non è per ora in atto, per lo meno non in modo dichiaratamente violento, questa esiste in molti Paesi del pianeta. Nel corso della storia i cristiani morti per la loro fede sono stimati in circa settanta milioni, di cui quarantacinque solo nel XX secolo. Una ricerca datata 8 giugno 2011 condotta da Massimo Introvigne, fondatore e direttore del Centro Studi sulle Nuove Religioni, ha portato la statistica secondo la quale nel mondo viene ucciso un cristiano ogni cinque minuti. Possiamo quindi fare le nostre debite considerazioni sul fatto che da decenni venga ricordata la “Shoah”, si dice sei milioni di ebrei uccisi dal Nazismo, e non quella dei settanta milioni di cristiani. In merito a quanto scritto poco prima riguardo all’Europa, l’Osservatorio sull’intolleranza e discriminazione contro i cristiani in Europa, membro della Piattaforma dell’Agenzia Europea dei diritti fondamentali, segnala che proprio anche da noi, come Continente, i casi di intolleranza e discriminazione nei confronti dei cristiani siano in aumento. Il Report dell’Agenzia in questione, segnala 241 casi tra il 2013 e il 2014. Citando la prefazione al lungo documento, reperibile in rete in lingua inglese, il dott. Gudrun Kugler, direttore dell’Osservatorio, spiega: “La società sempre più secolare in Europa ha sempre meno spazio per il cristianesimo. Alcuni governi e attori della società civile cercano di escludere invece di accogliere. Ci vengono segnalati innumerevoli casi di intolleranza verso i cristiani. Ricercando, documentando e pubblicando questi casi speriamo di creare una consapevolezza che è un primo passo verso un rimedio” (che mai avverrà, stante la società verso la quale stiamo andando).

Nelle Maldive, meta di vacanza di molti europei, è stato proclamato nel 1994 l’Atto di Unità Religiosa che vieta la promozione di ogni manifestazione diversa dall’Islam o di ogni opinione che sia in disaccordo con quella degli esperti islamici. Nel 2011 le autorità hanno espulso un’insegnante accusata di diffondere il Cristianesimo, avendo trovato una Bibbia nella sua casa. In Arabia Saudita il possesso di una Bibbia è considerato un crimine, in Corea del Nord la dittatura ateo-comunista proibisce qualsiasi appartenenza a gruppi cristiani e, al 2015, si parla di una cifra oscillante tra i 50mila e i 70mila cristiani imprigionati a vita nei campi di lavoro forzato. La Cina ha istituito una “Chiesa patriottica nazionale” e quei cattolici che non ne fanno parte sono considerati agenti di una potenza straniera.

E potremmo continuare, sottolineando le parole troppo blande di Papa Francesco che si limitò a dire, nell’Angelus del 15 marzo 2015, “Che questa persecuzione contro i cristiani, che il mondo cerca di nascondere, finisca e ci sia la pace”. “Che il mondo cerca di nascondere” perché la fede è messa al bando, perché l’informazione deve essere controllata e canalizzata, perché le menti devono restare spente e, dando voce ai morti del passato instillando l’orrore per il regime Nazista, tacciano quelle dei morti del presente e la gente possa convincersi che il Male appartiene al passato.

Finito questo excursus breve, ma necessario, veniamo alla “vita” di cui Gesù parla per quelli che le persecuzioni del mondo non le subiscono ancora: possiamo definire la “vita” come il risultato di un impulso che il Creatore ha dato in origine a ciò che sarebbe rimasto altrimenti inerte. Per il regno vegetale si trattò di un ordine dato alla Terra: “La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che fanno sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la propria specie”. Ciò avvenne il terzo giorno. Poi il quinto giorno la stessa cosa avvenne per le creature del mare e gli uccelli, ma il sesto fu la volta degli animali e dell’uomo, l’unica creatura a ricevere l’alito vitale di Dio per cui “fu fatto anima vivente”.

Il Creatore quindi costituì l’uomo responsabile di tutta la sua opera: Lui l’aveva fatto, prodotto dalla polvere della terra, e a lui apparteneva anche dopo la caduta ed ecco perché nessuno poteva arrogarsi il diritto di togliergli la vita nel senso fisico del termine: “Del sangue vostro, ossia della vostra vita – quella naturale, come per tutti gli animali – io domanderò conto; ne domanderà conto ad ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, ad ogni suo fratello” (Genesi 9.5). Un principio che non mutò mai nel corso delle dispensazioni.

Solo più avanti, nella dispensazione della Legge, si intravede un parallelismo tra vita carnale e vita spirituale, per quanto già con il Diluvio ed altri episodi appaia chiaro il principio in base al quale il vivere ha senso solo se perseguito ricercando Dio per a Lui adeguarsi: “Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male” (Deuteronomio 30.15). Al verso 19 viene detto “Prendo oggi a testimoni contro di voi il cielo e la terra; io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione: scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza”.

A questo punto è chiaro che la “vita” di cui parla YHWH nella Sua Legge si riferisce solo apparentemente a quella orizzontale, ma tenda alla sopravvivenza spirituale, che per ora definiamo superficialmente fisica e psichica, poiché il vivere in senso puramente animale è cercato da pochi. Che i due tipi di “vita” sono quelli che costituiscono l’uomo lo sa bene anche l’Avversario, che in Giobbe 2.4, a Dio che gli parlava di quanto fosse integro “il mio servo Giobbe”, Gli rispose “Pelle per pelle; tutto quello che possiede, l’uomo è pronto a darlo per la sua vita”.

Per “vita”, quindi, si intende tutta la persona e non solo il fatto che il muscolo cardiaco svolga la sua funzione. Interessante la preghiera in Salmo 26.9, “Non associare a me i peccatori, né la mia vita agli uomini di sangue” e 49.9, già citato in altra riflessione, “Troppo caro sarebbe il riscatto di una vita: non sarà mai sufficiente per vivere senza fine e non vedere la fossa”: se l’uomo fosse un animale, con l’anima che risiede nel sangue come tutte le altre creature, sarebbe sacrificabile, potrebbe essere ucciso senza colpa, essendo la sua sopravvivenza totale relegata a quel liquido. Ultimo passo relativo agli scritti dell’Antico Patto degno di considerazione si trova sempre in questo Salmo, ai versi 15 e 16: “Come pecore sono destinati agli inferi, sarà loro pastore la morte; scenderanno a precipizio nel sepolcro, svanirà di loro ogni traccia, gli inferi saranno la loro dimora. Certo, Dio riscatterà la mia vita, mi strapperà dalla mano degli inferi”.

Qui possiamo vedere tanto la certezza di riscatto della “vita” in toto espressa dal salmista che pone una distinzione tra ciò cui gli uomini tendono per natura, il benessere fisico, e quello di chi invece fonda la sua vita con Dio come riferimento, “Certo, Dio riscatterà”.

Veniamo però al Nuovo Patto, in cui Gesù, esponendo la parabola del figlio prodigo, riporta le parole del padre che lo vide tornare: “Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Luca 15.22-24). Si può essere allora morti anche vivendo, o si può vivere senza essere morti e soprattutto c’è una vita eterna, quella che cercava il giovane ricco che incontreremo (Luca 18. 18-27): quella persona gli chiese “Maestro buono, che devo fare per eredita la vita eterna?”; dopo avergli riferito che aveva osservato tutti i precetti della legge, alle parole “Se vuoi esser perfetto, va’, vendi ciò che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi” è scritto che “Se ne andò rattristato, perché aveva molti beni”: la vera vita, quella eterna, si trasformò per quella persona in qualcosa di secondario perché ne aveva un’altra, la propria, alla quale dava priorità. Ecco allora che quel giovane fece una scelta, volle salvare la sua vita, quella che gli apparteneva come essere pensante, cosciente, che lo faceva persona nella carne, e non quella della rinuncia, che gli avrebbe tolto i suoi averi materiali, ma gliene avrebbe dati altri, spirituali, in cambio.

Da notare che Gesù non chiese a quel ricco di abbandonare i suoi averi e darli ai poveri come condizione per avere la vita eterna, ma di abbandonarli come prima cosa dentro di sé e poi seguirlo perché solo così il suo dare agli altri avrebbe avuto un senso: non lo chiama ad essere altruista o “buono”, ma a far parte del gruppo dei discepoli realizzandosi pienamente, a liberarsi di un ostacolo. Se ci fermassimo alla prima parte della Sua risposta, il cosiddetto “vangelo sociale” sarebbe legittimato.

La ricchezza è qui vista come “vita”, cioè tutto ciò che rappresenta essa per l’uomo, ma va intesa come possesso, materiale o affettivo, cioè tutto quello che ci condiziona nelle nostre scelte, come più volte sottolineato, qualcosa relegato al bene che si possiede, sia denaro, cose, persone, affetti. E qui siamo chiamati molto a meditare, perché la nostra esistenza non può essere condizionata dai nostri “beni”, non può esservi compromesso, ma distinzione. Sotto questa lettura, hanno pieno senso le parole di Paolo a Timoteo nella sua prima lettera: “Invece quelli che vogliono arricchire – anche nel senso dell’Ego – cadono vittime di tentazioni, di inganni e molti desideri insensati e funesti, che affondano gli uomini nella rovina e nella perdizione. Infatti l’amore del denaro – amore e non disponibilità di esso – è radice di ogni specie di mai; e alcuni che vi sono dati, si sono sviati dalla fede e si sono procurati molti dolori” (6.9-10).

L’affermazione di Gesù sulla “propria vita” è allora intesa nel suo senso più ampio, cioè l’uomo deve chiedersi cosa lo spinge, lo anima nel profondo e meditare sul fatto che, seguendo i propri impulsi naturali e anche venendo a “guadagnare il mondo intero”, quello che Gli voleva dare Satana, a nulla servirebbe se perdesse la propria anima, la sola ad essere immortale.

Perché non c’è nulla che possiamo dare a Dio in cambio, neppure noi stessi, se non fossimo stati da Lui accolti. Amen.

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11.16 – SEGUIRE GESÙ: PRENDERE LA CROCE II (Matteo 16.24)

11.16 – Seguire Gesù: prendere la croce II (Matteo 16. 24)

 

 24Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.

 

Nello scorso capitolo abbiamo lavorato, nelle sue parti essenziali, sul corrispettivo di Luca che, al “prendere la sua croce”, aggiunge “ogni giorno”. Prima di esaminare il significato della “croce” di cui Gesù parlò ai discepoli e alla folla da Lui direttamente chiamata, sottolineiamo che il seguirLo doveva essere una scelta libera e ponderata: “Se qualcuno vuole venire dietro a me”. In pratica la porta della Grazia è aperta a tutti, ma quel “se” avvisa chi vuole seguirlo che non può farlo restando la persona di prima, cioè pretendendo di mettere sullo stesso livello se stesso e Dio, cercare un compromesso per vivere tenendo separato ciò che appartiene alla propria natura umana da ciò che è il confronto con Lui. La cosa è impossibile perché non si può “servire a due padroni”, perché “o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro.” (Matteo 6.24).

“Se” quindi, attirato dai miracoli e dai discorsi di Gesù, una persona si sente attratta da Lui, deve sapere che si troverà presto o tardi di fronte alla necessità di rinnegare se stesso, cioè fare i conti con tutti quegli elementi che hanno rappresentato fino a quel momento il centro della sua vita, per abbandonarli. Alcuni lo fanno subito, in blocco, totalmente, altri con una progressione perché si comincia dalle piccole cose per poi arrivare alle grandi e non viceversa. Il rinnegamento di se stessi inizia quando si acquisisce la conoscenza che “in me non abita alcun bene”, è come iniziare con vestiti invernali un cammino sotto il sole per svestirsi progressivamente, abbandonando ciò che non serve perché portarlo addosso diventa un problema fastidioso. Credo che sia pertinente in proposito Colossesi 3.12-17 “Vestitevi dunque, come eletti di Dio, santi ed amati, di sentimenti di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza. Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a vicenda, se uno ha di che dolersi di un altro. Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi. Al di sopra di tutte queste cose vestitevi dell’amore che è il vincolo della perfezione. E la pace di Cristo, alla quale siete stati chiamati per essere un solo corpo, regni nei vostri cuori”.

“Rinnegare se stessi” è strettamente connesso al “prendere la propria croce” e al seguire Gesù, due azioni ciascuna delle quali implica l’altra perché altrimenti sarebbero entrambe sconnesse, senza senso perché solo se fatte assieme garantiscono la sopravvivenza della persona.

Venendo alla seconda parte di queste riflessioni, mi sono chiesto se i presenti al discorso di Gesù, discepoli compresi, potessero capire cosa s’intendesse effettivamente per “croce”, non essendovi un solo caso in cui è menzionata nelle loro Scritture, nella Legge, nei Profeti o negli altri Libri. Forse i più informati avranno fatto il collegamento con la crocifissione, praticata dai Romani dal 200 a.C., ma dalle origini persiane, da Antioco Epifane ed Alessandro Magno ancora prima, ma la ritengo un’eventualità rispetto al fatto che il suo vero significato verrà rivelato proprio con l’esecuzione di Gesù ed il Suo risorgere.

Come abbiamo fatto con l’ “ogni giorno”, vediamo allora le applicazioni sul prendere “la propria croce”. La prima domanda che mi sono fatto è se i presenti conoscessero il significato della parola. Ho fatto due ipotesi, che probabilmente si assommano tra loro e danno un unico risultato: primo, la crocifissione era stata introdotta dai romani nel 200 a.C., ma era in uso presso i babilonesi, i persiani e i cartaginesi dai quali i romani l’appresero. La storia umana ha tramandato la crocifissione di duemila abitanti ordinata da Alessandro Magno quando conquistò Tiro nel 332. La croce, quindi, è possibile che abbia provocato nei presenti un immediato riferimento al dolore e alla morte. Secondo, ma più che un’ipotesi è un dato, è che Gesù nominò quello strumento di morte in modo tale che fosse capito nel suo significato più ampio dopo, quando appunto a provarla sarebbe stato lui stesso.

Sul problema di cosa avesse voluto realmente dire, molto si è scritto, anche contraddittoriamente, ancora una volta tendendo a dare una sola interpretazione. Come abbiamo visto poco prima per l’ “ogni giorno”, però, anche per la croce credo si debba procedere ad una lettura a strati perché non ci sono riferimenti primari o secondari, ma molti di pari importanza che convergono in un solo punto che li contiene tutti.

La croce parla di testimonianza sofferta. In Atti 5.41,42 leggiamo “Essi – gli Apostoli, dopo che furono flagellati, quindi soffrirono non poco – se ne andarono via dal sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù. E ogni giorno, nel tempio e nelle case, non cessavano di insegnare e di annunciare che Gesù è il Cristo”. Qui allora vediamo che per i Dodici (ricordiamo che Giuda Iscariotha era stato sostituito da Mattia) non era importante ciò che il sinedrio avrebbe loro fatto, ma testimoniare propagandando il Vangelo e Luca, medico, non dice una parola sulle conseguenze della flagellazione, ma pone l’accento sul fatto che “se ne andarono (…) lieti di essere giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù”. La realizzazione personale infatti, contrariamente ad ogni idea umana, non si verifica solo quando meditiamo la Parola o preghiamo, ma anche nel dolore conseguente alla dichiarazione dell’essere credenti e alla testimonianza del Vangelo.

La croce parla di sofferenza a molti livelli, non solo quello della persecuzione cui allude Paolo nelle sue lettere, poiché i persecutori dei cristiani, prima dei romani, furono proprio gli stessi ebrei. Ricordiamo Filippesi 1.29: “Riguardo a Cristo, a voi è stata data la grazia non solo di credere in lui, ma anche di soffrire per lui, sostenendo la stessa lotta che ci avete visto sostenere e sapete che sostengo anche ora”. In Ebrei 10.32-37 si legge “…avete preso parte alle sofferenze dei carcerati e avete accettato con gioia di essere derubati delle vostre sostanze, sapendo di possedere beni migliori e duraturi. Non abbandonate dunque la vostra franchezza, alla quale è riservata una grande ricompensa. Avete solo bisogno di perseveranza perché, fatta la volontà di Dio, otteniate ciò che vi è stato promesso. Avete un poco, infatti, un poco appena, e colui che deve venire verrà, e non tarderà”. E il credente ha bisogno di perseverare perché senza questo metodo si inaridirebbe; soprattutto è chiamato a pensare che il tempo che vive non è quello che è istintivamente portato a misurare coi propri metri umani: l’autore della lettera ricorda che abbiamo “un poco appena” prima del ritorno di Cristo. Attenzione a non sottovalutare la portata della persecuzione, poiché questa viene portata avanti tanto da religioni avverse al cristianesimo – e questo anche oggi –, ma dall’Avversario stesso che fa di tutto pur di incrinare, rovinare e se possibile distruggere il rapporto col Padre. Ci ha già provato e agirà in tal senso fino alla sua fine.

La croce parla di rinuncia e abbandono, come in Filippesi 3.7-11: “Ma queste cose – la storia umana di Paolo con ciò che questa comporta, esperienze, affetti, professione, inserimento sociale –, che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui (…) perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dei morti”.

La croce parla di continuità, come ancora in Ebrei 12.2: “Tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento – Lui solo –. Egli, di fronte alla gloria che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio”.

La croce ci parla del rifiuto della carne intesa nel senso ebraico del termine, basar, che comprendeva il corpo e i sentimenti umani. Leggiamo in Galati 5. 24,25 “Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Perciò, se viviamo nello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito”. Ciò che siamo è e sarà sempre impuro, non importa quanto, fatto sta che il nostro vestito, se non fosse per l’intercessione di Cristo, sarebbe irrimediabilmente sporco e qui, a conferma che la nostra origine rimane, interviene Colossesi 3.5,6: “Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è l’idolatria; a motivo di queste cose l’ira di Dio viene su coloro che gli disobbediscono. Anche voi un tempo eravate così, quando vivevate in questi vizi”. Qui Paolo si esprime al tempo passato, ma proprio perché una volta, quando non credevamo, eravamo dediti a varie forme di peccato che  e qui dobbiamo prestare molta attenzione –rimane come attitudine e richiamo; ricordiamo che a Caino fu ricordato che il peccato era alla porta e lo spiava, attendendo il momento per agire. Anche lui, che viveva la dispensazione della coscienza, era libero di scegliere e prendere o meno i provvedimenti opportuni per salvaguardare il suo essere.

La croce è un riferimento: “Quanto a me, non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Galati 6.14). Da notare la “croce del Signore” come punto di orientamento, poiché è alla croce che fu inchiodato non solo lui, ma anche quel “documento scritto contro di noi” (Colossesi 2.14) senza il quale non avremmo mai avuto accesso al Padre. Poi dal verso di Galati abbiamo la reciprocità: il mondo, per l’apostolo Paolo, non aveva più senso, né per il mondo la sua persona. È un addio reciproco che moti cristiani stentano a mettere in pratica.

La croce, infine, ci parla di noi, visti come “vasi di creta” e della nostra condizione: “In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre, infatti, noi che siamo vivi veniamo consegnati alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale” (2 Corinti 4.8-11). Interessante il riferimento alla morte e al corpo, poiché il credente non si appartiene, ma è di Colui che lo ha salvato: portiamo “la morte di Gesù” in noi in quanto salvati per essa, ma ciò che è mortale in noi rivestirà immortalità.

Ecco allora che “prendere la propria croce ogni giorno” è un’espressione che comprende tutti questi riferimenti, ciascuno dei quali emerge a seconda delle circostanze, sempre conosciute molto più di quanto crediamo noi, da Nostro Signore Gesù Cristo e dal Padre. Amen.

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11.15 – SEGUIRE GESÙ: PRENDERE LA CROCE I (Matteo16.24)

11.15 – Seguire Gesù: prendere la croce I (Matteo 16. 24)

 

 24Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.

 

Il parallelo di Marco ci informa che Gesù e i discepoli erano soli quando avvenne il riconoscimento di Pietro e il suo rimprovero, quindi tutto questo si verificò a distanza dalla gente che Lo seguiva. Anche lì, in quel territorio di Cesarea di Filippo, le persone Lo riconobbero e Lo seguivano, ma credo in maniera diversa; ricordiamo che in altri episodi, presente la folla, era detto che  “non avevano tempo neppure per mangiare” e quando Nostro Signore volle portarli in un luogo isolato per farli riposare, tornati dalla missione che aveva loro affidato, ci riuscì in parte. Qui invece in Marco 8.34 leggiamo “Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro”: li dovette chiamare, ma chi erano?

Gesù, all’inizio del Suo Ministero, opera nel territorio della Giudea e Galilea, con una visita in territorio Samaritano. Lì conosce e opera anche nei confronti di persone non appartenenti al popolo di Israele nel senso puro del termine, che tuttavia gli manifestarono una grande fede. Poi, come visto ultimamente, passa nella zona di Tiro e Sidone, tra i pagani, guarendo la figlia della donna cananea, o siro-fenicia. Quindi va nella Decapoli, rientra nella Galilea, per la seconda volta dà da mangiare alla folla (quattromila persone) “sette pani e pochi pesciolini” per poi entrare nella regione di Cesarea di Filippo: abbiamo tre passaggi in territori non ebrei che avvengono poco prima del Suo riconoscimento come “il Cristo” e del nuovo periodo di istruzione dei Dodici. Le persone che Gesù chiamò a Sé per farsi ascoltare, erano allora pagani ed ebrei, essendo imminente il Suo Sacrificio. Tra l’altro, qui è la prima volta in cui Nostro Signore, prima di parlare, “convoca la folla” rivelando cosa significhi veramente seguirlo e lo fa partendo dal significato più immediato del verbo, “venir dietro di me”, perché per seguire una persona bisogna necessariamente porsi avendola quanto meno a portata d’occhio per fare il suo stesso percorso.

E qui Gesù dice chiaramente che il “venir dietro di me” non è un’azione che possa risolvere qualcosa, ma è necessaria una piena identificazione in Lui. “Rinneghi se stesso, prenda la sua croce – Luca aggiunge “ogni giorno”e mi segua”, frase identica in tutte le versioni salvo, come abbiamo letto, ciò che Luca aggiunge.

A questo punto necessita una precisazione, e cioè: non è la prima volta che Nostro Signore parla della necessità di prendere “la propria croce”. La prima volta che espresse questo concetto l’abbiamo nel sermone in Matteo 10.38, “Chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me”, che abbiamo esaminato in un precedente capitolo. Allora, però, questa frase era inserita in un contesto molto più ampio, in un discorso rivolto ai Dodici prima di inviarli in missione e lo abbiamo trattato come tale, cioè dedicandovi un breve ed essenziale sviluppo che qui cercheremo di estendere in modo più ampio e complesso ricordando che la Parola di Dio poche volte ha dei riferimenti univoci.

Sappiamo infatti che la voce di YHWH è paragonata a un suono: Daniele, quando lo udì, cadde “stordito con la faccia a terra” (10.9) e che Giovanni, in un verso già citato, in Apocalisse 1.15 scrive “La sua voce era simile al fragore di grandi acque”; riferimento al rumore bianco, cioè la somma di tutte le frequenze udibili. Il rumore bianco, per definizione, è quello caratterizzato dall’assenza di periodicità nel tempo e da ampiezza costante su tutto lo spettro di frequenze. Quello delle onde del mare è un primo esempio. Quindi la multiformità del messaggio, la sua contemporaneità nel momento. È necessario allora cercare di districarsi, quando siamo in presenza di espressioni e concetti che, come nel nostro caso, ne comprendono molti: “prendere la propria croce” è uno di questi; sono parole strutturate in modo tale da presentare un numero elevato di strati, di rimandi, di concetti.

I termini chiave di questo verso, facendo riferimento a Luca, sono due, la “croce” e “ogni giorno” e credo sia utile cominciare da quest’ultimo, che ci parla fondamentalmente di continuità, necessaria anche solo per l’apprendimento e il mantenimento di qualsiasi professione che richiede costanza, studio, pratica e aggiornamento. Nel campo spirituale troviamo molti esempi negli scritti dell’Antico e del Nuovo Patto.

“Ogni giorno” lo troviamo per la prima volta in Esodo 16.4 a proposito della manna: “Il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina o no secondo la mia legge”. Qui abbiamo un nutrimento dato direttamente da Dio al suo popolo, che non poteva prenderne per conservarlo perché “quando il sole cominciava a scaldare, si scioglieva” e addirittura, si esprime meraviglia perché solo quando veniva raccolta doppia razione il giorno antecedente il sabato, “non imputridiva, né vi erano vermi” (v.24). Il primo riferimento, allora, è che “ogni giorno” il credente è chiamato nel suo interesse a cercare il proprio nutrimento spirituale, di cui abbiamo traccia nella preghiera del “Padre Nostro”.

E qui i riferimenti sono numerosi: ricordiamo Deuteronomio 11.1, “Ama dunque il Signore, tuo Dio, e osserva ogni giorno le sue prescrizioni; le sue leggi, le sue norme e i suoi comandi”, Proverbi 8.24 “Beato l’uomo che mi ascolta, vegliando ogni giorno alle mie porte, per custodire gli stipiti della mia soglia”, per non parlare delle promesse, tutt’oggi valide, contenute nel Salmo 1: “Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli arroganti, ma nella legge del Signore trova la sua gioia, la sua legge medita giorno e notte. È come un albero piantato lungo corsi d’acqua, che dà frutto a suo tempo: le sue foglie non appassiscono e tutto quello che fa, riesce bene. Non così, non così i malvagi, come pula che il vento disperde; perciò non si alzeranno i malvagi nel giudizio né i peccatori nell’assemblea dei giusti, poiché il Signore veglia sul cammino dei giusti, mentre la via dei malvagi va in rovina”.

Anche in questi versi abbiamo un primo significato di quell’ “ogni giorno” detto da Gesù, che sarebbero delle belle massime religiose se non sapessimo che c’è un rapporto stretto tra l’avvicinarsi a Dio e il confronto con Lui, che “Ogni giorno ha compassione e dà in prestito, e la sua stirpe sarà benedetta” (Salmo 37.26). In opposizione abbiamo le conseguenze della disubbidienza così descritta in Deuteronomio 28.33: “Un popolo che tu non conosci mangerà il frutto del tuo suolo e di tutta la tua fatica. Sarai oppresso e schiacciato ogni giorno”, verso rientrante nelle maledizioni nel caso in cui Israele non Lo avesse seguito.

“Ogni giorno” ci parla anche del sacrificio quotidiano dei due agnelli (Esodo 28.29) a conferma del bisogno continuo di remissione a prescindere e non solo per un peccato specifico, per il quale esistevano precise norme. Così anche noi constatiamo quotidianamente la nostra debolezza e fragilità, necessitando sempre del perdóno anche per quelle mancanze dovute a inavvertenza, che non vediamo.

La quotidianità ci parla anche di testimonianza e di pratica concreta di fede: ricordiamo Atti 5.52, “Ogni giorno, nel tempio e nelle case, non cessavano di insegnare e annunciare che Gesù è il Cristo”, 16.5, “Le Chiese intanto andavano fortificandosi nella fede e crescevano di numero ogni giorno” ed Ebrei 3.13 “Esortatevi piuttosto a vicenda ogni giorno, finché dura questo oggi – cioè il tempo presente – perché nessuno di voi si ostini, sedotto dal peccato”. Tutto questo perché la vita che viviamo non dà tregua quanto a problemi, siano essi spirituali o pratici perché “a ciacun giorno basta la sua pena”.

Ecco allora che quell’ “ogni giorno” di cui parla Gesù comprende tutti questi elementi; in pratica non dobbiamo dimenticare che il riferimento è al nutrimento spirituale, al sacrificio dell’Antico Patto fatte le opportune applicazioni, a trovare nel Signore l’unico riferimento conoscendo la Sua cura, alla testimonianza e al fatto che ci troveremo sempre di fronte a degli elementi avversi, siano essi persone o problemi contingenti della vita. Un’espressione che ne racchiude tante altre e contemporaneamente, “il suono di grandi acque” di cui è stato accennato poco sopra.

In altri termini la “croce”, che esamineremo nel prossimo capitolo, se fosse da prendere “ogni giorno” limitandoci al suo stretto significato, genererebbe in noi un senso di disagio, assumendo un significato di condanna quasi senza speranza come fu per Adamo quando si sentì dire “…maledetto sarà il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi – non più l’albero della vita –. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai” (Genesi 3. 17-19).

Molto tempo è però passato da quel giudizio e ci troviamo certamente in una posizione diversa dai nostri progenitori perché sappiamo che l’ “ogni giorno” in cui la croce va presa comporta assistenza, aiuto e benedizione. Non siamo lasciati soli nel nostro cammino mai, a meno che non siamo noi a volerlo ignorando la cura e l’attenzione continua che il Padre, grazie all’intercessione del Figlio, ci vuole dare. Amen.

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11.14 – VATTENE DA ME (Matteo 16.21-23)

11.14 – Vattene da me (Matteo 16. 21-23)

 

 21Da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. 22Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». 23Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!».

 

È giusto che la prima sottolineatura sul nostro testo riguardi “Da allora”, tradotta più propriamente “Da quell’ora”, precisazione con la quale si apre un periodo nuovo iniziato quando Pietro riconobbe Gesù come “il Cristo”: da lì, “Da quell’ora” appunto, l’insegnamento di Nostro Signore riguarderà la Sua imminente morte e resurrezione. La conoscenza che gli Apostoli potevano avere di Lui, ancora una volta, doveva procedere per gradi così come quella del credente, se accoglie i Suoi insegnamenti ed è disposto ad modificare i concetti che ha appreso dal sistema mondano in cui ha vissuto fino a prima di incontrarlo, quando pensava “non secondo Dio, ma secondo gli uomini” (v.23).

È importante considerare che non esiste maturità senza formazione e che il Vangelo insegna, al riguardo, che l’improvvisazione o il pressapochismo non possono rientrare nel comportamento di chi lo annuncia, e quindi del cristiano, nel momento in cui si dichiara agli altri come tale. I Dodici, ma dovremmo dire gli Undici, seguirono Gesù per circa tre anni, testimoni di miracoli e soprattutto discorsi che ci hanno tramandato in minima parte; soprattutto le parole del loro Maestro furono non capite e dimenticate, ma quando lo Spirito Santo scese su di loro, le ricordarono tutte sotto un’ottica alla quale non avevano mai pensato, perché prima di quell’avvenimento non in grado di farlo. Ci fu così un tempo per vedere, ascoltare, toccare con mano gli effetti del Vangelo restando stupiti, e ce ne fu un altro in cui quanto appreso, apparentemente senza averne ben capito la portata, ebbe uno sviluppo assolutamente cosciente e partecipato rendendo così adempiute le parole di Gesù quando disse “In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà più grandi di queste, perché voi ne siate meravigliati” (Giovanni 14.12).

Adempimento di queste parole le troviamo nei miracoli compiuti da Pietro e da Paolo, e il “più grandi di queste” non è riferito alla loro portata, ma alla diffusione del Vangelo che avrebbe raggiunto tutto il mondo, mentre Gesù diede tutti gli elementi per essere riconosciuto da Israele come il Cristo, restando inascoltato.

Oggi, per il credente, è tutto diverso e non può più appropriarsi di quanto avvenne a Gerusalemme nel giorno di Pentecoste, quando lo Spirito Santo si manifestò con “lingue come di fuoco e cominciarono a parlare altre lingue” (Atti 2. 3,4): come già detto in un’altra riflessione, lo Spirito di Dio si rivela in lui inizialmente convincendolo di peccato, giustizia e giudizio, dell’incompatibilità naturale che ha con Lui e di salvezza, ma una volta che ciò è avvenuto inizia un percorso che non può essere paragonabile a quello che ebbero altri credenti nei tempi antichi. Si tratta di un cammino di ricerca in cui si ha la Scrittura come unica fonte di orientamento. Anche lì, non sarà necessaria una semplice lettura del testo, ma un’accurata meditazione personale, quella che alcuni chiamano “lectio divina” in cui si lascia da parte ogni richiamo mondano e personale e si studia, ci si documenta, si riflette su una Bibbia che presenti il maggior numero possibile di riferimenti per incrociare tra loro i dati, interrogarsi serenamente sul testo. In pratica, guardando alle parole di Salomone in Proverbi 2. 3-6 “…se appunto invocherai l’intelligenza e rivolgerai la tua voce alla prudenza, se la ricercherai come l’argento e per averla scaverai come per i tesori, allora comprenderai il timore del Signore e troverai la conoscenza di Dio, perché il Signore dà la sapienza, dalla sua bocca escono scienza e prudenza”, si può dire che siano sempre attuali e che ci riguardino profondamente da vicino ancora oggi. Ci sono allora verità che restano e vivono indipendentemente dal tempo in cui furono scritte, ed altre dispensazionali.

Non è facile il cammino cristiano: è pieno di domande, è una strada in salita, di scelte dolorose. Se così non fosse, sarebbe un percorso in discesa e l’ingresso per la porta sarebbe larga, non stretta, nonostante spesso chi propaganda il Vangelo insista sulla Pace di e con Dio, che certamente esiste, ma che scende su di noi dopo un percorso spesso di travaglio e non perché veniamo catapultati a vivere in una sorta di zona franca al riparo da ogni negatività. È chi vive nel mondo e per esso che in lui sta “bene”, non il credente proiettato, in pellegrinaggio verso il mondo futuro che lo attende, altrimenti sarebbe sbagliato l’insegnamento “dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni” (Atti 14.22).

Torniamo al nostro episodio, da sviluppare tenendo presente i racconti di Marco e Luca: quest’ultimo riferisce le parole dette ai Dodici, e cioè “Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere rifiutato dagli uomini, dai capi sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno” (9.22); queste pongono una distanza immensa fra Lui e il popolo che avrebbe dovuto riconoscere in Lui il Messia promesso. Qui Gesù cita gli uomini, i capi sacerdoti e gli scribi, mentre Matteo tutto il Sinedrio, composto dagli Anziani, scelti con voto popolare, i capi sacerdoti, cioè i responsabili delle ventiquattro mute che si alternavano nel servizio al Tempio – ricordiamo Zaccaria, padre di Giovanni Battista, appartenente alla muta di Abia –. Per ultimi abbiamo gli scribi, figura della vera conoscenza che avrebbe dovuto venire trasmessa al popolo e che primi fra tutti avrebbero dovuto riconoscerlo come il Cristo con la stessa sicurezza e naturalezza con la quale risposero ad Erode circa trent’anni prima; “Riuniti tutti i capi sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta” (Matteo 2.4,5).

Sempre dalle parole riferite da Luca, vediamo che Gesù non parlò solo del rifiuto della sua persona che sarebbe culminato con la Sua messa a morte, ma disse anche “e risuscitare il terzo giorno”, parole che non furono comprese dai discepoli perché stupiti e afflitti dall’annuncio della sua morte: quel “venire ucciso” li gettò in un profondo stato di tristezza e stupore, ritenendo impossibile che Uno che aveva fatto così tanti miracoli non fosse invincibile. Che Gesù dovesse risorgere, fu un dato che non venne preso in considerazione da nessuno dei presenti perché non capito, e in tale ignoranza rimasero anche dopo la Sua trasfigurazione, perché leggiamo “Essi tennero per loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti” (Marco 9.10). Non solo, ma anche più di un anno dopo queste parole, i discepoli dettero prova di non averle per nulla elaborate, poiché quando le donne annunciarono loro la resurrezione di Gesù, “Quelle parole parvero loro un vaneggiamento e non credevano ad esse” (Luca 24.11).

Fu così che Pietro, forse interpretando il sentimento di tutti, ma certamente dando ulteriore conferma del suo carattere impetuoso, prese Gesù “in disparte”, letteralmente, a seconda dei manoscritti “tiratolo con la mano” o “presolo con sé”, e “cominciò a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai»”. Solo Matteo riferisce queste parole; Luca non ne parla affatto e Marco parla di un generico rimprovero (8.32). Cosa avvenne realmente?

È probabile che Pietro si rivolse a Gesù portandosi a una distanza molto breve dal gruppo e che volesse parlargli a tu per tu, ma le sue parole furono udite anche dagli altri. Con la sua frase, lo stesso Apostolo che prima lo aveva indicato come “Il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, prima si augura che Gesù si fosse sbagliato, e poi pretende di negare un avvenimento da Lui profetizzato. La sua frase potrebbe essere trattata indulgentemente se fosse stata proferita in un contesto diverso e certamente non riferita al suo Maestro: presa isolatamente, si tratta di un modo di dire scaramantico come se ne sentono tanti, ma per l’ambito in cui fu pronunciata fu molto grave perché la risposta che ebbe fu “Vattene da me, Satana”, il famoso “Vade retro” latino poi tramandato e diventato di uso comune e sempre a sproposito.

Furono le stesse parole pronunciate quando l’Avversario esaurì le sue tentazioni nel deserto e di cui è detto che “si allontanò da lui per un certo tempo”, tradotto anche “fino al momento fissato” (Luca 4.13) per cui, nel caso di specie, Pietro si fece strumento dell’Avversario per tentarlo ulteriormente, facendo leva sull’afflizione degli Undici conseguente alla perdita che avrebbero avuto, ricorrendo anche a quest’arma per distoglierlo dai Suoi propositi, o meglio dal Piano di Dio. “Dio non voglia” è quindi un semplice augurio? È piuttosto un’intromissione, un’ingerenza nel Suo/Loro piano e “questo non ti accadrà affatto” è una negazione di tutte le parole di Gesù al riguardo.

Se l’apparenza della valutazione quindi ci consente di ipotizzare che Pietro volesse rimproverare bonariamente Gesù in realtà Satana, attraverso questo Apostolo, assale Gesù di nuovo, mostrandogli la possibilità di sfuggire i patimenti e la morte, frase pericolosa soprattutto perché pronunciata dallo stesso discepolo che poco prima aveva riconosciuto profondamente l’identità e il ruolo del Suo Maestro. Se Pietro avesse pronunciato alla leggera quelle parole, non avrebbe ricevuto quel rimprovero rivoltogli pubblicamente poiché, se Matteo scrive “Gesù, voltandosi, disse”, Marco ha “Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse”.

“Tu mi sei di scandalo” sono parole che completano il “Via da me, Satana”: ricordiamo che lo “skàndalon” era il laccio, la trappola, la pietra sulla quale s’inciampa non vedendola e Pietro, purtroppo, era proprio uno scandalo quello che stava tendendo e disponendo per Gesù.

“Tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”, identiche parole riportate da Marco dettategli da Pietro che si ricordò molto bene quel rimprovero, vero a differenza di quello che mosse a Gesù: il verbo “fronéo” significa “pensare”, ma anche “compiacersi, essere animato”, quindi impostare il proprio essere lontano da qualcosa. Quell’Apostolo, in quel momento, guardava alla morte di Gesù come a una disgrazia e aveva perso completamente il significato profondo e assoluto che aveva, perché “Come per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà la vita. Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’ubbidienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti” (Romani 8.18,19).

Gesù doveva morire proprio per questo, per essere “consegnato alla morte a causa delle nostre colpe ed è stato resuscitato per la nostra giustificazione” (4.25), perché “se, quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto di più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita” (5.10). “Perché il salario del peccato è la morte, ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore” (6.23). Amen.

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11.13 – LE CHIAVI DEL REGNO DEI CIELI (Matteo 16.19-20)

11.13 – Le chiavi del regno dei cieli (Matteo 16.19-20)

 

 19A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». 20Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.

 

È facile collegare Pietro e le chiavi del regno dei cieli con l’immagine profana di un vecchio con barba e tunica dalla quale pende un mazzo di chiavi che, più anni fa che oggi, ci veniva/viene proposto per lo più in raffigurazioni satiriche. Chiaramente qui ci troviamo di fronte a qualcosa di molto più serio. Prima sottolineatura da farsi è sicuramente sulle parole “A te darò”, che indica una persona precisa, appunto Pietro, coinvolta in qualcosa a venire, cioè una volta Gesù risorto quando, in previsione della discesa dello Spirito Santo, sarà Pietro più degli altri ad avere la responsabilità della conduzione della prima Comunità dei credenti. Possiamo dire che, essendo questo apostolo stato il primo a riconoscere il suo Maestro come “il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, furono “le chiavi” il premio che ebbe, ma non per questo la promessa di Gesù fu intesa dagli altri undici come un attestato di primato nel senso di autorità umana. Infatti, poco tempo dopo li troviamo a discutere su chi di loro fosse “il più grande”: dopo la trasfigurazione, “Quando (Gesù) fu in casa, chiese loro: «Di cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano – perché sapevano trattarsi di una discussione fuori luogo –. Per la strada, infatti, avevano discusso tra loro chi fosse più grande” (Marco 9. 33,34).

“Chiavi” e “regno dei cieli” (non “paradiso”, che è cosa diversa) sono le parole da sottolineare perché indicano un ruolo e un ambito. La chiave è sinonimo di un potere che si ha o viene conferito. Conosciamo Apocalisse 1.18, in cui il Figlio si rivela a Giovanni con queste parole: “Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi”.  La parole “chiave”, al plurale, compare in tutta la Scrittura  solo per due volte: nel verso che stiamo esaminando e il questo di Apocalisse. Chi detiene le chiavi di una casa è il padrone, chi l’ha in uso, o un suo delegato di fiducia. Ricordiamo le parole a Eliachim, il cui nome significa “Alzato da Dio”, il cui nome è citato nella genealogia di Gesù (Matteo 1.13 e Luca 3.30,31) di cui è detto in Isaia 22. 21,22 “Lo vestirò con la tua veste ne lo fortificherò con la tua cintura – quindi riferimento a ruolo e forza – e gli darò in mano il tuo potere: egli sarà come un padre per gli abitanti di Gerusalemme e per la casa di Giuda. Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide: se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire”.

Un richiamo spirituale molto forte lo abbiamo quando Gesù disse “Guai a voi, Dottori della Legge, perché avete portato via la chiave della conoscenza: voi stessi non siete entrati, e avete impedito di farlo a quelli che volevano entrare.” (Luca 11.52), che in Matteo 23.13 è “scribi e farisei, ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti alla gente; di fatto non entrate voi, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrare”.

Nostro Signore dice a Pietro che gli darà le chiavi, al futuro, e certamente fu questo apostolo ad usarle quando predicò il Vangelo con la sapienza dello Spirito, ma la stessa cosa la faranno anche gli altri, non in misura minore, ma con compiti e doni diversi. Davanti a Dio infatti non vi sono persone più o meno importanti, ma figli di cui si serve e a cui ha dato per fruttare chi 30, chi 60 e chi 100. Il premio però è e sarà individuale per cui non sta a noi fare una scala di rilevanza in senso umano. Nei versi oggetto di meditazione era comunque importante che Pietro fosse premiato per la dichiarazione che prima degli altri dà di Gesù: “Tu sei beato, (…) perché né carne né sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”. Le chiavi date a Pietro, quindi, non furono sua esclusiva, ma anche degli altri, come Giacomo, Giovanni, Filippo, Paolo e tutti quanti predicarono con la potenza dello Spirito. Già un primo segnale dell’aprire e del chiudere lo troviamo in Marco 16.15,16 dove Nostro Signore conferisce ufficialmente il mandato agli Apostoli: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato”.

