02.02 – UNA PAROLA PER OGNUNO (Giovanni 1.19-28)

02.02 – Una parola per ognuno (Giovanni 1.19-28)

19Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». 20Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». 21Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. 22Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». 23Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto:
Rendete diritta la via del Signore
, come disse il profeta Isaia». 24Quelli che erano stati inviati venivano dai farisei. 25Essi lo interrogarono e gli dissero: «Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?». 26Giovanni rispose loro: «Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, 27colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo». 28Questo avvenne in Betània, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando.

Dopo Marco che ci ha presentato un quadro generale, veniamo a Giovanni, discepolo di Giovanni Battista prima e di Nostro Signore poi, che per lui ebbe una predilezione particolare. Ho scelto come titolo di questa riflessione “Una parola per ognuno” perché, dopo l’appello generale al ravvedimento visto nel capitolo precedente, è Giovanni a porre i primi discorsi specifici ai suoi uditori. Il Battista aveva iniziato la sua predicazione e a lui accorrevano in molti da Gerusalemme e zone limitrofe, come già sappiamo. Lo storico Giuseppe Flavio ne dà testimonianza nelle sue Antichità Giudaiche (18.116-119) con parole che anticipano anche fatti che dobbiamo ancora esaminare: “…ma ad alcuni dei giudei parve che la rovina dell’esercito di Erode – in una battaglia per il possesso del distretto di Gabala – fosse una vendetta divina, e di certo una vendetta giusta per la maniera in cui si era comportato verso Giovanni soprannominato Battista. Erode infatti aveva ucciso quest’uomo buono che esortava i giudei ad una vita corretta, alla pratica della giustizia reciproca, alla pietà verso Dio, e così facendo si disponessero al battesimo; a suo modo di vedere questo rappresentava un preliminare necessario se il battesimo doveva essere gradito a Dio. Essi non dovevano servirsene per guadagnare il perdono di qualsiasi peccato commesso, ma come di una consacrazione del corpo insinuando che l’anima fosse già purificata da una condotta corretta. Quando gli altri si affollavano intorno a lui perché con i suoi sermoni erano giunti al più alto grado, Erode si allarmò. Una eloquenza che sugli uomini aveva effetti così grandi, poteva portare a qualche forma di sedizione, poiché pareva che volessero essere guidati da Giovanni in qualunque cosa facessero. Erode perciò decise che sarebbe stato meglio colpire in anticipo e liberarsi di lui prima che la sua attività portasse a una sollevazione, piuttosto che aspettare uno sconvolgimento e trovarsi in una situazione così difficile da pentirsene. A motivo dei sospetti di Erode, (Giovanni) fu portato in catene nel Macheronte, la fortezza che abbiamo menzionato precedentemente, e quivi fu messo a morte: Ma il verdetto dei giudei fu che la rovina dell’esercito di Erode fu una vendetta di Giovanni, nel senso che Dio giudicò bene infliggere un tal rovescio ad Erode”.

Marco dice di Erode che “temeva Giovanni sapendolo uomo giusto e santo, e vigilava su di lui; nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri” (6.20). Giovanni Battista, quindi, inizia a predicare dapprima a poche persone, poi la sua fama si sparge. L’indicazione del luogo è generica nei sinottici, ma “il discepolo che Gesù amava” precisa “In Betania, al di là del Giordano”: così come c’erano due Betlehem, quella di Giuda e quella di Efrata, c’erano due Betania, la prima molto vicina a Gerusalemme (3km), la seconda, quella appunto al di là del Giordano, una quarantina di km. Fu quando la sua persona ed opera furono note che iniziarono ad interessarsi a lui, forse ancora prima di Erode, le autorità religiose che, prima di andare da lui personalmente, gli inviarono dei sacerdoti e dei leviti, vale a dire coloro che fungevano da mediatori tra Dio e gli uomini con l’offerta dei sacrifici e la presentazione delle offerte nel tempio. I leviti poi avevano il compito di sorvegliare il tabernacolo e il tempio, ma anche di cantare, suonare e assistere le varie celebrazioni, a parte che molti di loro erano anche sacerdoti. In pratica, quelli che si presentarono a Giovanni Battista, erano inviati dal Sinedrio, che si attribuiva l’ufficio di custode della religione e dei buoni costumi: di fronte alla crescente popolarità di Giovanni, della sua predicazione e del suo battesimo, volle fare un’inchiesta sulla sua persona e su ciò che diceva di essere, al fine di accertarsi se egli non fosse il Messia atteso. Nella Misha è scritto che appartiene al consiglio dei 71 – il Sinedrio appunto – il giudicare i falsi profeti.

Questi si chiedevano chi fosse: “Tu, chi sei?” era una domanda apparentemente legittima, ma in realtà subdola perché sperava in una risposta tale da permettere ai loro mandanti di accusarlo di bestemmia e lapidarlo, come più volte cercarono di fare con Gesù. Alle loro domande successive risponde solo con un’identificazione con la “voce di uno che grida nel deserto”, affermando di non essere il Cristo, né Elia, né “il profeta”. Giovanni nega di essere Elia, ma ricorda il suo ufficio citando Isaia, mentre quel “il profeta”, di difficile spiegazione, riassume probabilmente l’insieme delle opinioni confuse che la gente aveva su di lui, le stesse che poi avevano di Gesù. Ricordiamo il dialogo tra lui e Pietro in Matteo 16.13-14: “Gesù, giunto nella regione di Cesarea di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti»”.

Giovanni era la voce di uno che gridava nel deserto, tanto avrebbe dovuto bastare a persone che dello studio dei libri avevano fatto una ragione di vita, con tutta una tradizione che potremmo chiamare di “scienza biblica” che, ricordiamo, aveva comunicato ad Erode che il Re dei giudei sarebbe nato a Betlehem.

Giovanni Battista, conoscendo lo spirito che animava gli inviati dal Sinedrio, i Farisei e Sadducei che più avanti arriveranno in quei luoghi di persona, si sentirono pronunciare parole di giudizio che riporta Matteo 7.12:

 

7Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? 8Fate dunque un frutto degno della conversione, 9e non crediate di poter dire dentro di voi: «Abbiamo Abramo per padre!». Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo. 10Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. 11Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. 12Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».

 

Prima di invitarli alla conversione, li chiama “razza di vipere” facendo riferimento alla Daboia Palaestinae, una specie molto velenosa che si trova tuttora in Siria, Giordania, Israele e Libano, letale a differenza di quella europea che lo è raramente, mordendo l’uomo solo in caso di effettivo pericolo. La vipera citata da Giovanni Battista, quindi, uccide sempre. Farisei e Sadducei presenti, che con le loro dottrine non facevano altro che allontanare gli uomini dalla fede riducendola a religione come altre, furono giudicati da Gesù con queste parole (Matteo 23.2-15; 23-33): «2Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. 3Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. 4Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. 5Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; 6si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, 7dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati «rabbì» dalla gente. 8