Le “chiavi”, nel caso di Pietro, gli furono date per aprire nel predicare a Gerusalemme con tutte le manifestazioni che ne seguirono, e per chiudere come nel caso di Anania e Saffira o del mago Simone, da lui condannati (Atti 5.1-11; 8.9-25). A conferma del fatto che le chiavi non furono date solo a quest’apostolo, pensiamo a Paolo, alla sua predicazione che iniziava sempre a partire dagli ebrei, ma che quando rifiutarono il suo messaggio si rivolse ai pagani (Atti 13.46; 17.6; 28.28). La chiusura vi fu per l’incestuoso di Corinto, “dato in mano di Satana” fino a quando non abbandonò il suo peccato, venendo riammesso in seno alla Chiesa, per cui fu ristabilito (1 Corinti 5; 2 Corinti 2.5-10) ed ecco una nuova apertura.

Le chiavi di Pietro, e con lui gli altri apostoli che predicarono, furono quelli della rivelazione spirituale, dell’orientamento e guida dello Spirito Santo per l’avanzamento e l’aiuto/sostegno nella conversione di chiunque ha creduto, ma anche di chiusura e impedimento dichiarato ad entrare che si connette direttamente al principio del legare e sciogliere.

“Tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”. Anche qui abbiamo qualcosa detto nel presente della circostanza, ma che poi, quando si tratterà di passare dallo stadio formativo a quello operativo, sarà conferito anche agli altri Apostoli. Infatti in Matteo 18.18 leggiamo “In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo”.

Qui il riferimento letterale è strettamente legato al significato che gli ebrei davano al “legare”, cioè dichiarare illegale qualcosa, e allo “sciogliere”, cioè legalizzarla. Si era soliti dire, a proposito dei Rabbi o degli Anziani, ma anche dei Giudici, che essi avevano “il potere di legare e di sciogliere”. Gli Apostoli, quindi, e credo chi governa la Chiesa esercitando un potere ricevuto da Dio e non da se stessi, possono “legare” e “sciogliere”, come avvenuto ad esempio nel caso della circoncisione che i convertiti giudei volevano fosse condizione di salvezza per i pagani. Nella Chiesa l’azione del legare o sciogliere può venire coinvolta nel valutare iniziative o situazioni apparentemente anomale che possono sempre venirsi a creare, per prendere i provvedimenti opportuni, ammettendole o respingendole. Certo che in essa devono esistere uomini preparati e capaci, che mettano il Vangelo alla base delle loro decisioni, che agiscano in armonia col Padre, il Figlio e lo Spirito Santo esercitando la loro autorità e non, come a volte purtroppo accade, che semplicemente si sostituiscano a Loro provocando danni a volte irreparabili.

“Legare” e “sciogliere” è connesso anche al perdóno dei peccati e vediamo Giovanni 20.20-23: Gesù è risorto e si presenta agli Undici. “Disse loro di nuovo: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati»”. Si tratta di un verso molto importante che ha autorizzato la Chiesa di Roma ad introdurre la confessione auricolare nei suoi Sacramenti quando in realtà autorizza gli Apostoli, oltre a legare e sciogliere nel senso esaminato, all’esercizio del perdono o meno che non può essere generalizzato, ma va dato nel caso in cui la persona si penta attorno a un peccato specifico che impedisce la comunione fraterna. Anche qui, sono gli uomini preposti alla conduzione della Chiesa a dover esercitare questo potere. Si tratta di dinamiche importanti che coprono delle responsabilità altrettanto importanti, collegate agli episodi citati che videro Pietro e Paolo protagonisti dell’esercizio della disciplina e che possono riguardare anche l’ammissione o meno alla comunione fraterna e alla partecipazione al Memoriale a seconda del comportamento che alcuni possono prendere. Qui non si tratta di peccati “ordinari”, come torti, sgarbi od offese, ma di atti che possono gettare biasimo sulla Chiesa, condizioni di peccato non lasciato che coinvolgono anche la Comunità dei credenti, cattivi insegnamenti ed esempi.

Solo lo Spirito Santo può guidare i responsabili di una Chiesa in tal senso, poiché ragionando in termini umani o facendo riferimento alla semplice istituzionalità del ruolo, questi possono commettere errori che gli si ritorcerebbero contro; ricordiamo che “Come un passero che svolazza, come una rondine che volteggia, così una maledizione immotivata non ha effetto” (Proverbi 26.2). E il motivo deve trovarsi nelle cose spirituali. Si tratta allora di qualcosa di ben lontano dall’assolvere o meno un’anima, fatto certo registrato nei Vangeli, ma riferito sempre e solo a Dio e al suo Figlio Gesù Cristo, che dell’assoluzione è tramite e garante. La confessione dei peccati è l’unico mezzo per avere un perdóno di qualcosa di negativo commesso tra uomo e uomo, ma spetta alla persona colpita perdonare, non certo a un sacerdote che non può in alcun modo perdonare un peccato commesso contro Dio. La confessione auricolare può essere una buona cosa, ma per avere un consiglio, un indirizzo di comportamento a fronte di un problema dal quale non si sa come uscire. Così come i dieci comandamenti contemplano infrazioni fra uomo e uomo e fra l’uomo e Dio, altrettanto la confessione è necessaria per ripristinare la comunione fra entrambi gli elementi e, a seconda dei casi, va rivolta all’uno o all’altro.

 

Veniamo così al verso 20, “Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo”. Questo doveva essere compreso già da un anno e mezzo, quando Gesù fu preannunciato e presentato da Giovanni Battista che ricordiamo Lo battezzò come qualunque atro uomo che andava a lui. Ora chi aveva “orecchie per udire” già aveva fatto la scelta di unirsi a Lui e quelli che avevano creduto lo avevano riconosciuto; dirlo così, ufficialmente agli altri, avrebbe causato un fraintendimento come tutte le altre volte in cui i miracolati da Gesù, trasgredendo il suo ordine di non parlarne, avevano provocato reazioni unicamente appartenenti al mondo della carne. E qui vediamo anche un’altra prerogativa degli Apostoli, che avrebbero dovuto porre le fondamenta proprio sul fatto che Lui era “il Cristo, il Figlio del Dio vivente”: loro lo avevano saputo e dovevano conservare quel dato come un tesoro. Scrive un fratello che “La vita di Gesù doveva giungere al suo termine prima che i suoi discepoli rendessero testimonianza di lui come del Cristo; anzi, il Signore stesso doveva, per primo, annunciare questo pubblicamente davanti al popolo nell’ora del suo martirio”. E lo fece dinnanzi all’organo che lo rappresentava.

Andando all’episodio cui si riferiscono queste parole, leggiamo che il sommo sacerdote “gli domandò «Sei tu il Cristo il Figlio del Benedetto?» E Gesù disse: «Io lo sono. E voi vedrete il Figlio dell’uomo sedere alla destra della Potenza, e venire con le nuvole del cielo». E il sommo sacerdote, stracciatasi la veste disse: «Abbiamo ancora bisogno di testimoni? Voi avete udito la bestemmia, che ve ne pare?” (Marco 14.62). Ecco cosa ne fecero gli altri delle parole di Gesù: sentito che era “il Cristo, il Figlio del Benedetto”, lo accusano di bestemmia e “Tutti sentenziarono che era reo di morte”.

Dalla lettura di questo passo allora vediamo che il rifiuto aperto e definitivo a Nostro Signore doveva arrivare direttamente a Lui dai più stretti interessati, cioè il sommo sacerdote e il tribunale ebraico (Sinedrio). A dire di essere il Cristo doveva essere Lui stesso e non i discepoli cui viene ordinato di tenere per loro quella verità. “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” è una frase facile a dirsi e a ricordarsi, ma è totalmente inutile se non la si fa propria, poiché anche un ateo sa che si dice che Gesù sia vissuto e che fosse Figlio di Dio, ma non per questo è salvato.

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11.12 – TU ES PETRUS (Matteo 16.13-17)

11.12 – Tu es Petrus (Matteo 16.13-17)

 

 18E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. 

 

 

Prima di affrontare questi versi, che se fossero stati visti nella loro semplicità non avrebbero causato fraintendimenti nel cristianesimo, è necessaria una premessa sulla mia persona: non ho aderito ad altro se non al cristianesimo vissuto in modo indipendente, svincolato tanto dal Cattolicesimo Romano quanto dal Protestantesimo nelle sue molte forme. Credo che, per essere definita “Chiesa” sia sufficiente una Comunità composta da “due o tre radunati nel mio nome” (Matteo 18.20), come avremo modo di sviluppare in futuro. Credo che Dio parli a chi lo ascolti e che questa persona possa trovarsi in tutte le denominazioni cristiane che presentano ai propri aderenti la possibilità di avere a che fare con una traduzione corretta delle Scritture perché quella, non la Chiesa, comunità dei credenti, è il riferimento per entrare attraverso quella “porta stretta” la cui unica via è costituita da Gesù Cristo. Un vero credente può solo indicare la via agli altri, volendo portando la sua esperienza ed esprimendo ciò che prova, o quello che il Signore gli ha rivelato attraverso lo Spirito Santo, entità preposta alla sua consolazione: “Lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Giovanni 14.26)

Venendo al verso 18, vediamo chiaramente come i soggetti siano due, Pietro che ha affermato “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, e quanto da lui detto, che diventa pietra-roccia su cui Gesù edificherà la sua Chiesa come una casa costruita su di Lui, in grado di resistere alle forze avverse. Se la Chiesa fosse fondata su Pietro, cioè un uomo come noi, sarebbe un assurdo e, anche ammettendo come lontana ipotesi che ciò sia vero, Nostro Signore lo avrebbe detto chiaramente senza ricorrere ad un giro di parole fra “Pietro”, greco Pétros, pietra, sasso, e pétra, roccia, rupe, “su questa pietra”. E coloro che tradussero queste parole dall’aramaico al greco, certamente non sbagliarono.

Ancora, se la Chiesa fosse fondata su Pietro, persona che difese strenuamente il Vangelo e le proprie idee, che ebbe un ruolo fondamentale nella prima Chiesa a Gerusalemme, si sarebbe certamente adoperato perché Marco, suo discepolo, lo riportasse nella sua opera.; invece, proprio al riguardo tace, riportando un dialogo molto più stringato di Matteo: “Ed egli domandava loro: «ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno” (8. 29,30).

Purtroppo la “traduzione interconfessionale in lingua corrente”, la cosiddetta TILC, riporta “Per questo io ti dico che tu sei Pietro e su di te, come su una pietra, io costruirò la mia comunità”. Ora credo che nessun insegnante di greco possa lasciar passare una simile traduzione che non solo distorce, ma rinnega anche la Chiesa stessa definendola “comunità”, termine passabile in altre circostanze ma non qui, dove l’Ecclésia è l’insieme dei “chiamati fuori”, degli uomini che desiderano porre in Cristo il fondamento della loro vita. Si tratta di un errore che, per grossolanità, è paragonabile a uno dei tanti commessi dalla “Traduzione del Nuovo Mondo” dei Testimoni di Geova che tuttavia, restando isolata, non può potenzialmente traviare allo stesso modo la conoscenza i semplici come la versione TILC di cui si legge che “Protestanti e Cattolici hanno lavorato insieme in questa traduzione e insieme la presentano ai lettori. È una traduzione interconfessionale, accolta da tutte le confessioni cristiane, approvata dall’Alleanza Biblica Universale e da parte Cattolica dall’autorità ecclesiastica (CEI)”. Una traduzione fondata sul compromesso, per accontentare un po’ tutti, col famoso “un colpo al cerchio e uno alla botte”. Fortunatamente, la TILC non ha la stessa diffusione della “Bibbia di Gerusalemme”, della Luzzi, della Diodati “riveduta”, o della CEI originale su cui basiamo queste riflessioni, segnalandone le varianti. Al contrario la traduzione semplicistica del testo biblico operata dalla TILC, lo ha terribilmente inaridito e reso simile a un romanzo, o a una lettura di puro intrattenimento dalla quale, al massimo, si possono trarre dei begli insegnamenti morali. Ma non serve a nulla, è impossibile procedere ad una esegesi del testo.

Tornando in tema, Gesù afferma che proprio sulla dichiarazione di Pietro edificherà la sua Chiesa: se “Simone, figlio di Giona” era Pietro – verità incontestabile – altrettanto e ancora di più lo era il fatto che nessuna Chiesa può fondarsi su altro principio cardine se non quello che Gesù è “il Cristo, il Figlio del Dio vivente (…) e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa”. Purtroppo questo verso così importante viene liquidato con “nemmeno la potenza della morte potrà distruggerla” nella TILC in cui il senso dell’impotenza di Satana a “prevalere” su di essa e le verità conseguenti vengono fortemente ridotte.

Sulla distinzione “Pietro – pietra” si discute da sempre e molte pagine sono state scritte con tesi contrapposte, per cui mi asterrò dall’addentrarmi in questioni che non portano da nessuna parte anche perché una cosa è la difesa dottrinale e altro è la contesa. Scrivendo a Tito, suo discepolo e collaboratore greco, Paolo gli ordina “Evita le questioni sciocche, le genealogie, le risse e le polemiche intorno alla Legge, perché sono inutili e vane” (3.9).

Da notare comunque, tornando alla seconda parte del verso 18, che la traduzione letterale ha “Le porte dell’Ade non la potranno vincere”, ben diversa da “la potenza della morte” perché il riferimento non è tanto alla morte come “salario del peccato” – al limite questo è una delle possibili applicazioni –, ma “le porte dell’Ade” è riferito al regno della morte in potere a Satana, definito in Ebrei 2.14 “Colui che della morte ha il potere”. Sicuramente utile per capire l’espressione delle “porte dell’Ades” è Giobbe 38.17, quando Dio gli chiede “Ti sono state svelate le porte della morte e hai visto le porte dell’ombra tenebrosa?” confermando di avere pieno potere su ogni cosa, morte compresa, come avvenuto con Gesù con la sua risurrezione.

Ricordiamo che le “porte” di una città erano i luoghi in cui le autorità si riunivano per deliberare e da esse uscivano gli eserciti per andare alla guerra. “Le potenze degli inferi”, corretta interpretazione de “le porte”, si riferisce allora a tutta la potenza dell’Avversario che vede nella Chiesa il nemico da distruggere perché composto da uomini che, nonostante protetti e salvati, sono comunque defettibili e soggetti a cadere nell’errore nel momento in cui non vigilano su loro stessi e non pregano secondo il “Padre Nostro”, “non abbandonarci nella tentazione”.

La Chiesa come nemico da abbattere è un concetto che troverà il suo culmine nella Bestia di cui è detto che “…(le) fu data una bocca – Satana è e sarà sempre un subordinato e ha bisogno sempre che gli venga concesso un potere – per proferire parole d’orgoglio e di bestemmie, con il potere di agire per quarantadue mesi. Essa aprì la bocca per proferire bestemmie contro Dio, per bestemmiare il suo nome e la sua dimora, contro tutti quelli che abitano in cielo. Le fu concesso di fare guerra contro i santi e di vincerli – provvisoriamente –; le fu dato potere sopra ogni tribù, popolo e nazione. La adoreranno tutti gli abitanti della terra, il cui nome è scritto nel libro della vita dell’Agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo” (Apocalisse 13.5-8). E il termine “adorare” qui non è inteso come nell’antichità, in cui le persone si prostravano davanti all’imperatore, ma “affidare la propria vita a qualcuno condividendone gli scopi e gli ideali”.

Sostando ancora un attimo su questi versi, vediamo che l’Agnello, immolato sulla croce, in realtà lo fu “fin dalla fondazione del mondo”, cioè prima di creare l’universo Padre e Figlio concordarono il piano per la salvezza dell’uomo qualora fosse caduto. Come effettivamente avvenne.

La porta quindi rappresenta l’ingresso e l’uscita, la definizione di un confine che da sempre un impero tende ad allargare, e questo a maggior ragione si verifica con quello dell’Avversario, ma “I monti circondano Gerusalemme: il Signore circonda il suo popolo, da ora e per sempre” (Salmo 125.1), naturalmente in senso protettivo perché altrimenti quella città soccomberebbe. Perché “Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace, dice il Signore che usa misericordia. (…) Ecco, io ho creato il fabbro che soffia sul fuoco delle braci e ne trae gli strumenti per il suo lavoro, e io ho creato anche il distruttore per devastare. Nessun’arma affilata contro di te avrà successo, condannerai ogni lingua che si alzerà contro di te in giudizio. Questa è la sorte dei servi del Signore, quanto spetta a loro da parte mia. Oracolo del Signore” (Isaia 54.10-17).

Da queste parole intravediamo che la Chiesa, nuovo popolo di Dio e, andando oltre, “Corpo di Cristo”, sarà risparmiata nell’ora più terribile. Nell’ ”arma affilata”, da sempre garanzia di vittoria per chi la possiede, vediamo l’inefficacia di ciò che umanamente garantirebbe l’eliminazione dei “santi”. Il condannare “ogni lingua”, poi, è connesso alla frase “Non sapete voi che i santi giudicheranno il mondo?” (1 Corinti 6.2).

Abbandonando questi riferimenti nell’Antico Patto, vediamo quelli del nuovo: “Le mie pecore ascoltano la mia voce ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutte e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola” (Giovanni 10. 27-30).

Paolo in Romani 8.35-39: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Come sta scritto: «Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo considerati come pecore da macello». Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né altezza né profondità, né alcuna creatura potrà separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore”. E, solo dalla lettura del libro degli Atti, sappiamo che Paolo queste cose le provò tutte, per cui parlava con cognizione di causa e non per portare i credenti di Roma ad uno stato “euforico” o distrarli dal pensiero delle persecuzioni che subivano. Chi, credendo in Gesù Cristo e seguendolo perché sa che Lui solo è “il Figlio del Dio vivente”, possiede “un regno incrollabile” e sa che “il nostro Dio è un fuoco divorante” (Ebrei 12.28,29). Un fuoco che brucerà quel “leone ruggente” che è Satana, che “va in giro cercando chi possa divorare” (1 Pietro 5.8). Amen.

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11.11 – lPOTESI E VERITÀ (MATTEO 16.13-17)

11.11 – Ipotesi e verità (Matteo 16.13-17)

 

13Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». 14Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». 15Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». 16Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». 17E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. 

 

 

Dopo aver guarito il cieco a Bethsaida, Gesù giunge coi Suoi nella “regione di Cesarea di Filippo”, nome dato da Erode Filippo alla città un tempo chiamata Panea (dal nome del dio Pan); questo fece in onore dell’imperatore Tiberio, il cui nome completo era Tiberio Giulio Cesare Augusto, dopo avere ampliato e abbellito la città. Cesarea di Filippo è  un nome che viene dato per distinguerla dall’omonima, detta “Marittima”, fondata da suo padre Erode il Grande. Il territorio di Cesarea, prevalentemente pagano, fu scelto da Gesù come zona di ritiro coi discepoli per istruirli in merito alla Sua morte che si stava avvicinando: perché ciò fosse possibile, era necessario che si trovassero lontani da quelle folle pronte a vedere in Lui il guaritore, ma poco disposte a interrogarsi seriamente su chi fosse. Era quindi necessario, dopo un anno e mezzo circa in cui i dodici erano con Lui, che lo conoscessero ancora meglio e soprattutto venissero fatti partecipi di verità che avrebbero compreso in seguito. I sinottici, riguardo all’insegnamento ai dodici, hanno tramandato la parte più saliente dei suoi discorsi e Luca ci dice che, prima della domanda “La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”, Gesù “si trovava in un luogo solitario a pregare” (9.18).

La risposta che diedero i discepoli alla domanda di Gesù rifletteva quanto si diceva effettivamente di Lui, che qui si definisce “Figlio dell’uomo” a sottolineare il modo immediato con cui si presentava “esternamente” secondo Isaia 53.2 “È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza da attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima”. Definendosi qui “Figlio dell’uomo” Gesù vuole sottolineare la sua umanità, che tutti potevano constatare, a differenza di quella di “Figlio di Dio” che pochi, pensando a tutta la gente che aveva fin lì incontrato, erano stati disposti ad attribuirgli.

Nostro Signore qui fa una domanda precisa ed ottiene una risposta che i dodici non ebbero alcun problema a dare: “Alcuni, Giovanni Battista”, alludendo evidentemente ad Erode e ad altri che condividevano la sua opinione quando disse “Quel Giovanni che io ho fatto decapitare, è risorto!” (Marco 6.16). E la superstizione, fedele compagna dell’ignoranza, fece il resto. I discepoli continuano dicendo “Altri, Elia” in quanto aspettato dagli israeliti prima della venuta del Messia. Vale la pena osservare che in proposito abbiamo Malachia 3 che riporta “Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate, e l’angelo dell’alleanza che voi sospirate. (…) Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore: egli convertirà il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i pardi perché io, venendo, non colpisca la terra con lo sterminio” (versi 1 e 22-24). Ora la traduzione dei LXX di questo libro, fatta nel 185 a.C. ad Alessandria d’Egitto, aggiunse ad Elia “il Tisbita” identificandolo con il profeta, per cui in Israele erano molti ad attendere la venuta di Elia il Tisbita in persona. Ecco perché a Giovanni Battista chiesero “Sei tu Elia?” (Giovanni 1.21), ottenendo una risposta negativa.

I discepoli, proseguendo, dicono “altri, Geremia” perché a quel tempo una parte degli israeliti metteva in connessione l’ “uomo di dolori” di Isaia 53.2 con Geremia, detto “il profeta del pianto”. Erano molti a pensare che il profeta di cui si parla in Deuteronomio 18.15, “il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto”, fosse da identificare proprio in Geremia, ritenuto “pari” a Mosè. L’ultima ipotesi sull’identità del “Figlio dell’uomo” è “…o uno dei profeti”, secondo Luca “uno dei profeti antichi resuscitato”, secondo Marco “Un profeta, pari ad uno dei profeti”: trattasi certo di una definizione più nebulosa delle precedenti ma che attesta come, in un modo o in un altro, tutti lo guardavano come un uomo straordinario. Ma non serviva a nulla, non bastava, Gesù non voleva questo, né cercava, né ammetteva di essere riconosciuto in modo diverso dalla sua reale esistenza come il Figlio di Dio e per questo inizia il suo discorso coi discepoli. “…o uno dei profeti” era anche l’opinione che aveva Nicodemo quando, venuto da Gesù, gli disse “Sappiamo che sei venuto da Dio come maestro; nessuno infatti può compiere questi segni che tu compi, se Dio non è con lui”.

La risposta dei dodici alla domanda di Gesù non comprende l’opinione dei farisei e relativi associati perché quelli non cercavano di darsi spiegazioni su chi fosse in quanto guardavano al fatto che li metteva sempre in difficoltà davanti al popolo e per questo andava eliminato. La “gente” di cui Gesù chiede notizia è il popolo, cioè chi si ricordava dei miracoli, del Suo operato, chi lo seguiva, e la domanda ai dodici sull’identità del “Figlio dell’uomo” ci conferma che essi parlavano con la gente, non costituivano un gruppo chiuso e isolato dal contesto in cui vivevano.

 

A questo punto, ricevuta una risposta esauriente alla prima domanda, Gesù passa a una verifica, a dire “Bene, la gente pensa questo di me, ma voi?”. Qui la questione si fa complessa perché i discepoli, per rispondere, avrebbero dovuto esprimersi in modo diverso dal popolo, non dare un’opinione, ma dimostrare di avere delle certezze, vivendo ormai accanto a Lui da un anno e mezzo. E qui viene in mente ciò che gli dissero dopo l’episodio della tempesta sedata, “Veramente tu sei il Figlio di Dio!”, affermazione dettata dalla paura e dalla meraviglia per quanto da Lui fatto, ma che in quel caso era fuori luogo soprattutto per quel “veramente”.

A questo punto è Pietro a prendere la parola e credo che lo abbia fatto, conoscendo il suo carattere, d’impeto, senza pensarci due volte: “Tu sei il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”. Si tratta di un’affermazione di una portata enorme, considerato che lo Spirito Santo non era ancora sceso. È un boato, un lampo che squarcia il buio perché “TU – e non altri – SEI – cioè esisti come essere totale – IL CRISTO – cioè Colui che tutti aspettavano – IL FIGLIO – “il” e non “un”, prima di tutto non dell’uomo, ma – DELL’IDDIO VIVENTE”.

Pietro non poteva aggiungere altro e implicitamente afferma di non aver bisogno di dire nulla di più. Gesù era stato chiamato “Signore”, “Figlio di Davide”, “Maestro buono”. Ricordiamo Giovanni Battista, che lo aveva definito “L’Agnello di Dio, che prende su di sé il peccato del mondo”, ma “Il figlio dell’Iddio vivente”, nessuno prima di allora lo aveva detto. E, contrariamente a quanto sostiene una parte del cristianesimo, non credo che Pietro parlasse a nome di tutti, come a volte avveniva, perché altrimenti Gesù non avrebbe detto “Tu sei beato, Simone, figlio di Giona”, ma “Siete beati”. Tra i dodici non vi fu nessuna consultazione ma, mentre gli altri esitavano a rispondere, Pietro si fa avanti.

Sappiamo che a rivelare tutto questo a Pietro fu il Padre che gli permise di fare accostamenti fino ad allora impensabili per un discepolo o un apostolo. Infatti ricordiamo Salmo 2.7-9 “Voglio annunciare il decreto del Signore. Egli mi ha detto: «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato. Chiedimi e ti darò in eredità le genti e in tuo dominio le terre più lontane. Le spezzerai con scettro di ferro, come vaso di argilla le frantumerai”. Dicendo “Il figlio dell’Iddio vivente”, Pietro ricorda questo verso: il Figlio “generato” nel senso di rivelato progressivamente agli uomini, concetto che approfondiremo prossimamente. Notare anche lo “scettro di ferro”, che recentemente abbiamo connesso alla profezia “Lo scettro non sarà rimosso da Giuda” pronunciata dal patriarca Giuseppe. Va fatta comunque molta attenzione perché l’identità precisa di Nostro Signore è la prima a dover essere rivelata, per lo meno nel contesto ebraico. Infatti la prima cosa che fece Saulo da Tarso una volta ripresosi dalla sua cecità temporanea, fu “Rimase alcuni giorni insieme ai discepoli che erano a Damasco, e subito nelle sinagoghe annunciava che Gesù è il Figlio di Dio” (Atti 9.20). È una verità che costituisce la prima pietra dell’edificio spirituale posto a salvezza del credente. Se Gesù non fosse il Figlio di Dio, il Suo sacrificio sarebbe stato inutile perché, nella storia, molti sono gli uomini che hanno dato la vita per i loro simili, ma non hanno salvato l’anima di nessuno.

Quella che Pietro dice a Gesù è una verità basilare, fondamentale, che non può che venire definita “pietra” ed infatti viene più volte ribadita nelle lettere tanto di Paolo che di Giovanni. Pensiamo all’apertura della lettera ai Romani, dove si afferma che il Vangelo di Dio era stato “promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della resurrezione dei morti” (1.1-4). Ricordiamo anche l’apertura della lettera agli Ebrei, verso che già conosciamo, quando si dice che “ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo. Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente” (1.2,3).

Andiamo poi all’apostolo Giovanni, che scrive “Noi stessi abbiamo visto e attestiamo che il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo. Chiunque confessa che Gesù è il Figlio di Dio, Dio rimane in lui ed egli in Dio”. (1 Gv 4. 14,15). Infine possiamo citare qualche verso più avanti: “E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue” (5.5).

Concludendo: la verità espressa da Pietro è alla base della conoscenza cristiana, è il primo gradino, come testimoniato dalle letture che ho citato da Atti 9.20 alla prima lettera di Giovanni 5.5: non possiamo che constatare che le verità lì espresse si sviluppano tutto attorno al fatto che Gesù è “il Figlio di Dio” proprio perché solo essendo tale avrebbe potuto salvare la creatura altrimenti condannata per sempre ad un presente e a un futuro di tenebre. Amen.

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11.10 – IL CIECO DI BETSÀIDA (MARCO 8.22-28)

11.10 – Il cieco di Betsàida (Marco 8.22-28)

 

22Giunsero a Betsàida, e gli condussero un cieco, pregandolo di toccarlo. 23Allora prese il cieco per mano, lo condusse fuori dal villaggio e, dopo avergli messo della saliva sugli occhi, gli impose le mani e gli chiese: «Vedi qualcosa?». 24Quello, alzando gli occhi, diceva: «Vedo la gente, perché vedo come degli alberi che camminano». 25Allora gli impose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente, fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa. 26E lo rimandò a casa sua dicendo: «Non entrare nemmeno nel villaggio».

 

 

Narrato solo da Marco, si tratta di un miracolo che ha numerose analogie con quello già esaminato del sordomuto della Decapoli, gli unici due in cui Gesù ricorre alla saliva per guarire. È interessante l’introduzione, “Giunsero – e non “approdarono” – a Betsaida”, che ci lascia supporre il fatto che, coi suoi discepoli, Nostro Signore fosse sbarcato in qualche punto disabitato della sponda orientale del lago, dove i dodici si accorsero di non avere che “un solo pane” e vi fu l’insegnamento sui tre lieviti, dei farisei, dei sadducei e di Erode. Evidentemente c’era l’intenzione che il loro ingresso in Betsaida fosse in un certo qual modo più “riservato” rispetto a quello di un eventuale approdo, che avrebbe suscitato la curiosità degli abitanti del luogo che si sarebbero subito radunati sulla spiaggia. Gesù, quindi, arrivò nel paese di origine di Pietro, Andrea e Filippo, in cui aveva già operato molti miracoli come da 1.32-34: “Venuta la sera, gli portarono molti malati e indemoniati, (…) Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni, ma non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano”. Per lo stile e gli scopi che Marco si prefigge, cioè narrare gli episodi salienti e ricchi di riferimenti spirituali, va precisato non abbiamo elementi sufficienti per stabilire con piena certezza se quanto appena letto avvenne in Capernaum, oppure nella Betsaida da lei poco distante, o ancora in un punto equidistante da esse.

In ogni caso, in quel villaggio Gesù era ben conosciuto e infatti “gli condussero un cieco, pregandolo di toccarlo”, legati come molti al fatto che doveva esserci un contatto fisico con Lui perché una persona potesse guarire. Nel caso del sordomuto abbiamo letto che “lo pregarono di imporgli la mano”, dando così prova di riconoscerLo come profeta. Se però per quel miracolo è scritto che Gesù “lo prese in disparte”, qui lo prende per mano e lo porta fuori dal villaggio, senza che il cieco opponesse resistenza: ci fu un dialogo tra i due? Gesù gli disse “Guarda, ti porto fuori dal villaggio”, oppure quella mano gli diede sicurezza e speranza senza che vi fosse bisogno di chiedere qualcosa? Certo quelli che lo avevano portato a Lui gli avranno detto che avrebbe incontrato Uno che avrebbe potuto guarirlo ma, non vedendo, quell’uomo non poteva sapere chi fosse, riconoscerlo, guardarlo, pur avendone sentito parlare. L’udito fu allora il primo senso a venire coinvolto.

Ci fu allora, quando i due s’incontrarono, un primo intervento rappresentato dal contatto attraverso la mano, gesto più intimo rispetto a quello del portare una persona prendendola per un braccio (o sotto) ad evitare eventuali cadute o inciampi, come fanno ad esempio i soccorritori di oggi, ma non sarebbe stata la stessa cosa.

La mano. Può essere alzata per colpire, come fece Caino col fratello (Genesi 4.8) e molti altri esempi, per giurare (14.22; 24.2); può ricevere qualcosa, ma anche venire condotta come in questo caso e, andando indietro nel tempo, per confermare l’assistenza di Dio come avvenne con Lot in Sodoma: “Quando apparve l’alba, gli angeli fecero premura a Lot, dicendo: «Su, prendi tua moglie e le tue due figlie che hai qui, per non essere travolto nel castigo della città». Lot indugiava, ma quegli uomini presero per mano lui, sua moglie e le sue due figlie, per un grande atto di misericordia del Signore verso di lui; lo fecero uscire e lo condussero fuori della città.” (Genesi 19.15,16). La mano è quindi figura di un intervento di Dio, come leggiamo in molti episodi del libro dell’Esodo, si cui troviamo anticipazione in 3.19: “Io so che il re d’Egitto non vi permetterà di partire, se non con l’intervento di una mano forte”.

Il cieco allora sentì la mano di Gesù, certamente non fredda, ma quel contatto non lo guarì a differenza di quanto era già avvenuto con chi toccava anche solo le frange del mantello: l’esperienza di quel cieco doveva essere diversa e la guarigione doveva avvenire poco per volta. Se fosse bastato un semplice contatto fisico, allora Nostro Signore sarebbe sottostato ai voleri degli accompagnatori di quell’uomo, che gli chiedevano appunto di toccarlo. Vi fu allora un tempo in cui il cieco stette a stretto contatto con Lui, con quella mano così diversa che sapeva condurlo meglio di chiunque altro nonostante l’insicurezza dei suoi passi. Chi non vede, se vuole affrontare un cammino sconosciuto, deve necessariamente fidarsi del proprio accompagnatore, altrimenti rimane fermo e disorientato, non sa cosa fare e l’unica cosa che può impossessarsi di lui è il timore, cosa che chiaramente non avvenne.  La mano di Gesù allora fu l’unico riferimento per quell’uomo che, privo della vista, aveva sviluppato in modo particolare l’udito e il tatto per cui chissà quali sensazioni avrà provato.

Ora, come avvenuto con sordomuto, Nostro Signore sostituisce il linguaggio verbale con quello dei gesti: nel primo caso usa le dita e la saliva, qui gli umetta gli occhi con essa e gli parla, perché in grado di udire. Il testo riporta una sola domanda. “Vedi qualcosa?”, lasciando all’uomo la risposta esattamente come al paralitico a Betesda, “Vuoi guarire?”. Marco ci descrive la reazione del cieco, che non guarda davanti a sé cercando di vedere, ma scrive “quello, alzando gli occhi”: li teneva bassi, o cercava l’azzurro di cui gli avevano parlato?

La risposta “Vedo la gente – altri traduce “gli uomini” –, perché vedo come degli alberi che camminano”, ha un significato molto più profondo di quello che potrebbe apparire, perché non sappiamo se fosse cieco dalla nascita oppure lo sia diventato. Nel primo caso, non aveva la possibilità di sapere cosa fossero gli alberi, ma conosceva che la tradizione ebraica, oltre che la Scrittura stessa, paragona gli uomini a loro. Gesù stesso disse in Matteo 3.10 “Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco”. Come alternativa, riferita alla seconda ipotesi anche se più dubbia, comunicava a Gesù di vedere in modo confuso in base alla sua conoscenza pregressa.

In realtà ciò che importa è che da quelle parole traspare la richiesta di un aiuto ulteriore, perché la vista cominciava a dare qualche debole segnale, ma non abbastanza per raggiungere quell’autonomia tanto sperata. “Allora gli pose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente, fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa”: non fu un miracolo imperfetto nel suo evolversi, ma un avvenimento che Marco, una volta disceso lo Spirito Santo, lasciò a testimonianza dell’efficacia della Parola di Dio sull’uomo, cieco prima di conoscerla ed accoglierla, che dopo l’intervento teso a salvarlo ha tutt’altro che raggiunto la possibilità di vedere tutto nei dettagli ed essere autonomo, ma ha bisogno di un percorso per distinguere ciò che lo circonda da vicino e da lontano “distintamente”, parola che sottintende la possibilità di scegliere ciò che è utile da ciò che non lo è e comportarsi di conseguenza. Il vedere “da lontano distintamente ogni cosa”, ci parla poi della capacità di discernere gli effetti delle nostre azioni, di chi fidarci oppure no delle persone con cui abbiamo a che fare per lo spirito che le anima.

Se quel cieco si fosse accontentato di vedere gli uomini come alberi, sarebbe certo inciampato e non sarebbe stato in grado di orientarsi una volta allontanatosi stentatamente da Gesù: quando una persona si converte non conosce tutto il progetto salvifico di Dio nei suoi confronti, ma solo il Suo amore rivelato attraverso la persona ed opera del Figlio; spesso basta un verso per essere presi per mano ed essere portati “in disparte”: “Iddio ha tanto amato il mondo, da dare il suo Unigenito Figlio perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna”.

Ci sono allora dei miracoli immediati, volti a fare ammettere a chi legge che, senza un intervento diretto del Padre che lo attira al Figlio e si rivela tramite lo Spirito Santo, si è e si rimane ciechi, sordi, muti, zoppi o malati (o tutte queste cose assieme); poi però è necessario un cammino, una rivelazione successiva e – aggiungo – continua: fu così col paralitico di Betesda, che non sapeva chi fosse Colui che lo aveva guarito e solo successivamente ne ebbe contezza, col sordomuto che provò su di sé le attenzioni di Gesù avvertendole in quel corpo chiuso alla ricezione e alla trasmissione, così impossibilitato a comunicare. Troviamo tracce dell’insegnamento di Dio con Mosè che, attratto dalla visione del cespuglio che bruciava senza consumarsi, non sapeva di trovarsi di fronte alla Sua presenza. Un fratello ha scritto “Quello del cespuglio ardente è un racconto che fa riflettere circa il nostro passato umano, condizione che non ci permette di stare vicini a Dio così come siamo perché non si può non considerare la santità del suo Nome e la separazione storica tra Lui e l’uomo a causa del peccato introdotto nel mondo da Adamo ed Eva”.

Infatti, se una persona non viene convinta di peccato, giustizia e giudizio per mezzo dello Spirito Santo, non arriverà mai a Lui. Allora, ecco che inizia a vedere “gli uomini che sembrano alberi”, ma quando comprende, paragona la santità di Dio alla condizione in cui vive e medita su di essa, ecco che inizia a prendere atto progressivamente di ciò che lo circonda fino a distinguere le cose anche da lontano.

L’episodio si conclude con una proibizione: rimandandolo a casa sua gli disse “Non entrare nemmeno nel villaggio” perché quanto avvenuto era il frutto di un’esperienza unica, diretta, personale, che solo una volta elaborata e meditata andando oltre la guarigione in sé poteva essere comunicata e rappresentata agli altri con modi e termini appropriati. In pratica, Gesù vuole porre quell’uomo in una condizione diversa, oltre la teatralità dell’esultanza facendosi vedere dai suoi simili gridando la sua guarigione perché avrebbe fatto, di quel miracolo così personale, un pubblico spettacolo.

Abbiamo allora, raccordando tra loro il miracolo del paralitico di Betesda e questo in esame, due domande: prima Gesù chiede all’uomo, infermo sempre e comunque, se vuole guarire e, pensando alle persone che conosciamo, la risposta non è così scontata. Per beneficiare dell’intervento di Nostro Signore, però, è necessario essere presi in disparte, lontano dalla folla indipendentemente dal fatto che questa sia costituita da amici, parenti o semplici persone conosciute superficialmente, poiché il dialogo con lui avviene, appunto, lontano da interferenze.

Poi c’è una domanda fondamentale, “Vedi qualcosa?”, la cui risposta determina davvero la qualità della visione: se uno si autoconvince di vedere, s’incammina verso una vita di presunzione, ma se ammette, confessa di percepire le cose in modo imperfetto, ottiene la vera guarigione come testimoniò anche Pietro nella sua seconda lettera: “Per questo mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l’amor fraterno, all’amor fraterno la carità. Se queste cose si trovano in abbondanza in voi,  non vi lasceranno né oziosi, né senza frutto per la conoscenza del Nostro Signore Geù Cristo. Chi invece non ha queste cose è cieco e miope, dimenticando di essere stato purificato dai suoi antichi peccati” (1.8.9). Amen.

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11.09 – NON CAPITE ANCORA? (Matteo 15.5-12)

11.09 – Non capite ancora? (Matteo 15.5-12)

 

5Nel passare all’altra riva, i discepoli avevano dimenticato di prendere del pane. 6Gesù disse loro: «Fate attenzione e guardatevi dal lievito dei farisei e dei sadducei». 7Ma essi parlavano tra loro e dicevano: «Non abbiamo preso del pane!». 8Gesù se ne accorse e disse: «Gente di poca fede, perché andate dicendo tra voi che non avete pane? 9Non capite ancora e non ricordate i cinque pani per i cinquemila, e quante ceste avete portato via? 10E neppure i sette pani per i quattromila, e quante sporte avete raccolto? 11Come mai non capite che non vi parlavo di pane? Guardatevi invece dal lievito dei farisei e dei sadducei». 12Allora essi compresero che egli non aveva detto di guardarsi dal lievito del pane, ma dall’insegnamento dei farisei e dei sadducei.

 

 

Quanto abbiamo letto si verifica subito dopo la predizione del “segno di Giona” quale unico dato ai farisei e sadducei su cui abbiamo già fatto qualche considerazione: ci dice molto il fatto che Gesù non si sia allontanato da loro a piedi, ma in barca coi dodici, a rimarcare la distanza, e relativa impossibilità a seguirlo anche fisicamente, fra la “generazione malvagia e adultera” e quelli che in Lui avevano creduto nonostante la limitatezza della loro comprensione che, nel passo di oggi, qui emergerà con tutta la sua evidenza. Marco scrive “Li lasciò, salì sulla barca con i suoi discepoli e partì per l’altra riva” (8.13), ma non ci viene detto dove per cui, stante le dinamiche dell’episodio, viene da pensare che approdarono su una spiaggia lontana da un centro abitato.

Possiamo anche supporre che tra l’arrivo di Gesù a Dalmanutà, il suo intervento coi suoi oppositori e la partenza per la riva opposta del mare di Galilea passò poco tempo nel senso che i discepoli non ebbero modo di pensare a fare provviste, stante la loro presenza all’incontro coi farisei e sadducei e l’interesse col quale seguirono quanto avvenne.

La presenza di quel “solo pane” fu occasione per Gesù di insegnare loro un importante metodo di comportamento, cioè “Fate attenzione, guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode” (Marco), o “dei farisei e dei sadducei” come scrive il nostro testo. Nostro Signore allora prende spunto da quel pane che i discepoli non avevano con sé, lavorato con un lievito innocuo, per istruirli sulla possibilità che una sostanza, spiritualmente analoga, non andasse a intaccare la loro anima e coscienza.

Gesù, stante la situazione che si era venuta a creare, avrebbe potuto iniziare un discorso sul non preoccuparsi “per il cibo che perisce” e pensare “a quello per la vita eterna”, ma rimprovera i dodici perché, in quel momento, la loro preoccupazione era quella di come risolvere un problema umano tralasciando l’insegnamento che rivolgeva loro. La parola “lievito”, infatti, portò subito alla loro mente il pane naturale, senza alcuno spazio per ciò cui la parola alludeva.

È opinione comune che col lievito s’intenda il peccato ed in un certo senso è vero, ma è un termine suscettibile a interpretazioni innumerevoli. Il peccato infatti è un’azione che, contrapponendosi al volere di Dio, impedisce al credente che lo ha commesso la possibilità di una relazione con Lui fino a quando non viene perdonato tramite la sua confessione e soprattutto l’abbandono di esso.

La vera individuazione del lievito va invece fatta nell’orgoglio e nell’ipocrisia, nel lasciare spazio all’Io che, se lasciato libero, finirebbe inevitabilmente per lievitare, cioè inquinare la persona allontanandola sempre di più dal Signore. Gesù parlò spesso di questa sostanza e solo in un caso positivamente: “Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata” (Luca 13.21). Conscio dell’importanza dell’insegnamento riguardo al lievito negativo, invece, Paolo lo sviluppa mettendone in evidenza tutta la sua pericolosità: in 1 Corinti 5.6 leggiamo “Non è bello che voi vi vantiate: non sapete che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta?”. Abbiamo allora un collegamento al “vantarsi” , cioè esaltare i propri meriti, celebrarsi, decantarsi, lodarsi. In poche parole, sentirsi migliori di altri. Al riguardo, prosegue scrivendo “Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. (…) Celebriamo dunque la festa – il memoriale – non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di verità” (vv.7,8).

Il “lievito vecchio” è il modo di ragionare dell’uomo naturale, che va “tolto via”, perché il credente è chiamato ad essere azzimo e non a caso, negli scritti dell’Antico Patto, troviamo il pane senza lievito quale strumento di relazione con Dio proprio in vista della futura liberazione dell’uomo dal peccato. Gesù in Luca 12.1 ricordò il concetto espresso ai discepoli specificando “Guardatevi bene dal lievito dei farisei, che è l’ipocrisia” (13.21), quindi la finzione, l’interpretazione di un ruolo che non si ha, l’adagiarsi su tradizioni e massime morali magari anche belle, ma vuote al loro interno, sterili. Occorre essere se stessi sempre, ma nella condizione di esseri umani rinnovati, azzimi.

Nella nostra lettura di Matteo e Marco abbiamo il lievito di tre categorie di persone: i farisei, i sadducei e di Erode. Conosciamo i primi e i secondi, ma quel “di Erode”, quindi citando una persona specifica, è riferito non tanto a lui, identico a molti altri regnanti quanto a comportamento e nefandezze, ma agli Erodiani, piccolo partito che lo sosteneva, ma ugualmente pericoloso perché associato agli altri che Lo volevano uccidere. Si tratta di una mia osservazione, ma se prendiamo letteralmente “il lievito di Erode”, cioè a quello che era in lui, allora è chiaro il riferimento alla morte di Giovanni Battista e alle dinamiche che la provocarono.

“Fate attenzione” e “guardatevi” sono due esortazioni tese a non dare per scontato che la nostra condizione di salvati impedisca il rimanere invischiati in situazioni che sono il risultato di una mancata cura quotidiana della nostra persona. Ricordiamo le istruzioni date a Mosè a proposito della celebrazione della Pasqua: “Non si veda lievito presso di te, entro tutti i tuoi confini, per sette giorni” (Deuteronomio 16.4). Pensiamo alla cura che le famiglie israelite avrebbero dovuto impiegare perché neppure un granello fosse presente nelle loro case. Anche il parallelo di Esodo 12.19 è eloquente: “Per sette giorni, non si trovi lievito nelle vostre case, perché chiunque mangerà del lievitato dal giorno primo al settimo, quella persona sarà eliminata da Israele”. Quando ci presentiamo davanti al Signore – e lo siamo sempre – ecco allora che la cura perché il lievito sia assente dev’essere continua, abbiamo il dovere e la necessità di “fare attenzione” e “guardarci” proprio perché non ne siamo esenti.

Il lievito, allora, solo in senso lato può essere ammesso come figura del peccato, poiché in realtà è riferito a ciò che lo produce, cioè il voler essere indipendenti da Dio e se Caino espresse questa volontà ufficialmente allontanandosi da Lui dopo il giudizio, altri lo fanno aggiungendo o togliendo dalla Scrittura, come i farisei e i sadducei, adagiandosi sul sistema da loro organizzato.

Tutto questo era racchiuso nelle parole che Gesù disse ai suoi, ma sappiamo che non lo ascoltarono, perché leggiamo “Ma – forte avversativo – essi parlavano tra loro e dicevano: «Non abbiamo preso del pane!»”, cioè si preoccupavano per qualcosa di enormemente basso confrontato all’insegnamento che avrebbero dovuto ricevere. Non erano preoccupati, ma “discutevano fra loro perché non avevano pane” (Marco), quindi da un lato esprimevano preoccupazione perché quel pane che avevano non sarebbe bastato a sfamarli, ma anche si accusavano reciprocamente, interrogandosi su chi di loro avrebbe dovuto pensare a comprarlo mentre il loro Maestro discuteva coi farisei e sadducei e si accusavano l’un l’altro.

“Gente di poca fede” è il rimprovero che fu loro rivolto, ma leggiamo le parole di Marco: “«Perché discutete che non avete pane? – infatti non ne avevano motivo – Non capite ancora e non comprendete? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchie non udite? E non vi ricordate, quando ho spezzato i cinque pani per i cinquemila, quante ceste colme di pezzi avete portato via?». Gli dissero «Dodici». «E quando ho spezzato i sette pani per i quattromila, quante sporte piene di pezzi avete portato via?». Gli dissero: «Sette». E disse loro: «Non capite ancora?»” (8.17-21). Da notare che, alle prime quattro domande, i discepoli non seppero rispondere. Qui Gesù pone di fronte i Suoi a quanto fosse inutile il loro parlare, perché avevano con loro chi, come più volte dimostrato, avrebbe certamente provveduto. Basta ricordare che li inviò in missione senza nulla. E ricorda le “ceste colme” di pani e pesci raccolti che parlavano del fatto che Dio, quando dona, va sempre oltre, anche nella necessità più cupa espressa da Davide in Salmo 55.18, 19 che si trovava in una situazione ben più seria di quella dei presenti nel nostro episodio: “Di sera, al mattino, a mezzogiorno vivo nell’ansia e nel sospiro, ma egli ascolta la mia voce; in pace riscatta la mia vita da quelli che mi combattono: sono tanti i miei avversari”.

I dodici avevano dimenticato con chi erano, era bastata l’insufficienza del pane a disorientarli, a impedir loro di capire. E sì che, dalle loro risposte, ricordavano i due episodi della “moltiplicazione”, ma non erano in grado di collegarli alle loro persone. E il nostro testo riporta che Gesù riprende da capo: “Come mai non capite che non vi parlavo di pane? Guardatevi invece dal lievito dei farisei e dei sadducei. Allora essi compresero che egli non aveva detto di guardarsi dal lievito del pane, ma dall’insegnamento dei farisei e dei sadducei”. Ecco perché “l’uomo naturale non comprende le cose di Dio”, non sa né può senza una rivelazione dello Spirito, senza un’appartenenza a Lui. Senza una vera e radicata fede nel Figlio, l’uomo resta solo, potremmo dire un essere patetico. E infatti “Senza di me non potete far nulla”.

Concludendo, il “lievito dei farisei” è composto dalle dottrine aggiunte alla Parola. Il “lievito dei sadducei” rappresenta le verità negate, come quella della resurrezione e, infine, quello “di Erode” è costituito dalle “verità laiche”, dall’inquinamento del mondo sulla Fede e a Verità. E il mondo, non avendo nulla a che fare con Cristo, vorrebbe entrare con forza nella Chiesa e spesso ci riesce. Tutti questi tre elementi tendono a ribaltare la verità del Dio che si fa uomo a vantaggio dell’uomo che si fa dio. Quando questi tre lieviti s’insinuano, va da sé che producano una reazione a catena negativa le cui conseguenze sono purtroppo sotto gli occhi di chiunque abbia un minimo di discernimento spirituale. Amen.

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11.08 – IL SEGNO DI GIONA (Marco 16.1-4)

11.08 – Il segno di Giona (Matteo 16.1-4)

 

1 I farisei e i sadducei si avvicinarono per metterlo alla prova e gli chiesero che mostrasse loro un segno dal cielo. 2Ma egli rispose loro: «Quando si fa sera, voi dite: «Bel tempo, perché il cielo rosseggia»; 3e al mattino: «Oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo». Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non siete capaci di interpretare i segni dei tempi? 4Una generazione malvagia e adultera pretende un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona». Li lasciò e se ne andò.

 

Prima di affrontare l’episodio è doverosa un’annotazione geografica poiché il resoconto del miracolo della seconda moltiplicazione dei pani e dei pesci si conclude con le parole “Poi salì sulla barca con i suoi discepoli e subito andò dalle parti di Dalmanutà” (Marco 8.10), oppure “Congedata la folla, Gesù salì sulla barca e andò nella regione di Magadàn” (Matteo 15.39). Non si tratta di una contraddizione, poiché “Magadàn”, in diversi manoscritti, è indicata come “Magdala” e “Dalmanutà”; pur non venendo mai menzionato nei Vangeli salvo che in questo passo, Dalmanutà era un villaggio da lei distante circa un chilometro e mezzo.

Altra annotazione riguarda i “farisei e i sadducei”, fazioni spesso in contrasto tra loro soprattutto riguardo al tema della resurrezione dei morti, di cui questi ultimi negavano la possibilità. Ora quelli di cui parla Matteo non erano “venuti da Gerusalemme”, ma del luogo, poiché altrimenti dovremmo pensare che il gruppo gerosolimitano presidiasse ovunque il territorio della Galilea, cosa impossibile. I sadducei disprezzavano Gesù più dei farisei perché, parlando di resurrezione, sconfessava le loro teorie e credenze in toto e, infatti, è riportata una questione emblematica in proposito: “C’erano fra noi sette fratelli; il primo appena sposato, morì, e non avendo discendenza, lasciò la moglie a suo fratello. Così anche il secondo, e il terzo, fino al settimo. Alla fine, dopo tutti, morì la donna, Alla resurrezione, dunque, di quale dei sette lei sarà la moglie? Poiché tutti l’hanno avuta in moglie. E Gesù rispose loro: «Vi ingannate, perché non conoscete le Scritture e neppure la potenza di Dio. Alla resurrezione infatti non si prende né moglie, né marito, ma si è come angeli nel cielo»” (Matteo 22.25.30). Piccola parentesi su questa verità: nella dispensazione dell’eternità il matrimonio non avrà più alcun senso in quanto non più rappresentativo dell’amore di Dio per il Suo popolo, che sarà finalmente unito a lui per sempre e, con la distruzione di Satana, non esisterà neppure il peccato. Ecco che, tornando alla situazione storica dei tempi di Gesù in terra, i sadducei si allearono con i farisei convinti di sconfiggerLo.

A questo punto chi legge l’episodio è facilmente portato a vedere nella richiesta a Nostro Signore di mostrare “un segno dal cielo” l’allusione a un nuovo miracolo, ma in realtà ciò che gli domandavano era molto più sottile: posti nell’impossibilità di negare le guarigioni stante le testimonianze che ricevevano in merito, chiedono “un segno dal cielo”, cioè che provenisse nello specifico da là affinché il loro inquisito, se era veramente chi diceva di essere, mostrasse  qualcosa di più grande rispetto a manifestazioni che altri uomini di Dio avevano prodotto, di cui possiamo leggere i passi relativi.

Il primo “segno dal cielo” fu prodotto da Mosè con la manna dopo i mormorii del popolo in Esodo 16.4. Gli disse YHWH: “Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina o no secondo la mia legge”. Il secondo, travisato profondamente dalla religione che arrivò a sostenere che fosse il sole a girare attorno alla terra e non viceversa, lo abbiamo in Giosuè 10.12,13: “Quando il Signore consegnò gli Amorrei in mano agli Israeliti, Giosuè parlò al Signore e disse alla presenza di Israele: «Férmati, sole su Gabaon, luna, sulla valle di Àialon». Si fermò il sole e la luna rimase immobile finché il popolo non si vendicò dei nemici”. Terzo segno fu con Samuele: “Non è forse questo il tempo della mietitura del grano? Ma io griderò al Signore de egli manderà tuoni e pioggia. Così vi persuaderete e constaterete che grande è il male che avete fatto davanti al Signore chiedendo un re per voi” (1 Samuele 12.17). Israele infatti, popolo diverso, un re non lo avrebbe dovuto avere. Quarto e ultimo “segno dal cielo” fu con Isaia in 38.8 dopo che il Signore gli disse “«Ecco, io faccio tornare indietro di dieci gradi l’ombra sulla meridiana che è già scesa con il sole sull’orologio di Achaz». E il sole retrocesse di dieci gradi sulla scala che aveva disceso”.

Stante questi illustri precedenti, secondo farisei e sadducei, se Gesù fosse stato quanto meno un uomo di Dio, non avrebbe avuto certamente difficoltà nel mostrar loro qualcosa che li convincesse definitivamente. Quei personaggi non volevano essere posti nell’impossibilità di replicare sul piano dottrinale, ma erano convinti di metterlo in difficoltà su quello dei segni, certamente impossibili a compiersi da un uomo normale, ma i miracoli operati fino ad allora, cos’erano? La richiesta era assurda, presentata da cuori increduli nel profondo, ed è paragonabile a quella di Satana nel deserto di Giuda: “Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo»” (Matteo 4.5-7).

Tentare o mettere alla prova il Signore era esattamente quello che stavano facendo i detrattori di Gesù, che non si rivolsero mai a lui per essere liberati e guariti nel cuore e nell’anima. Esemplare, come comportamento opposto, ciò che fece il padre del ragazzo epilettico in Marco 9.22,23 che gli chiedeva “Se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci”: Gesù gli disse: «Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede». Il padre del fanciullo rispose subito ad alta voce: «Credo; aiuta la mia incredulità!»”.

A questo punto, tornando all’episodio, abbiamo la risposta di Gesù, che Marco riporta parzialmente, cioè senza il discorso sul tempo buono o cattivo che sta per arrivare, riconoscibile attraverso il colore del cielo al tramonto o all’alba, tramandato anche attraverso un noto proverbio popolare. Ora le parole “Sapete interpretare l’aspetto del cielo e non siete capaci di interpretare i segni dei tempi?” mettono in risalto tutta la volontaria ignoranza di quelle persone che, a differenza del popolo, avevano gli elementi scritturali per riconoscere “i segni” che proprio il loro Dio stava  manifestando perché potessero ravvedersi e convertirsi: molte sono le profezie ricordate da quando sono iniziate queste riflessioni sui Vangeli a cominciare dal fatto che il “Re d’Israele” sarebbe nato a Betlehem e su tutti gli adempimenti ricordati da Matteo, ma qui c’è anche un riferimento alle parole pronunciate millenni prima da Giacobbe, “Non sarà tolto lo scettro da Giuda né il bastone del comando tra i suoi piedi, finché verrà Colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli” (Genesi 49.10). Notare l’espressione relativa allo “scettro di Giuda” che sarà “tolto”, collegata alla frase di Gesù già riportata in uno studio precedente, “Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti” (Matteo 21.43).

Togliere è un’azione che non avviene mai senza dolore e umiliazione e che, sotto questo aspetto, connettiamo alla frase “Fate attenzione dunque a come ascoltate; perché a chi ha, sarà dato, ma a chi non ha, sarà tolto anche ciò che crede di avere” (Luca 8.18). “Ciò che crede di avere” altro non è che la citazione-anticipazione della fine. Certo ogni uomo può avere un suo tesoro indipendentemente dalla professione che esercita, di ciò che possiede sulla terra e queste sono le eventuali ricchezze visibili, terrene, ma qui Gesù va molto più in profondità perché “ciò che crede di avere” è un riferimento a tutto quello che una persona considera come assolutamente suo anche nel profondo della propria anima, compreso ciò che non è direttamente tangibile come le convinzioni religiose, politiche, il suo essere, in poche parole il proprio Io che lo domina e che la persona fa di tutto perché venga gratificato.

Farisei e sadducei si cullavano nelle loro teorie, nel rispetto che suscitavano nelle persone, nell’onore che queste attribuivano loro, nel fatto che fossero gente “santa” e per questo vivevano appartati dagli altri che non rientravano nella loro setta. Ebbene, Gesù nel passo ricordato afferma che tutto quello sarà loro “tolto” e proveranno la vergogna della nudità di Adamo senza possibilità di un riscatto o di una vita alternativa, per quanto penosa, nell’attesa di un liberatore. L’unica àncora di salvezza, sarà passata perché il tempo che l’essere umano ha per salvarsi è direttamente proporzionale a quello della sua esistenza: finita quella, c’è il rendiconto.

Farisei e sadducei si ritenevano santi, ma Gesù li definisce “Generazione malvagia e adultera”: il malvagio è una persona indifferente o che prova addirittura compiacimento nel fare il male e l’adultero colui che abbandona colei o colui che ha scelto per un’altra/o. Molti sono i versi dedicati a questo tipo di persone, ma basta ricordare la preghiera “Condanna il malvagio, facendogli ricadere sul capo la sua condotta, e dichiara giusto l’innocente, rendendogli quanto merita la sua giustizia” (1 Re 8.32; 2 Cronache 6.33), dove molto si può comprendere se applichiamo “dichiara giusto l’innocente” al ruolo del Cristo risorto. Il secondo attributo che Gesù dà di quella generazione – non tutti gli ebrei, ma quelli che gli erano di fronte in quel momento – è “adultera” riferito alla condizione spirituale: dichiaravano di amare Dio, ma di fatto lo sconfessavano. Come il matrimonio naturale, fondato sull’amore vivo e vero, ha nell’adulterio un completo affronto e annullamento del coniuge innocente, quello spirituale comporta l’abbandono del Creatore e Signore per altre forme di adorazione; in poche parole è un’infrazione al primo precetto, “Non avrai altri dèi di fronte a me”. E l’adulterio dei farisei e sadducei era, se possibile, ancora più grave perché da un lato si presentavano come unico riferimento dato al popolo per essere istruito e guidato alla verità, dall’altro adoravano se stessi. Ma erano e volevano restare “guide cieche”.

Infine abbiamo le ultime parole: “…non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona”: l’unico possibile, dato non solo a loro, ma a tutti gli uomini, riferito alla sua morte e resurrezione. Come infatti detto in un altro episodio, dopo le stesse parole, abbiamo “Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra” (Matteo 12.40).

I Vangeli ci dicono che Gesù fu tentato con la richiesta di “un segno” tre volte, e in tutte e tre diede la medesima risposta; anzi, la prima fu leggermente diversa e avvenne quando furono cacciati dal tempio i venditori di animali per i sacrifici: “Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quali segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro: «Distruggete questo tempio e in tre giorni io lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo fari risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu resuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù” (Giovanni 2. 18-22).

La storia insegna che neppure il “segno di Giona” fu elaborato dai Giudei, talché negarono l’evidenza e ricorsero ad ogni stratagemma pur di negarla, ad esempio ordinando alle guardie di dire che, mentre dormivano, i discepoli avevano rubato il corpo del loro Maestro. Anche oggi molti esprimono le loro opinioni su Gesù, ma non prendono in considerazione il suo essere risorto dopo tre giorni: se ciò non fosse avvenuto, tutto sarebbe una colossale illusione, un abbaglio. E l’uomo sarebbe veramente solo, un puntino destinato a scomparire nell’universo. Come scrive infatti Paolo nella sua prima lettera ai Corinti, “Se Cristo non è risorto, allora vuota è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede. (…) Se i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. (…) Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo” (15. 14,17,32).

Come Gesù, dopo queste parole, è scritto che “li lasciò e se ne andò”, così si avvicina e tale rimane accanto a tutti coloro che, avendolo accolto, hanno ricevuto “il potere di diventare figli di Dio”. Amen.

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11.07 – LA SECONDA MOLTIPLICAZIONE DEI PANI (Marco 8.1-10)

11.07 – La seconda moltiplicazione dei pani (Marco 8.1-10)

 

1 In quei giorni, poiché vi era di nuovo molta folla e non avevano da mangiare, chiamò a sé i discepoli e disse loro: 2«Sento compassione per la folla; ormai da tre giorni stanno con me e non hanno da mangiare. 3Se li rimando digiuni alle loro case, verranno meno lungo il cammino; e alcuni di loro sono venuti da lontano». 4Gli risposero i suoi discepoli: «Come riuscire a sfamarli di pane qui, in un deserto?». 5Domandò loro: «Quanti pani avete?». Dissero: «Sette». 6Ordinò alla folla di sedersi per terra. Prese i sette pani, rese grazie, li spezzò e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero; ed essi li distribuirono alla folla. 7Avevano anche pochi pesciolini; recitò la benedizione su di essi e fece distribuire anche quelli. 8Mangiarono a sazietà e portarono via i pezzi avanzati: sette sporte. 9Erano circa quattromila. E li congedò. 10Poi salì sulla barca con i suoi discepoli e subito andò dalle parti di Dalmanutà.

 

Marco e Matteo ci forniscono dei particolari che ci consentono di inquadrare l’episodio, profondamente diverso dalla prima moltiplicazione che abbiamo esaminato: sappiamo che “Gesù si allontanò di là – dai territori di Tiro e Sidone –, giunse presso il mare di Galilea e, salito sul monte, si fermò. Attorno a lui si radunò molta folla, recando con sé zoppi, storpi, ciechi, sordi e molti altri malati; li depose ai suoi piedi ed egli li guarì, tanto che la folla era piena di stupore nel vedere i muti che parlavano, gli storpi guariti, gli zoppi che camminavano e i ciechi che vedevano. E lodava il Dio d’Israele” (Matteo 15. 25-31). Tra quegli infermi, guarì anche il sordomuto esaminato nello scorso capitolo. È l’ultima frase di Matteo, “lodava il Dio d’Israele”, che ci consente di considerare la riconoscenza della folla che aveva compreso le parole “il regno di Dio è giunto fino a voi” perché consci che quei miracoli non potevano venire da un profeta come i tanti vissuti nei tempi dell’Antico Patto, che ricorsero molto più alla parola che non ai miracoli. Tra questi uomini va ricordato Eliseo, di cui parleremo più avanti. Certo, guarendo, Gesù non si limitò a ristabilire il corpo degli infermi, ma parlò, spiegò, comunicò, espose contenuti che non ci sono stati trasmessi, ma che possiamo raccogliere e connettere coi discorsi fatti agli uomini in altre occasioni: portando a Lui quei malati, la gente dimostrava di non avere alternative per la guarigione dei loro cari, riconoscendogli un potere che nessun altro aveva.

Ora tutta quella gente era con Lui “da tre giorni” e la prima la frase che possiamo sottolineare è “Sento compassione per la folla”, identica nei due evangelisti, che si raccorda al sapere cosa significasse avere fame, avendola provata su di sé nei “quaranta giorni e quaranta notti” passate nel deserto di cui è scritto “alla fine, ebbe fame”. Era infatti necessario che Gesù dovesse “rendersi in tutto – quindi non in parte – simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che la subiscono” (Ebrei 2.17,18). La “compassione” che il Figlio provò non solo in questa circostanza per le persone, trova la sua origine proprio nel Suo conoscere per esperienza diretta ciò che significa vivere in un corpo come il nostro, soggetto a patimenti fisici e morali, essendosi fatto uomo. Come già ricordato in altre riflessioni, Egli è definito un “sommo sacerdote” diverso dagli altri, che non sapevano “prender parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato”. Proprio per questo è scritto “Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno” (4.15.16).

Bene, in questo episodio vediamo che la compassione di Gesù si manifesta senza che nessuno gli chieda di venire sfamato e che il suo immedesimarsi in loro fu a prescindere dalla posizione assunta nei Suoi confronti: tra la folla c’era chi credeva in Lui, chi provava una profonda riconoscenza per essere stato guarito, chi “lodava il Dio d’Israele”, ma sicuramente anche chi restava perplesso sia per quei miracoli che per le Sue parole, chi era lì per curiosità, magari restando col cuore impermeabile a tutte quelle manifestazioni, proprio come l’Iscariotha. La compassione di Gesù riguarda tutti comunque perché non per questo, a prescindere dalla posizione assunta dalla gente, il corpo soffriva di meno e, per quel tempo, occuparsi di esso stava a simboleggiare prendersi cura dell’anima, l’uno rifletteva l’altra.

Fede, curiosità o dubbio che fosse, Nostro Signore voleva sfamarli e nessuno di quelli, rientrato nelle loro case, avrebbe potuto dire di non avere beneficiato del Suo intervento. Gesù guarda quindi all’uomo nella sua totalità, quindi anche nelle necessità del corpo dando qui “il pane quotidiano”. La compassione di Dio emerge a prescindere perché l’uomo possa beneficiarne e su questo possa interrogarsi esattamente come avviene con le stagioni, ciascuna delle quali porta frutti appropriati per la sua alimentazione, con la pioggia a suo tempo, o per i perfetti equilibri che reggono la terra e l’universo. In altre parole, tutto, in questo mondo, è stato pensato dal Creatore perché l’uomo possa riconoscerLo perché, come leggiamo in Romani 1.20: “Le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute”.

Ecco perché, alla compassione di Gesù, non poteva che seguire un intervento atto a risolvere il problema serio dei presenti: “Se li rimando digiuni alle loro case, verranno meno lungo il cammino, e alcuni sono venuti da lontano”. Sapeva che non era sufficiente dir loro “andate in pace”. La cura di Dio non è allora tesa ad una soluzione per l’immediato – avevano già fame – ma guarda al futuro, è preventiva per far sì che, in questo caso, la gente non venisse “meno lungo il cammino”.

È stato scritto all’inizio che questo secondo miracolo di “moltiplicazione” è diverso dal primo come appare dalle parole che seguono la compassione di Gesù, poiché, in questo caso, sono i discepoli a prendere l’iniziativa, “Come riuscire a sfamarli di pane qui, in un deserto?”, mentre nel primo avevano suggerito al loro Maestro di congedare la folla “in modo che, andando per le campagne e i villaggi nei dintorni, possano comprarsi da mangiare” (Marco 6.36): a questo punto mi sono chiesto se i discepoli avevano dimenticato il miracolo precedente, oppure la loro domanda fosse non tanto una preghiera, quanto l’espressione di un’attesa, un voler vedere cosa avrebbe fatto Gesù in quella circostanza. Ricordiamo che nel miracolo precedente Andrea gli disse “C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci, ma che cos’è questo per tanta gente?” (Giovanni 6.9).

Alla domanda dei discepoli su come riuscire a sfamare quelle persone in un deserto, ne segue una identica a loro rivolta da Gesù nel primo miracolo, “quanti pani avete?” tesa a ricordar loro come avrebbe agito da lì in poi: i pani a disposizione erano sette. Andando ora oltre alla cronaca dell’episodio, “quanti pani avete?” è ciò che Gesù chiede ad ogni credente e, in particolare, ai ministri della Sua parola, siano essi sacerdoti, pastori o anziani di una Chiesa, perché la “moltiplicazione” del poco che hanno diventa possibile solo quando ci si affida a Dio interamente, con la totalità della mente e del cuore. Nel momento in cui un cristiano, a prescindere dal ruolo, dal “posto” preparato per lui nel Corpo di Cristo, passa dalla dinamica della vita spirituale per la routine e il semplice acquisito, inizia ad entrare nei tristi territori di ciò che è statico, apparentemente vivo e porta lo Spirito nell’impossibilità di agire, di moltiplicare: lo contrista e finisce per fare e dire le stesse cose, si arena sulla sabbia e magari può finire per autoconvincersi di navigare comunque.

Proseguendo nella lettura del testo, l’organizzazione dell’evento fu simile al primo, con la folla fatta sedere per terra, presumo a gruppi per rendere agevole la distribuzione dei pani e dei “pochi pesciolini”. Come già rilevato nell’occasione precedente, il fatto che non si trattò di “moltiplicazione” ma di un non finire dei due elementi è qui più chiaramente spiegato perché “Prese i sette pani, rese grazie, li spezzò e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero”; qui possiamo fare una connessione col profeta Eliseo: “Da Baal-Salisà venne un uomo, che portò pane di primizie all’uomo di Dio: venti pani d’orzo e grano novello che aveva nella bisaccia. Eliseo disse: «Dallo da mangiare alle gente». Ma il suo servitore disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?». Egli replicò: «Dallo da mangiare alle gente. Poiché così dice il Signore: Ne mangeranno e ne faranno avanzare». Lo pose davanti a quelli, che mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore” (2 Re 4.42-44). Quando è l’uomo a donare, a mala pena lo fa per lo stretto necessario; quando però è Dio a farlo, ecco che ci troviamo ad averne sempre in avanzo perché ci troviamo di fronte a un dono perfetto, come vedremo tra breve mettendo a confronto il numero 6 col 7.

Particolare secondario, solo in apparenza perché il “secondario” nella Parola di Dio non esiste costituendo un tutt’uno, lo individuiamo in quel “rese grazie” di cui Gesù come Dio non aveva bisogno, ma che ancora una volta esprime la Sua dipendenza dal Padre.

L’episodio si conclude in modo differente dal primo in cui le ceste avanzate erano dodici, poiché qui sono sette, numero che sappiamo parlarci della perfezione di Dio, ma che qui vorrei considerare in modo diverso, paragonandolo al 6, anch’esso perfetto, ma secondo il metro umano, matematicamente parlando: infatti i numeri più rari e importanti sono quelli in cui i divisori, addizionati, danno come somma il numero in questione che è così chiamato “perfetto”. Il 6, avendo come divisori 1,2 e 3, è di conseguenza un numero perfetto perché 1+2+3=6. Il successivo numero con tale caratteristica è 28 perché 1+2+4+7+14=28. Scrive il fisico Simon Singh; “Oltre ad avere importanza matematica per i pitagorici, la perfezione del 6 e del 28 era riconosciuta da altre culture che notarono che la luna orbita in 28 giorni e che affermarono che Dio creò il mondo in 6 giorni per esprimere con quel numero la perfezione dell’universo. Sant’Agostino osservò che il 6 non era perfetto perché Dio lo aveva scelto, ma piuttosto che la perfezione era inerente alla natura del numero: 6 è un numero prefetto in se stesso e non perché Dio ha creato tutte le cose in sei giorni; è piuttosto vero l’inverso: Dio ha creato tutte le cose in sei giorni perché questo numero è perfetto”.

Ora questa nota di Singh ci consente un’applicazione spirituale per me interessante, e cioè che 6 è indubbiamente un numero che ha questa caratteristica – oltre al 28 abbiamo il 496, l’ 8.128, poi il 33.550.336, l’ 8.589.969.056 e così via fino a raggiungere cifre immense –, ma questo riferito all’ esistenza e ambiente umani. In altri termini, alla sua perfezione, Dio aggiunse l’Uno che stabilì la Sua approvazione: gli equilibri finiti, assoluti, compiuti dell’universo furono sanciti dal Suo riposo senza il quale il creato non avrebbe avuto senso o, per meglio dire, lo avrebbe avuto ma senza di Lui, per cui sarebbe stato e rimasto inutile. Il settimo giorno fu la firma di Dio e il tutto, la terra e l’Universo, se trovano la loro perfezione nel 6, senza il suggello del Creatore avrebbero avuto un fine imperfetto.

Ecco perché “Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della Bestia: infatti è numero d’uomo e il suo numero è 666” (Apocalisse 13.18): se in ogni epoca molti hanno cercato di calcolare questa cifra, punto base è che si tratta di una triade di perfezione, una trinità, su misura per gli uomini che avranno fondato la propria vita e il loro centro su un sistema che non potrà che rispondere perfettamente alle loro esigenze, su cui riporre la propria fede politica e religiosa escludendo l’Uno. Alla Bestia, ricordiamo, “fu concesso di fare guerra contro i santi e di vincerli; le fu dato potere sopra ogni tribù, popolo, lingua e nazione. La adoreranno tutti gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto nel libro della vita dell’Agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo” (13.7,8).

Quelle “sette ceste” del nostro episodio, collegate agli altrettanti “pani” nella disponibilità dei discepoli, sono un riferimento a quanto fin qui esaminato. Sono un segnale, l’indice di quella porta ancora aperta nel cielo per tutti quelli che sono stati salvati, o vogliono esserlo, e del fatto che Dio non si dimenticherà mai di loro, anzi ne ha compassione e cura. Amen.

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11.06 – IL SORDOMUTO DELLA DECAPOLI (Marco 7.31-37)

11.06 – Il sordomuto della Decapoli (Marco 7.31-37)

 

31Di nuovo, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. 32Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. 33Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; 34guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». 35E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. 36E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano 37e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

 

Anche per questo miracolo ci troviamo di fronte, relativamente all’itinerario seguito da Gesù, a dei dubbi che non vi sarebbero se accettassimo questa traduzione, in cui chiaramente entra nel territorio di Tiro e Sidone, scende percorrendo il litorale fino al territorio della Decapoli, allora gestito da Erode Filippo. Per la panoramica generale che queste riflessioni si propongono, però, è giusto far presente che altre versioni non si esprimono in questo modo: Diodati scrive “Poi Gesù, partitosi di nuovo dai confini di Tiro e di Sidone, venne presso il mare della Galilea, per mezzo i confini della decapoli”. Ciò è dovuto alla diversità tra i manoscritti in quanto alcuni hanno “dià Sidònos”, cioè “attraverso Sidone” ed altri “kài Sidònos”, “e Sidone”. Tra l’altro questo miracolo è narrato solo da Marco, per cui viene a mancare un confronto con altri evangelisti. A dire il vero, Matteo ci fornisce un particolare non da poco, e cioè che “Gesù si allontanò di là – dove la preghiera della donna siro fenicia era stata esaudita – e giunse presso il mare di Galilea e, salito sul monte, si fermò. Attorno a lui si radunò molta folla, recando con sé zoppi, storpi, ciechi, sordi e molti altri malati; li deposero ai suoi piedi, ed egli li guarì, tanto che la folla era piena di stupore nel vedere i muti che parlavano, gli storpi guariti, gli zoppi che camminavano e i ciechi che vedevano. E lodava il Dio d’Israele” (15.29-31). Marco, quindi, sceglie di narrare una, la più particolare, delle tante guarigioni che avvennero in quel luogo e fa passare in secondo piano una domanda che altrimenti sarebbe stata d’obbligo, cioè perché Gesù avesse guarito una sola persona.

Ecco allora che Nostro Signore, entrato nel territorio della Decapoli, viene riconosciuto e seguito dalla folla che si formò poco a poco al suo passaggio, fino a fermarsi su un monte, o collina, e lì gli portarono molti infermi, tra i quali un sordomuto. Qui è necessario sottolineare un particolare molto importante, e cioè che ci viene descritta la condizione di quell’uomo senza attribuirla alla presenza di uno spirito impuro: questo ci parla non dell’ignoranza – come molti sostengono – che faceva attribuire a Satana o ai suoi angeli qualunque condizione invalidante, ma del discernimento di chi ha redatto il Vangelo. Inoltre, l’assenza di un’attribuzione spirituale negativa al sordomuto, mette in guardia il credente dal generalizzare e vedere ovunque l’opera satanica, scendendo così nella superstizione.

A questo punto, allora, dobbiamo chiederci chi è un sordomuto, condizione dovuta, in linea di massima, al fatto che, perdendo l’udito entro i due anni di età o nascendo sorda, la persona, pur avendo un apparato fonico-articolatorio perfettamente integro, non è in grado di parlare perché, non sentendo i suoni, non sa riprodurli. Oggi, sottoponendosi a sedute di logopedia, il sordomuto può imparare ad esprimersi, per quanto con voce monotonale, e comprendere quanto gli viene detto leggendo le labbra dell’interlocutore o tramite il linguaggio dei segni; si tratta di procedure che, ai tempi di questo episodio, non erano conosciute. Il sordomuto di allora viveva una condizione estremamente penosa, non potendo capire ciò che gli si diceva, né scrivere, né leggere, condannato all’emarginazione.

Giunti a questo punto, esaminando i versi dal 32 in poi, gli elementi di riflessione sono davvero tanti e il primo lo troviamo nel comportamento degli amici, o parenti non sappiamo, di quell’invalido: “lo pregarono di imporgli la mano”, segno che consideravano Gesù per lo meno un profeta. La richiesta presentata si rifaceva ai tre significati fondamentali del gesto di imporre le mani nell’Antico Patto, poiché la mano, assieme alla parola, costituisce uno dei mezzi più espressivi del nostro linguaggio. L’imposizione delle mani è effettuata per trasmettere una benedizione, come fu per Giacobbe verso Efraim e Manasse, figli di Giuseppe (Genesi 48.14 e segg.) ed è un segno di consacrazione per indicare separazione, ricezione dello Spirito di Dio. Per dovere di cronaca va detto che abbiamo anche un terzo riferimento che è quello dell’identificazione tra chi offre una vittima in sacrificio e la vittima stessa, come più volte citato nel libro del Levitico (1.4; 3.2; 4.4) e in altri della Legge. Per quanto riguarda il tempo della Grazia, anche gli apostoli utilizzeranno quel gesto (Atti 3.6) a simboleggiare la trasmissione di una potenza che viene da Dio.

Amici o parenti del sordomuto volevano quindi che Gesù trasmettesse la sua benevolenza tramite quel gesto, ma vediamo che non viene trattato come gli altri infermi e, per prima cosa, “lo prese in disparte, lontano dalla folla”, segno che quanto sarebbe avvenuto avrebbe costituito qualcosa di preciso e profondamente individuale, che non doveva riguardare altri. Infatti, contrariamente a diversi miracoli, parte dei quali abbiamo già esaminato, Nostro Signore sostituisce il linguaggio dei gesti alla Sua parola perché altrimenti il sordomuto non avrebbe potuto capire ciò che stava avvenendo. Abbiamo così, ancora una volta, il chinarsi di Gesù verso l’uomo, immedesimandosi profondamente in lui e nelle sue sofferenze per fargli comprendere l’importanza e la portata dell’intervento che stava per compere passo dopo passo. Certo avrebbe potuto dire, ad esempio, “lo voglio, guarisci”, ma in tal modo il sordomuto avrebbe saputo solo dopo cos’era avvenuto. Gesù voleva quindi che quel percorso di guarigione fosse effettivamente compreso dalla persona così come nel caso del paralitico di Betesda: “Vuoi guarire?”.

Lontano dalla folla Nostro Signore compie tre azioni, la prima delle quali è porre a quell’uomo le dita nelle orecchie, chiaro rimando al “dito di Dio”, espressione usata per riconoscere il Suo intervento e potenza. La troviamo infatti per la prima volta in Esodo 8.15 quando i maghi del faraone, impossibilitati come in precedenza e replicare i miracoli di Mosè, gli dissero “È il dito di Dio”. Ancora, ricordiamo le tavole di pietra, “scritte dal dito di Dio” (31.18) e, per finire, la frase di Gesù “Se invece io scaccio i demòni col dito di Dio, allora è giunto a voi il suo regno” (Luca 11.20). Applicato al nostro episodio, allora, prima vengono toccate le orecchie, o meglio il foro del condotto uditivo, perché l’uomo prima di parlare deve ascoltare e comprendere, non viceversa.

Seconda azione, “con la saliva gli umettò la lingua”, gesto che potrebbe suscitare repulsione, ma che in quel caso era volto a far comprendere a quella persona che Gesù stava per trasferire la capacità di parlare anche il linguaggio di Dio e non uno qualunque. Come disse Pietro al medicante paralitico, “Non possiedo né oro, né argento, ma quello che ho, te lo do, alzati e cammina” (Atti 3.5). Nostro Signore, Parola di Dio, stava così per trasmettere a quell’uomo il dono della parola e, assieme ad essa, la capacità di parlare anche un linguaggio diverso. La lettura di questo miracolo è sicuramente quella di un’avvenuta guarigione, ma a noi parla del fatto che solo nel momento in cui Gesù opera direttamente e personalmente sull’uomo questo è in grado di ascoltare ed esprimersi proprio come quel sordomuto guarito di cui è detto che “parlava correttamente”. Si tratta di un miracolo che, come vedremo col cieco di Betsaida, ci parla di un percorso preciso, qui condensato in pochi istanti.

Alle azioni di Nostro Signore fin qui esaminate, ne seguono tre riferite alla Sua persona: alza “gli occhi al cielo”, sospira e parla in aramaico dicendo “Effatà, che vuol dire «Apriti»”. La prima è figura della preghiera e qui dobbiamo chiedercene la ragione, visto che operò altri miracoli per sua volontà diretta (abbiamo ricordato le parole “lo voglio, sii guarito” in Matteo 8.3), quasi che in questo caso fosse necessaria l’approvazione del Padre. Credo che, invece, questo sia stato un miracolo di collaborazione tra le due identità, vista la lode “Ha fatto ogni cosa bene: fa udire i sordi e fa parlare i muti”, che possiamo connettere a Isaia 35.6, “Allora si apriranno gli occhi ai ciechi e si schiuderanno le orecchie ai sordi. Lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto”. Nel caso di questo miracolo, allora, abbiamo Gesù come perfetto intercessore a differenza di quelli presunti che una parte del cristianesimo ha voluto proporre-imporre, deviando così le attenzioni e le preghiere che vanno dirette al Padre “nel nome” del Figlio.

Dopo aver rivolto gli occhi al cielo, abbiamo il sospiro che, ancora una volta, ci parla certamente dell’identificazione di Gesù con l’uomo, ma credo si rifaccia al momento della creazione, quando il “soffio” di Dio nelle narici dell’uomo lo rese “anima vivente”. Il “sospiro” di Gesù sta a significare che solo l’intervento del Dio Creatore può modificare una situazione non dovuta alla presenza di uno spirito impuro, ma di qualcosa che, presente dalla nascita, sarebbe altrimenti inguaribile, immodificabile. E allo stesso modo noi nasciamo col contrassegno ereditario del peccato che non potremmo mai eliminare senza un intervento diretto di Colui che per noi si è offerto in sacrificio. Vi è chi vede nel “sospirò” di Gesù, per il verbo greco utilizzato, un gemere pensando alla condizione di chi stava per guarire, e qui vale la pena di ricordare che, alla morte dell’amico Lazzaro, è scritto che “pianse” nonostante sapeva che lo avrebbe resuscitato. A tal punto arrivò in Lui l’identificazione con la penosa realtà e limiti dell’essere umano.

C’è poi l’ordine, “Effatà”, in aramaico, “Apriti”, che nessun altro avrebbe mai potuto pronunciare con il risultato che poi Marco, con il suo caratteristico “subito” riporta: “Gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della lingua e parlava correttamente” una lingua che mai aveva ascoltato, per cui abbiamo un miracolo nel miracolo.

Come già avvenuto in altri episodi, Gesù si raccomanda affinché la notizia di quanto appena avvenuto non fosse divulgata, ciò perché quella guarigione avrebbe dovuto essere constatata poco a poco: questo era il risultato di un’esperienza diretta, di un incontro col Figlio di Dio e non poteva essere qualcosa di paragonato ad una semplice guarigione pubblica senza che non se ne comprendesse il reale significato. Ricordiamo Isaia 50.5, “Il Signore m’ha aperto l’orecchio ed io non ho opposto nessuna resistenza” (50.5), parole che esprimono la precedenza dell’intervento di Dio sull’azione e che quando parla a un essere umano è a lui solo che si rivolge. Solo dopo questi passaggi-iinterventinsarà in grado di “parlare correttamente”.

Ancora, a proposito dell’ascolto, ricordiamo il messaggio “Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese. Al vincitore darò della manna nascosta – cioè il cibo degli eletti – e una pietruzza – il nuovo documento di identità – sulla quale sta scritto un nome nuovo che nessuno conosce all’infuori di chi la riceve – perché la salvezza è personale –“ (Apocalisse 2.17). Amen.

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11.05 – LA DONNA SIROFENICIA (Marco 7.24-30)

11.05 – La donna siro fenicia (Marco 7.24-30)

 

24Partito di là, andò nella regione di Tiro. Entrato in una casa, non voleva che alcuno lo sapesse, ma non poté restare nascosto. 25Una donna, la cui figlioletta era posseduta da uno spirito impuro, appena seppe di lui, andò e si gettò ai suoi piedi. 26Questa donna era di lingua greca e di origine siro-fenicia. Ella lo supplicava di scacciare il demonio da sua figlia. 27Ed egli le rispondeva: «Lascia prima che si sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». 28Ma lei gli replicò: «Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli». 29Allora le disse: «Per questa tua parola, va’: il demonio è uscito da tua figlia». 30Tornata a casa sua, trovò la bambina coricata sul letto e il demonio se n’era andato.

 

Se per affrontare questo episodio è stata necessaria una premessa, altrettanto lo è una precisazione importante e cioè che Marco e Matteo presentano versioni differenti: il primo, che sappiamo scrive basandosi su quanto gli rapportava Pietro, scrive “andò nella regione di Tiro”, che letteralmente sarebbe “verso i territori” (Diodati traduce “ai confini di Tiro e Sidone”). Matteo, più ricco in particolari, riporta “si ritirò verso la zona di Tiro e Sidone”, letterale “dalle parti”, lasciando supporre che Gesù fosse entrato in territorio pagano. Nel capitolo precedente è stata scelta questa ipotesi e si sono fatte alcune applicazioni spirituali credo corrette e non rettificabili, ma è necessario sottolineare che sempre Matteo scrive “Ed ecco una donna cananea, che veniva da quella regione”, letterale “uscita da quei territori”, oppure “da quei confini”. Può quindi essere, secondo questi dati, che in realtà Nostro Signore fosse ancora in Galilea, molto prossimo ai territori pagani e che la donna, per raggiungerlo, abbia attraversato il confine tra la Fenicia e la Galilea superiore. C’è incertezza in merito, poiché “i territori” potrebbero alludere anche alla regione in cui l’innominata apparteneva e quindi Gesù avrebbe potuto essere comunque fuori dalla Galilea. Teniamo presente che i due evangelisti non si prefiggono gli stessi scopi, perché Matteo scrive per gli ebrei e Marco, dalla capitale dell’impero, per i Romani per cui i particolari possono differire tra loro.

Anche le origini della donna sono diverse: per Matteo è cananea, quindi appartenente a un popolo visto negativamente perché erede della maledizione di Noè, i cui antenati furono cacciati dagli ebrei dopo la conquista del “paese di Canaan”. Matteo pone così in evidenza il fatto che la donna apparteneva a ciò che restava dell’antica popolazione pagana che abitava la Siria-Palestina prima degli ebrei; Marco la chiama “siro fenicia” perché la fenicia faceva parte della provincia romana di Siria. Riguardo all’itinerario seguito da Gesù, comunque, va detto che molti commentatori parlano addirittura di un “viaggio in Fenicia” dalla quale poi giunse nella Decapoli, dove vi fu la guarigione di un sordomuto e avvenne la seconda moltiplicazione dei pani.

Fatte queste precisazioni, spostiamo la nostra attenzione sulla donna, “la cui figlioletta era posseduta da uno spirito impuro”; non ci viene detto in che modo si caratterizzava questa entità, ma certamente, per il comportamento adottato, non credo costituisca un azzardo paragonarla alla donna emorroissa che “aveva speso tutti i suoi beni con i medici senza poter essere guarita da nessuno” (Luca 8.43). Pur non venendo gli effetti dello “spirito impuro” classificati come una malattia, certamente esistevano anche presso i pagani esorcisti e sacerdoti degli dèi più disparati che avranno cercato in tutti i modi di guarire quella giovane. E tutte le speranze di guarigione si infrangevano puntualmente nel momento in cui ci si trovava di fronte al limite, non superabile, tra la conoscenza e le possibilità umane e ciò che sta oltre. Il testo di entrambi gli evangelisti non specifica da quanto tempo durasse questo stato; fatto sta che quella donna, saputo della presenza di Gesù, “uscì dai suoi confini” – quindi anche quelli etnici e di eredità spirituale negativi in quanto pagana – per andare da Lui, consapevole che sarebbe stato l’Unico in grado di guarire la propria figlia.

A questo punto è bene considerare la cronaca di Matteo che, dopo le parole imploranti di quella madre, scrive “…ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono:  «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa di Israele»” (15. 23,24). Abbiamo qui un particolare non irrilevante, perché i discepoli si rivelano attenti più alla loro tranquillità e al non venire infastiditi, generalizzando così il piano di Dio allora rivolto unicamente al loro popolo.

Il verso 23 che ho riportato, allora, ci parla di una richiesta incessante rivolta a Gesù, paragonabile a quella dei due ciechi in Matteo 9.27 che lo seguirono fino a casa sua. Le continue grida della cananea avevano finito per infastidire i discepoli che addirittura “implorarono” il loro Maestro di esaudirla, ma la risposta che ottennero escludeva qualsiasi intervento in merito: nel Suo ministero terreno non era stato mandato ai pagani, ma solo “le pecore perdute della casa d’Israele” avrebbero dovuto essere i destinatari del Vangelo e dei suoi effetti. Notare l’aggettivo “perdute”, cioè solo quelle che si erano perse e avevano questa consapevolezza più o meno accentuata, non le altre dello stesso popolo, che nell’Avversario avevano trovato il loro pastore. Ricordiamo che gli scribi e farisei non chiesero mai un miracolo a Nostro Signore per venire guariti, ma solo per metterlo alla prova.

Dal testo pare che Gesù si disinteressasse della condizione di quella madre implorante; anzi, dal comportamento duro avuto nei suoi confronti si potrebbe ipotizzare che non volesse avere nulla a che fare con lei anche perché “figlio di Davide”, con cui gli si rivolge all’inizio, era un appellativo di cui non poteva appropriarsi perché racchiudeva tutto un significato di benedizione e promessa che solo un ebreo poteva pronunciare. Non a caso, infatti, Matteo inizia il suo Vangelo proprio con la frase “Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abrahamo”.

Alle parole di Gesù sulla sua missione, ancora Matteo scrive “Ma quella gli si avvicinò e si prostrò davanti a lui dicendo: «Signore, aiutami!»”, segno che comprese quella frase, per cui da un “Pietà di me Signore, Figlio di Davide” evidentemente pronunciato in piedi camminando, passa al prostrarsi chiedendo un aiuto ancora più implorante del primo, ma ottenendo una risposta per lei durissima: “Lascia prima che si sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e darlo ai cagnolini”. E gli ebrei definivano appunto “cani” – cioè animali impuri – tutti i pagani. Come scrive un fratello, “la missione di Gesù era limitata a Israele perché il disegno di Dio era che i beni messianici della salvezza portati dal Figlio di Davide dovevano essere riservati a quel popolo e solo eccezionalmente i pagani avrebbero potuto parteciparvi attraverso una fede supplicante che riconoscesse il privilegio dei Giudei e considerasse puro dono la salvezza divina”. C’è infatti una sostanziale differenza fra pagani ed ebrei: “Essi sono Israeliti e possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, lui che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli, amen”.

Con le sue parole, Gesù pone la cananea nella posizione storica di essere umano allora impossibilitato a godere dei privilegi che avrebbe avuto se fosse stata appartenente al popolo ebraico, distinzione che verrà abolita più avanti, nella dispensazione della Grazia quando i due popoli, pagani ed ebrei, sarebbero diventati uno solo: “Ora invece, in Cristo Gesù, voi che allora eravate lontani, siete stati avvicinati mediante il sangue di Cristo. Lui infatti è la nostra pace; lui che dei due popoli ne ha fatto uno solo” (Efesi 2.13,14).

Ora, a quei tempi, tale muro esisteva ancora, ma a questo punto la risposta della cananea diventa confessione pubblica: “Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli”; si tratta di parole che esprimono completamente la posizione da lei assunta e cioè che era conscia del fatto di non appartenere al popolo eletto cui spettava il diritto di essere chiamati “figli” e di stare a “tavola”, ma chiedeva solo le briciole e non il pane. A lei bastavano gli avanzi e quelli sapeva di poter chiedere.

In Marco leggiamo la riposta: “Per questa tua parola, va’: il demonio è uscito da tua figlia”, mentre in Matteo “Donna, grande è la tua fede”, parole che irrompono nella narrazione con una forza unica perché sono le stesse, per lo meno per contenuto, date ad altri uomini o donne ebrei perché la fede è una indipendentemente dal popolo cui si appartiene, come la sofferenza.

Anzi, potremmo aggiungere che parole simili Nostro Signore le utilizzò una sola volta, nel caso del Centurione: “In verità io vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande” (Matteo 8.10), ma a conferma che la presunzione di essere qualcosa o qualcuno rappresenta un ostacolo insormontabile per presentarsi davanti a Dio in modo risolutivo, ricordiamo anche la frase “Vi dico che c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese, ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro”.

Senza quel percorso di sofferenza, partito dal vedere la propria figlia posseduta dallo spirito impuro senza che nessuno lo fermasse, proseguito con il non vedersi ascoltata da Gesù e respinta perché non appartenente al popolo di Dio, la cananea non sarebbe arrivata da nessuna parte; non avrebbe mai potuto risolvere il problema della propria figlia, condannata ad una vita di dolore ed emarginazione senza alcuna possibilità di un futuro, per quanto umano.

Quella donna ebbe la sua briciola e se Matteo scrive “da quell’ora la sua figlia fu guarita”, Marco aggiunge il particolare “Tornata a casa sua, trovò la figlia seduta sul letto e il demonio se ne era andato”: fece allora, andando a Gesù, un viaggio nel dolore, ma un ritorno sereno con la certezza di essere esaudita. A una gioia moderata, ne seguì poi una completa vedendo la bambina, o ragazza non sappiamo, “seduta” esattamente come l’indemoniato guarito a Gadara, o Gherghesa. E va sottolineato che la posizione seduta, per noi è normale, richiede in realtà un forte equilibrio e controllo della muscolatura impensabile per molti tipi di infermità, ma in particolare per la sconnessione che uno spirito impuro porta nella persona.

La cananea innominata non sapeva che la sua vicenda, attraverso Matteo e Marco, si sarebbe tramandata nei secoli. E a ben guardare, riguardo alla soluzione di un importante problema, la stessa cosa capita anche a noi, che certamente non verremo ricordati da nessuno, ma certamente da Dio, quando ci ritroviamo liberati da situazioni impossibili a risolversi senza il Suo intervento d’amore in quanto suoi figli. Amen.

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11.04 – LA DONNA SIROFENICIA, INTRODUZIONE (Marco 7.24-30)

11.04 – La donna siro fenicia, introduzione (Marco 7.24-30)

 

24Partito di là, andò nella regione di Tiro. Entrato in una casa, non voleva che alcuno lo sapesse, ma non poté restare nascosto. 25Una donna, la cui figlioletta era posseduta da uno spirito impuro, appena seppe di lui, andò e si gettò ai suoi piedi. 26Questa donna era di lingua greca e di origine siro-fenicia. Ella lo supplicava di scacciare il demonio da sua figlia. 27Ed egli le rispondeva: «Lascia prima che si sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». 28Ma lei gli replicò: «Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli». 29Allora le disse: «Per questa tua parola, va’: il demonio è uscito da tua figlia». 30Tornata a casa sua, trovò la bambina coricata sul letto e il demonio se n’era andato.

 

Abbiamo letto un episodio molto particolare che va preceduto da considerazioni anche di carattere storico tenendo presente che Gesù parte da Capernaum, il cui nome significa “vicolo di consolazione”, dove aveva stabilito la sua residenza. Il Suo abitare in quel villaggio costituiva l’adempimento di due profezie di Isaia la prima delle quali si trova in 9.1: “Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse”. Matteo, che cita il verso, lo fa precedere da questa nota: “Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nazareth e andò ad abitare a Capernaum, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e Nèftali, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia” (4.12-14). E non poteva esservi luce più “grande”, visto che il Figlio di Dio veniva in mezzo a loro.

Al riguardo si possono fare le stesse applicazioni di quando Nostro Signore si recò nel territorio di Gennezareth, per quanto differenti: Satana era stato sconfitto dopo l’episodio della tentazione nel deserto, ma la Galilea era sotto la politica di Erode Antipa che lo aveva avuto in gestione dal Senato romano quando, alla morte di Erode il Grande, lo aveva diviso in tre tetrarchie. La frase di Isaia “Il popolo che camminava nelle tenebre” (altre traduzione riportano “immerso” in esse) qualificava allora quel territorio di profonda ignoranza spirituale e morale con tutta la depravazione e miseria che ne costituiscono il frutto. Un fratello ha osservato che, sempre a proposito di questo passo, l’espressone “terra tenebrosa”, tradotta anche con “ombre di morte”, “…è un’altra espressione figurata che rileva il contrasto con tutto ciò che ha riferimento con la vita secondo l’ideale di Dio visto nel principio della creazione. Le lezioni storiche tenute da Dio viste nelle alleanze da Lui stipulate a partire da Noè dopo il diluvio fino alla distruzione del Tempio e della città di Gerusalemme, infatti, non furono fatte proprie dal popolo; anzi, furono maggiormente prevaricate”.

Abbiamo poi un’altra descrizione di quanto stava avvenendo con le parole “una luce si è levata”, in opposizione alle precedenti che parlano di buio, che indica verità, purezza, felicità; il verso successivo (Isaia 9.2) infatti recita “Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete e come si esulta quando si divide la preda”. Questa avrebbe dovuto essere la reazione di tutto il popolo alla luce del Messia giunto, ma non essendo ciò avvenuto ecco che vi è stato un spostamento temporale in avanti, quando “gli ultimi giorni” avranno un termine e finalmente Israele riconoscerà Gesù nel suo ruolo.

 

C’è poi la seconda profezia di Isaia, che troviamo in 8.23: “Non ci sarà più oscurità dove ora è angoscia. In passato umiliò la terra di Zabulon e Neftali, ma in futuro renderà gloriosa la via del mare, oltre il Giordano, la Galilea delle genti”. Notare l’ultima espressione, “la Galilea delle genti” perché a confine proprio con “quelli di Tiro e Sidone” con il popolo che si era in parte mescolato con loro. Facile a questo punto il collegamento con i “guai” che Gesù decretò su Corazim e Bethsaida, che terminano con “Perché se in Tiro e in Sidone fossero stati compiuti tra voi miracoli, già da tempo si sarebbero pentite, vestendosi di sacco e coprendosi di cenere. Perciò nel giudizio Tiro e Sidone saranno trattate meno duramente di voi” (Luca 10.13). E Gesù, nonostante la Bibbia contenga invettive profetiche e maledizioni contro queste città, come Dio Onnisciente conosceva la loro storia interiore e le considerava predisposte alla conversione. Trattare la storia soprattutto di Tiro è impresa ardua, ma si può ricordare che Chiram, suo re, fu alleato di Davide, fornendogli legname e mano d’opera per la costruzione della sua casa (2 Samuele 5.11), stringendo legami così stretti con lui che poi, Tiro, fu inclusa nel suo censimento. Tiro fornì a Salomone non solo legname e maestranze, ma anche l’oro per il Tempio (1 Re 5.9) e poi marinai per la sua flotta (1 Re 9.27).

Le relazioni amichevoli con Israele, però, nei tempi antichi favorirono il sincretismo religioso al suo interno e ed il re Achab, sposando la figlia del “re di quelli di Sidone”, Jesabel, accettò il culto di Baal: “Eresse un altare a Baal nel tempio di Baal, che egli aveva costruito a Samaria. Acab eresse anche il palo sacro e continuò ad agire provocando a sdegno il Signore, Dio di Israele, più di tutti i re d’Israele prima di lui” (1 Re 16. 32,33). Tiro, difficile da espugnare per la sua posizione, subì soltanto una sconfitta, a parte la piccola parte che  nel 573  a. C. Nabucodonosor riuscì a conquistare dopo un assedio di tredici anni: quella del 332 a.C. da Alessandro Magno che, dopo sette mesi di resistenza, ne ordinò la distruzione. Si avverò così la profezia di Ezechiele 26.8,9: “Poiché hai uguagliato la tua mente a quella di Dio, ecco, io manderò a te i più feroci popoli stranieri; snuderanno le spade contro la tua bella saggezza, profaneranno il tuo splendore. Ti precipiteranno nella fossa e morirai della morte degli uccisi in mezzo ai mari. Ripeterai ancora «Io sono un dio» di fronte ai suoi uccisori? Ma sei un uomo, e non un dio, in balia di chi ti uccide” (28.6-9). Il peccato di Tiro, al pari di quello di Babilonia, fu infatti la superbia ed il fidare in se stessi, il voler escludere Dio dai propri progetti per sussistere da soli.

 

“Partito di là, andò nella regione di Tiro”, è una frase che sottintende una volontà precisa di Gesù in obbedienza ad un itinerario concordato col Padre dopo che molto era già stato fatto e predicato per il Suo popolo, che però non lo aveva ascoltato come avrebbe dovuto. Nostro Signore pare entri in territorio pagano – ma ne parleremo meglio nel prossimo capitolo – e, da queste parole, con decisione. Da notare che diversi manoscritti aggiungono “e di Sidone”. Matteo scrive “si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidone” (15.21) quasi a suggerire un precauzionale rifugiarsi in un territorio dove non avrebbe potuto venir catturato; in realtà, credo abbia voluto dimostrare l’anticipazione di quell’avvenimento totale che darà ai pagani la possibilità di convertirsi e beneficiare delle attenzioni di Dio secondo le parole di Paolo ai Galati: “Tutti voi siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù; poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abrahamo, eredi secondo la sua promessa” (3.26-29). Pensiamo che sono parole rivelate da un ex fariseo che, ai tempi della sua professione, avrebbe ritenuto inconcepibili e quasi blasfeme le parole “discendenti di Abrahamo” riferite a dei pagani. È importante tener presente che Gesù non andò in quei territori per portare il Vangelo, ma per anticipare ciò che sarebbe avvenuto un giorno, quando il Regno di Dio sarebbe stato “tolto” ai Giudei per essere “dato a gente che lo avrebbe fatto fruttificare”.

Nostro Signore quindi “andò nella regione di Tiro e Sidone”, o “si ritrasse”, con lo scopo appena evidenziato, ma a questo punto due sono le domande che ci si pongono, e cioè a casa di chi e soprattutto perché ci viene specificato che “non voleva che alcuno lo sapesse”. Credo che Nostro Signore si sia diretto là sapendo di essere accolto e da chi andare a differenza dei discepoli che, da lui istruiti, ricevettero quest’ordine: “In qualunque città o villaggio entriate, fatevi indicare se vi sia qualche persona degna, e lì rimanete fino alla vostra partenza” (Matteo 10.11).

Quanto alla seconda domanda, cioè il perché “non voleva che nessuno lo sapesse”, non possiamo fare a meno di rilevare che quello di Gesù fu un comportamento opposto a quello degli ipocriti, gli scribi e i farisei,  visto ad esempio in Matteo 6.2 “Quando dunque fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico, hanno già ricevuto la loro ricompensa”, stesso principio applicato alla preghiera pubblica. Gesù, recandosi “nella regione di Tiro e Sidone” non solo entra in territorio pagano, ma addirittura in una casa, che ha ancora di più a che fare con l’intimità e le caratteristiche della persona che la abita senza contare che, entrando in quella regione, rinunciava ai privilegi e ai diritti religiosi ed etnici della Sua nazione. È giusto riportare che però non tutti sono d’accordo col fatto secondo il quale Nostro Signore entrò in quei territori, ma sostengono che ne rimase al limite, essendo scritto che la donna “uscì dai suoi confini” (Matteo).

Sappiamo comunque che entrò “in una casa, non voleva che alcuno lo sapesse, ma non poté restare nascosto”, particolare importante che indica quanto Nostro Signore fosse conosciuto e quanto agevolmente circolassero le notizie nonostante la mancanza giornali, radio e televisione; ricordiamo quanto avvenuto in tempi anteriori: “Gesù intanto si ritirò presso il mare con i suoi discepoli e lo seguì molta folla dalla Galilea. Dalla Giudea e da Gerusalemme e dall’Idumea e dalla Transiordania e dalle parti di Tiro e Sidone una gran folla, sentendo ciò che faceva, si recò da lui” (Marco 3.7,8). Luca aggiunge, in 6.17 che tutti questi, compresi quelli “dal litorale di Tiro e Sidone erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie”.

Gesù, quindi, non era uno sconosciuto e la notizia del suo arrivo in quella casa si sparse subito in quanto era impossibile che “restasse nascosto”: la luce non può far altro che illuminare e nel buio si distingue anche da lontano. E senza volere ho utilizzato due termini, “buio” e “lontano” che hanno riferimento alla condizione spirituale di chi Dio non lo conosce. È nel momento in cui il Vangelo gli viene annunciato che può scegliere se togliersene, o rimanervi.

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11.03 – CIÒ CHE CONTAMINA L’UOMO (Marco 7.14-23)

11.03 – Ciò che contamina l’uomo (Marco 7.14-23)

 

14Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! 15Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». [ 16]17Quando entrò in una casa, lontano dalla folla, i suoi discepoli lo interrogavano sulla parabola. 18E disse loro: «Così neanche voi siete capaci di comprendere? Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, 19perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va nella fogna?». Così rendeva puri tutti gli alimenti. 20E diceva: «Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. 21Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, 22adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. 23Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».

 

Non sarà sfuggita, leggendo il testo riportato qui sopra, l’assenza del verso 16, che alcune versioni riportano, “Chi ha orecchie per ascoltare, ascolti”, assente nella versione considerata dai questi traduttori.

Ora, collegandoci a quanto avvenuto in precedenza, non risulta né da Marco, né dal parallelo di Matteo 15, che alle parole di Gesù “annullate il comandamento di Dio con la vostra tradizione”, abbia fatto seguito una replica, segno che gli scribi e i farisei non seppero cosa rispondere a quelle accuse. Pertanto Gesù chiama di nuovo la folla che, probabilmente salvo alcuni, si era tenuta a distanza, ma è probabile che i due evangelisti abbiano voluto sottolineare, con le parole “Chiamata di nuovo la folla”, che da quel punto in poi sarebbe iniziato un discorso nell’interesse di tutti e non solo dei “venuti da Gerusalemme” presenti. “Ascoltatemi tutti, e comprendete bene”, dove quel “bene” è assolutamente indicativo.

Partiamo allora dal significato del verbo “contaminare”, che annovera tra i suoi sinonimi “macchiare, insozzare, deturpare, infettare, corrompere”, qui applicato moralmente e spiritualmente. Questo, per la Legge, riguardava in senso corporale l’assunzione di alcuni cibi come la carne di animali da lei proibiti, ma i maestri avevano aggiunto alla proibizione alimentare anche l’abluzione delle mani per riaffermare la loro distinzione dai popoli pagani, considerati impuri talché, se vi era stato un contatto con loro, ci si doveva scuotere di dosso tutta la polvere. Lo storico ebreo Giuseppe Flavio, nelle sue Antichità Giudaiche (13.297) scrive “I farisei hanno trasmesso al popolo numerose prescrizioni avendole ereditate dalla dottrina dei padri, che non si trovano scritte nella legge data da Dio a Mosè”.

In realtà la purità rituale, essendo come sappiamo la Legge “un pedagogo che conduce verso Cristo” era stata data perché Israele mantenesse la sua precisa identità di popolo di Dio rispetto agli altri fino all’arrivo della nuova dispensazione della Grazia, rivelata ufficialmente, riguardo gli alimenti, nell’episodio in cui Pietro, trovandosi sul tetto di casa sua, ebbe una visione: “Vide il cielo aperto e un oggetto che discendeva come una tovaglia grande, calata a terra per i quattro capi. In esso c’era ogni sorta di quadrupedi e rettili della terra e uccelli del cielo. Allora risuonò una voce che gli diceva: «Àlzati, Pietro, uccidi e mangia». Ma Pietro rispose: «No davvero, Signore, poiché io non ho mai mangiato nulla di profano e di immondo». E la voce di nuovo a lui: «Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più profano». Questo accadde per tre volte; poi d’un tratto quell’oggetto du risollevato al cielo” (Atti 10.11.15).

La purità rituale, riguardo agli scritti dell’Antico Patto, stava allora a simboleggiare la differenza tra la corruttele pagane e la santità del popolo di Dio. I maestri ebrei, però, perdendo di vista il vero motivo per cui Israele non poteva essere contaminato come le altre genti, avevano finito per stabilire che i cibi impuri erano atti di per se stessi a inquinare moralmente, per cui l’uso di quelli puri era l’unico modo per mantenersi intrinsecamente integri. Il lavarsi le mani fino al gomito, poi, li preservava ancora di più da tutto ciò di immondo con il quale quegli arti erano venuti a contatto senza che la persona se ne rendesse conto. Capiamo allora perché Gesù sia intervenuto con quell’ “Ascoltatemi tutti e comprendete bene”, preludio a un insegnamento importante per chi volesse capire cosa fosse effettivamente puro e impuro andando alla radice del problema.

La contaminazione non la dà ciò che entra nel corpo, ma ciò che esce da lui. Qui non si tratta chiaramente dell’ambito fisico, ma spirituale, di andare ancora una volta alla radice del vero problema poiché altrimenti si rischia di limitare l’interpretazione agli effetti delle sostanze tossiche eventualmente ingerite, che portano a malattie, se non alla morte dopo un tempo più o meno lungo. Il corpo naturale qui è escluso, ma il riferimento è a ciò che contamina davvero la vita che ogni uomo è chiamato a vivere.

La folla, con le parole di Gesù, è chiamata a considerare che non sono le cose esterne a rendere l’uomo impuro, cioè inadatto all’incontro con Dio, ma è ciò che questi accoglie nel suo cuore custodendo le “cose vecchie” ed impedendo il ritrovamento della comunione con Lui, quella che i nostri progenitori persero.

Il testo ci dice che Nostro Signore fu più esaustivo coi discepoli che lo interrogarono privatamente sul paragone (parabola) appena esposto: a contaminare l’uomo è “ciò che esce dalla bocca”, riferimento, ad esempio, al Salmo 10.7 in cui, parlando del malvagio, leggiamo “Di spergiuri, di frodi e d’inganni ha piena la sua bocca, dalla sua lingua sono cattiveria e prepotenza”, che si collega al principio “La bocca parla di ciò che sovrabbonda nel cuore” (Matteo 12.34). Per questo, sempre nello stesso passo, Gesù stabilirà un’importante verità: “Qualunque peccato e bestemmia verrà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito Santo non verrà perdonata. A chi parlerà contro il Figlio dell’uomo, sarà perdonato; ma a chi parlerà contro lo Spirito Santo, non sarà perdonato, né in questo mondo, né il quello futuro” (vv.31,32). Perché? Credo che molte persone che oggi credono, quando non conoscevano il Signore, abbiano espresso concetti negativi su di Lui, indipendentemente che si trattasse del Padre o del Figlio, bestemmie o negazione della Sua esistenza non importa. Tutte colpe estinte, perdonate, perché “siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio” (1 Corinti 6.11).

C’è però un sistema oltraggioso di vita, visto nella condizione di peccato che la persona vuole assolutamente mantenere senza arrendersi, che se dura fino alla fine, all’ultimo istante di vita dell’uomo, renderà impossibile il suo perdóno. Perché la bestemmia contro lo Spirito Santo è la resistenza strenua a Colui che vorrebbe convincere gli uomini di peccato, giustizia e giudizio per porvi rimedio. Gli atti contrari alla legge di Dio che una persona compie determinano la sua condanna solo se sono confermati da un ostinato rifiuto della Sua parola fino all’ultimo respiro, come ci conferma l’episodio del ladro crocifisso con Gesù che gli disse semplicemente “ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” (Luca 23.42); queste parole fanno fremere perché denotano la comprensione di una vita sbagliata che chiede un riscatto possibile. Da sottolineare che quell’uomo chiamò Nostro Signore per nome, dando prova di non esprimere un concetto scaramantico, ma fede.

Anche oggi avvengono conversioni da persone che potrebbero essere da noi giudicate e condannate senza possibilità di appello, certo non solo da parte di un tribunale umano; penso ad esempio a Gaspare Spatuzza, oggi uno dei principali collaboratori di giustizia (umana), rapinatore, protagonista di omicidi importanti tra i quali quello di don Puglisi a Palermo, che a un certo punto della sua vita ha iniziato un percorso spirituale che potrebbe sembrare impossibile stante le azioni di cui si è reso protagonista. Le sue parole sono un attestato di quanto lo Spirito di Dio possa fare in una persona. Spatuzza ha affermato di avere iniziato un “percorso di ravvedimento, vissuto in silenzio, meditazione e astinenze di cose superflue. (…) Soltanto in carcere inizio a leggere libri, in particolare la Sacra Bibbia dandomi modo di entrare in contatto con la Parola di Dio. Allora ti accorgi che la vita è un’altra, da quello che ti hanno fatto sempre vedere, che tutto quello che hai fatto è orribile e privo di giustificazione e chiede vendetta al cospetto di Dio. (…) Devo dire che aspettavo questo momento di passare dalla parte del Bene e una volta fatto il primo passo non ho esitato a mettermi in grazia di Dio”. Queste frasi fanno parte di un memoriale reperibile in rete, ma ascoltando le dichiarazioni di quest’uomo nei processi, quando testimonia la sua conversione con poche parole, molto si può comprendere non solo di quanto la Grazia possa cambiare la vita di una persona, ma dell’amore con cui il Signore accoglie chi si pente. E non potrebbe essere altrimenti, poiché è stato detto “Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Luca 15.7).

Tornando al nostro testo, è necessario sottolineare le parole di Gesù ai discepoli “Neanche voi siete capaci di comprendere?”, traduzione più morbida rispetto all’originale “Siete anche voi privi di intelletto?”: dalle Sue parole emerge il fatto che Nostro Signore prende atto dell’incredulità, insicurezza e disordine presenti nella mente dei suoi: “il Regno di Dio e la sua giustizia non potevano essere a disposizione di chi non si cibava di alcuni alimenti, ma di chi avrebbe ricercato in Gesù Cristo pace e giustizia mediante lo Spirito Santo”, ha scritto un fratello.

Ancora, non esiste più sottile e pericolosa falsità di quella generata dall’equivoco e dalla manipolazione religiosa che fa passare un modello sociale per ciò che Dio vuole veramente: la Sua volontà viene così strumentalizzata da uomini senza scrupoli al solo scopo di poter controllare le relazioni umane.

Concludendo: chi si puliva le mani con le abluzioni rituali prima di mangiare e sceglieva accuratamente i cibi – pensiamo alla cucina “kosher” – non teneva conto del fatto che aveva un cuore, che non poteva essere certo lavato – per lo meno da loro –, sede di ogni sorta di nefandezze che “vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo”.

Infine possiamo dire che è facile condannare gli scribi e i farisei di allora perché ci sono già le parole di Gesù, ma ricordiamo che c’è una tradizione oscura e distruttiva anche nella Chiesa; è quella che, per dirne una, considera “marginali” o “centrali” alcuni principi della Parola di Dio. Come i maestri della Legge di allora, ci sono in tutte le confessioni persone reputate autorevoli che sostengono che la Scrittura vada interpretata in armonia con le civiltà cui si rapporta – adattando così il cristianesimo al paganesimo, oppure estrapolano versetti al di fuori dal loro contesto originario, amputandoli o proponendoli così come sono, ma senza approfondirli perché tanto “la Parola di Dio è semplice per i semplici”.

Così scrive l’apostolo Paolo nella sua prima lettera a Timoteo: “Se qualcuno insegna diversamente e non segue le sane parole del Signore nostro Gesù Cristo e la dottrina secondo la pietà, costui è accecato dall’orgoglio, non comprende nulla ed  è preso dalla febbre di cavilli e di questioni oziose. Da ciò nascono le invidie, le maldicenze, i sospetti cattivi, i conflitti di uomini corrotti nella mente e privi della verità, che considerano la pietà come fonte di guadagno”.

La purezza. Sembra irraggiungibile, eppure se ci pensiamo altro non è che avere ben presente quell’ “uomo vecchio” che rappresenta ciò che eravamo un tempo e al quale possiamo tornare, per quanto non completamente, se in noi si innesca quel processo degenerativo proprio a partire dal trascurare i principi che Gesù illustra in questo passo. Ecco perché dobbiamo pregare perché il nostro “interno” sia salvaguardato. E farci parte attiva in questo. Amen.

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11.02 – TRASCURANDO IL COMANDAMENTO DI DIO (Marco 7.8-13)

11.02 – Trascurando il comandamento di Dio (Marco 7.8-13)

 

8Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». 9E diceva loro: «Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione. 10Mosè infatti disse: Onora tuo padre e tua madre, e: Chi maledice il padre o la madre sia messo a morte. 11Voi invece dite: «Se uno dichiara al padre o alla madre: Ciò con cui dovrei aiutarti è korbàn, cioè offerta a Dio», 12non gli consentite di fare più nulla per il padre o la madre. 13Così annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte».

 

Leggendo questo passo occorre tener presente che, nella versione di Matteo, alla domanda dei “venuti da Gerusalemme” sul perché alcuni dei suoi discepoli trascuravano la regola di lavarsi le mani prima di mangiare, Gesù risponde con un altro interrogativo, “E voi, perché trasgredite il comandamento di Dio per la vostra tradizione?” (15.3) che mostra quanto era stato da loro stravolto il significato del quinto comandamento, “Onora il padre e la madre” e poi passa a citare le parole di Isaia che abbiamo brevemente esaminato nello scorso capitolo.

Il verso ottavo, “Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini” è una demolizione del principio ebraico delle due Taroth, cioè che esista una Legge scritta e una orale, come tuttora l’ebraismo sostiene. “Trascurare” e “osservare”, poi, stabiliscono la distanza enorme che si viene a creare tra l’uomo e il suo Creatore quando si allontana dal comandamento originale per praticare una tradizione aggiunta: l’attenersi alle Sue parole è l’unico modo che l’uomo ha per percorrere un cammino a Lui accetto e aggiungere o togliere equivale, oltre che inquinare un sistema privandolo di equilibrio, sostituirsi alla Sua persona e così spingere persone inconsapevoli a seguire un esempio sbagliato confermando in tal modo la definizione di “Guide cieche” che portano il prossimo alla rovina. Possiamo paragonare l’aggiungere e togliere ad un intervento sul DNA per modificarlo: il risultato è la perdita delle caratteristiche originali di un organismo originariamente creato ed inevitabilmente provoca dei gravi scompensi a lungo termine; pensiamo ai danni alla salute provocati dagli OGM, come allergie, resistenza agli antibiotici, alla riduzione della biodiversità, all’assenza di una agricoltura sostenibile come conseguenza della monocoltura. Si calcola che ogni anno si estinguano almeno trentamila specie viventi perché “Potenzialmente, ogni organismo GM è  una nuova specie introdotta nell’ecosistema e rischia di compromettere gli equilibri naturali del pianeta” (Dossier Greenpeace “OGM, gli impatti sulla salute”).

Aggiungere e togliere. Gli scribi e i farisei erano tutt’altro che persone superficiali o frivole; ricordiamo che i primi erano dei teologi che venivano “ordinati” a quarant’anni dopo studi severi, i secondi si erano separati dal popolo con l’intento di servire e raggiungere Dio attraverso la scienza biblica e la pratica costante della Legge scritta o orale. A questo punto è evidente che, trovandosi davanti al Figlio, avrebbero potuto confrontarsi con Lui per imparare e gioire delle Sue rivelazioni, ma era proprio la loro essere così fondati sulla tradizione a impedirgli di ascoltarlo e aprirgli il cuore. Un’anima che fa un percorso spirituale sincero di umiltà e confronto col Dio che si vuole far conoscere non trova nessun problema ad accoglierne le rivelazioni, ma chi si confronta con Lui avendo già i suoi splendidi castelli di dottrine umane travestite di spiritualità, è molto difficile che voglia imparare, trovare il coraggio di scindere le cose, potare, ammettere che tutto (o gran parte) di ciò che ha praticato finora sia sbagliato e voler rimediare. L’unica soluzione che può escogitare è arroccarsi sulle sue posizioni: ricordiamo che il religioso un dio lo ha già trovato ed è convinto che sia quello vero, ma non si chiede mai il perché e preferisce creare dei dogmi anziché trovare delle risposte. Ricordiamo che, senza la resurrezione di Gesù, anche noi saremmo dei religiosi vuoti: “Se Cristo non è resuscitato, allora vana è la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede” (1 Corinti 15.14).

La frase di Gesù “Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione” è lapidaria, ma lo è ancor di più la traduzione, migliore, di Giovanni Diodati “Bene annullate voi il comandamento di Dio, perché osserviate la vostra tradizione”: la lettura spirituale di Nostro Signore vuole denunciare la strategia di questi personaggi, molto più pericolosi di quanto non possa sembrare, che avevano fatto in modo che il comandamento originario andasse distrutto e, per dimostrarlo, cita il quinto comandamento, “Onora tuo padre e tua madre” e un suo riferimento in Esodo 21.17 che prevedeva la morte per chi li maledisse, letteralmente “parlasse male di loro con astio”. Alla stessa pena soggiaceva il figlio ostinato e ribelle: “Se un uomo avrà un figlio testardo e ribelle che non obbedisce alla voce né di suo padre, né di sua madre e, benché l’abbiano castigato, non dà loro retta, suo padre e sua madre lo prenderanno e lo condurranno agli anziani della città, alla porta del luogo dove abita, e diranno agli anziani della città: «Questo nostro figlio è testardo e ribelle; non vuole obbedire alla nostra voce, è un ingordo e un ubriacone». Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno ed egli morirà. Così estirperai da te il male, e tutto Israele lo saprà ed avrà timore” (Deuteronomio 21.20,21).

Ora vediamo brevemente in cosa consista, relativamente allo sviluppo che Gesù dà a questo comandamento, onorare il padre e la madre: non si tratta qui di ubbidienza o di rimanere in uno stato di subordinazione finché sono in vita, ma di rispetto in quanto genitori. Il primo caso di mancato onore del Padre lo troviamo in Cam, figlio di Noè che, al contrario dei fratelli, fu colui che lo derise quando, “Avendo bevuto del vino, si ubriacò e si denudò all’interno della sua tenda” (Genesi 9.20,21); su di lui e la sua discendenza si abbatté un giudizio che la penalizza ancora oggi. Dal lato opposto, un esempio è da individuare nel comportamento di Giuseppe, figlio di Giacobbe, che quando in Egitto chiese di essere seppellito presso i suoi padri nella caverna del campo di Efron l’Ittita, fu esaudito nonostante, una volta che il suo corpo fosse deceduto, non avesse certo la possibilità di sapere se il suo desiderio sarebbe stato esaudito (Esodo 49 e 50).

Avvicinandoci al problema posto da Gesù agli scribi e farisei, il quinto comandamento è qui inteso come dare al padre e alla madre il sostegno necessario perché questi lo hanno dato quando i figli ne avevano bisogno, cioè da bambini indipendentemente dall’età: un figlio viene vestito, gli si insegna a muovere i primi passi sostenendolo, andrebbe soprattutto capito e aiutato, guidato fino al conseguimento dell’autonomia grazie alla quale diventerà una persona responsabile anche di fronte alla legge degli uomini occupando un posto nella società cosiddetta “civile”. Così si esprime l’apostolo Paolo nella sua prima lettera a Timoteo: “…essi imparino prima ad adempiere i loro doveri verso quelli della propria famiglia e a contraccambiare i loro genitori: questa infatti è cosa gradita a Dio”.

E qui viene in mente quell’uomo che voleva unirsi ai discepoli di Gesù, ma disse “Permettimi prima di seppellire mio padre”: la risposta che ebbe e sulla quale ci siamo già soffermati, “lascia i morti seppellire i loro morti, ma tu va’, e annuncia il regno di Dio”, non è un invito a rinnegare la pietà filiale, ma evidentemente si riferisce al fatto che quel padre non aveva bisogno di una cura continua perché aiutato da altri, altrimenti vi sarebbe una palese contraddizione col quinto comandamento e ciò non sarebbe stato possibile. “Onora tuo padre e tua madre”, allora, trova l’applicazione nell’assistenza dovuta ai genitori.

Ebbene, vediamo a che punto era arrivata l’errata interpretazione degli scribi e farisei: “Invece voi dite: «Se uno dichiara al padre o alla madre; Ciò con cui dovrei aiutarti è Corbàn, cioè offerta a Dio», non gli consentite di fare più nulla per il padre o la madre. Così annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte”: la parola Corbàn pare fosse una formula di consacrazione pronunciando la quale un uomo poteva dedicare tutto o parte dei suoi averi per gli usi religiosi, ma così facendo quell’offerta gli impediva di fare altro, come sopperire ai bisogni dei genitori che, in quanto vecchi, dipendevano da lui esattamente come, da bambino, questi aveva bisogno di loro per vivere. In pratica, si spingeva il figlio all’ingratitudine e, con un rito religioso, li si scioglieva da ogni obbligazione verso i genitori.

Si era così creata una religione volontaria non poi diversa, come risultato finale, dall’adesione a riti pagani di cui Israele si era macchiato nella storia perché, pur venendo condannata l’idolatria, l’amore per Iddio era stato gradualmente abolito. Eppure, il vero culto a YHWH non era frutto di invenzione, ma le volontà divine erano state rivelate da Mosè e da tutti i profeti dopo di lui. Questo ci parla del fatto che anche la Chiesa, nuovo popolo di Dio, può introdurre elementi del tutto estranei a quell’adorazione “in spirito e verità” così tanto espressa negli scritti del Nuovo Patto. Allora come oggi, ogni aggiunta alla Parola di Dio comporta un allontanamento da Lui, in quanto peccato e, anziché migliorare l’uomo, lo peggiora. Le parole di Gesù a quegli inviati da Gerusalemme non sono poi così dissimili, nella sostanza, da quelle di Paolo ai Colossesi: “Nessuno che si compiace vanamente del culto degli angeli e corre dietro alle proprie immaginazioni, gonfio di orgoglio nella sua mente carnale, vi impedisca di conseguire il premio: costui non si stringe al capo, dal quale tutto il corpo riceve sostentamento e coesione per mezzo fi giunture e legamenti e cresce secondo il volere di Dio” (2.18.19).

Come quei “venuti da Gerusalemme”, anche quelli che nella Chiesa aggiungono o tolgono dimostrano il loro disinteresse per le cose spirituali in quanto, pur avendo a disposizione il Testo per eccellenza che leggono, non usano l’intelligenza per chiedersi se tutti quei corollari aggiunti abbiano un senso e soprattutto non contrastino con la realtà del Vangelo, sempre semplice nei suoi principi basilari.

Esemplare in proposito è l’episodio in cui Geremia, richiamando il popolo a tornare sulla via del Signore cessando di venerare altri dèi e ricordando le punizioni del passato, così si sentì rispondere: “Quanto all’ordine che ci hai comunicato nel Nome dei Signore, noi non ti vogliamo dare ascolto; anzi, decisamente eseguiremo tutto ciò che abbiamo promesso, cioè bruceremo incenso alla regina del cielo e le offriremo libagioni come abbiamo già fatto noi, i nostri padri, i nostri re e i nostri capi nelle città di Giuda e per le strade di Gerusalemme” (44.16). “Noi non ti vogliamo dare ascolto” quasi che dovessero ubbidire a lui e non al Signore al quale si oppongono con forza, “anzi, decisamente eseguiremo”.

Infine, l’ultimo verso del nostro passo, “Così annullate la parola di Dio con tradizione che avete tramandato voi”, formula una precisa accusa: la “parola di Dio” è quanto Lui ha ordinato all’uomo nel suo esclusivo interesse e che persone a Lui dedite hanno tramandato in ogni tempo, scritti che l’Avversario non è riuscito ad inquinare nonostante i suoi sforzi. “Voi”, è la categoria nella quale rientrano tutti coloro che, per i motivi più disparati, nei secoli hanno voluto “migliorarla” arrogandosi il diritto di equiparare l’autorità della tradizione a quella originale.

Credo che per un religioso non vi sia nulla di più oltraggioso che ascoltare parole che denuncino le sue posizioni, le sue convinzioni false o errate perché, alla fine, a loro di Dio non interessa nulla: infatti, sappiamo che “i Giudei cercavano di ucciderlo”. Ricordiamo la nota di Luca in Atti 7.57,58 a proposito del martirio di Stefano: “Proruppero allora in grida altissime turandosi le orecchie; poi si scagliarono tutti insieme contro di lui, lo trascinarono fuori della città e si misero a lapidarlo”.

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11.01 – LA TRADIZIONE DEGLI ANTICHI (Marco 7.1-6)

11.01 – La tradizione degli antichi (Marco 7.1-6)

 

1 Si riunirono attorno a lui i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. 2Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate 3– i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi 4e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti -, 5quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?».
6Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. 7Invano mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini.
8Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini»”.

 

È già stato ricordato il verso di Giovanni 7.1, “Dopo questi fatti, Gesù se ne andava per la Galilea; infatti non voleva più percorrere la Giudea, perché i Giudei cercavano di ucciderlo”, che possiamo senz’altro raccordare anche a quanto avvenuto a Gerusalemme con la guarigione dell’infermo a Betesda e alla discussione a lei seguita. È opinione generalmente condivisa che Nostro Signore, dopo quell’episodio, fosse tornato a Capernaum e  lì lo abbiano raggiunto “farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme”. Qui occorre domandarsi quali fossero le loro reali intenzioni: quando infatti leggiamo “cercavano di ucciderlo” non dobbiamo pensare a un progetto di eliminarlo tramite assassini prezzolati o alla messa in atto di uno stratagemma simile a quello ordito da Erode Antipa e i suoi complici, per Giovanni Battista, ma ad una decisione del Sinedrio che aveva stabilito che occorreva raccogliere il maggior numero possibile di elementi a carico Suo per poterlo accusare e condannare legalmente a morte. È anche probabile che quanto esposto da Gesù predicando o rispondendo alle domande di quegli inviati, “venuti da Gerusalemme”, finisse poi in rapporti accurati, stante la quantità di elementi che potevano raccogliere. Da qui in poi non si tratta più di dispute con i Dottori della Legge del posto, ma con i rappresentanti del potere politico-religioso.

Ora il nostro testo ci mostra chiaramente su cosa si basò la domanda degli inquirenti gerosolimitani, che avevano notato che “alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate”, in oltraggio alla “tradizione degli antichi” che si basava, essenzialmente, su quanto contenuto nella Misnah e nel Talmud, suddivisi al loro interno in sei argomenti principali (semenza, stagioni, donne, danni, cose sante e cose impure).  Vediamo brevemente i passi della Scrittura dalla quale partiva la “tradizione degli antichi”:

 

  1. I recipienti: “Fra gli animali che strisciano per terra riterrete impuro: la talpa, il topo e ogni specie di sauri, il toporagno, la lucertola, il geco, il ramarro, il camaleonte. Questi animali, fra quanti strisciano, saranno impuri per voi; chiunque li toccherà morti, sarà impuro fino alla sera. Ogni oggetto sul quale cadrà morto qualcuno di essi, sarà impuro: si tratti di un utensile di legno oppure di veste o pelle o sacco o qualunque atro oggetto di cui si faccia uso; si immergerà nell’acqua e sarà impuro fino a sera, poi sarà puro. Se ne cade qualcuno in un vaso di terra, quanto vi si troverà dentro sarà impuro e spezzerete il vaso. Ogni cibo che serve di nutrimento, sul quale cada quell’acqua, sarà impuro; ogni bevanda potabile, qualunque sia il vaso che la contiene, sarà impura. Ogni oggetto sul quale cadrà qualche parte del loro cadavere, sarà impuro; il forno o il fornello sarà spezzato: sono impuri e li dovete ritenere tali”. (Levitico 11.29-35);
  2. I cadaveri: “Chi avrà toccato il cadavere di qualsiasi persona, sarà impuro per sette giorni. Quando qualcuno si sarà purificato con quell’acqua – di purificazione – il terzo e il settimo giorno, sarà puro; ma se non si purifica il terzo e il settimo giorno, non sarà puro. Chiunque avrà toccato il cadavere di una persona che è morta e non si sarà purificato, avrà contaminato la Dimora del Signore e sarà eliminato da Israele. Siccome ‘acqua di purificazione non è stata spruzzata su di lui, egli è impuro; ha ancora addosso l’impurità”. (Numeri 19.11-13);
  3. La lebbra: Tutte le norme sulla lebbra sospetta o accertata dal sacerdote descritte nel capitolo 13 del libro del Levitico;
  4. Il corpo: “Chiunque sarà toccato da colui che ha la gonorrea, se questi non si era lavato le mani, dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell’acqua e resterà impuro fino alla sera. Il recipiente di terracotta toccato da colui che soffre di gonorrea sarà spezzato, ogni vaso di legno sarà lavato nell’acqua” (Levitivo 15.11);
  5. I fluidi: Prescrizioni relative alla gonorrea, al liquido seminale, il flusso mestruale (Levitico 15)
  6. Le malattie: (ibidem).

 

Il problema per chi legge la Bibbia, tornando al nostro tema, è che non si trovano regole per lavarsi le mani. A questo aveva sopperito la Torah orale, come leggiamo nel Talmud, parola che significa “insegnamento”: “il Santo, che benedetto sia, dette a Israel due Toroth, quella scritta e quella orale. Gli dette la Torah scritta per provvederlo di comandamenti per cui potesse acquistare merito. Gli diede la Torah orale per mezzo della quale potesse distinguersi dalle altre nazioni. Questa non venne data per iscritto, affinché i cristiani non potessero fabbricarsela come fecero con la Toarh scritta, e di essere Israel” (Num. R. 14.10). Il rituale per lavarsi le mani era minuzioso: stabiliva quanta acqua utilizzare (86 cl) che non doveva essere impiegata per altri scopi, doveva essere versata dalla stessa persona, sulle dita non dovevano essere presenti anelli o oggetti vari, l’acqua doveva bagnare anche i gomiti e l’anfora che conteneva l’acqua doveva avere due manici al fine di lavarsi una mano senza che quella non “pura” ne toccasse uno contaminato dall’altra, impura. Mentre si faceva questo, occorreva pronunciare le parole “Benedetto colui che ci ha santificato con i suoi precetti e ci ha comandato l’abluzione delle mani”. Si può aggiungere che, per i Giudei, “la persona che disprezza il lavarsi le mani prima del pasto, dev’essere scomunicata” e la violazione di questo precetto era, come gravità, paragonato alla fornicazione con una prostituta (Rabbi Jose).

 

Notiamo allora la domanda che fu posta a Gesù, “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi?”: non chiamano in causa un passo profetico o una prescrizione della Legge di Mosè, ma la loro tradizione che, se ci pensiamo, infrangeva lei stessa un comandamento preciso che troviamo in Deuteronomio 4.2 “Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla, ma osserverete i comandamenti del Signore vostro Dio, che io vi prescrivo”. C’è poi tutta una serie di passi in cui il principio del non aggiungere viene ampliato, ad esempio in Proverbi 30.5-6 “La parola di Dio è affinata col fuoco. Egli è uno scudo per chi si confida in lui. Non aggiungere nulla alle sue parole, perché egli non ti rimproveri e tu sia trovato bugiardo”. Molti sottovalutano la gravità che contempla il termine, riferito all’opera dell’Avversario, “bugiardo e padre della menzogna” (Giovanni 8.44). “Bugiardo” ha come sinonimi “falso, ingannevole” e si raccorda, restando nei Proverbi, a 11.22 “Le labbra bugiarde sono un obbrobrio per il Signore: egli si compiace di chiunque fa la verità”. Labbra connesse alla mente che ordina loro cosa dire, ma che comunque esprimono “ciò che sovrabbonda nel cuore”.

A questo punto, per quanto nella prossima riflessione dovremo tener presente anche la narrazione di Matteo, Gesù cita un verso che conosciamo, di Isaia 29.13: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono il culto, insegnando dottrine che son precetti d’uomini”. Il testo, che Gesù riassume sapendo di venir compreso comunque, recita: “«Poiché questo popolo si avvicina a me solo con la bocca e mi onora con le sue labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e la venerazione che ha verso di me è un imparaticcio di precetti umani, perciò, eccomi, continuerò a operare meraviglie e prodigi con questo popolo, perirà la sapienza dei suoi sapienti e si eclisserà l’intelligenza dei suoi intelligenti. Guai a coloro che vogliono sottrarsi alla vista del Signore per dissimulare i loro piani, a coloro che agiscono nelle tenebre dicendo: «Chi ci vede? Chi ci conosce?»” (29.13-15).

Quindi abbiamo un popolo che si accosta “solo con la bocca” cioè solamente per  parlare, e “mi onora con le sue labbra”, evidentemente bugiarde nel profondo, nell’essenza, quasi che con Dio si possa barare. In realtà si inganna se stessi. Ancora una volta abbiamo la religione, appagante il sentimentalismo superficiale e lontano dalle esigenze del vero Dio a tal punto da impedirgli di agire per l’individuo che così si comporta. Il problema è notevole, perché a un’azione teoricamente positiva, quella di accostarsi a Lui, ne seguono due negative a lei strettamente connesse e, ancora una volta, è il mentire la radice del problema: sperando di ingannare Dio, si fa così con se stessi perché “il cuore è lontano”, cioè si trova a grande distanza, è separato da un lungo intervallo nello spazio. “Lontano da Dio” stabilisce la posizione di chi si comporta in quel modo, dovuta a un inquinamento volontario di pensiero, di voler stabilire di propria iniziativa come rivolgersi a Lui. Non voglio ripetere i concetti già espressi sulla religione, ma qui il dettaglio di Isaia è importante: “La venerazione che ha verso di me è un imparaticcio di precetti umani”, cioè qui è l’uomo che si crea un Dio su misura che tiene alla larga quello vero. Ai Colossesi viene scritto “…son tutte cose destinate a scomparire con l’uso, prescrizioni e insegnamenti di uomini, che hanno una parvenza di sapienza con la loro falsa religiosità e umiltà e mortificazione del corpo, ma in realtà non hanno alcun valore se non quello di soddisfare la carne” (2. 22,23).

Sta allora all’intelligenza umana, illuminata dallo Spirito, chiedersi se si è veramente alla ricerca di Dio, o lo si abbia trovato davvero, oppure se la professione di “fede” non sia altro che l’aderenza a un sistema umano travestito che non vada oltre alle realtà descritte dall’Apostolo Paolo nella sua lettera ai Colossesi. E questa è una nota per tutti a prescindere dalla denominazione cristiana alla quale si appartiene, perché il rischio di stabilire un rito o un sistema che prima intraveda l’apparenza e poi la cristallizzi c’è sempre. Ci si riunisce perché si ama il Signore e lo si vuole in mezzo a noi, non perché “si deve fare e si è sempre fatto”.

Nel passo di Isaia è però bello considerare che, nonostante questi aspetti così negativi e penalizzanti, Iddio non lascia solo il suo popolo e interverrà, al futuro per i tempi di questo profeta, ma al presente per quelli di Gesù e per noi, per far “perire la sapienza” (presunta) e ad “eclissare l’intelligenza dei sapienti”. E nei piani di quelli che “agiscono nelle tenebre dicendo: «Chi ci vede? Chi ci conosce?»” è facile distinguere proprio quei “venuti da Gerusalemme” che qui parlano con Figlio di Dio con la speranza di poterlo accusare.

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10.20 – VI CONOSCO (Giovanni 5.41-47)

10.20 – Vi conosco (Giovanni 5.41-47)

 

41Io non ricevo gloria dagli uomini. 42Ma vi conosco: non avete in voi l’amore di Dio. 43Io sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi accogliete; se un altro venisse nel proprio nome, lo accogliereste. 44E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio? 45Non crediate che sarò io ad accusarvi davanti al Padre; vi è già chi vi accusa: Mosè, nel quale riponete la vostra speranza. 46Se infatti credeste a Mosè, credereste anche a me; perché egli ha scritto di me. 47Ma se non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole?».

 

L’ultima parte del discorso di Gesù ai Giudei inizia con un’affermazione categorica, “io non ricevo gloria dagli uomini” nel senso che rifiutava quel riconoscimento carnale che più volte proprio loro avevano voluto dargli col volerlo fare re. Paolo, scrivendo ai Tessalonicesi, afferma nella sua seconda lettera “E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi, né da altri” (2.6), frase che dovrebbe essere il perno attorno al quale ruota il fine della testimonianza e del servizio cristiano: nel momento in cui esiste un “riconoscimento” umano nel senso stretto del termine abbiamo una deviazione di ruolo e di intenti; l’essere naturale sbaglia sempre e soprattutto fraintende proprio come quelli che, al tempo di Gesù, volevano un Messia terreno, come più volte ricordato. Un fratello amava ricordare che Nostro Signore avrebbe potuto nascere e vivere in una famiglia facoltosa e invece scelse quella di un falegname, non ricco né povero perché altrimenti entrambe le categorie avrebbero potuto rivendicarne l’esclusiva. Fino all’età di circa trent’anni visse in una condizione benestante, conseguita grazie ai doni che i Magi gli portarono e che furono amministrati da Giuseppe e Maria. Nella sua vita pubblica, poi, sappiamo che il suo gruppo contava su una cassa comune tenuta da Giuda, l’uomo di Kerioth.

La gloria umana fu quella che tanto Lui quanto gli apostoli rifiutarono come avvenne, a parte Paolo, anche per Pietro nel suo incontro col centurione romano Cornelio a Cesarea che “stava ad aspettarli coi parenti e gli amici intimi che aveva invitato. Mentre stava per entrare, Cornelio gli andò incontro e si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: «Àlzati, anch’io sono un uomo»” (Atti 10.24,26). Un altro episodio con protagonisti Paolo e Barnaba a Listra, dopo la guarigione di un paralitico: “la gente allora, al vedere ciò che Paolo aveva fatto, si mise a gridare, dicendo, in dialetto licaonio,: «Gli dèi sono scesi tra noi in figura umana!» e chiamavano Barnaba «Zeus» e Paolo «Hermes» perché era lui a parlare. Intanto il sacerdote di Zeus, il cui tempio era all’ingresso della città, recando alle porte tori e corone, voleva offrire un sacrificio insieme alla folla. Sentendo ciò gli apostoli Barnaba e Paolo, si strapparono le vesti e si precipitarono tra la folla, gridando: «Uomini, perché fate questo? Anche noi siamo esseri umani, mortali come voi, e vi annunciamo che dovette convertirvi da queste vanità al Dio vivente!»” (Atti 14.11-15).

Abbiamo allora, a parte l’esempio di Gesù che è e sarà sempre il primo, anche quello di chi da Lui dipende per la proclamazione del Vangelo, che non accetterà mai di avere un riconoscimento estraneo alla missione lui affidatagli: quindi, il modo in cui un profeta si comporta, lo qualifica come vero o falso anche nel suo rifiutare o accettare la gloria umana, e qui ognuno di noi può fare le sue considerazioni su come agiscono quanti si comportano così nel mondo cosiddetto cristiano. Dicendo “Io non ricevo gloria dagli uomini”, Gesù afferma che l’unica cosa che gli importava essere – e lo confermò continuamente con azioni e parole – era il servo perfetto cui null’altro interessava se non ottenere la gloria che il Padre gli avrebbe dato. Ricordiamo la frase “Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l’opera che tu mi hai dato da fare” (Giovanni 7.4).

Gesù, al verso 42, prosegue dicendo “Ma vi conosco: non avete in voi l’amore di Dio”: quel “vi conosco”, che ancora una volta si riferisce alla perfetta conoscenza che aveva ed ha del cuore, dell’anima e dello spirito che spinge ogni uomo ad agire, attesta la mancanza dell’amore di Dio in loro, cioè che tutto il loro sapere, acquisito con fatica e uno studio severo, non aveva portato a nulla se non alla sterilità e all’inaridimento in contraddizione con quella frase, “Ama il Signore Iddio con tutto il tuo cuore” scritta sulle loro filatterie, anche quelle uno dei tanti simboli che avrebbero dovuto ricordare la loro dignità e funzione.

La filatteria era un piccolo pezzo di pergamena rinchiuso in un piccolo astuccio che, quando pregavano, tenevano assicurato con una cinghia di pelle alla fronte e al braccio sinistro vicino al cuore con lo scopo di ricordare il dovere di ubbidire ai comandamenti di Dio nella mente e nel cuore. Ebbene, con il passare del tempo si era finito per attribuire – ecco la falsità profonda della religione – a quei pezzi di pergamena il potere di evitare le malattie e scacciare i demoni ed erano divenuti strumento di ipocrisia: “Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattéri e allungano le frange; si compiacciono nei posti d’onore nei banchetti, dei primi posti nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati «Rabbi» dalla gente” (Matteo 23.5). Il seguito è ancora più pertinente al nostro caso: “Ma voi non fatevi chiamare «rabbi», perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli” (v.6). A parte tutte le connessioni possibili, credo che queste parole, se raccordate ai nostri tempi, descrivano una realtà desolante, dove ben poco è cambiato rispetto all’ipocrisia denunciata da Nostro Signore. E penso alla distinzione tra “religiosi” e “laici” operata dalla Chiesa di Roma o a quei “Pastori”, operanti soprattutto negli Stati Uniti, che trascinano grandi folle nelle loro predicazioni operando presunti miracoli e che posseggono ingenti patrimoni, avendo fatto della loro retorica un’industria. Ricordo che da bambino, quando frequentavo la mia parrocchia, non riuscivo a capire perché, quando un sacerdote parlasse di un altro, lo definiva “mio confratello” a differenza dei suoi parrocchiani. Gesù invece, nel passo citato, disse “e voi siete tutti fratelli” dove quella congiunzione, “e”, dice sicuramente tutto sulla differenza tra l’orgoglio umano e la realtà dell’essere figli di Dio. E non si tratta di volontà di polemica o di voler sottolineare che alcuni sono migliori di altri, ma solo di constatazione libera.

“Vi conosco”, quindi, è un ricordo di quanto avvenuto a Gerusalemme per la Pasqua all’inizio del suo ministero quando “durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo” (Giovanni 2.23-25). E non poteva essere diversamente, poiché era stato presente, partecipe e protagonista alla creazione di Adamo.

“Io sono venuto nel nome del Padre mio” quindi sono l’unico a cui dovete dare ascolto, ma purtroppo “se un altro venisse nel proprio nome, lo accogliereste” (v.43), questo perché non avrebbe coinvolto la loro conversione, non avrebbe demolito il concetto di superiorità sugli altri uomini che quegli scribi e farisei avevano di loro stessi. I Giudei avrebbero accolto uno venuto da se stesso, “nel suo nome”, cioè secondo i suoi scopi e idee opposte al Vangelo. Gesù qui esprime il concetto al condizionale, “Se… lo accogliereste”, stante la realtà del momento e per parlare meglio alla coscienza di quei Giudei, ma estese il concetto ai suoi discepoli: “Allora, se qualcuno vi dirà «Ecco, il Cristo è qui», oppure «È di là», non credeteci; perché sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi segni e miracoli, così da ingannare, se possibile, anche gli eletti. Ecco, io ve l’ho predetto” (Matteo 24.24). E vediamo che tornano i “segni” e i “miracoli” come strumento di seduzione e distrazione dalla fede di cui abbiamo già dato cenni in precedenti riflessioni. Ecco perché, prima di credere a un “miracolo” o a un “segno” verificato come tale e non come un trucco, occorre procedere con grande cautela e non riceverlo automaticamente come da Dio.

Al verso 44 Gesù afferma che era proprio il fatto che questi cercassero “la gloria gli uni dagli altri” a impedir loro di credere: la visione orizzontale, il bisogno di rispetto della gente e dei loro simili di professione aveva creato un circuito chiuso in cui tutto era a loro misura. Troviamo scritto in Romani 2.29, chiesa formata da Giudei e Pagani convertiti, “…ma Giudeo è colui che lo è interiormente e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito, non nella lettera; la sua lode non viene dagli uomini, ma da Dio”.

Proseguendo nella lettura del nostro testo, ora Nostro Signore passa a toccare un argomento molto caro ai Giudei e sul quale erano convinti di basare tutta la loto vita: “Non crediate che sarò io ad accusarvi davanti al Padre; vi è già chi vi accusa: Mosè, nel quale riponete la vostra speranza. Se infatti credeste a Mosè, credereste anche a me, perché egli ha scritto di me. Ma se non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole?”. È un’accusa molto forte, quella di non credere realmente agli scritti di Mosè, quindi alla Torah intera. Scrive l’apostolo ai Romani: “Rendo loro testimonianza – ai Giudei – che hanno lo zelo per Dio, ma non secondo conoscenza. Poiché ignorando – cioè non conoscendo realmente e trascurando – la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria giustizia non si sono sottoposti alla giustizia di Dio perché il fine della legge è Cristo, per la giustificazione di ognuno che crede” (Romani 10.2-4).

Deuteronomio 18.15-18, parole di Dio a Mosè: “Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto. (…) Io susciterò un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le sue parole, io gliene domanderò conto”. Ma se raccordiamo queste parole a Cristo, “fine della legge”, non pensiamo fare a meno di pensare che è Lui lo scopo finale della promulgazione di essa perché il popolo di Israele potesse comprendere l’importanza di essere liberati da lei attraverso il sacrificio, unico e fatto una volta per sempre, del Figlio. Il “fine della legge”, “il“ e non “la”, trova così in Cristo il punto di arrivo di un percorso inteso al tempo stesso come l’inizio di una vita nuova sia sulla terra, con il cammino della conversione e la guida dello Spirito Santo, sia nel cielo con lui in attesa dei “Nuovi cieli e nuova terra dove dimora stabile la giustizia”.

“Se non credete ai suoi scritti, come potete credere alle mie parole?”: abbiamo il verbo “credere” nella sua unica applicazione possibile, scritturalmente parlando, che ci parla di assimilazione, comprensione, accoglimento, azione, coscienza. Credere significa capitolare nel proprio orgoglio per arrendersi a Dio attraverso quella che definisco “distruzione pacifica di sé”, cioè la conquista della conoscenza di ciò che è davvero importante. Mettere dei paletti alla Parola di Dio, fare dei “distinguo”, arrogarsi il diritto di tenere per sé uno spazio interiore negativo di fronte a Lui che ci ha creato e ha parlato, è quanto di più dannoso che un credente possa fare.

Il risultato della non credenza reale dei Giudei nella Legge di Mosè è così descritto, ancora nella lettera ai Romani: “I gentili, che non cercavano la giustizia, hanno ottenuto la giustizia, quella che però deriva dalla fede, mentre Israele, che cercava la legge della giustizia, non è arrivato a lei. Perché? Perché la cercava non mediante la fede, ma mediante le opere della legge – cioè la religione –; essi infatti hanno urtato nella pietra di inciampo. Come sta scritto: «Ecco, io pongo in Sion una pietra d’inciampo e una roccia di scandalo, ma chiunque crede in lui non sarà svergognato»”. Amen.

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10.19 – TESTIMONIANZE (Giovanni 5.33-40)

10.19 – Testimonianze (Giovanni 5.33-40)

 

33Voi avete inviato dei messaggeri a Giovanni ed egli ha dato testimonianza alla verità. 34Io non ricevo testimonianza da un uomo; ma vi dico queste cose perché siate salvati. 35Egli era la lampada che arde e risplende, e voi solo per un momento avete voluto rallegrarvi alla sua luce. 36Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato. 37E anche il Padre, che mi ha mandato, ha dato testimonianza di me. Ma voi non avete mai ascoltato la sua voce né avete mai visto il suo volto, 38e la sua parola non rimane in voi; infatti non credete a colui che egli ha mandato. 39Voi scrutate le Scritture, pensando di avere in esse la vita eterna: sono proprio esse che danno testimonianza di me. 40Ma voi non volete venire a me per avere vita.

 

In questa terza parte del suo discorso, Gesù ricorda ai Giudei un fatto molto importante avvenuto circa due anni prima, quando Giovanni Battista predicava: “Voi – cioè Scribi, Farisei e Dottori della Legge – avete inviato dei messaggeri a Giovanni ed egli ha dato testimonianza della verità”: non andarono direttamente ad ascoltarlo, ma inviarono dei loro sottoposti, delle spie che lo interrogassero, e infatti leggiamo: “Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo: «Tu chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?», «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaia»” (Giovanni 1. 19-23). A queste domande sappiamo che ne seguirono altre sul perché battezzasse e capire meglio la sua identità.

Il Battista, ultimo dei profeti dell’Antico Patto, l’unico ad avere avuto il privilegio di annunciare l’arrivo del Figlio di Dio operante in quel momento, a differenza degli altri che lo “videro da lontano”, è definito “la lampada che arde e risplende” proprio per la funzione da lui avuta. Vero è che alla figura di Giovanni Battista abbiamo dedicato diversi capitoli, ma qui possiamo soffermarci sul fatto che Gesù non parla di “una” lampada, ma di “la lampada” dando così un significato alle parole “Tra i nati di donna non sorse alcuno maggiore di Giovanni Battista”. Quello della “lampada” è un paragone che fa lo stesso apostolo Pietro che scrive nella sua prima lettera in 2.19 “E abbiamo anche, solidissima, la parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non sorga nei vostri cuori la stella del mattino”. La notte, allora, qui è sinonimo di veglia e non di sonno.

Le parole degli antichi uomini di Dio, quindi, hanno dato una luce in un “luogo oscuro”, dando speranza e consolazione a coloro che aspettavano chi li riscattasse, ma Giovanni ebbe la funzione di prepararli alla venuta del Figlio presente in mezzo a loro. Le parole “voi solo per un momento avete voluto rallegrarvi alla sua luce” mettono poi in risalto il comportamento di quella parte del popolo che più di ogni altra avrebbe potuto e dovuto riconoscere in Gesù il Cristo ma, quando si trattò di mettere in discussione la loro esistenza e mettere in pratica il ravvedimento, rinunciarono. Le parole “per un breve tempo”, letteralmente “per un’ora”, mettono bene in risalto il fatto che, inizialmente, a Giovanni accorreva gente da ogni parte e lo ascoltava con entusiasmo perché proclamava l’arrivo del Messia e si aspettavano un re temporale; quando però il Battista iniziò ad accusarli nella coscienza e ad esortarli a cambiare tutto il loro modo di agire e pensare, allora si ritirarono da lui. Pensiamo alle conseguenze del miracolo della “moltiplicazione dei pani e dei pesci”: coloro che furono sfamati da Gesù, e dagli Apostoli che portarono loro materialmente il cibo pensarono che, se era stato in grado di sfamare più di cinquemila persone partendo da cinque pani e due pesci, chissà cosa avrebbe potuto fare se fosse stata la loro guida e quali vittorie e benessere avrebbe portato per tutti. Guardando però alla sussistenza materiale e trascurando completamente il significato vero di quel miracolo, Nostro Signore si ritrasse da loro.

Tra le due frasi su Giovanni Gesù inserisce la frase “Io non ricevo testimonianza da un uomo, ma vi dico queste cose perché siate salvati” a sottolineare che, se il Battista ebbe una funzione così importante, Lui ne aveva ed ha una maggiore, come lo stesso omonimo apostolo riporta nella sua prima lettera: “Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è superiore. E questa è la testimonianza di Dio, che egli ha dato riguardo al proprio Figlio. Chi crede nel Figlio di Dio, ha questa testimonianza in sé. Chi non crede a Dio, fa di lui un bugiardo, perché non crede alla testimonianza che Dio ha dato riguardo al proprio Figlio. E la testimonianza è questa: Dio ci ha donato la vita eterna e questa vita è nel suo Figlio. Chi ha il Figlio, ha la vita; chi non ha il Figlio di Dio, non ha la vita” (5.9-12).

Sicuramente, tra le parole appena riportate, vale la pena evidenziare “Chi non crede a Dio”, cioè “a” e non “in”, che stabiliscono il fatto che Uno solo è il Dio che parla davvero, l’autore del Messaggio che risolve il problema della vita dell’essere umano. Credere “a” significa fondare la fiducia e accogliere le verità che vengono proposte, credere “in”, per lo meno qui, equivarrebbe a restare nelle incertezze di prima, limitandosi ad accettare l’idea dell’esistenza di un generico essere superiore. In altri termini qui l’apostolo Giovanni vuole dire a chi legge che ciò che importa è credere nelle parole che Dio ha voluto rivelare all’uomo perché non si perda: la vita è nel Figlio e nessun altro la può dare.

Gesù ricorda ancora una volta il suo essere Uno con il Padre: da una parte abbiamo Lui che, con le sue opere, testimonia di chi lo ha mandato e, dall’altra, il Padre stesso è intervenuto dando testimonianza di Lui (ricordiamo ad esempio quanto avvenne al Suo battesimo). Qui dobbiamo avere sempre presente che, per la Legge, un fatto che fosse testimoniato da più di una persona era accettato da tutti come vero e, nel nostro caso, i testimoni non sono due uomini, ma il Padre e il Figlio che agiscono sempre in modo tale che la creatura sia impossibilitata a negare anche legalmente la loro esistenza e la veridicità del loro operato per la loro salvezza.

Anche la più piccola cosa creata porta la firma di Dio, se la si vuole leggere: “L’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha manifestato a loro. Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute. Essi dunque non hanno alcun motivo di scusa perché, pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio, ma si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata” (Romani 1.18-21). Qui Paolo scrive ai credenti della Chiesa di Roma, composta da Giudei e Pagani convertiti, ma Gesù parlava proprio a coloro che, pur avendo ereditato le promesse di Dio, le rigettavano convinti che il loro sapere fosse superiore al Suo. Tutto questo nonostante le due testimonianze, quella del Padre e quella del Figlio che avevano un solo scopo: “vi dico queste cose perché siate salvati” (v.34).

A questo punto, dalla seconda parte del verso 37, Gesù ricorda ai presenti che non avevano mai né udito la voce di Dio, né avevano visto il suo volto eppure credevano, anche se in modo sbagliato, cioè religiosamente vuoto perché “la sua parola non rimane in voi; infatti non credete a colui che egli ha mandato”. La parola che rimane è quella che attecchisce nel cuore e nella mente, è seme che germina, è ricordo permanente e operativo, è tesoro che si custodisce gelosamente perché è riposto per la vita eterna nell’attesa che questa si realizzi pienamente. E se ci soffermiamo su quel “rimanere”, non possiamo fare a meno di pensare che quei maestri fondavano il loro sapere proprio sulle Scritture che venivano studiate, elaborate e sminuzzate, analizzate e interpretate lettera dopo lettera da secoli. Eppure non avevano aperto la minima breccia in quei cuori.

C’è allora un “rimanere” inutile, che nel nostro caso potremmo collegare a Ecclesiaste 12.12 “Non si finisce mai di scrivere libri e il molto studio affatica il corpo”, e uno utile che si concreta nell’ascolto sincero della parola di Dio. Ricordando le parole di Salomone appena riportate, poi, da come proseguono si comprende perché Gesù abbia detto “Voi non volete venire a me per avere vita”: “Conclusione del discorso, dopo aver ascoltato tutto: temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché qui sta tutto l’uomo. Infatti, Dio citerà in giudizio ogni azione, anche tutto ciò che è occulto, bene o male” (vv.13,14). Il “non volere” andare a Lui è il problema che sta alla radice: un metodo di pensiero blando potrebbe ipotizzare che, in fondo, Gesù era troppo diretto nei confronti di quei Giudei che, per la loro formazione, non avrebbero potuto pensare diversamente, ma si tratta di un ragionamento profondamente errato perché un’anima che prova una sete vera cerca acqua e non dei surrogati. In pratica, Gesù dice a quei Giudei che era il loro spirito e chi li abitava a rifiutarlo, non la cultura e il loro infantile volersi arroccare su posizioni che più volte aveva smentito senza che avessero argomenti per ribattere.

Chiunque rifiuta il Vangelo, quindi, secondo le parole di verità pronunciate da Gesù, non è che non può perché ha avuto una vita che lo ha condizionato a tal punto da renderlo impenetrabile al messaggio di Dio e quindi sarà scusato, ma è sempre e solo perché non vuole: “Non volete venire a me” e certo sui meccanismi psicologici che determinano questo rifiuto ci sarebbe molto da dire, ma non aggiungerebbe nulla alla sintesi, al giudizio espresso da quel Gesù che è il solo a leggere l’uomo e capirlo profondamente. La diagnosi è sempre la stessa, “non volete”.

Molti amano “ragionare” mettendo a confronto la scelta di non credere con l’esistenza del libro della vita su cui già sono scritti i nomi dei salvati, dissertando sulla predestinazione, ma la questione è sbagliata perché l’uomo non è mai destinato a qualcosa, ma è sempre libero in quanto percorre il presente, non il futuro. Se mai, sono le scelte di ora che determinano ciò che avverrà dopo. Sempre, così allora come oggi. Amen.

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10.18 – VIENE L’ORA, ED È QUESTA (Giovanni 5.25-32)

10.18 – Viene l’ora, ed è questa (Giovanni 5.25-32)

 

25In verità, in verità io vi dico: viene l’ora – ed è questa – in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno. 26Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso anche al Figlio di avere la vita in se stesso, 27e gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell’uomo. 28Non meravigliatevi di questo: viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce 29e usciranno, quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna. 30Da me, io non posso fare nulla. Giudico secondo quello che ascolto e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.31Se fossi io a testimoniare da me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera. 32C’è un altro che dà testimonianza di me, e so che la testimonianza che dà di me è vera.

 

Anche in una lettura veloce del testo, se sottolineassimo le parole che circoscrivono il tempo in cui Gesù agisce, non potremmo fare a meno di notare la precisazione appuntata dopo il primo “viene l’ora”, cioè “ed è questa”che manca nel secondo: in un caso “i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che c’avranno ascoltata, vivranno”; in un altro, futuro lontano ma per il Signore comunque vicino, “tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e usciranno”per “una resurrezione di vita”o “di condanna”.

Abbiamo allora due momenti, due tempi, riferiti ad altrettanti periodi storici ben distinti, uno presente (che riguarda ancora oggi gli uomini) e uno futuro, relativo al giudizio finale. Questi due sono dichiarati come imminenti, ma nel primo caso abbiamo “ed è questa”, precisazione che manca nel successivo, quando “tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e usciranno”. In entrambi i casi si parla di “morti”, ma con un distinguo importante perché non si tratta della stessa condizione, avendo Gesù già utilizzato questa espressione per indicare quanti non credevano in Lui: ricordando infatti l’incontro con quel discepolo che intendeva, prima di aggregarsi al gruppo, aspettare che il proprio padre morisse, gli fu risposto “Lascia i morti seppellire i loro morti”(Matteo 8.22), e Luca aggiunge “tu invece va’, e annuncia il regno di Dio”.

“L’ora viene, ed è questa”significa allora che quello era il tempo in cui i“morti”, cioè tutti coloro che hanno la fine del corpo e dell’anima come unica prospettiva, avrebbero avuto l’opportunità di scampare ad essa vivendo. L’ora che viene “è questa”, non altre. Ed è ciò che accade a chi crede in Gesù Cristo. Ricordiamo le parole di Efesi 2.1-3: “Anche voi eravate morti per le vostre colpe e i vostri peccati, nei quali un tempo viveste alla maniera di questo mondo, seguendo il principe delle Potenze dell’aria, quello spirito che ora opera negli uomini ribelli. Anche tutti noi, come loro, un tempo siamo vissuti nelle nostre passioni carnali seguendo le voglie della carne e dei pensieri cattivi: eravamo per natura meritevoli d’ira, come gli altri. Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete stati salvati”. Questo verso dell’apostolo Paolo ci consente quindi di fare due sottolineature importanti sul passo di Giovanni: “I morti udranno la voce del Figlio di Dio”sono riferiti a tutti gli uomini senza alcuna distinzione, che invece però fatta, nitida e assoluta, con le parole che seguono, “e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno”. È nel momento in cui i “morti”ascoltano la voce di Gesù che risorgono e si salvano. Dal verso di Efesi appena citato, poi, vediamo che senza l’annuncio del Vangelo sarebbe impossibile non seguire “il principe delle Potenze dell’aria”, ricordo di ciò che era l’Avversario prima di essere tale e che da allora mette in atto ogni possibile strategia perché gli uomini si perdano.

E il risultato dell’opera di Gesù Cristo è: “Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce”(Colossesi 2.13); queste parole, che ci riguardano da vicino in quanto pagani convertiti visti nella condizione di “non circoncisione”, affrontano velocemente il tema del decadimento della Legge in quella parte, oltre la cerimoniale, che divideva profondamente il mondo non israelita da quello pagano.

Le parole di Gesù “e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno”, che parlano della differenza che intercorre tra chi ascolta e chi no, parlano di vita certamente futura, ma anche di quella che conduciamo quotidianamente, trasformata rispetto a quella di prima perché “Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova”(Romani 6.4) che troverà il suo punto finale nel verso “Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria”(Colossesi 3.4).

 

Gesù, proseguendo nel suo discorso, passa poi a spiegare il perché vivranno quelli che avranno ascoltato la Sua voce: “Come infatti il Padre ha vita in se stesso, così ha concesso anche al Figlio di avere vita in se stesso, e gli ha dato il potere di giudicare perché è figlio dell’uomo”. Nelle parole “Il Padre ha vita in se stesso”non vediamo apparentemente nulla di straordinario se le si prendono come un’attestazione sul fatto che Dio vive, ma se le applichiamo al fatto che è Lui la fonte della vita in quanto Creatore dell’Universo visibile e invisibile, il discorso cambia. Il Padre è Colui che progetta, forma, è l’artefice di ogni forma di vita e senza il Suo benestare nulla avviene e tutto resta inanimato. Senza la Parola, però, tutto sarebbe ancora “informe e vuoto”e qui l’identità di entrambi, Padre e Figlio, viene rivelata. Quel “gli ha dato”, infatti, non si riferisce al conferimento di un potere che prima non aveva, ma al fatto che, siccome Padre e Figlio non sono due esseri indipendenti, viene fatta una distinzione di persona e non di essenza.

Possiamo notare la differenza tra due tempi verbali, “gli ha dato”, riferito al passato remoto e prossimo, ed “è il figlio dell’uomo”al presente, cosicché gli uomini saranno giudicati non da un Dio irraggiungibile, da un creatore distante, ma da chi ha assunto le loro stesse sembianze e da qui viene il potere del giudizio, dopo avere sconfitto il peccato e la morte. Dal discorso dell’apostolo Paolo nell’areopago di Atene leggiamo “Ora Dio, passando sopra ai tempi dell’ignoranza, ordina agli uomini che tutti e dappertutto si convertano, perché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare il mondo con giustizia, per mezzo di un uomo che egli ha designato dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti”(Atti 17.30,31). Ricordiamoci di Giobbe, che parlando a YHWH lamentava il fatto che non vi fosse un mediatore tra loro: quell’uomo disse “…non è un uomo come me, al quale io possa replicare: «Presentiamoci alla pari in giudizio». Non c’è fra noi due un arbitro che ponga la mano su di noi, allontani da me la sua verga, che non mi spaventi il suo terrore: allora parlerei senza aver paura di lui; poiché così non è, mi ritrovo con me solo”(9.32-35).

Giobbe, persona profondamente spirituale, non aveva ciò che noi abbiamo, vale a dire un Sommo Sacerdote presente, in grado di compatire con noi perché ha provato su di sé ciò che significa vivere in un corpo di carne e lo ha fatto a tal punto da essere “tentato in ogni cosa in modo simile a noi, senza peccato”(Ebrei 4.15), per cui può è il Dio che davvero comprende la sua creatura. Ha scritto un fratello: “A motivo della sua alleanza con la natura umana, del suo sentire le infermità dell’uomo, il Figlio è fra le tre persone della Trinità il più atto a giudicare, oltre che essere il più degno di farlo”.

La pericope “gli ha dato potere”, infine, fu volutamente ignorata dai Giudei che si opponevano a Lui quando avrebbero dovuto conoscere Daniele 7.13, 14: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo;(…)gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano, il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai– notare il tempo passato, presente e futuro – e il suo regno non sarà mai distrutto”. I regni umani passano, gli imperi vengono abbattuti da sempre nonostante, nel loro svilupparsi, la fede in loro fosse totale. E non possiamo fare a meno di pensare all’ultimo, il più terribile di tutti, che nonostante la sua grandezza e controllo totale sulle persone, durerà solo tre anni e mezzo.

Arriviamo così al secondo “Viene l’ora”, privo di quel “ed è questa”del primo, in cui si parla di “tutti coloro che sono nei sepolcri(che) udranno la sua voce”, che ci confermano ancora una volta come l’uomo sia comunque proprietà di Dio: tutti quelli che saranno morti, di cui si sarà perso il ricordo, dal più piccolo al più grande, torneranno in vita. Qui Gesù parla di coloro che sono nei sepolcri per farsi comprendere, ma sappiamo che il riferimento riguarda tutti: “Il mare restituì i morti che esso custodiva, la Morte e gli inferi resero i morti da loro custoditi e ciascuno venne giudicato secondo le sue opere”(Apocalisse 20.13). Si tratta di quelli che anche Daniele cita con l’espressione “coloro che sono nella polvere”(12.2) di cui si è persa ogni “traccia” nel senso che non hanno un sepolcro e sono dispersi nel nulla, nell’indistinto.

Ebbene, la potenza di Dio si rivelerà in tutta la sua forza poiché vi sarà un’altra voce al cui appello quella polvere tornerà a vivere e ad avere forma per “una resurrezione di vita o di condanna”, altrimenti descritta con le parole “…si risveglieranno gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento, coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre”(Daniele 12.3).

Gesù parla di quelli che fecero “il bene”o “il male”, ma non si tratta di “buoni” e “cattivi”, ma chi avrà compiuto “l’opera di Dio”che è “questa, che voi crediate a Colui che egli ha mandato”. “Fare il bene” è l’ascolto, la dedizione, il seguire il Figlio, scampando così alla resurrezione di condanna. La “voce” che ascolteranno tutti i morti, indipendentemente dall’epoca in cui avranno vissuto, è descritta in 1 Corinti 15.52 con le parole “la tromba suonerà e i morti risusciteranno”che rendono in modo ancor più marcato l’idea dell’appello, dell’ora solenne, meravigliosa o terribile a seconda dei casi, alla quale nessuno potrà sottrarsi, dove la vita potrà avere senso e dignità totale oppure trovare il suo esatto contrario.

Fatto questo richiamo, Nostro Signore precisa ciò che lo fa agire, cioè la completa dipendenza dal Padre che, come uomo, pregava di continuo: “Da me, io non posso fare nulla– cioè non posso seguire nessun mio interesse personale, né avere iniziative diverse da quelle approvate dal Padre –; io giudico secondo quello che ascolto e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato”(v.30). L’ascoltare di Gesù comprende anche il vedere e quindi il sapere: l’essere umano non può fare a meno di rivelarsi e sono proprio le sue parole come sintomo di ciò che sovrabbonda nel cuore che determinano la sua posizione – ricordiamo il principio “dalle tue parole sarai giustificato, e dalle tue parole sarai condannato”–. E qui dovremmo aprire un grosso capitolo sul discernimento che anche noi, come cristiani, siamo chiamati a praticare nei confronti dei nostri simili che possono rivolgersi a noi con fini secondi e terzi, in particolare proprio coloro che affermano di amarci, per quanto sempre a modo loro.

Gesù venne sulla terra per testimoniare del Padre e rivelarlo e al verso 31 afferma “Se fossi io a testimoniare di me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera. C’è un altro che dà testimonianza di me, e so che la testimonianza che egli dà di me è vera”: il Figlio è inscindibile dal Padre, non può parlare di sé senza coinvolgerlo perché entrambi sono gli autori del piano di salvezza per l’uomo, pur con le dovute distinzioni e ruoli. Infatti, contrariamente a quanto possa sembrare di primo acchito, quell’ “altro”che dà testimonianza del Figlio non è Giovanni Battista, ma il Padre stesso che agisce attraverso di Lui ed è addirittura intervenuto al Suo battesimo con le parole “Questi è il figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento”(Matteo 3.17). E tutto è stato fatto e detto per la salvezza di noi, peccatori. Amen.

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10.17 – IL PARALITICO DI BETESDA II/II (Giovanni 5.9-18)

10.17 – Il paralitico di Betesda II (Giovanni 5.9-18)

 

Quel giorno però era un sabato. 10Dissero dunque i Giudei all’uomo che era stato guarito: «È sabato e non ti è lecito portare la tua barella». 11Ma egli rispose loro: «Colui che mi ha guarito mi ha detto: «Prendi la tua barella e cammina»». 12Gli domandarono allora: «Chi è l’uomo che ti ha detto: «Prendi e cammina»?». 13Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse; Gesù infatti si era allontanato perché vi era folla in quel luogo. 14Poco dopo Gesù lo trovò nel tempio e gli disse: «Ecco: sei guarito! Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio». 15Quell’uomo se ne andò e riferì ai Giudei che era stato Gesù a guarirlo. 16Per questo i Giudei perseguitavano Gesù, perché faceva tali cose di sabato. 17Ma Gesù disse loro: «Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco». 18Per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio.

 

Dopo aver narrato in sintesi quanto avvenuto a Betesda, Giovanni passa a spiegare le conseguenze dell’operato di Nostro Signore che aveva visto, conosciuto ed era intervenuto nei confronti di quell’infermo. Anche oggi il cristiano quindi sa che Gesù fa le stesse cose verso di lui: il Suo “vedere” implica la presa d’atto di una situazione, il “sapere” implica la Sua conoscenza nel profondo dei meccanismi psicologici che si creano all’interno dell’anima della persona e, infine, l’intervento si verifica nel momento esatto in cui non si può fare a meno di attribuire a Lui, e a Lui solo, la liberazione da una condizione penalizzante, materiale o spirituale.

Gesù ancora una volta, a Betesda, soccorre un “ultimo”: molti potevano affermare di essere stati guariti, riuscendo ad entrare per primi in quell’acqua, da un intervento angelico che testimoniava le attenzioni di Dio per il Suo popolo, ma uno solo poteva dichiarare, con una guarigione visibile a tutti, di aver beneficiato della cura diretta di Dio, per quanto ancora non lo avesse realizzato interamente e non sapeva chi fosse chi lo aveva guarito. Certo nessuno dei tanti che passavano per quel luogo aveva mai chiesto a quell’infermo se avesse voluto guarire, certo nessuno di quelli gli avrebbe mai potuto dire “Alzati, prendi la tua barella, e cammina” mettendolo in condizioni di concretare quell’ordine, diretto al suo corpo, cioè all’involucro, ma che attestava anche il perdóno dei suoi peccati.

Abbiamo accennato al significato di quei trentotto anni, trascorsi certo a soffrire immobile o comunque in una condizione di forte penalizzazione, ma non dobbiamo trascurare il fatto che quell’uomo aveva avuto l’opportunità di pensare al perché era stato reso così: abbiamo infatti letto le parole “Ecco, sei guarito! Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio” (v.14), frase diretta non più al corpo, ma all’anima, conscia del peccato commesso e del fatto che le due preghiere, quella di guarire e di essere perdonato, erano state accolte.

C’è una realtà che Giovanni mette in primo piano e che condiziona tutto il nostro episodio: il sabato, giorno di riposo di cui abbiamo già sottolineato il significato e che sappiamo essere stata stravolta dall’interpretazione dei Maestri. A prima vista il richiamo dei Giudei “È sabato, non ti è levito portare la tua barella” aveva un suo significato, poiché effettivamente in quel giorno non si potevano portare dei pesi: “Così dice il Signore: Per amore della vostra stessa vita, guardatevi dal trasportare un peso in giorno di sabato e dall’introdurlo per le porte di Gerusalemme. Non portate alcun peso fuori dalle vostre case in giorno di sabato e non fate alcun lavoro, ma santificate il giorno di sabato come io ho comandato ai vostri padri.” (Geremia 17. 21,22).

Quando però fu loro risposto “Colui che mi ha guarito mi ha detto: «Prendi la tua barella, e cammina»”, vediamo che non vi fu alcuna intenzione di approfondire quella guarigione, ma piuttosto il cercare il responsabile dell’istigazione a infrangere le norme su quel giorno. Non è un particolare da poco, perché quella che a prima vista poteva sembrare un’infrazione alle norme sul sabato, per cui porrebbe quei Giudei dalla parte della ragione, in realtà non lo era, ma rientrava nelle cosiddettte “opere di necessità e misericordia”; ricordiamo ad esempio Matteo12.11 “Chi di voi, se possiede una pecora e questa, in giorno di sabato, cade in un fosso, non l’afferra e la tira fuori? Ora, un uomo vale più di una pecora! Perciò è lecito in giorno di sabato fare del bene”, oppure Luca 13.15 a proposito della donna curva da diciotto anni: “Ipocriti, non è forse vero che di sabato ciascuno di voi slega il suo bue o l’asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi? E questa figlia di Abramo, che Satana ha tenuto prigioniera per ben diciotto anni, non doveva essere liberata da questo legame nel giorno di sabato?”. Abbiamo già in questi due versi la spiegazione del fatto che nessuno, né Gesù, né l’uomo da lui guarito, aveva commesso un’infrazione. Chissà se quell’innominato, portando con sé la barella che per tanto tempo lo aveva tenuto prigioniero, avesse voluto conservarla a testimonianza del proprio peccato, dell’infermità ad esso conseguente e delle modalità con cui la sua guarigione era avvenuta.

La stessa risposta ai Giudei data da quell’uomo, “Colui che mi ha guarito mi ha detto: «Prendi la tua barella e cammina»”, alludeva al fatto che non era stata commessa alcuna infrazione alla legge del sabato: solo un intervento di Dio avrebbe potuto guarire quella persona e quindi, essendogli stato detto così, non poteva esservi contraddizione nel senso che sarebbe stato impossibile guarire e peccare subito dopo. In risposta non abbiamo la domanda “Chi ti ha guarito?”, ma “Chi ti ha detto?”, ignorando volutamente quel miracolo che parlava di vita e di perdono, per sostare sulla loro legge interpretata, che in quell’intervento divino trovava evidentemente il suo annullamento. Quello dei Giudei fu un metodo perverso, tipico di chi si ritiene una sorta di “guardiano della fede”, che trova nell’applicazione della norma la ragione del proprio orgoglio, ma non è in grado di vedere oltre, di giudicare vagliando le ragioni di un’azione per inquadrare correttamente un determinato avvenimento. Si può affermare che, in realtà, chi “si faceva uguale a Dio” erano loro, non Gesù.

Il verso 14 della nostra traduzione inizia con “Poco dopo Gesù lo trovò nel tempio”, ma sarebbe stato più appropriato scrivere “Dopo tutto questo” (metà pànta), parole che indicano un intervallo di tempo più ampio tra il miracolo e l’incontro: quell’uomo aveva desiderato tornare al Tempio, figura della presenza di Dio, dal quale era stato lontano per trentotto anni. Nello scorso capitolo ho scritto che avrebbe potuto benissimo andare da un’altra parte a festeggiare l’avvenuta guarigione, ma era consapevole che in nessun altro luogo avrebbe potuto trovare il proprio significato e la sua presenza sommessa una ragione. Il Signore lo aveva guarito, anche se non conosceva ancora l’identità di Colui che era stato il Suo strumento, se un angelo diverso o un profeta.

Anche qui abbiamo una conferma che ogni esperienza dell’uomo col Signore è personale, individuale, non accomunabile a quella di altri. C’è chi chiede il Suo aiuto e lo ottiene, e chi lo prova direttamente senza nemmeno conoscerlo e quindi cerca di capirne la provenienza, ma comunque tutti, indistintamente, passano da una condizione di peccato con le sue visibili, tangibili conseguenze, alla liberazione da esso.

Per il modo con cui Gesù si rivela a quest’uomo, poi, pare che sia intercorso fra i due un dialogo parallelo, interiore, che Giovanni non ha scritto, ma ha lasciato intendere perché le parole di Nostro Signore sembrano indirizzate a una persona perfettamente in grado di comprenderle: “Va’ e non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio”: “Va’” perché sei libero, “non peccare più” cioè non ritornare al peccato che ti ha reso invalido. In quel “qualcosa di peggio”, poi, non vi è un allusione al fatto che sarebbe tornato nella condizione che lo aveva portato a Betesda, ma alla “morte seconda”, cioè all’impossibilità di tornare indietro dal destino che sceglie chi rifiuta il Vangelo o, peggio, lo abbandona coscientemente una volta conosciutolo. Tornare al proprio peccato significa agire e pensare come prima dell’incontro con Gesù, non certo cadere accidentalmente perché deboli, distratti, soggetti a conoscere l’umiliazione dell’infedeltà naturale che portiamo con noi come eredità in Adamo. Ricordiamo che Pietro, certamente sincero, disse al suo Maestro per tre volte “Signore, tu sai che io ti amo”, e poi lo sconfessò terrorizzato per altrettante.

Arriviamo così al verso 15, “Quell’uomo se ne andò e riferì ai Giudei che era stato Gesù a guarirlo” in cui vediamo non una delazione, ma una volontà di testimoniare: finalmente sapeva chi lo aveva guarito, e suppongo anche perché. Il verbo greco usato, anéngheile, racchiude infatti in sé il senso dell’annuncio e non del tradimento; è come se volesse dire ai Giudei “quelli che escono dall’acqua di Betesda vengono guariti da un angelo, ma io sono stato guarito da Gesù”: ci sarebbe voluto poco per trarre le necessarie conclusioni, soprattutto per loro, studiosi della Legge che, se fossero stati sinceri, avrebbero dovuto rivedere molte loro posizioni. Sarebbe bastato il fatto che le guarigioni di Betesda avvenivano anche di sabato per fare le dovute proporzioni. Invece, “Voi circoncidete un uomo anche di sabato. (…) ora voi vi sdegnate contro di me perché di sabato ho guarito interamente un uomo? Non giudicate secondo le apparenze; giudicate con giusto giudizio!” (Giovanni 7.23,24). Sono parole di una linearità unica, che tuttavia non vennero prese in considerazione, neppure minimamente.

La volontà di rimanere ciechi da parte dei Giudei trova una grande sottolineatura nel verso 16, “Per questo i Giudei perseguitavano Gesù, perché faceva tali cose nel giorno di sabato”, che confermano, oltre quanto detto, il fatto che nemmeno l’esposizione delle ragioni più elementari possono qualcosa di fronte a delle coscienze cauterizzate e a dei cuori induriti.

Le parole “Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco” (v. 17) possono aver riferimento sia a ciò che avveniva in Betesda e nei confronti di quell’infermo, quanto al fatto che l’opera del Padre non s’interrompeva mai, nemmeno di sabato, e quindi anche quella del Figlio non poteva venire limitata da una norma data agli uomini, tra l’altro senza che il quel giorno venisse effettivamente, legalmente violato. Inoltre, quell’ “anche ora” in cui il Padre agiva si riferisce al fatto che Gesù, senza di Lui e al tempo stesso essendo con Lui Uno, era l’Unico a cui gli uomini avrebbero potuto dare ascolto, allora come oggi, nel loro esclusivo interesse.

Giungiamo così alla nota conclusiva di Giovanni, “per questo i Giudei cercavano ancor di più di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio”: ancora una volta abbiamo il non voler esaminare quanto avvenuto a Betesda con gli occhi del ricercatore sincero. Quei Giudei, con la loro conoscenza, avrebbero avuto tutti gli strumenti per iniziare una sincera operazione di vagliatura: il miracolo come punto di partenza a cui avrebbe potuto far seguito un esame delle Sue parole, dei Suoi discorsi e degli altri miracoli confrontati con le parole dei profeti. Avrebbero potuto scoprire che quello era effettivamente il tempo dell’Emmanuele, del “Dio con noi” e gioirne perché posti all’interno del piano eterno di Dio per l’uomo.

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10.16 – IL PARALITICO DI BETESDA I/II (Giovanni 5.1-9)

10.16 – Il paralitico di Betesda (Giovanni 5.1-9)

 

1 Dopo questi fatti, ricorreva una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. 2A Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, vi è una piscina, chiamata in ebraico Betzatà, con cinque portici, 3sotto i quali giaceva un grande numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. [ 4] 5Si trovava lì un uomo che da trentotto anni era malato. 6Gesù, vedendolo giacere e sapendo che da molto tempo era così, gli disse: «Vuoi guarire?». 7Gli rispose il malato: «Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, un altro scende prima di me». 8Gesù gli disse: «Àlzati, prendi la tua barella e cammina». 9aE all’istante quell’uomo guarì: prese la sua barella e cominciò a camminare.

 

Quello che abbiamo letto è un episodio molto particolare sotto diversi aspetti, il primo tra i quali, non per importanza ma per una questione strutturale, riguarda la disposizione dei capitoli da 5 a 7 del Vangelo di Giovanni poiché la loro successione corretta sarebbe 6 – 5 – 7 e non quella che abbiamo in tutte le Bibbie, indipendentemente dalla loro provenienza denominazionale. Così annota Giuseppe Ricciotti nella sua “Vita di Gesù Cristo”: «Questa inversione, del cap. 6 premesso al cap. 5, appare già seguita nell’antichità da Taziano – il Siro, che nel 150 circa scrisse il Diatessaron in cui cercò di armonizzare il racconto dei quattro Vangeli – e nel Medioevo da vari espositori e oggi è abbastanza comune fra studiosi di ogni campo. La serie normale dei codici (capp. 4, 5, 6, 7) si potrebbe forse spiegare con un accidentale spostamento dei fogli contenenti il cap. 5 (o 6) in un archetipo antichissimo».

Altro punto, controverso per gli studiosi, è quale sia questa “festa dei Giudei”, che Giovanni non fa precedere dall’articolo determinativo “la”, ma dal generico “una”. Ora, stante il carattere preciso dell’apostolo pare improbabile che, se si fosse trattato della Pasqua, non lo avesse specificato. Fatto sta che la questione è ancora aperta e che forse si trattò della Pentecoste, che celebrava la rivelazione di Dio a Mosè sul monte Sinai, in seguito alla quale la Torah fu rivelata al popolo.

Venendo poi al luogo, Betesda, o Betzatà, vi è incertezza anche sul significato del nome, “Casa dell’oliveto” (da “beth zetha”) perché inserita in un quartiere nuovo della città dove prima vi era un oliveto, oppure “Casa di misericordia” (da Beth hisdà); fatto sta che Gesù, in questo suo secondo viaggio a Gerusalemme, stando a Giovanni, sostò in Gerusalemme per pochissimo tempo stante i piani omicidi nei Suoi confronti da parte del potere politico-religioso.

Il verso 2 ci dà la possibilità di identificare il luogo, la “Porta delle Pecore” e la piscina, con “cinque portici”: la prima è menzionata da Nehemia (8) quando narra la ricostruzione delle mura di Gerusalemme, della seconda è stata confermata l’esistenza da alcuni scavi archeologici: misurava 120×60 metri, era recinta da quattro portici più uno trasversale che la divideva in due bacini. Ora pare che lì si raccogliessero le acque di una fonte sotterranea dalla quale sgorgavano in modo intermittente, facendone innalzare il livello. Sotto i cinque portici, numero nel quale molti hanno voluto vedere raffigurati i libri della Legge, “giaceva un gran numero di infermi, di ciechi, zoppi e paralitici”. La nostra traduzione è mancante del quarto verso e di parte del terzo. Il testo completo sarebbe

 

“…un gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici che aspettavano il movimento dell’acqua. 4Perché di tempo in tempo un angelo scendeva nella piscina e intorpidiva l’acqua; e il primo che vi entrava, dopo l’intorpidimento dell’acqua, qualunque malattia avesse, guariva”.

 

Perché? Sono parole che mancano nei due più antichi codici, il Sinaitico e il Vaticano, ma sono presenti nell’Alessandrino a loro appena posteriore e in altre collocabili tra la fine del I e l’inizio del II secolo. San Girolamo, nella sua Vulgata, inserisce questi versi e lo stesso fanno il Diodati e il Luzzi, oltre che altri. Inserire o meno questo passo è quindi una scelta dei traduttori, ma occorre tener presente l’effetto diverso che dà la lettura dell’episodio con queste aggiunte: sappiamo perché quei malati erano lì, e soprattutto abbiamo la spiegazione di quelle guarigioni, impossibili per una semplice acqua termale. Da sottolineare il fatto che non si trattava di miracoli isolati, ma che si verificavano con continuità ogni volta che l’acqua si intorpidiva e solo per la prima persona che vi entrava. Come tutto ciò fu scoperto, non è dato sapere. Le parole dei versi terzo e quarto, quindi, escludono la spiegazione razionale della fonte sotterranea, o per lo meno la mettono su un piano ben distinto, attribuendo l’intorpidimento della piscina e la conseguente guarigione del primo infermo che vi entrava ad un intervento angelico.

Possiamo immaginarci la scena: da una condizione di relativa calma attorno alla piscina, tutto il luogo si animava all’improvviso quando l’acqua si intorpidiva, o agitava, e quel “grande numero di infermi” cercava di raggiungerla, o da soli, o aiutati da amici e parenti che, presi dal desiderio di veder guarire il loro congiunto, non esitavano a gesti scorretti verso gli altri pur di entrarvi per primi.

Ma c’era lì un uomo, “malato da trentotto anni”, cifra alla quale è facile non far caso poiché l’attenzione del lettore si sposta subito sul lato emotivo, cioè sul fatto che il malato era tale da molto tempo e sulla delusione rappresentata dal non poter mai guarire, essendo impossibilitato a raggiungere l’acqua perché non aiutato da nessuno. Sappiamo da quanto tempo quella persona era inferma, ma non da quanto si trovasse a Betesda. Nella Scrittura il numero trentotto non compare molte volte, ma quei pochi versi ci consentono di individuare correttamente il suo significato. Leggiamo Deuteronomio 2.14: “La durata del nostro cammino, da Kades-Barnea al passaggio del torrente Zered, fu di trentotto anni, finché tutta quella generazione di uomini atti alla guerra scomparve dall’accampamento, come il Signore aveva loro giurato”. Questo avvenne per la sfiducia che quelli avevano dimostrato nei confronti di Dio nonostante li precedesse “…nel cammino per cercarvi un luogo dove porre l’accampamento: di notte nel fuoco, per mostrarvi la via dove andare, e di giorno nella nube”. Fu lì che il Signore disse “Nessuno degli uomini di questa generazione malvagia vedrà la buona terra che ho giurato di dare ai vostri padri, se non Caleb, figlio di Gefunne. Egli la vedrà e a lui e ai suoi figli darò la terra su cui ha camminato, perché ha pienamente seguito il Signore” (Deuteronomio 1.32 e segg.).

Il numero 38, allora, ci parla del provvedimento, selezione e giudizio di Dio. È anche indice di forte negatività e disobbedienza volontaria, a Lui in opposizione, che ci ricorda Acab, figlio di Omri, che “divenne re su Israele a Samaria nell’anno trentottesimo di Asa, re di Giuda. Acab, (…) fece ciò che è male agli occhi del Signore più di tutti i re d’Israele prima di lui”. Stessa cosa per Zaccaria di cui leggiamo: “Nell’anno trentottesimo di Azaria, re di Giuda, Zaccaria, figlio di Geroboamo, divenne re su Israele a Samaria. Egli regnò sei mesi. Fece ciò che è male agli occhi del Signore, come l’avevano fatto i suoi padri; non si allontanò dai peccato che Geroboamo, figlio di Nebat, aveva fatto commettere a Israele – l’idolatria –. Ma Sallum, figlio di Iabes, congiurò contro di lui, lo colpì a Ibleàm, lo fece morire e regnò al suo posto” (2 Re 15.8-12).

Dato un cenno sulla realtà spirituale compresa nel numero degli anni in cui quell’anonimo era paralitico, resta quella terrena, da lui conosciuta benissimo, fatta da una serie ininterrotta di giorni passati a sperare nell’aiuto di qualcuno senza che arrivasse. E qui viene chiamato in causa il tempo, che implica un vivere soggettivo ben diverso da quello segnato dalle lancette dell’orologio che scorrono uguali per tutti: l’esperienza del tempo, infatti, è creata dalla mente perché esso non trascorre, ma semplicemente è. Chiunque è andato a scuola sa benissimo che ci sono “ore” che finiscono presto ed altre che non passano mai e che comunque quasi non si fa in tempo ad iniziare l’anno che subito arrivano le vacanze di Natale, poi quelle di Pasqua, e poi le estive, dopo di che tutto ricomincia da capo. Che la vita passi in un soffio, lo si impara presto fin da bambini.

Ora sono convinto che il tempo vissuto dall’ignoto paralitico gli dovesse essere sembrato enormemente lungo. Non che fosse da trentotto anni nella piscina, ma certo aveva vissuto la propria sofferenza nell’indifferenza generale, senza poter contare sull’aiuto specifico di qualcuno. Fra l’altro, è interessante il fatto che quella persona fosse paralitica lo ha deciso la tradizione, poiché il testo parla di una persona “malata” o “inferma”, segno che non era totalmente inabile, ma certamente invalido. Non può esservi migliore descrizione di quella che quell’uomo dà di sé: “Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, un altro scende prima di me”.

Il nostro testo recita “Gesù, vedendolo giacere e sapendo che da molto tempo era così, gli disse: «Vuoi guarire?»”. Nostro Signore, quindi, vede e sa: vede come tutti gli altri uomini eventualmente presenti lì, ma solo Lui sa “che da molto tempo era così”, e qui non si tratta del semplice, freddo dato dei trentotto anni, ma di come questi erano stati vissuti. Non solo, ma anche quel “sapendo” riguardava la conoscenza dei meccanismi spirituali che avevano portato a quella condizione. Di fatto, quel paralitico attendeva da anni una liberazione che, non potendo certo avvenire scendendo in acqua per primo, era impossibile. Eppure stava lì.

La domanda di nostro Signore è disarmante nella sua semplicità: “Vuoi guarire?”, come fosse qualcosa alla immediata portata di quel pover’uomo. Ed in effetti lo era ma, invece di dare una risposta affermativa, non avendo capito la domanda, quell’anonimo risponde spiegando a Gesù che da solo non sarebbe mai riuscito a scendere nella piscina. A questo punto sappiamo che Nostro Signore, in tutta risposta, gli disse “Àlzati, prendi la tua barella e cammina”, cui seguì  una guarigione istantanea.

Questo è un miracolo molto raro perché qui Nostro Signore agisce di sua iniziativa, non dietro una preghiera dell’interessato e neppure a seguito di una fede in Lui dichiarata: quell’uomo guarì certamente a seguito della compassione che Gesù dimostrò nei suoi confronti, ma soprattutto perché il Figlio di Dio conosceva il suo vissuto, i pensieri e il suo cuore: vedremo infatti che più tardi lo incontrerà nel Tempio a ringraziare l’Iddio d’Israele che aveva provveduto a guarirlo, quindi a perdonarlo, non per strada o in locali pubblici “a festeggiare”.

Io credo che quel “Vuoi guarire?” sia una domanda che viene rivolta a tutti gli esseri umani con la stessa naturalezza, perché la condizione penalizzante del peccato in cui versano, e che così tanto li limita, possa cessare. Sono convinto che anche oggi, ogni giorno, Gesù passi ovunque nel mondo e rivolga la medesima domanda a tutti e soprattutto in un momento ben preciso della loro vita, qui raffigurato nei trentotto anni di paralisi o comunque menomazione grave. Perché il Figlio di Dio interviene e si rivela a coloro che vuole salvare e perdonare. Amen.

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10.15 – GENNEZARETH (Marco 6.53-56)

10.15 – Gennezareth (Marco 6.53-56)

 

53Compiuta la traversata fino a terra, giunsero a Gennèsaret e approdarono. 54Scesi dalla barca, la gente subito lo riconobbe 55e, accorrendo da tutta quella regione, cominciarono a portargli sulle barelle i malati, dovunque udivano che egli si trovasse. 56E là dove giungeva, in villaggi o città o campagne, deponevano i malati nelle piazze e lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello; e quanti lo toccavano venivano salvati”.

 

La nostra sarà una meditazione basata su tre versetti, ma estremamente densi di significato. Possiamo dire che l’episodio della traversata avvenne il giorno dopo la discussione nella Sinagoga di Capernaum quando Gesù si dichiarò “il pane disceso dal cielo”, avvenimento che i sinottici non riportano. In Giovanni però, all’inizio del suo settimo capitolo, leggiamo “Dopo questi fatti, Gesù se ne andava per la Galilea; infatti non voleva più percorrere la Giudea, perché i Giudei cercavano di ucciderlo”. Credo che di queste intenzioni Giuda Iscariotha ne venne a conoscenza non dopo quanto avvenuto nella Sinagoga, come potrebbe sembrare dalla nota di Giovanni, ma prima, per cui l’annotazione “stava per tradirlo” in 6.71 assume una valenza particolare: da un lato abbiamo i pensieri del traditore, dall’altro la conoscenza di essi da parte di Gesù che li anticipa dicendo “Non ho scelto io voi dodici? Eppure uno di voi è diavolo” (v.70).

Quindi, dopo la disputa a Capernaum, Gesù con i suoi prende la barca e, riallacciandosi al brano di oggi, “compiuta la traversata fino a terra, giunsero a Gennezareth, e approdarono”. Si noti, a proposito del racconto di Marco, che nominando Gennezareth, il cui nome significa “Giardini del principe” a motivo della fertilità del territorio, cita un pezzo di storia, oltre che eventi spirituali, precedentemente accaduto: Gennezareth era chiamata anticamente Kinneroth ed apparteneva alla tribù di Neftali. Si tratta di un luogo che fu testimone di una grande battaglia nel corso della conquista della terra di Canaan fra Israele e una coalizione di dieci re, tra i quali quello di Kinneroth. Leggiamo in Giosuè 11.4-9: Allora essi uscirono con tutti i loro eserciti: erano una truppa numerosa come la sabbia sulla riva del mare, con numerosissimi cavalli e carri.5Tutti questi re si allearono e vennero ad accamparsi insieme presso le acque di Merom, per combattere contro Israele. 6Allora il Signore disse a Giosuè: «Non temerli, perché domani a quest’ora io li consegnerò tutti trafitti davanti a Israele. Taglierai i garretti ai loro cavalli e appiccherai il fuoco ai loro carri». 7Giosuè con tutti i suoi guerrieri andò contro di loro presso le acque di Merom, a sorpresa, e piombò su di loro. 8Il Signore li consegnò nelle mani d’Israele, che li batté e li inseguì fino a Sidone la Grande, fino a Misrefot-Màim e fino alla valle di Mispa a oriente. Li sconfissero fino a non lasciar loro neppure un superstite”.

Ebbene, molti secoli dopo quell’avvenimento, Dio visita il suo popolo approdando in un territorio caratterizzato dalla presenza di Satana che, per quanto sconfitto al tempo di Giosuè nella persona dei dieci re, non per questo aveva rinunciato a dominarlo. Quel dominio veniva esercitato in forma subdola perché l’Avversario non aveva occupato militarmente quel territorio con malattie e infermità di vario tipo, figura della disubbidienza ai voleri di Dio; abbiamo letto che “scesi dalla barca, subito la gente lo riconobbe e, accorrendo da tutta quella regione, cominciarono a portargli sulle barelle i malati – perché il peccato fa ammalare e paralizza l’essere umano – dovunque udivano che si trovasse”. Qui e nell’ultima parte del verso 56, quando leggiamo e rifletteremo sul testo in base al quale gli chiedevano di toccare “almeno il lembo del suo mantello”, occorre sostare brevemente.

Sappiamo che la malattia per Israele era una conseguenza del peccato, mentre per gli altri popoli, come oggi, questa rientrava nelle accidentalità della vita. Risolvendo il problema di quanti andavano a Lui o gli venivano portati, quindi, Gesù non voleva rivelarsi come un “grande guaritore”, ma come l’Emanuele, il “Dio con noi” che, in quanto tale, guariva come scritto in Esodo 15.26, “io sono l’Eterno, che ti guarisco”. La guarigione dalla malattia, qualunque essa fosse, comportava quella dell’anima perché se non vi fosse stato quel desiderio Nostro Signore non avrebbe potuto operare, come ricordiamo si verificò a Nazareth, in cui non avvennero miracoli nonostante la gente glieli chiedesse, ma senza quella fede che risolve.

Sempre riguardo alle guarigioni, va ricordato che queste erano il mezzo mediante il quale Gesù dimostrava di essere in grado di dare il perdono di Dio e di essere Dio stesso secondo la frase “Ti sono rimessi i peccati”. In altri termini, allora i miracoli erano indispensabili per confermare le Sue parole e perché il popolo d’Israele Lo riconoscesse come tale. La continuità dei miracoli nel tempo di allora era un altro elemento importante perché continua conferma del fatto che Gesù era effettivamente chi diceva di essere, ma oggi? Un miracolo, che può sempre avvenire comunque, non può più essere un segno dato affinché la gente possa credere perché quello più importante, la salvezza di un’ anima e la sua conversione, si verifica continuamente e quelli di altro tipo che leggiamo nei Vangeli o nel libro degli Atti, sono da noi accettati e riconosciuti per fede. Il cristiano di oggi vive una realtà profondamente diversa da quella della prima Chiesa e Gesù stesso ricordiamo disse a Tommaso “Perché mi hai veduto, hai creduto; beati coloro che, pur non avendo visto, crederanno” (Giovanni 20.29). Tra l’altro, sbaglieremmo a ritenere il miracolo come condizione base per credere anche ai tempi in cui visse e operò Nostro Signore poiché, ricordando l’episodio del ricco e Lazzaro, alla richiesta del ricco di mandare dei segni ai propri famigliari perché si convertissero prima di incontrare Dio in giudizio, si sentì rispondere “Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro” (Luca 16.29).

L’episodio del ricco e Lazzaro, poi, conferma il principio in base al quale un miracolo viene concesso a chi si trova in una condizione d’animo particolare: “Se non ascoltano – cioè recepiscono e quindi seguono – Mosè e i profeti, neanche se uno resuscitasse dai morti saranno persuasi” (v.30). Ora credo che sia sufficiente considerare quanti hanno creduto nella resurrezione di Cristo per fare le dovute considerazioni.

Mentre il fine di un miracolo, non solo al tempo di Gesù, era quello di condurre uno o più uomini a Dio, quello odierno trova quasi sempre il suo punto d’arrivo nella superstizione e nel traviamento delle anime. Ben sapendo questo, l’apostolo Paolo scrive già in 2 Corinzi 11.14,15 “…ciò non fa meraviglia, perché anche Satana si traveste da angelo di luce. Non è perciò gran cosa se anche i suoi ministri si mascherano da ministri di giustizia; ma la loro fine sarà secondo le loro opere”. Tra l’altro, se osserviamo chi sono i presunti autori dei miracoli di oggi, vediamo che non sono mai attribuiti a Gesù Cristo, ma a divinità immaginarie, aggiunte, parallele a quella che è la sana dottrina cristiana che vede unicamente nel Figlio la sorgente di ogni benedizione, non essendovi altra via oltre a Lui per giungere al Padre.

Il miracolo con provenienza dall’Avversario, al di fuori dei casi immediatamente riconoscibili quanto a intervento di Dio, è ben descritto in Atti 8 con Simon Mago: “V’era da tempo in città un tale di nome Simone, dedito alla magia, il quale mandava in visibilio la popolazione di Samaria spacciandosi per un gran personaggio. A lui aderivano tutti, piccoli e grandi, esclamando: Questa è la potenza di Dio, quella che è chiamata grande. Gli davano ascolto perché per molto tempo gli aveva fatti strabiliare con le sue magie – le stesse esercitate da Satana con Mosè nell’episodio delle dieci piaghe –. (…) ma quando cominciarono a credere a Filippo, che recava la buona novella del Regno di Dio – che non si riduce a cose apparenti – e del nome di Cristo, uomini e donne – cioè persone adulte –  si facevano battezzare. Anche Simone credette e fu battezzato e non si staccò più da Filippo. Era fuori di sé nel vedere i segni e i grandi prodigi che avvenivano”. Sappiamo però che Simone non capì nulla sullo scopo dei miracoli che venivano compiuti allora, talché propose del denaro a Pietro e agli Apostoli pur di riuscire a trasmettere lo Spirito Santo agli altri mediante imposizione delle mani.

 

Giungiamo ora al secondo spunto di riflessione che inizia al verso 54 con le parole “la gente subito lo riconobbe”: come mai, se a Genenzareth approdava per la prima volta? Qui abbiamo un riferimento importante nel vestito di Gesù, che abbiamo già incontrato nell’episodio della donna emorroissa. Nostro Signore non indossava un abito di peli di cammello come il Battista, ma quello descritto in Numeri 15.38: «Parla agli israeliti e ordina loro che si facciano, di generazione in generazione, fiocchi agli angoli delle loro vesti e che mettano al fiocco di ogni angolo un cordone di porpora viola. Avrete tali fiocchi e, quando li guarderete, vi ricorderete di tutti quei comandamenti del Signore per metterli in pratica”. Ecco: Gesù, in quanto assoluto compitore della Legge, l’unico in grado di adempierla in modo perfetto, era anche il solo a poter essere in grado di guarire proprio coloro che “lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello”, cioè non un pezzo di vestito, ma proprio quei fiocchi o più propriamente il cordone di porpora viola posto agli angoli del mantello che portava. Qui le traduzioni appropriate sono poche perché quello del cordone, o “frangia” è un particolare che si trova nelle versioni ebraiche.

L’abito che Gesù portava non aveva nulla di miracoloso, ma i lembi, le frange, erano la parte sacra dell’abito e, toccando quelli, i malati dimostravano di voler andare direttamente a Lui perché costituivano l’adempimento di tutti quei comandamenti emanati da Dio che loro non potevano né sapevano adempiere. C’è una profondità immensa in questo gesto che esprime ciò che migliaia di parole non avrebbero potuto dire: una mano si tende e tocca la frangia della Sua veste, quella che stava ai quattro angoli perché, tra l’altro, ad ognuno di loro corrispondeva un nome di Dio. E quattro sono le lettere del tetragramma YHWH. Toccare quel lembo, angolo, frangia, significava dimostrare la volontà di aderire a ciò che Gesù avrebbe potuto fare, Lui e Lui solo. Toccare quella frangia significava sfiorare la Sua Santità e nonostante questo esserne resi partecipi. Ecco perché il verso con cui termina il nostro passo non parla di guarigione, ma di salvezza: “quanti lo toccavano venivano salvati”. Comprendiamo? L’importante era sì guarire, ma con uno scopo nuovo. L’importante era sì guarire, ma come conseguenza, dimostrazione di un perdono ricevuto e ottenuto toccando ciò che era simbolo certamente della santità del Nome di Dio, ma ancor di più del Suo Amore che lo porterà ad immolarsi quale Agnello innocente.

Un cristianesimo fortemente inquinato da tradizioni e concezioni pagane, nei secoli, ha fatto sì che si costituisse la credenza delle reliquie, che però sono completamente fuori da qualsiasi contesto spirituale corretto e appartengono alle regioni oscure della magia, di Simone e di molti altri, che gli apostoli e non solo hanno sempre combattuto.

Gli abitanti di Gennezareth e zone circostanti seppero attribuire alle frange del mantello di Gesù il suo corretto significato e oggi, per guarire, basta ascoltare la Sua voce, contenuta nel Vangelo e nel messaggio che ogni Chiesa è chiamata a proclamare, in ottemperanza e fedeltà al mandato ricevuto. Amen.

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10.14 – A CHI CE NE ANDREMO NOI? (Giovanni 6.59-61)

10.14 – A chi ce ne andremo noi (Giovanni 6.59-71)

59Gesù disse queste cose, insegnando nella sinagoga a Cafàrnao. 60Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?». 61Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? 62E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? 63È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita.64Ma tra voi vi sono alcuni che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. 65E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre».

66Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. 67Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». 68Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna 69e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio». 70Gesù riprese: «Non sono forse io che ho scelto voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!». 71Parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariota: costui infatti stava per tradirlo, ed era uno dei Dodici”.  

Il verso 59 ci informa, come già rilevato, del luogo in cui avvenne il discorso di Gesù sul “pane disceso dal cielo”.Sappiamo così che una prima parte del Suo intervento iniziò all’aperto, quando la folla lo trovò “di là dal mare”(6.25) e una seconda, certo la parte più corposa, nella Sinagoga. Ora Giovanni, nei versi che abbiamo letto, descrive le reazioni dei presenti quando ebbe finito di parlare, con particolare riguardo a “molti dei suoi discepoli”, quelli che fino allora lo avevano seguito per motivi politico-religiosi. A loro stava certamente bene avere abbandonato le loro occupazioni ordinarie, dichiararsi suoi discepoli per i miracoli che faceva e i discorsi sulla libertà e l’identità che avrebbero avuto come figli di Dio, ma Lo avevano inquadrato ancora una volta come un Messia fondamentalmente umano, colui che un giorno sarebbe diventato il “Re d’Israele” nel senso immediato del termine. Quando però parlò di se stesso come “il pane della vita”, e della necessità di mangiare “la sua carne e bere il suo sangue”, iniziarono a mormorare fra loro scandalizzati esattamente come i Farisei e i Dottori avevano fatto poco prima. Quelle parole erano “dure”, greco “skleròs”, cioè non tanto difficili da capire, ma piuttosto detestabili, impossibili da ascoltare, empie, proprio come sostenevano i Suoi oppositori storici.

La “parola dura” è quella che scandalizza. È la pietra d’inciampo. La “parola dura” è quella che ancora oggi fa la selezione, che a un certo punto della vita anche del cristiano nominale interviene, gli si pone davanti tramite un concetto che non rientra nelle sue corde e fa sì che si ritragga rivelando che il vecchio uomo, quello carnale, non era mai morto. Alla carne avere una religione può anche star bene, ma a patto che lasci sempre lasciare una via di fuga, una giustificazione. La religione è deve essere recitazione, mai vita. E infatti, come più volte rimarcato, la religione con il Cristianesimo vero non c’entra nulla. Per quei discepoli lo scandalo fu costituito dal principio della carne e del sangue, oggi può essere la richiesta di abbandonare uno stile di vita, un ragionamento, ciò che è stato conquistato con l’ingiustizia. Dobbiamo portare in noi il frutto concreto del pentimento.

A questo punto, dopo che “molti discepoli”sentenziarono che la parola di Gesù era “dura”, ancora una volta Nostro Signore affonda la sua spada a due tagli e parla non più della Sua morte, ma dalla vittoria che avrebbe riportato su di essa, tornando non solo da dove era venuto, dal cielo, ma con un “nome che è al di sopra di ogni altro”(Filippesi 2.5): il senso delle parole “Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima?”non è quello, immediatamente interpretabile in base al quale la Sua ascensione sarebbe stata un ulteriore motivo di scandalo, ma: quella difficoltà a capire dei discepoli sarebbe cessato se lo avessero visto salire al cielo? Con queste parole Nostro Signore intende dire che il suo ragionamento sulla sua carne e sangue non andava preso in senso letterale, umano, ma spirituale proprio perché “È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova nulla”. E infatti fu il prendere quel discorso prendendo le parole nella loro letteralità a scandalizzare; se vi fosse stata apertura mentale, se il preconcetto avesse lasciato spazio al puro desiderio di comprendere, le cose sarebbero andate diversamente, ma quella gente si sentiva superiore, in grado di giudicarLo.

La carne, senza l’intervento dello Spirito Santo, è e rimane inerte, morta nonostante sia apparentemente viva; ricordiamo le parole dell’apostolo Paolo “Misero me uomo, chi mi libererà da questo corpo di morte?”. Morte che domina tutto, anche il ragionare. La carne, nonostante sia in vita, pensa cose morte e fa cose morte perché essa è il suo destino, prospettiva, a meno che non intervenga lo Spirito di Dio a risollevarla per portarla in un territorio nuovo. Ed è la comprensione spirituale delle parole del Cristo, in opposizione alla lettera, che può trasformare la morte in vita. Ricordiamo le parole “La lettera uccide, ma lo Spirito vivifica”(2 Corinti 3.6).

“Le parole che vi ho detto sono spirito e vita”costituiscono una verità, un attestato, una certezza che si concreta in tutte le volte che il verbo essere compare nell’episodio: dice Gesù nella Sinagoga “Io sono il pane della vita”(2 volte), “sono disceso dal cielo”, “Io sono il pane vivo”; le Sue parole erano le uniche che potessero condurre l’uomo alla salvezza per cui sta alla creatura, anche oggi, scegliere tra una guida cieca oppure Gesù stesso.

È probabile che le parole sulla Sua resurrezione scandalizzassero ancora di più i discepoli che “non credevano in lui”, mischiati a quelli veri, preludio alla realtà della zizzania nel campo. Sappiamo però che “Gesù sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era quello che lo avrebbe tradito”: impossibile ingannarlo e quel sapere “fin da principio”ci parla di quei nomi “scritti prima della fondazione del mondo”(Efesi 1.4), dell’impossibilità dell’intrusione che questi soggetti avranno nel Regno di Dio. Nostro Signore sa quindi chi gli appartiene, ma anche i pensieri più profondi e reconditi di ogni essere umano e, nel caso in cui questi diventi figlio, ha un progetto per lui perché, se Dio è nei nostri pensieri, noi lo siamo nei Suoi. Credo che, assieme a quella della salvezza, non possa esservi consapevolezza migliore.

“Molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andarono più con lui”: fecero una scelta. Tornare indietro implica rinunciare a seguirlo, a fare il cammino con Lui, scegliere la solitudine, l’identificazione con la morte, tornare da dove si è venuti dopo un breve intervallo in cui si è creduto di aver trovato un’alternativa. Ma la carne, per quelle persone, fu più forte. Quando purtroppo mi ritrovo a fare i conti con la realtà della mia vita orizzontale, coi suoi problemi a volte difficili, mi chiedo sempre che senso abbia non tanto il doverli affrontare, ma la vita stessa, che trova nella morte il suo punto di arrivo. E concludo che, privato della certezza e della prospettiva di occupare un posto nella “casa delle molte stanze”, ogni cosa sarebbe priva di significato. Tornare indietro, allora come oggi, equivale a rinunciare a un cammino con Gesù, a rinnegare, rifiutare le parole “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Matteo 28.20). È la “bestemmia contro lo Spirito Santo”l’unico peccato a non essere perdonato.

“Molti discepoli tornarono indietro”, ma non tutti. E Nostro Signore, per far sì che i dodici dessero una spiegazione non a Lui, ma a loro stessi, del perché rimanessero lì, chiede “Volete andarvene anche voi?”: la volontà dipende dall’anima e dallo spirito della persona, si esprime sospinta da una forza a loro connessa, ma Pietro, parlando anche per gli altri, che aveva ben vivo il ricordo di ciò che era avvenuto sul lago in tempesta e non solo, lascia spazio a una dichiarazione particolare: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”, che altre traduzioni riportano con “il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”a seconda della fonte, che risente dell’influenza di Matteo 16.

Pietro non dice di aver compreso il discorso sulla carne e il sangue, cosa che avverrà dopo la discesa dello Spirito Santo, ma confessa quale più anziano del gruppo che né lui né gli altri avevano alternative una volta riconosciuto di aver bisogno di un Pastore e, soprattutto, averlo trovato. I verbi “creduto”e “conosciuto”fanno riferimento al fatto che i dodici a quella conclusione erano giunti dopo un’attenta osservazione dei fatti di cui erano stati testimoni e protagonisti al tempo stesso, oltre che di una forte volontà di capire i suoi discorsi. Ed erano arrivati a un punto in cui in loro si era creata la consapevolezza del fatto che, senza di lui, non avrebbero potuto essere. Senza il loro Maestro si sarebbero sentiti persi, a differenza di quanti “tornarono indietro”ad una vita che, temporaneamente, li avrebbe distolti dal pensare che un giorno sarebbero morti trovandosi di fronte a ciò che Gesù aveva detto: “Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anche il Figlio dell’uomo lo riconoscerà davanti agli angeli di Dio; ma chi mi rinnegherà davanti agli uomini, sarà rinnegato davanti agli angeli di Dio”(Luca 18.8).

La risposta “Non sono forse io che ho scelto voi, i dodici?”riguarda non l’elezione per la vita eterna, ma la nomina ad apostoli (Luca 6.13). La immediata aggiunta “Eppure uno di voi è un diavolo”ha fatto seguito al tema dell’elezione probabilmente perché gli altri undici, una volta che Giuda Iscariotha si fosse rivelato, non avessero dei dubbi ipotizzando che il loro Maestro avesse sbagliato a scegliere uno di loro. Il termine usato per indicare Giuda è molto particolare perché di lui non è detto che è un “daimon”, cioè uno spirito maligno, ma “diàbolos”, cioè “colui che divide”, “calunniatore”, “accusatore”, col quale è evidente l’identificazione con Satana. Jacques Masson, teologo vissuto tra il 1400 e il 1500, osservò che “Egli era animato dallo spirito di Satana, così da esser fra i dodici quello che Satana era stato nella famiglia di Dio in cielo”. Occorre però specificare che questa identificazione piena avverrà in un punto preciso, quando ricevette da Gesù il boccone intinto, dopo di che leggiamo che “Satana entrò in lui”, cioè ne prese pieno possesso non per umiliarlo come fece e fa con gli indemoniati, ma per i suoi scopi. Giuda quindi, a quel tempo, era una persona che agiva per se stesso, traendo un illecito guadagno rubando dalla cassa comune di cui era responsabile, oltre a disprezzare costantemente tutto ciò di cui, assieme agli altri, era testimone. “Uno di voi è diavolo”, sono parole che quindi si riferiscono alla prospettiva e al destino di quell’apostolo, ma anche al fatto che a spingerlo nelle sue azioni era una forza contraria che andava oltre oltre l’impermeabilità del cuore e della mente. “Durante la cena,(…) il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariotha, di tradirlo”: si noti il “già” che allude al processo inevitabile di chi non solo rifiuta il Vangelo, ma lo combatte, lo ignora volutamente, resta indifferente nonostante le Sue manifestazioni. Giuda qui “stava per tradirlo”, il che significa che aveva già deciso di attendere il tempo opportuno per farlo: avrebbe ferito al calcagno la “progenie della donna”.

Credo che qui, a prescindere da quanto scritto finora, quel “diavolo”riferito a Giuda sia strettamente connesso a un’altra definizione che Gesù dà di lui: in Giovanni 17.12 leggiamo “Quando ero con loro, io li custodivo nel tuo nome, quello che mi hai dato, e li ho conservati, e nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si compisse la scrittura”. Qui si aprirebbe un argomento immenso, che penso sia impossibile da sviluppare se non poco per volta, stante gli scopi che si prefiggono questi studi sul Vangelo.

Se però Giuda è il livello più alto – in questo contesto – della manifestazione satanica, ricordiamo che non è importante riflettere sulla capacità distruttiva di questo personaggio, quanto piuttosto sul fatto che l’Avversario abita certe persone, compresi quegli Scribi e Farisei cui Gesù si rivolse dicendo “Voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna. A me, invece, voi non credete, perché dico la verità. Chi di voi può convincermi di peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? Chi è da Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non le ascoltate, perché non siete da Dio”. Ecco perché, per trovare un angelo dell’Avversario, o un appartenente a lui, non dobbiamo andare troppo lontano. E, a volte, questo non lo pensiamo. Amen.

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10.13 – CHI MANGIA LA MIA CARNE E BEVE IL MIO SANGUE (Giovanni 6.52-58)

10.13 – Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue (Giovanni 6.52-58)

 

52Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». 53Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. 54Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 55Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. 56Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. 57Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. 58Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno»”.

 

A un lettore attento ai verbi che descrivono lo stato d’animo dei Giudei non sarà sfuggito che prima “mormorano” e poi che, dopo le parole “il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”, si mettono a “discutere aspramente”perché quella frase rappresentò per loro qualcosa di totalmente assurdo e non sapevano come interpretarla alla luce della loro conoscenza. A cosa alludeva Gesù? Per quanto sapevano i Suoi uditori, non poteva certo riferirsi a una forma di cannibalismo perché avrebbe comportato l’infrazione del comandamento “Non ucciderai”senza contare che cibarsi di un corpo umano sarebbe stato impossibile dal momento in cui, solo per aver toccato un cadavere, una persona rimaneva impura “fino alla sera”. Ora, poiché questi due principi erano chiari a tutti, il fatto che discutevano aspramente ci parla del fatto che, in quella Sinagoga, si erano create due fazioni opposte che, come dal verbo utilizzato, “emaxónto”, “combattevano”tra loro: vi era così un gruppo che credeva in Gesù e ne accettava la dottrina, un secondo che la contrastava ritenendola assurda e impossibile.

A questo punto intervengono i due “Amen” di Gesù in cui pone di fronte quei Giudei a qualcosa di enorme: al mangiare la propria carne aggiunge il bere Suo sangue, altra pratica proibita dalla Legge, per sette volte, a cominciare dalla Genesi in cui leggiamo (9.4) “Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè con il suo sangue. Del sangue vostro, ossia della vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto a ogni essere vivente, e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello”. Sono parole dette a Noè e ai suoi figli una volta usciti dall’arca. Essendo quindi il sangue la sede fisica della vita animale e al tempo stesso facente espiazione per l’anima dell’uomo, come ha scritto un fratello, “ai più riflessivi e sinceri dei suoi uditori, la separazione che Gesù fa fra la sua carne e il suo sangue dovette dar l’idea della morte, non naturale ma espiatoria come accennato al verso 51 «il pane che darò è la mia carne per la vita del mondo»”.

Vorrei a questo punto mettere in risalto gli elementi a disposizione della fazione contraria a Nostro Signore per cercare di capire quanto voleva dire nonostante, più che la verità, a loro interessasse la contesa: prima di tutto c’era il fatto che Gesù era un profeta e, riguardo alla categoria di queste persone, la Legge aveva dato delle indicazioni per distinguere quello vero dal falso: “Qualora sorga in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio, e il segno e il prodigio annunciato succeda, ed egli ti dica: «Seguiamo dèi stranieri, che tu non hai mai conosciuto, e serviamoli», tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore perché il Signore, vostro Dio, vi mette alla prova per sapere se amate il Signore, vostro Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima. Seguirete il Signore, vostro Dio, temerete lui, osserverete i suoi comandi, ascolterete la sua voce, lo servirete e gli resterete fedeli, Quanto a quel profeta o a quel sognatore, egli dovrà essere messo a morte, perché ha proposto di abbandonare il Signore, vostro Dio, che vi ha fatto uscire dalla terra d’Egitto e ti ha riscattato dalla condizione servile, per trascinarti fuori della via per la quale il Signore, tuo Dio, ti ha ordinato di camminare. Così estirperai il male in mezzo a te”(Deuteronomio 13.2-6). Ora non mi pare che Gesù rientrasse nella categoria qui descritta e sicuramente anche il partito a lui opposto, in quella sede, non avrebbe potuto accusarlo in tal senso.

C’era poi la frase, ripetuta quattro volte, “lo risusciterò nell’ultimo giorno”: non potevano essere parole dette a caso perché Gesù aveva già risuscitato, per quanto sappiamo, due persone, la figlia di Jairo, proprio a Capernaum, e il figlio della vedova a Nain. Quelle parole, quindi, avrebbero dovuto essere elaborate con la massima attenzione. Terzo, Nostro Signore era lì, in mezzo a loro e non ci sarebbe stato altro modo per approfondire interpellandolo direttamente come avvenuto quando, in età di dodici anni, a Gerusalemme è scritto che i Dottori della Legge “erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte”(Luca 2. 47). Attenzione, perché quei maestri venivano da una vita dedicata allo studio, estensione e memorizzazione dei testi sacri e di un mare di sentenze custodite gelosamente da secoli. E mi viene in mente Nicodemo, che andò da Lui per capire e lo interrogò certo non con un senso di superiorità e per contendere.

Tornando al nostro testo sembra quasi, per le dinamiche descritte, che Gesù sembra voler “rincarare la dose” quando, al pane-carne, aggiunge il suo sangue-bevanda, ben sapendo le reazioni che avrebbe provocato: il fatto è che la verità andava detta comunque e in tal modo avrebbe dimostrato, come già detto ai discepoli, di essere “venuto sulla terra non a portare la pace, ma la spada”(Matteo 10.34). Non solo, ma teniamo presente la risposta data ai discepoli circa il motivo del Suo parlare per parabole, quindi per figure che in alcuni casi erano dei veri e propri enigmi: “A voi è stato dato il mistero del regno di Dio; per quelli che sono fuori invece tutto avviene in parabole, affinché guardino, sì, ma non vedano; ascoltino, sì, ma non comprendano, perché non si convertano e venga loro perdonato”(Marco 4.11,12). Non si tratta di una selezione arbitraria operata da un dio capriccioso, ma della conseguenza dello stato dell’anima della persona, del fatto che “Dio resiste ai superbi e fa grazia agli umili”(1 Pt 5.5), concetto espresso anche in Proverbi 3.34 “Dei beffardi egli si fa beffe e agli umili concede la sua benevolenza”. E il superbo è colui che è assolutamente convinto della propria superiorità sugli altri, quindi abituato a trattare il prossimo con arroganza e disprezzo.

Sappiamo che Gesù parlò in parabole, ma che poi le spiegava ai Suoi: lo stesso farà per queste parole sulla Sua carne e il Suo sangue, per quanto più di un anno dopo nell’ultima cena. Leggendo la versione di Matteo 26.26-28 abbiamo: “Ora, mentre mangiavano, Gesù prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e, mentre lo dava ai discepoli, disse: «Prendete, mangiate: questo è il mio corpo». Poi prese il calice, rese grazie e lo diede loro, dicendo: «Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati”. Abbiamo qui la rivelazione di ciò che Lui intendesse quando parlò ai Giudei a Capernaum: si tratta di una simbologia per alludere alla profonda immedesimazione che dev’esservi tra chi è da Gesù salvato e redento, e Lui stesso in quanto il sacrificio della croce rappresenta il massimo dei doni che vengono porti all’uomo che li accoglie.

Apro una parentesi che mi sembra doverosa: i Giudei rifiutarono il concetto letterale della carne da mangiare e del sangue da bere, ma alcune Chiese ne hanno fatto, altrettanto letteralmente, un dogma stabilendo la transustansazione nell’eucarestia, come dichiarato nel Concilio di Trento (sessione XIII, 11 ottobre 1551): “con la consacrazione del pane e del vino si opera la conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del Corpo di Cristo, Nostro Signore, e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del suo sangue”. Va bene, ma prima? Questa “conversione” esisteva, oppure no?

Al contrario di questa teoria, che poi per il cattolicesimo è un dogma, si tratta di riconoscere in quel pane e in quel vino il corpo e il sangue di Gesù dato per tutti coloro che lo avrebbero accolto. Fu un sacrificio fatto “una volta per sempre”(Ebrei 9.28) che non ha alcun senso che si rinnovi, mentre a ripetersi – questo sì – è il suo ricordo come dalle parole “Fate questo in memoria di me, finché io venga”(Luca 22.19). Se nell’ultima cena gli apostoli avessero sospettato anche lontanamente che quel vino fosse stato davvero il sangue del loro Maestro, non lo avrebbero certamente assunto, così come il pane, se non fosse stata figura del suo corpo e non la presenza reale di esso.

Le parole dei nostri versi in esame, per la circostanza in cui furono pronunciate, hanno riferimento profetico e al significato del credere più che alla celebrazione del Memoriale (o Eucaristia) che, come sappiamo, sarà istituito in seguito: abbiamo prima il pane – carne, quindi un alimento che, a differenza di quello naturale che deperisce, è per la vita eterna. Questo può essere identificato solo nella persona di Gesù, “Verbo”che “si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi”con un corpo simile al nostro, che ha conosciuto una morte violenta, ingiusta, eppure l’ha vinta. Scrive l’apostolo Paolo in Romani 5.6-9 “Quando eravamo ancora senza forza, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui”.

Sappiamo che “A tutti coloro che l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio”, quindi è questa accoglienza, che si concreta inizialmente nel riconoscerlo come la “Parola fatta carne”, che comincia il cammino verso la salvezza. Quando fu detto a molti, uomini e donne “Va’, la tua fede ti ha salvato”, significa proprio che questi nostri fratelli o sorelle che ci hanno preceduto lo avevano riconosciuto come Signore. Il Suo sangue, poi, non può avere altri riferimenti che col sacrificio che affrontò come “Agnello di Dio che toglie– cioè prende su di sé – il peccato del mondo”. Il corpo di Gesù è “vero cibo”e il Suo sangue “vera bevanda”perché l’anima dell’uomo ha bisogno di essere sfamata e dissetata. Infatti “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù– non in altri –. È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati”(Romani 3.23-25).

L’autore della lettera agli Ebrei scrive a proposito di questo sangue: “Se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsi su coloro che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente? (…)Ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una volta sola, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza”(9.13-28).

Ecco allora perché abbiamo letto “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed io in lui”, parole che hanno stretta relazione con un altro passo che ci parla dell’identità dell’uomo finalmente trovata: “Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”(Apocalisse 3.20). Per vivere in eterno, per essere risuscitati nell’ultimo giorno. Amen.

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10.12 – IL PANE DELLA VITA (Giovanni 6.45-51)

10.12 – Il pane della vita (Giovanni 6.41-51)

48Io sono il pane della vita. 49I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; 50questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. 51Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».”.

I versi da 26 a 58 di questo capitolo sono dedicati alla presentazione di Gesù come “Pane della vita”con un discorso in cui si rivela non solo come unica fonte di salvezza per l’uomo, ma dà anche per la prima volta un’identità precisa di sé riguardo al proprio corpo e sangue. Già qui abbiamo un’incommensurabile distanza tra ciò che fu Lui come uomo e ciò che siamo noi: le parole “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno”(v. 54) fanno riferimento al Suo potere salvifico in contrapposizione alla nostra incapacità risolutiva in tal senso perché la nostra “carne e sangue – cioè così come siamo– non possono ereditare il regno di Dio” (1 Corinti 15.50).

Per quanto noi possiamo fare, allora, non abbiamo nessun potere su ciò che esula dal nostro ambiente terreno per quanto, anche in quel contesto, non possiamo fare “un solo capello bianco o nero”. Si tratta di un’impossibilità già espressa nel dialogo con Nicodemo in cui leggiamo“Se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito”(Giovanni 3.5,6).

“Io sono il pane della vita”viene ripetuto per la seconda volta a distanza di poco tempo così come il richiamo alla manna nel deserto ad esso simbolicamente collegato. Mi sono chiesto quali applicazioni si potessero fare sul “pane” nella Scrittura, che simboleggia ciò che alimenta l’uomo e troviamo menzionato la prima volta in Genesi 3.19: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e polvere ritornerai”. Per poter sopravvivere, quindi, Adamo e la sua discendenza avrebbero dovuto lavorare con fatica, a differenza di quanto avveniva in Eden, quel luogo che il Creatore aveva personalmente realizzato per loro e in cui non si conosceva la fame né altre problematiche legate all’esistenza. Ricordiamo che Adamo e sua moglie avevano a disposizione tutti i frutti del giardino, ma ancora di più quelli dell’ “albero della vita”che si trovava al centro di esso, cioè sempre raggiungibile, mai distante da qualunque punto si trovassero. Contrariamente il pane che Adamo si sarebbe procurato lavorando, lo avrebbe nutrito fino a quando egli non sarebbe ritornato polvere.

Il pane, certo non quello contaminato che abbiamo oggi, è figura di ciò che necessita all’uomo per vivere e infatti è uno dei soggetti di preghiera nel “Padre Nostro”, ma nelle parole di Gesù è un elemento che si trasforma sempre in un concetto di più ampia portata: “l’uomo non vive di solo pane, ma di ciò che procede dalla bocca di Dio”, quindi c’è un nutrimento diverso che va assunto per vivere davvero, al di là di quello che conosciamo. Nella seconda parte del verso 50, poi, c’è un “pane che discende dal cielo perchéchi ne mangia non muoia”essendo il Cristo l’unica opportunità offerta per perché l’uomo si possa appropriare di quella vita eterna che altrimenti gli sarebbe negata. E il paragone con la “manna del deserto”, rivolto al popolo che ben conosceva l’episodio, fu quanto mai pertinente, perché la citazione di quanto avvenuto in Esodo ci parla di un intervento di Dio perché gli israeliti non morissero di stenti in un territorio ostile. Ma c’è di più perché, se per i Giudei la citazione dell’episodio della manna fu il punto di partenza per rifiutare Gesù come riportato al verso 31 (“I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto”), per Nostro Signore fu quello di arrivo: certo i loro padri l’avevano mangiata e morirono, ma “questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia”(v.50).

Il primo pane, quindi, era per la sopravvivenza temporanea, ma il nuovo, quello “che discende dal cielo”, lo sarebbe stato per la vita eterna. È e fu punto di arrivo perché, dopo di quello, l’uomo non può desiderare altro: cibandosene ha finalmente un ruolo, una prospettiva, una destinazione, una dignità vera. Da notare che i pronomi “Io”e “Me”compaiono in questo capitolo per 35 volte, 5×7, a sostegno della totalità e perfezione dell’opera del Figlio. In quel “sono morti”, infatti, abbiamo un rimando alla descrizione obiettiva che Salomone fa dell’esistenza umana nel libro del Qoèlet quando scrive “Una generazione se ne va e un’altra arriva, ma la terra resta sempre la stessa (…) nessun ricordo resta degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso quelli che verranno in seguito”(1.4,11): ora il “ricordo degli antichi”non è riferito ai grandi della storia – anche quelli che troviamo nell’Antico Patto –, ma a tutto quel patrimonio di vissuto, nel bene e nel male, di aspirazioni, esperienze e speranze di tutti quelli che sono stati, in un modo o in un altro, protagonisti della loro storia e che è svanito, di quella verità reale, non ufficiale, che non ci è stata tramandata e che non conosciamo. Credo che lo studio della storia umana sia uno dei più grossi inganni che possiamo subire perché scritta sempre dai vincitori che l’hanno piegata ai loro scopi e dagli storici che, per quanto riguarda quella recente, l’hanno omessa in quei dettagli che avrebbero potuto modificarne il senso.

Certo la manna nel deserto ebbe una valenza spirituale assoluta perché stava a testimoniare l’amore di Dio per il suo popolo, ma costituiva, dal momento in cui Gesù parlava in poi, un evento passato: uno dei tre artefici della manna nel deserto stava lì, davanti a quei Giudei che lo contestavano incapaci di capire e privi della volontà di comprenderne il senso.

Ricordiamo infatti le parole di Proverbi 8.21-31 quando parla la Sapienza “Quando egli fissava i cieli, io ero là, quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti così che le acque non oltrepassassero i loro confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo”(Proverbi 8.21-31). Sicuramente da sottolineare il “globo terrestre”, descrizione che sta a indicare come gli uomini di Dio già sapessero che la terra non era piatta, come si riteneva nel mondo antico estraneo alla Rivelazione.

Un giorno ho pensato che l’opera della creazione di Dio fu un atto non meno complesso del piano di salvezza per l’uomo: il Padre scrisse, nel Libro che solo l’Agnello sarà in grado di aprire, i nomi di tutti coloro che sarebbero stati salvati. Diede loro un posto, un ruolo tanto nella vita terrena che in quella eterna provvedendo alla cancellazione del loro peccato, come troviamo scritto, “…e non mi ricorderò più dei loro peccati”(Geremia 31.31): in Ebrei 8.13 infatti leggiamo “Dicendo alleanza nuova– quella di cui Geremia ha parlato –  Dio ha dichiarato antica la prima; ma, ciò che diventa antico e invecchia, è prossimo a scomparire”. Non credo che possa esservi passo migliore, a commento di quanto stava avvenendo nella Sinagoga di Capernaum, di Ebrei 1.1-4 che, in poche parole, traccia il senso della storia umana raccordata a quella della Creazione Nuova di cui Gesù è il responsabile: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo. Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato”.

È proprio questo ultimo verso a spiegare cosa volesse dire Gesù: il mangiare “di questo pane”è la chiave del discorso, una direzione unica e precisa che ogni uomo, da quando furono pronunciate queste parole, è chiamato a prendere. Per ora stiamo ancora considerando la prima parte di quanto detto da Nostro Signore: mangiare “di questo pane”è un’azione che comporta l’avvicinarsi, prenderlo e cibarsene, cioè farlo profondamente proprio, assimilarlo, quindi ha riferimento con il “credere”che, come più volte sottolineato, è tutt’altro che una semplice presa d’atto. E, certo, comporta delle prese di posizione viste nei due veri “sacramenti” del cristianesimo, il battesimo e la santa cena in cui, assumendo pane e vino, i credenti rinnovano la loro adesione a Cristo obbedendo al comandamento “Fate questo in memoria di me, finché io venga”.

“Se  uno mangia di questo pane vivrà in eterno”, esprime così una condizione, l’unica perché ciò possa avvenire essendo la conseguenza del credere. Poi leggiamo “il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”(v.51), frase che ha generato da allora in avanti una confusione enorme perché presa letteralmente. Subito infatti i Giudei dissero “Come può costui– in senso spregiativo – darci la sua carne da mangiare?”(v.52) e “da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui”(v.66). Sono passi che affronteremo, ma che dicono molto sull’incapacità dell’uomo naturale di comprendere qualsiasi concetto spirituale: esistono le parabole – o per lo meno alcune di loro –, racconti semplici, che rimangono impressi e il più delle volte sono interpretabili anche da un bambino, ma nel momento in cui ci si addentra nelle prime verità nascoste di Dio ecco che la mente carnale subito interviene volendo interpretare correttamente e, non riuscendovi, si arrende nel modo sbagliato, cioè rifiutandole invece che chiedere umilmente a Lui di illuminarlo. Rifiutare un concetto spirituale comporta sia il respingerlo che il giudicarlo, allontanandosene.

Rimaniamo un poco su quanto detto da Gesù finora: la vita eterna la possiede “chi mangia di questo pane”, ma prima, al verso 40, le parole furono “La volontà di colui che mi ha mandato è questa: che chiunque vede il Figliolo e crede in lui, abbia vita eterna, e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”, due concetti diversi che portano al medesimo risultato comprendendoli entrambi; “vedere”e “credere”, quindi riconoscere la sua esistenza e presenza spirituale indipendentemente dal tempo in cui si vive. Quando Gesù era sulla terra la gente poteva vederlo di persona e credere o meno, allora come oggi. Ogni credente vissuto dalla morte e resurrezione del Cristo in poi, noi compresi, lo ha visto con gli occhi di chi ce lo ha descritto, in parole e opere, nel Vangelo e in tutti gli scritti che compongono il cosiddetto “Nuovo Testamento”.

Quindi: chi ha mangiato la manna nel deserto morì confermando l’amara constatazione di Salomone “Tutti sono diretti nel medesimo luogo: tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna”(Qoèlet 3.20); chi però afferra l’opportunità di cibarsi del pane disceso dal cielo “vivrà in eterno”perché, pur passando attraverso la morte del corpo, eviterà quella seconda riservata ai “codardi, gli increduli, gli immondi, gli omicidi, i fornicatori, i maghi, gli idolatri e tutti i bugiardi”(Apocalisse 21.8). Si tratta di categorie illuminanti che riguardano tutti coloro che non fanno proprio il sacrificio di Cristo per essere salvati senza produrre quei “frutti degni del ravvedimento”indispensabili a confermare la nuova nascita. Si tratta, ancora, delle stesse tipologie di persone alle quali appartenevamo un tempo. Scrive l’apostolo Paolo che “Tali eravate alcuni di voi, ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio!”( 1 Corinti 6.11).

Ancora, sempre in Apocalisse 20.15 leggiamo che “chi non risultò scritto nel libro della vita fu gettato nello stagno di fuoco”, per cui l’uomo non può avere alternative di scampo se non in quel “pane vivo disceso dal cielo”oggi liberamente a disposizione di chiunque. Sono queste parole importanti e mettere i versi di Apocalisse che abbiamo riportato in relazione tra loro è fondamentale perché, lungi dal dividere l’umanità in “buoni e cattivi”, in realtà crea l’insieme dei credenti e dei non credenti, cioè di coloro si nutrono delle parole del Figlio di Dio oppure no, su Lui fanno affidamento e in Lui si nutrono. Amen.

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10.11 – NESSUNO PUÒ VENIRE A ME SE IL PADRE NON LO ATTIRA (Giovanni 6.41-50)

10.11 – Nessuno può venire a me se il padre non lo attira (Giovanni 6.41-50)

41Allora i Giudei si misero a mormorare contro di lui perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». 42E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: «Sono disceso dal cielo»?».

43Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. 44Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 45Sta scritto nei profeti: E tutti saranno istruiti da Dio. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. 46Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. 47In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna”.

La cronaca della giornata di Nostro Signore a Capernaum prosegue con “Allora”, cioè “a questo punto”. Quale? Due sono le frasi che avrebbero potuto attirare l’attenzione di quei “Giudei”, termine come sappiamo che si riferisce agli Scribi e Farisei presenti: la prima era quella con cui Gesù si era dichiarato “il pane della vita”, la seconda fu quel “disceso dal cielo”che suscitò le loro rimostranze “teologiche”. Come sempre, quindi, mescolati in mezzo al popolo, c’era chi cercava di raccogliere ogni possibile elemento per poterLo condannare a morte, come annotato da Matteo subito dopo l’episodio della guarigione dell’uomo dalla mano inaridita avvenuto proprio in quel luogo: “Allora i farisei uscirono– dalla Sinagoga – e tennero consiglio contro di lui per farlo morire”(12. 14).

Per capire la loro mentalità, che poi è quella razionale applicata alla Parola di Dio, l’amore per il ragionamento logico che diverse volte è stato citato, va considerato quel “disceso dal cielo”che li fece andare immediatamente, come già avvenuto in Nazareth, alle sue origini: se “Costui”era Gesù, “il figlio di Giuseppe”, per cui era nato come tutti gli altri uomini, non poteva avere nessun’altra origine. Tra l’altro abbiamo qui un particolare interessante, vale a dire che c’era stato chi aveva indagato su di chi Lui fosse figlio, ma senza andare a considerare tutti quei segni chi precedettero la Sua nascita, le profezie o le circostanze che portarono alla venuta di Giovanni Battista, Suo precursore. Certamente era vero, Gesù era un uomo, ma nessun altro era mai stato in grado di parlare come Lui e soprattutto confermare con molti miracoli ciò che sosteneva. Ebbene, quei “segni”da Lui fatti più volte a Capernaum e nelle città vicine, avevano perso immediatamente, per i Giudei, ogni valenza. Ecco qui applicata la lettera che uccide in contrapposizione allo Spirito che vivifica, la logica che annienta, nega ignorando il divino avvenuto. Così come ho sentito dire che Gesù non era Dio perché un dio non può morire – naturalmente negando la risurrezione –, qui Gesù non avrebbe potuto dire di essere disceso dal cielo perché figlio di Giuseppe, un umile falegname.

Va rilevato che Nostro Signore non si mette a discutere con loro cercando di convincerli che sì, era nato come tutti, ma preceduto da profezie che lo indicavano inequivocabilmente come il Salvatore, estendendo e spiegando cosa significasse essere “Figlio di Davide”ma, primo, li invita a non mormorare tra loro, cioè parlare di argomenti delicati in tono malizioso esprimendo malcontento a mezza voce, fare maldicenza. Poi enuncia una verità spirituale molto importante vista nelle parole “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”(v.44).

Abbiamo qui una verità che fa riferimento al piano del Padre per ciascun uomo che ha creduto, crede e crederà nel Figlio. Non potrebbe essere altrimenti perché è Lui l’Autore della Creazione e il Figlio quello della vita: all’Uno appartengono le leggi dell’universo, quindi quelle fisiche, chimiche, all’altro quelle della biologia naturale e spirituale. Il Padre è lo Scrittore tanto delle tavole date a Mosè, compilate da destra a sinistra, ma soprattutto di quel “libro della vita”che solo il Figlio, l’Agnello, è in grado di aprire avendo la signoria sui sette sigilli, cioè quei tempi ed eventi destinati a contrassegnare la storia umana fino alla fine del creato che conosciamo. E dal momento in cui i nomi dei salvati sono scritti in quel libro, va da sé che il Padre attiri al Figlio coloro che lì sono registrati.

Pensiamo a quelli che si erano messi alla ricerca di Gesù quel giorno: la maggioranza lo aveva fatto perché volevano mangiare ancora quel pane ricevuto a Bethsaida e non per saziare la loro anima. Chi non è attirato dal Padre, quindi, non potrà che far parte di una religione vuota, o purtroppo di quel cristianesimo malato oggi dilagante, quello che pone l’uomo al centro di ogni cosa, quello dei “Nicolaiti”, delle grandi cerimonie, di quelle manifestazioni di massa vuote, inutili, fuorvianti. Chi non va al Figlio si costruisce una religione che vuole un dio su misura e così facendo si allea con l’Avversario che progetta e sostiene l’idea di un impero politico e religioso per giustificare ogni abuso. Quanti crimini sono stati commessi nel nome di una fede che tale non è? Al religioso non interessa trovare e scavare nelle profondità di Dio, ma vuole delle norme, una tradizione con la “T” maiuscola, del precetti comodi di cui servirsi all’occorrenza e all’occorrenza trascurare senza crescere, mettersi in discussione ogni suo atto.

Il piano di Dio Padre per l’uomo, invece, contempla che questi creda nel Figlio e in Lui viva per essere resuscitato “nell’ultimo giorno”, cioè là dove mai prima di quel momento vi sarà un confine netto tra la vita e la morte perché sarà solo allora che diventeranno davvero eterne. E se molti hanno paura della morte, molto di più dovrebbero averne della seconda.

A questo punto Gesù riporta le parole “E tutti saranno ammaestrati da Dio”, che vogliono essere prima un insegnamento a quei mormoratori che Lo denigravano. Si tratta di una realtà troviamo annunciata in quattro passi, numero non casuale, il primo dei quali in Geremia 31.33,34: “Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò loro Dio ed essi saranno mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro dicendo «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché perdonerò le loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato”.

Qui gli oppositori di Gesù avrebbero avuto modo di fare una prima riflessione: Geremia profetizza il ritorno del popolo dalla cattività e l’incontro col Messia con le relative conseguenze. Da notare come sia annunciato un nuovo patto che si sarebbe manifestato con la conoscenza del Signore senza che fosse più necessario insegnarla e apprenderla fin da bambini, come prescritto nella Legge. Geremia annuncia una conoscenza di Dio personale, unica, identitaria.

Il secondo verso lo troviamo in Ezechiele 11.19-20: “Darò loro un cuore nuovo, uno spirito nuovo metterò dentro di loro. Toglierò dal loro petto il cuore di pietra, darò loro un cuore di carne, perché seguano le mie leggi, osservino le mie norme e le mettano in pratica: saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio”. Senza un intervento del Creatore, l’uomo avrà sempre e solo un cuore di pietra, cioè immobile, incapace di dare un battito, protagonista di una non-vita. Il cuore di pietra ha neuroni della stessa sostanza per cui va da sé che i suoi sentimenti siano indirizzati alla morte, siano e restino immobili – pietrificati, appunto – ma il Padre promette un intervento chirurgico che si sarebbe concretato con la venuta del Figlio e, naturalmente, con la fede in Lui. Gli oppositori di Gesù, conoscendo questo verso, avrebbero avuto modo di considerarne anche il successivo: “Ma su coloro che seguono con il loro cuore i loro idoli e i loro abomini farò ricadere la loro condotta”(v.21). Anche qui un riferimento a un cuore che rimane di pietra, rifiutando l’intervento di Dio e restando ancorato ai propri idoli, alla religione fatta di elementi inutili a salvare, quindi estraneo alla vera Vita che non conosce fame né sete.

Terzo passo sempre in Ezechiele, ma in 36.26,27 che riporta alcune parole del precedente: “Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli, vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme”. Sono parole che esprimono l’impossibilità, da parte dell’essere umano, a fare alcunché senza un intervento diretto di Dio Padre che “aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti”, ma “ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, si è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli, ed è diventato tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato”(Ebrei 1.1-4).

Quarto e ultimo riferimento, ma che possiamo anche intendere come primo e unico per la presenza della congiunzione “e”, è reperibile in Isaia 54.13, per quanto occorra una traduzione corretta e non interpretata: la versione della C.E.I. che solitamente utilizzo perché più scorrevole, infatti, non rende possibile il collegamento con la citazione di Gesù e, qui come in altri punti, è fortemente limitante. Abbiamo infatti: “Tutti i tuoi figli saranno discepoli del Signore, grande sarà la prosperità dei tuoi figli; sarai fondata sulla giustizia”. Giovanni Diodati però, attento a tradurre più consapevolmente, scrive “E tutti i tuoi figli saranno istruiti dal Signore, e la pace dei tuoi figli sarà grande”.

Gesù quindi ricorda, inascoltato, che quello era il tempo dell’istruzione in attesa dell’epoca definitiva in cui la conoscenza e visione di Dio sarebbe stata perfetta.

Le Sue parole proseguono: “Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me”(v.45). Proprio loro, gli Scribi e i Farisei, che avevano fondato la propria vita – ma purtroppo anche  l’orgoglio – sulla ricerca e lo studio, erano diventati incapaci di ascoltare; proprio loro, che per umiliare il prossimo usavano spesso il detto “Va e impara”. Qui si tratta di ascoltare e imparare dalla Fonte per eccellenza di ogni cosa per cui ogni nostra idea, moto d’animo o convinzione, deve tacere per lasciare spazio alla Parola. Credo che solo allora sia possibile imparare da Lui e infatti la Scrittura ci mostra che ogni volta che l’uomo ha voluto portare avanti sé stesso ha conosciuto unicamente la non rivelazione e si è perso, rimanendo quello di sempre.

Ha scritto un fratello a commento di questo verso: “…l’udire e l’imparare dal Padre significano la stessa cosa, cioè l’illuminazione interna e la forza di credere, che Dio, mediante il suo Spirito, produce nella conversione; e tutti quelli che avranno ricevuto un tal dono verranno volontariamente, a con assoluta certezza, a Cristo”.

Infine abbiamo la descrizione della superiorità del Cristo su qualunque altro uomo o profeta poiché, se questi Dio non lo hanno mai visto eppure di Lui hanno parlato, Gesù sì e può rivelarLo come nessun altro: “Solo colui che viene da Dio– ora in mezzo a loro, disceso dal cielo – ha visto il Padre”(v.46) per cui “In verità, in verità vi dico: chi crede ha vita eterna”, verso in cui la nostra traduzione omette il fondamentale “in me”. Credere non serve a nulla se l’oggetto della fede non è Gesù Cristo, altrimenti la Sua morte e resurrezione sarebbero state del tutto inutili così come tutto quanto detto da Lui sarebbe privo di significato. Avere la “vita eterna”è l’entrare in possesso dell’unica identità possibile per non soccombere nell’ultimo giorno, per poter sopravvivere in un mondo retto da un principe che, per quanto destinato alla distruzione, non per questo è impotente. Amen.

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10.10 – IL PANE DISCESO DAL CIELO (Giovanni 6-30-40)

10.10 – Il pane disceso dal cielo (Giovanni 6.30-40)

30Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? 31I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo».32Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. 33Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». 34Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». 35Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai! 36Vi ho detto però che voi mi avete visto, eppure non credete. 37Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, 38perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. 39E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno. 40Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno»”.

Un particolare importante che non abbiamo avuto modo di considerare nel capitolo scorso, ce lo fornisce Giovanni al verso 59: “Gesù disse queste cose insegnando nella sinagoga a Capernaum”, non necessariamente di sabato: fu allora lì che lo trovarono e che l’invito “Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane a vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà”fu rivolto in quel contesto.

Sentendo quelle parole la gente, profondamente incredula nonostante la conoscenza delle Scritture, chiede a Gesù, dopo tutti i miracoli compiuti compreso quello dei pani e dei pesci, “Quale segno tu compi perché vediamo e crediamo?”. Ricordiamo ciò che dissero subito dopo essere stati sfamati: “Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!”(Gv. 6.14). Teniamo comunque presente questi due verbi, perché poi li confronteremo con altrettanti, che troviamo al verso 35, “venire” e “credere”. Il riferimento al mangiare la manna nel deserto ci parla sì della conoscenza che i presenti avevano delle Scritture, ma della loro reale cecità e dell’incapacità di rapportare ciò sapevano delle cose di Dio al tempo che vivevano. Erano incapaci di credere sulla base delle profezie e delle promesse dell’Antico Patto. Purtroppo questo si nota anche oggi nel cristianesimo perché credere in Gesù Cristo rimanendo ancorati a se stessi, rifiutando il cammino preparato per noi restando quelli di prima, quelli di sempre, equivale e non riconoscerlo come l’Unico Inviato da Padre per la nostra salvezza. Non possiamo, in altri termini, instaurare un rapporto con il Figlio senza diventare parte di lui e quindi cambiare profondamente. E qui ci raccordiamo al significato del verbo “credere” che non significa accettare come vero un fatto o un principio per poi disinteressarsene, ma adesione e rinnovamento continuo.

Certo chiedere un segno, da parte di quella gente, sarebbe stato legittimo se Gesù si fosse presentato all’improvviso, venendo da chissà dove per la prima volta, senza che nessuno ne conoscesse le origini, ma non fu così: la domanda dei presenti fu cieca, analoga a quella degli abitanti di Nazareth che volevano anche presso di loro i “segni” fatti a Capernaum e dintorni, oppure di quei Farisei che gli dissero “Maestro, noi vorremmo vedere da te un segno”ottenendo in risposta “Una generazione malvagia e adultera– spiritualmente – chiede un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona, il profeta”(Matteo 23.38 e segg.), cioè quello della Sua morte e resurrezione, prova indiscutibile del Suo essere Figlio di Dio.

Sono convinto che l’accostamento a Mosè e alla manna non fu casuale, poiché chi parlò a Gesù avrebbe potuto ricordare altri segni fatti da quel profeta: pensiamo alla roccia percossa nel deserto che diede acqua, o a quelli fatti con lo scopo di spingere il faraone e lasciare andare il popolo, le acque del mar rosso che si aprirono e poi si chiusero sommergendo l’esercito egiziano. Scelsero, come citazione, quella di “un pane dal cielo”che doveva essere raccolto al mattino e consumato nell’arco della giornata. Ricordiamo le parole di Esodo 16.17,18: “Ne raccolsero chi molto, chi poco. Si misurò con l’omer– unità di peso di circa 1,2 Kg. –: colui che ne aveva preso di più, non ne aveva di troppo; colui che ne aveva preso di meno, non ne mancava. Avevano raccolto secondo quanto ciascuno poteva mangiarne”. La disponibilità dell’amore di Dio che dà a ciascuno secondo il suo bisogno, già allora.

Quel “pane dal cielo”, che rappresentava le attenzioni di Dio per il suo popolo era figura del cibo perfetto che sarebbe venuto un giorno e che ora era lì, davanti a quella gente dubbiosa che chiedeva di vedere per credere, cioè toccare con mano, senza la minima dose di fede che contraddistinse tutti coloro che beneficiarono dell’intervento diretto di Gesù: se il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci fu per tutti coloro che si trovarono là, quelli di guarigione non poterono mai avvenire senza l’accettazione del Cristo e Signore. C’era quindi bisogno sì di pane, ma non di quello d’orzo: serviva “quello vero”, cioè l’unico che avrebbe sfamato una volta per sempre poiché l’incontro con Gesù si rinnova ogni giorno, se gli uccelli non passano a mangiare il grano o non cade in buona terra. Il “pane di Dio” inteso come manna era allora una figura di quello vero che sarebbe “disceso”un giorno, verbo che ci parla della spogliazione di Gesù come Dio per vestire la forma e la sostanza dell’essere umano, la creatura caduta perché sedotta, indotta a seguire un’illusione. Ecco il perché delle parole “Il pane di Dio è colui– non “quello” – che discende dal cielo e dà la– notare l’articolo – vita al mondo”. La vita vera, eterna.

Forse alcuni dei presenti capirono di aver frainteso e che vi era molto di più al di là della manna e dei pani d’orzo che avevano mangiato, ma la richiesta fu: “Signore, dacci sempre di questo pane”, dove quel “sempre”denota che volevano avere Gesù ancora come re, che desideravano restasse con loro a garantire prosperità e assistenza, ma non spirituale. Volevano un pane per la vita naturale. Quella gente fraintendeva un messaggio che veniva dallo Spirito Santo, e diversamente non poteva certo essere, ma proprio quel loro non capire ci consente di stabilire un’importante verità, e cioè che chi ascolta le parole di Dio con la carne, non può che interpretarle carnalmente per cui non arriverà mai a comprenderne il significato corretto. L’uomo deve sapere che, se non cerca Cristo per porre rimedio alla fame e sete dello spirito, non troverà mai alcun beneficio o rimedio al di là di un pregare, magari in forme coreograficamente belle e suggestive, il nulla e il vuoto. Pregare il vero Dio con presupposti sbagliati, equivale a predicarne uno finto perché il risultato sarà lo stesso.

Le parole “Io sono il pane della vita”con cui Nostro Signore risponde sono una dichiarazione di unicità: Lui e nessun altro lo è, e contengono un’indicazione e un avvertimento al tempo stesso, poiché il Suo è l’unico nome dato agli uomini per essere salvati. È, come sappiamo, un nome che è al di sopra di ogni altro, datogli da Padre: “Gli ha dato un nome che è al di sopra di ogni altro nome perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami «Gesù è il Signore!» a gloria di Dio Padre”(Filippesi 2.9-12). Facciamo attenzione: abbiamo letto “ogni ginocchio”, quindi anche di coloro che non lo avranno riconosciuto come Figlio di Dio, che avranno combattuto Lui direttamente nel corpo fisico o in quello spirituale che è la Chiesa. Proclamare che “Gesù è il Signore!”perché costretti dall’evidenza e dall’impossibilità di non poterlo fare, non potrà dare però alcuna salvezza, ma solo giudizio.

“Chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai”: prima abbiamo visto il vedere per credere, cioè una condizione ridicolmente posta dall’uomo quasi possa fare un favore a un ipotetico dio lontano, qui abbiamo un “venire” e “credere”, quindi una situazione completamente diversa. Venire a Gesù suscita alla mente l’idea un’azione quasi inevitabile, istintiva, naturale, un andare a Lui per serenamente discutere, metterlo alla prova non polemicamente, ma quasi implorandone l’intervento rivelatore. Chi viene a Lui non avrà fame perché constaterà che solo in Lui vi può essere la giusta dimensione, l’avere “tutto pienamente”di cui parlò l’apostolo Paolo. Chi viene a Cristo trova un pane che, una volta assunto, pone chi lo ha preso nelle condizioni di riconoscere che in Lui c’è effettivamente la vita per cui affidarglisi è inevitabile. E nel momento in cui si crede – con la continuità e tutto quel che ne deriva – la sete diventa solo un ricordo affievolito visto in quel “Mai” con cui Giovanni conclude le parole del suo Maestro.

Esposte con pochissime parole gli effetti della fede in Lui, Gesù passa ad illustrare le dinamiche interne del credere: quando un peccatore, cioè chiunque vive la propria vita in modo contrario alle aspettative e agli ideali di Dio, si converte, cioè “viene”e “crede”, non è  un qualcosa che si verifica per caso: “Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me”. È una situazione che mi ricorda gli animali che entrarono nell’arca costruita da Noè senza che li andasse a cercare, seguendo un istinto che il Signore aveva posto in loro. E in quel “verrà a me”possiamo distinguere un’azione compiuta responsabilmente, già con una disposizione favorevole che contempla una resa.

“Colui che viene a me, io non lo caccerò fuori”, quindi promessa di accoglimento. Solo l’interessato, uomo o donna che sia, può scegliere deliberatamente di allontanarsi da Lui e, quindi, si “caccia fuori” da solo esattamente come si ritorna a provare la fame e la sete di prima. Perché abbiamo senso e rivestiamo dignità, come esseri umani, solo se rimaniamo uniti a Lui. Viceversa, siamo solo rami secchi, buoni al massimo per il fuoco. Inutili nonostante ciò che di buono o di cattivo avremo fatto.

Nei versi conclusivi, poi, vediamo che l’accoglienza di Gesù prevede un piano e un posto preciso per ciascuno: “Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno”. Abbiamo rilevato tempo da che Abrahamo trovò la forza di sacrificare Isacco perché sapeva che sarebbe risuscitato, quindi la sua morte sarebbe stata un transito e non una fine: allo stesso modo qui troviamo accennato il piano di Dio per chiunque crede in Lui, cioè la resurrezione nell’ultimo giorno, quello con cui si chiuderà definitivamente la storia del mondo che conosciamo.

Nel non perdere “nulla di quanto egli mi ha dato”vediamo, in embrione, ciò che Gesù stesso svilupperà con queste parole: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è il più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola”(Giovanni 10.27-30). Qui, allora, abbiamo il mistero dell’amore del Padre e del Figlio che, così immensamente santi e puri, hanno accolto persone come noi. Amen.

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10.09 – ALLA RICERCA DI GESÙ (Giovanni 6.22-29)

10.9 – Alla ricerca di Gesù (Giovanni 6.22-29)

22Il giorno dopo, la folla, rimasta dall’altra parte del mare, vide che c’era soltanto una barca e che Gesù non era salito con i suoi discepoli sulla barca, ma i suoi discepoli erano partiti da soli. 23Altre barche erano giunte da Tiberiade, vicino al luogo dove avevano mangiato il pane, dopo che il Signore aveva reso grazie. 24Quando dunque la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Capernaum alla ricerca di Gesù. 25Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbi, quando sei venuto qua?» 26Gesù rispose loro: «In verità, in verità, io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. 27Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». 28Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». 29Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato»”.

Prima di esaminare l’episodio è necessario dare alcune informazioni sulla cronologia degli eventi che, per quanto dettagliati e inequivocabili a partire dalla ricerca del luogo solitario dove far riposare i dodici fino alla salita di Gesù e Pietro sulla barca e l’approdo veloce a riva, pongono poi dei problemi di successione temporale. Leggiamo Marco 6.53-56: 53Compiuta la traversata fino a terra, giunsero a Gennezaret e approdarono. 54Scesi dalla barca, la gente subito lo riconobbe 55e, accorrendo da tutta quella regione, cominciarono a portargli sulle barelle i malati, dovunque udivano che egli si trovasse. 56E là dove giungeva, in villaggi o città o campagne, deponevano i malati nelle piazze e lo supplicavano di poter toccare almeno il limbo del suo mantello, e quanti lo toccavano venivano salvati”.

I versi di Giovanni, invece, abbiamo letto che ci parlano di un “giorno dopo”dalla non semplice interpretazione perché o intende il nuovo giorno appena cominciato, oppure quello successivo per dare modo ai dodici di riposare dopo una notte che doveva averli estremamente provati. Ora, dal comportamento della folla, possiamo concludere che si trattasse effettivamente dello stesso giorno e che Gesù fosse stato solo quando lo trovarono “di là dal mare”(v.25)

Cerchiamo di inquadrare gli eventi se possibile espandendo la narrazione di Giovanni, sfruttando gli elementi a nostra disposizione: quando Gesù aveva congedato la folla, cinquemila persone contando solo gli uomini, si era dispersa in cerca di un alloggio nei villaggi. Alcuni di loro forse tornarono alle loro case oppure, se venuti da lontano, avranno chiesto ospitalità nelle case isolate nei pressi, ma un buon numero era rimasto là, dove il miracolo era avvenuto, sperando di ritrovarvi Nostro Signore al mattino. Ed effettivamente al mattino la gente lo cercò, spronata anche dal fatto che videro “che c’era soltanto una barca”, quella con la quale Gesù era arrivato. Ora per loro, vedendo che la barca dei dodici non c’era più, era logico pensare che si trovasse ancora nei dintorni, per cui iniziò a cercarlo. Nel frattempo, da Tiberiade, era arrivata altra gente, ma la ricerca per trovare l’autore del miracolo dei pani e dei pesci non dette risultato e allora, sapendo che abitava a Capernaum, lo andò a cercare là, trovandolo “di là dal mare”, quindi dopo una traversata analoga a quella che avevano compiuto i dodici con lui, pur senza le fatiche del remare col vento contrario e l’angoscia della tempesta.

Va sottolineato che quanto dedotto finora si basa sul fatto che Giovanni scrive “il giorno dopo”e sui tempi delle reazioni della gente che, nell’immediato, cercò Gesù nel luogo in cui aveva compiuta la moltiplicazione e poi arrivò a Capernaum nella tarda mattinata o nel pomeriggio. Diversi commentatori, invece, preferiscono dare prevalenza al racconto di Marco (e Matteo) che parlano di un approdo a Gennezareth quale conclusione della traversata notturna che abbiamo esaminato.

Venendo ora alla domanda che gli fu rivolta dalla gente, “Rabbi, quando sei venuto qua?”, può essere tradotta anche “come”ed esprime tutta la loro curiosità perché non riuscivano a spiegarsi come Gesù avesse fatto ad arrivare lì prima di loro: via mare era impossibile in quanto, secondo logica, non presente sulla barca coi discepoli e, di notte e col forte vento che c’era stato, a piedi non avrebbe potuto arrivare a Capernaum prima di loro: tutti noi abbiamo provato cosa vuol dire camminare con vento contrario, che oltre allo sforzo implica problemi agli occhi causati dalla polvere sollevata dall’aria.

Sta di fatto che, come approccio, non avrebbero potuto rivolgerGli domanda più infelice, come se fosse un loro pari, un amico che li aveva preceduti in chissà quale modo: “Come hai fatto?”. Sappiamo che Gesù, unico, profondo conoscitore del cuore umano assieme al Padre, mise subito in luce le ragioni per cui quella gente lo cercava: “Non mi cercate perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati”(v. 26). Cerchiamo di capire cos’era avvenuto: sappiamo che il pane distribuito alla folla era d’orzo, poca cosa che però, raccordandoci al miracolo dell’acqua tramutata in vino alle nozze di Cana, era più buono di quello che veniva custodito gelosamente per le grandi occasioni. Non c’è ragione per non ritenere quindi che anche quei pani d’orzo avessero un sapore diverso da quello ordinario.

Ora quella gente non cercava Gesù perché aveva “visto dei segni”, che implicava ragionare su un miracolo per darsi una spiegazione spirituale, ma perché voleva ancora saziarsi con quel pane, cioè cercava una soddisfazione immediata, a dire “Non hai voluto che ti facessimo nostro re? Almeno dacci di nuovo quel pane”. E qui si apre uno spazio immenso di riflessione, difficile da esporre in modo ordinato, che si basa sui motivi che spingono anche oggi le persone a cercare Gesù, per la verità poche stante gli ultimi tempi che stiamo vivendo. Di fatto però, come allora, la gente si mette alla ricerca di Dio per avere dalla sua parte un Essere superiore che si occupi dei loro problemi e li risolva. Più che la salvezza della propria anima, si cerca un anestetico, una pillola, un genio della lampada che tolga la fame sia essa di salute, di denaro, di successo nelle proprie imprese, la realizzazione piena della propria persona. Il resto non importa, ciò che è fondamentale è saziarsi, di pane – con quel che rappresenta – o di se stessi. Credo fermamente che questo abbia voluto dire Nostro Signore a quanti lo cercavano, per lo meno nella prima parte del suo breve discorso: ciò di cui erano alla ricerca quelle persone era “un cibo che non dura”, impotente a soddisfare la fame se non per un periodo, esattamente come quell’acqua che la donna samaritana era venuta ad attingere. Più avanti, come vedremo, Gesù parlerà del “pane disceso dal cielo”, senza venire capito. La samaritana avrebbe avuto ancora sete, la gente radunata a Capernaum ancora fame. E cercando di sfamarsi e dissetarsi con quei presupposti, non sarebbe riuscita a risolvere il problema della fame e della sete più profonda, quella interiore.

Ecco allora che l’invito è Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». Esaminiamo brevemente queste parole: “Datevi da fare”, quindi “adoperatevi” in modo diverso da come avete fatto finora; cambiate prospettiva, mentalità, rinnovatevi, abbandonate le vostre priorità sul cibo che non dura, ma pensate a quello che “rimane per la vita eterna”dove il “rimanere” dà l’idea di qualcosa che resta nel luogo in cui si trova, un deposito custodito dove nessun ladro potrà mai arrivare. È come se Gesù avesse detto: “Se siete stati in grado di remare fin qua da Betsaida, potete fare altrettanto, ma in modo diverso, ponendo gli stessi sforzi spiritualmente”. E la “vita eterna”poi è in contrapposizione a quella a termine che tutti noi abbiamo, inutile senza la prospettiva della prima, quella che Gesù è il solo che può proporre e dare in quanto vincitore sulla morte. Infatti abbiamo letto “…e che il Figlio dell’uomo vi darà”: è una promessa perché chi ha dato la vista ai ciechi, guarito i paralitici e risuscitato i morti, cose impossibili alla ragione umana, può dare anche la vita eterna.

Così, a proposito di unicità, su nessun altro “Il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo”, frase che si riferisce non solo alla Sua missione e regalità, ma anche alla dignità nuova ricevuta da tutti coloro che hanno creduto. Infatti: “È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori”(2 Cor. 1.22). “In Lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il Vangelo della vostra salvezza e avere in esso creduto, avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria”(Ef. 1.13,14).

Tornando al nostro testo, rileviamo dalla domanda dei presenti che questi si ritenessero già a posto con la loro coscienza perché già sapevano quali fossero “le opere di Dio”che avrebbero dovuto compiere: erano quelle della Legge, più cerimoniale che morale, che conoscevano perché spiegate dagli Scribi e dai Farisei sui quali ci siamo soffermati più volte. Se il carceriere di Filippi chiese all’apostolo Paolo “Cosa devo fare per essere salvato?”perché effettivamente desideroso di conseguire tale condizione, i conterranei di Gesù, con polemica, gli chiesero a cosa si riferisse con quel “compiere le opere di Dio”, perché già le praticavano. Ricordiamo infatti le parole del giovane ricco, “Tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia fanciullezza”.

Anche qui la risposta si riferisce a qualcosa di unico: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato”. Questo è ciò che serve, non atro perché era quello il tempo in cui le opere della Legge sarebbero passate in secondo piano in quanto adempiute dal Cristo per l’uomo e sacrificato innocente. La via nuova, la via, la verità e la vita, si sarebbero potute trovare solo ed esclusivamente nel Figlio che da allora in poi avrebbe rivelato il Padre. “Da allora”, certo, per le persone lì presenti. Da sottolineare che il greco “che voi crediate”, per la forma usata (“ina pistèusete”), non indica una semplice presa d’atto, ma una continuità d’azione, uno stato continuo di fede per cui non è salvato chi semplicemente crede, ma chi si pone in rapporto tra fede e opere: come qualcuno ha detto in giorno, “la fede è la vita delle opere, le opere sono la conseguenza necessaria della fede”, senza considerare tutto ciò che hanno scritto Giacomo e Giovanni in merito proprio per confutare la dottrina che sosteneva che bastasse una semplice adesione mentale, credere una volta e basta, per essere salvati, concetto caro ad alcuni Corinzi e non solo.Perché “credere” non è il punto d’arrivo, ma di partenza, è l’inizio di un cammino in cui “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”(Apocalisse 21.5) che troveranno il loro culmine con la nuova creazione in cui entreranno solo, appunto, i credenti, “concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio”. Amen.

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10.08 – GESÙ CAMMINA SULL’ACQUA 2/2 (Matteo 14.24-33)

10.8 – Gesù cammina sull’acqua 2 (Matteo 14.24-33) 

24La barca intanto stava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. 25Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. 26Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. 27Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». 28Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». 29Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. 30Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». 31E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». 32Appena saliti sulla barca, il vento cessò. 33Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei il Figlio di Dio!»”.

Nello scorso capitolo abbiamo cercato di esaminare il contesto umano e spirituale in cui si svolse la prima parte dell’episodio. Ora, guardandolo più da vicino, consideriamo il dettaglio che troviamo solo in Marco, e cioè che “…egli andò verso di loro, camminando sul mare, e voleva oltrepassarli”(6.48): fu Pietro, che com’è noto è la fonte principale di questo Evangelista, a rivelarglielo e quindi fu un particolare che gli rimase impresso. Come gli altri suoi compagni fu sconvolto e spaventato da quella visione, ma ebbe il tempo di rendersi conto che, pur venendo nella direzione della barca, Gesù non sembrava intenzionato a volerli effettivamente raggiungere. E, con gli altri, si mise a gridare non per chiamarlo, ma perché ebbe paura. Fu così che, di fronte a quella reazione, Nostro Signore si avvicinò a loro dicendo “Coraggio, sono io, non temete!”.

C’è allora questo metodo, che Gesù usa ancora verso di noi, per provarci: non che lui non sappia come reagiremo, ma piuttosto si comporta così perché possa essere il credente a valutarsi per una conoscenza reciproca. Avendo citato recentemente il sacrificio di Isacco, la frase “Ora so che temi Iddio”era la dichiarazione ufficiale con Abrahamo veniva informato di aver superato la prova cui era stato sottoposto: certo il Signore sapeva come si sarebbe conclusa, ma Abrahamo no e fu solo nel momento in cui si sentì pronunciare quelle parole che capì quanto avvenuto, non prima. E abbiamo già parlato del fatto che quest’uomo fondò le sue azioni sulla fede nella resurrezione di Isacco e non sul fatto che la sua mano, armata di coltello, sarebbe stata fermata all’ultimo momento.

Arrivati al verso 27, dopo le parole di Gesù tese a calmare i discepoli, ecco Pietro manifestare il suo carattere particolare: non convinto che il suo Maestro fosse corporalmente reale, gli fa una richiesta del tutto particolare; sarebbe stato molto più ovvio chiedergli di calmare la tempesta come aveva già fatto in un’altra occasione (8.23-27) o rivolgersi una richiesta di un generico aiuto, ma abbiamo letto “Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque”. “Se sei tu”: la mente razionale e umana di Pietro non poteva concepire che Gesù potesse camminare sull’acqua, sapendo che era una cosa contraria a qualsiasi legge fisica; di qui, la convinzione che la Sua fosse una presenza irreale, una visione, un’allucinazione, un fantasma per quanto non inteso come la superstizione pagana ci ha tramandato. Se quindi Gesù aveva messo alla prova i Suoi presentandosi in quel modo, ora Pietro mette alla prova Lui, ma quella richiesta gli si rivolterà contro. La risposta di Gesù fu di una semplicità sconcertante nella sua naturalezza, “Vieni!”ed è su questo punto che credo occorra riflettere.

Camminando sulle acque agitate, abbiamo la dimostrazione del Salmo 77 citato nello scorso capitolo e del dualismo che caratterizzava Gesù come Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, ma non di uno spirito o una figura irreale. Giovanni, infatti, anche per confutare una teoria che iniziava a prendere piede nella Chiesa, scrisse “Dio si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. Una “carne”su cui lo Spirito prevaleva a tal punto da variarne il peso consentendogli non di “galleggiare” sull’acqua, ma in posizione eretta e di spostarsi. Gesù cammina, quindi dimostrando di dominare gli elementi, non li sorvola. Certo quanto stava accadendo era assolutamente reale, ma nel particolare del Signore che passa c’è un significato importante poiché il mare, nella Scrittura, non è un elemento che suscita un senso di contemplazione e pace come nella maggior parte di noi, ma è figura di ciò che incombe, è instabile, tumultuoso, incontrollabile, caotico, che spaventa, strumento che prelude al giudizio di Dio come fu nel caso dell’esercito di Faraone nel libro dell’Esodo e come sarà con la “Bestia che sale dal mare”o come “il drago” che si fermò sulla sua riva nel libro dell’Apocalisse.

Ebbene l’invito di Gesù a Pietro ad andare verso di lui si rifaceva alle sue possibilità in quanto affidatario di un mandato che aveva perché tra i due c’era identità: non aveva forse detto “Chi accoglie voi accoglie me”? (Matteo 10.40). Pietro quindi, autore come gli altri dodici di miracoli non narrati dai Vangeli nel periodo di missione dal quale era tornato da poco, qui riceve dal suo Maestro anche la possibilità di camminare sulle acque. E infatti, per un breve lasso di tempo, riesce a farlo ma, attenzione, senza credere fino in fondo. Il dubbio, l’idea del pericolo degli elementi naturali ebbe presto il meglio, fu dominante sulla fede e sulla parola rivoltagli dal Signore lì presente. E per questo, “vedendo che il vento era forte, s’impaurì”e, attenzione, “cominciò ad affondare”: non è che sprofondò di colpo, ma gradatamente, così come noi altrettanto poco a poco ci possiamo preoccupare, intimorire, allontanarci dalla ferrea convinzione, che evidentemente proprio ferrea non è, di essere costantemente amati e curati. E così il nostro vecchio uomo di terra, sempre lo stesso da migliaia di anni, ha la meglio, prende il sopravvento. E sprofonda nell’acqua e non gli resta altro che gridare“Signore, salvami!”, quasi che ve ne fosse bisogno, visto che lo ha già fatto, che è con noi “tutti i giorni fino alla fine del mondo”come sappiamo.

Al verso 31 leggiamo che “Subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». Un rimprovero molto amaro, ma non solo, poiché in quella frase esiste tanto il rimprovero, nella prima parte, quanto la cura. In altri termini Pietro fu sì umiliato, ma con la domanda “Perché hai dubitato?”Nostro Signore volle spingerlo a cercare le ragioni del suo fallimento con una vera e propria auto analisi. Non fu una domanda alla quale Pietro avrebbe dovuto rispondere a Gesù, ma a se stesso.

“Uomo di poca fede”è la diagnosi che Gesù fa all’apostolo ed è la stessa di tutti noi ogniqualvolta le nostre reazioni negative ci qualificano come tali. Ecco perché la vita cristiana è difficile, potremmo dire umanamente impossibile: oggi si professa la fede, domani per mille ragioni possiamo avere un comportamento che la contraddice anche in un solo punto, al quale se ne aggiunge un altro e poi un altro ancora fino a quando non si sprofonda e, nel panico, si teme di affogare.

Spesso penso a Gesù, che nonostante il successo episodico del dodici fu sempre costretto ad intervenire giungendo anche al punto da esprimersi in modo negativo su di loro. Leggiamo infatti, dopo il lamento di quel padre col figlio epilettico “L’ho portato dai tuoi discepoli, ma non sono riusciti a guarirlo”le parole “O generazione incredula e perversa! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo qui da me”(Matteo 17.16,17). Poco dopo, presumo umiliati e con timore, “i discepoli si avvicinarono a Gesù, in disparte, e gli chiesero: «Perché noi non siamo riusciti a scacciarlo?». Egli rispose loro: «Per la vostra poca fede. In verità in verità io vi dico: se avrete fede pari ad un granello di senape, direte a questo monte: «Spostati da qui a là» ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile»”.

Cosa si può aggiungere a queste parole? Il concetto di fede viene qui ampliato a tutti gli aspetti della nostra vita. È qualcosa che non ci riguarda solamente quando preghiamo, leggiamo la Scrittura, ma che coinvolge ogni nostro respiro.

Certo Pietro, che fidandosi del suo Maestro scese dalla barca e poté stare in piedi sull’acqua, in quel momento era come Lui. Ma non appena questa sua condizione mentale e spirituale cessò, ecco che gli effetti furono opposti. La fede, quindi, non è il risultato di un lungo processo di autoconvincimento, di concentrazione, ma  una condizione che si esplica tramite tutta una serie di pensieri costantemente rivolti a Dio come presenza e come unione stretta con noi. È un desiderio di vita che proviene dall’acquisizione del principio in base al quale tutto ciò che incontriamo nel nostro cammino terreno è inevitabilmente contaminato e contaminante, è un filtrare continuo non dettato dalla mente, ma dallo Spirito che deve ritrovarsi sempre a dominare. Chi seleziona ciò che lo circonda nel senso religioso del termine, ponendosi sopra tutto e tutti, sbaglia e finisce per sentirsi appunto superiore agli altri, li giudica, si ritrae con orrore convinto di essere più santo di loro quando in realtà è peggiore, come insegna la nota parabola del Fariseo e del pubblicano.

La presenza dello Spirito, in relazione alla Parola di Dio che è spada a due tagli, ci consente di scegliere sempre quella “via”fatta di selezione di comportamenti, iniziative, rapporti con le persone, è quella che aiuta ad andare avanti, oltre, al di sopra. La strada in salita che ogni cristiano ha davanti a sé è qualcosa che chiama e non uno sforzo impossibile o già perso in partenza.

L’episodio si conclude con una descrizione liberatoria, “Appena saliti sulla barca, il vento cessò”perché quando Gesù entra ad occupare uno spazio nella vita dell’uomo, rappresentato dalla barca, tutto cambia. E il cristiano deve tenere un posto a Cristo nella sua vita sempre, perché altrimenti non vi sarà nulla che potrà distinguerlo dagli altri suoi simili. Potrà frequentare una Chiesa, potrà stare in mezzo ad altri fratelli, ma, senza avere il Signore come ospite dentro di lui, sarà un anonimo, una persona che non potrà portare alcunché di luminoso e resterà senza nulla per scaldarsi.

Credo che nel nostro cammino il cristiano di oggi porti una responsabilità diversa da quella dei dodici, che avevano sempre con loro il Signore e a loro potevano chiedere qualunque cosa anche in merito alle proprie scelte: oggi Lui parla attraverso lo Spirito Santo, il Consolatore dato perché non fossimo lasciati soli, ma “senza la fede è impossibile essergli graditi; chi infatti si avvicina a Dio, deve credere che egli esiste e che ricompensa coloro che lo cercano”(Ebr.11.6). E sappiamo che quel “deve credere”non ha nulla a che vedere con un autoconvincimento, il fondarsi su un principio irreale perché viene personalmente constatato.

C’è una nota interessante che riporta Giovanni, altro testimone dell’episodio e che integra quell’ “Appena saliti sulla barca, il vento cessò”, e cioè “Allora vollero prenderlo sulla barca, e subito la barca toccò la riva alla quale erano diretti”(6.21): cosa successe? Gesù suscitò un vento favorevole per cui alzarono le vele e giunsero subito a destinazione? Non credo. Piuttosto quel “subito”si riferisce alla proporzione del tempo che i dodici avrebbero impiegato con il vento contrario oppure no, non senza considerare il loro stato d’animo, finalmente tranquillo e soprattutto sicuro della protezione che avrebbero avuto. Nel verso di Giovanni, soprattutto, c’è un riferimento alla differenza che c’è fra quando un essere umano lascia Gesù fuori dalla sua vita e quando lo lascia entrare.

C’è anche chi ha supposto che il fatto di aver raggiunto l’altra riva “subito”costituisca il quarto miracolo di quelle ore, avvenuto dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci, di Gesù che cammina sulle acque, di quanto avvenne a Pietro ed il cessare del vento: comunque sia, resta fermo il principio degli effetti che ha la presenza di Cristo nel momento in cui viene ad occupare uno spazio nella vita che ciascuno di noi gli concede. Amen.

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10.07 – GESÙ CAMMINA SULL’ACQUA 1/2 (Matteo 12.24-33)

10.7 – Gesù cammina sull’acqua 1/2 (Matteo 14.24-33)

24La barca intanto stava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. 25Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. 26Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. 27Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». 28Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». 29Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. 30Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». 31E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». 32Appena saliti sulla barca, il vento cessò. 33Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei il Figlio di Dio!»”.

Episodio conosciuto da tutti, è quasi contemporaneo, almeno inizialmente, alla preghiera di Gesù sul monte: ricordiamo che agli apostoli era stato ordinato di andare a Betsaida precedendolo anche se poi tutti, dopo quella notte, approderanno a Capernaum. Abbiamo letto un racconto che s’imprime facilmente nella memoria, quasi fosse una parabola, chiaro nelle sue dinamiche, ma per questo impegnativo perché ci costringe a cercare di andare oltre l’immediato del mare, del vento, di Pietro che inizialmente cammina sull’acqua e si spaventa e, infine, del rimprovero che gli viene rivolto. Allora, con questi ricordi “immediati”, cerchiamo di approfondire il verso 24 e il senso di contemporaneità degli eventi che suggerisce.

L’incontro sul monte di Nostro Signore col Padre possiamo supporre sia stato caratterizzato, tra i tanti contenuti che ebbe, da una preghiera di ringraziamento per l’avvenuto miracolo dei pani e dei pesci e di considerazioni su quell’entusiasmo, tanto spontaneo quanto fraintendente, della folla che avrebbe voluto farlo re. Da qui le preghiere per lei, per quel popolo “di collo duro”tra i quali c’erano delle anime bisognose (e desiderose) di salvezza. Riflessioni congiunte del “Dio con noi”con quello che abitava “i cieli altissimi”sull’opera compiuta e da compiere, sui discepoli e sui dodici che tanto cammino avevano ancor davanti per conoscerLo veramente, oltre a quei contenuti che non ci sono stati rivelati. La preghiera di Gesù uomo al Padre fu quindi da un lato simile a quella che eleviamo anche noi, ma al tempo stesso profondamente distante perché elevata da Uno consapevole del Tutto, quindi anche di ciò che sarebbe avvenuto di lì a poche ore dopo, cioè l’incontro con i dodici sulla barca, e di quanto stava accadendo con quel forte vento che scende sul lago di Galilea dai monti circostanti all’improvviso, quando uno meno se lo aspetta e che, quando soffia con forza, mette in crisi i navigatori più esperti, quelli locali abituati a fronteggiarlo.

E qui, come già accennato, il verso 24 mette in contrapposizione due realtà, quella di Gesù e dei dodici, il primo tanto in preghiera quanto presente in spirito con loro, i secondi lì, sulla barca, a riversare tutti i loro sforzi nel remare dopo avere ammainato la vela, essendo “il vento contrario”, un’esperienza estremamente faticosa solo guardandola dal suo lato fisico. Questo verso, da parte dei dodici, ci descrive uno sforzo che durò circa dieci ore perché sappiamo che partirono al tramonto e videro Gesù solo “Sul finire della notte”, traduzione che semplifica l’originale “Nella quarta vigilia della notte”.

Aprendo una finestra sullo spazio naturale della notte, cioè dal tramonto all’alba, era suddiviso dagli antichi Ebrei in tre parti, dette “veglie”, di quattro ore l’una: la prima era chiamata “Il principio della veglia” (Lamentazioni 2.19) e andava dalle nostre 18 alle 22; la seconda era “La veglia della mezzanotte” (Giudici 8.19) dalle 22 alle 02 e la terza, “La veglia della mattina” dalle 02 alle 06. Gli Ebrei però, al tempo di Gesù, avevano adottato la suddivisione romana, a sua volta presa dai Greci, che aveva istituito quattro vigilie di tre ore l’una. Leggendo Marco 13.35 “Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino”, ci rendiamo conto che era questo il criterio adottato. La “quarta vigilia della notte”, o “Sul finire della notte”, indicano allora un periodo oscillante tra le 03 e le 06 antimeridiane.

Pensiamo allora cosa può aver rappresentato quel periodo per i dodici, in cui si trovavano senza il loro Maestro in cui, a parte il dover prestare la massima attenzione per tenere la barca, avevano certamente preso atto che avevano percorso solo, come riporta Giovanni che era lì, “venticinque o trenta stadi” (6.19), cioè circa 5 km. Abbiamo allora spiegata la ragione dell’ordine dato loro da Gesù di andare “verso Betsaida”: voleva che capissero come, nonostante gli sforzi che avrebbero fatto, senza di lui non ci sarebbe stato alcun risultato, come dirà più avanti certo che i discepoli avessero compreso questo principio: “senza di me non potete far nulla”. Da notare, poi, che ciò è preceduto dalla descrizione dell’unione tra loro e Lui: “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato”(Giovanni 15.4-7).

C’è una riflessione importante che possiamo fare sul verso 24, che fa riferimento a molte ore di fatica e al senso di impotenza e smarrimento che provarono i dodici, come ha scritto un fratello: “questo accade anche a noi quando siamo particolarmente travagliati ed affaticati da tante cose non determinate dalla nostra volontà: siamo portati a pensare che Gesù non sappia, non veda, non intervenga, ma questo non è vero, avendo Lui stesso promesso di essere vicino ad ognuno di noi per tutti i giorni della nostra vita fino alla morte”. Infatti in Matteo 28.20 leggiamo “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”, frase che coinvolge tutti i credenti da allora in poi, e riguarda anche coloro che si convertiranno in quel periodo terribile conosciuto col nome di “gran tribolazione”. E credo che ogni vero cristiano non possa che testimoniare un’altra profonda verità espressa in 1 Corinti 10.13: “Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla”.

Personalmente posso testimoniare che, nel momento in cui sono caduto, confrontandomi con questo passo, non ho potuto fare altro che riconoscere la fedeltà di Dio che mi ha perdonato e sopportato, più che accusarmi della mia infedeltà che era lì ad accusarmi: viceversa, senza cadere, sarei stato come Lui, cosa impossibile. Tutto questo, ovviamente, senza escludere la mia responsabilità. Se fossimo sempre vigili e pronti, le parole di Paolo non avrebbero alcun senso, ma ciò che l’apostolo vuol porre in risalto è proprio la natura fragile dell’uomo, chiamato a chiedere perdono a Dio e contemporaneamente glorificarlo per la “via d’uscita e la forza per sopportarla”perché, avendoci strappati al malvagio secolo, interviene per ristabilirci nel momento in cui chiediamo a Lui l’aiuto e il soccorso opportuno. E, come in questo episodio, il Suo intervento è unico, inequivocabile, rivela la possibilità all’interno di situazioni dalle quale uscirne sarebbe impossibile perché, a volte, ci ritroviamo inseriti in un perfetto labirinto dal quale veniamo liberati tramite un intervento che possiamo riconoscere solo a Lui. E quel “tentati al di sopra delle nostre forze”, più che accusarci, riflette proprio la fedeltà di Dio in contrapposizione alla natura dell’uomo.

Anche se a volte il Suo intervento tarda a venire, l’onniveggenza di Gesù ci smentisce sempre; pensiamo anche come, nel suo rapporto con i discepoli, era contemporaneamente Figlio vivente di Dio e Figlio dell’uomo, quindi ancora circoscritto in un corpo come il nostro, ma ora, per tutti noi, siede alla destra del trono di Dio come mediatore e intercessore Unico per difenderci dalle continue accuse di Satana e liberarci da ogni nostro travaglio che l’Avversario provoca con lo scopo di ostacolare il nostro progresso spirituale. Tutto questo lo vediamo nel nostro episodio: i discepoli non avevano certo desiderato avere il vento contrario, né l’acqua agitata che sballottava la loro barca, controllabile a fatica e solo perché erano avvezzi a fronteggiare le acque del lago.

Volendo individuare gli elementi fin qui incontrati, abbiamo il vento contrario, l’acqua agitata, la barca e gli uomini: il primo è figura della difficoltà e ognuno di noi può abbinarla alla, o alle, proprie; l’acqua è figura di tutto il contesto di instabilità sul quale purtroppo siamo costretti a spostarci. La barca, solida per quanto possibile, è il mezzo su cui siamo, che ci garantisce di galleggiare sulla superficie e spostarci più o meno agevolmente se tutto è tranquillo. Infine gli uomini siamo noi, più o meno preparati alle difficoltà che incontreremo inevitabilmente. E giova ricordare che, prima di compiere la traversata, così come nel miracolo della tempesta sedata, il mare non era agitato né vi erano segnali che, tutto a un tratto, iniziasse a soffiare quel forte vento che tanto rese arduo il viaggio.

Sappiamo che Satana sa della nostra debolezza e carnalità, come è ampiamente descritto nel libro di Giobbe, e per questo Gesù avvertirà i discepoli di questo pericolo esortandoli a pregare per non entrare in tentazione. Preghiera quindi come unico, vero antidoto, come insegna il Padre Nostro.

Arriviamo così al verso 25: Gesù attende fino all’ultima parte della notte, quella che va dalle tre alle sei del mattino, prima di andare verso di loro camminando sul mare; è questo un orario particolare per il corpo umano in cui il circolo si rallenta, particolarmente penoso per chi ha problemi cardiaci, anche se non era il caso dei dodici. Una notte insonne si caratterizza con riflessi più lenti, scarsa capacità di passare da un’azione a un’altra come richiesto ai dodici in quei momenti che, ricordiamo, non avevano riposato. Una notte insonne provoca una visione ridotta o scarsa e, più a lungo si resta svegli, più sono possibili errori visuali che possono tradursi anche in allucinazioni. Ecco allora che quel“È un fantasma”allude proprio a questo, per quanto, se avessero riflettuto, ma non c’era tempo di farlo, un’allucinazione collettiva sarebbe stata impossibile. In tutto quel turbinio, vedere la figura di Gesù che avanzava verso di loro era qualcosa di umanamente assurdo e per quegli uomini, nonostante avessero sperimentato personalmente le conseguenze del dono delle guarigioni, quindi di operare cose al di là dell’umano, quel Gesù che vedevano camminare verso di loro non poteva essere lui: perché? Perché non avevano ancora capito, nonostante gli insegnamenti ricevuti e i miracoli di cui erano stati testimoni, chi fosse veramente il loro Maestro. Marco ci dice che Nostro Signore, dopo l’episodio di Pietro, “Salì sulla barca con loro e il vento cessò. E dentro di sé erano fortemente meravigliati, perché non avevano compreso il fatto dei pani: il loro cuore era indurito”(6.51.52).

L’indurimento del cuore è qualcosa di molto triste perché in lui non penetra nulla, è refrattario a qualsiasi ricezione, a meno che non sia molto violenta ed ecco le ragioni di quella tempesta e dello spavento provocato dalla visione di Gesù. Se il cuore dei dodici non fosse stato così, avrebbero immediatamente collegato la visione del Maestro che veniva verso di loro a quanto dice il Salmo 77.20, “Egli cammina sui flutti del mare, da solo stende i cieli e cammina sulle onde del mare. Sul mare passa la tua via, e i tuoi sentieri sulle grandi acque”. Non fu così. Anzi, il nostro episodio, che svilupperemo ulteriormente nel prossimo capitolo, termina in un modo per noi triste, vale a dire la frase “Davvero tu sei il Figlio di Dio”, quasi che tutto quanto operato da Gesù fino ad allora non avesse dimostrato nulla, dallo Spirito Santo sceso in forma di colomba al Suo battesimo alla moltiplicazione dei pani e dei pesci. Se Nostro Signore fosse stato solo un uomo, certo avrebbero avuto da temere. Ma come Dio, non fece nulla di straordinario, dimostrando di avere potere su tutti gli elementi del creato, quindi anche dell’acqua. Ma questo i discepoli non lo avevano ancora compreso.

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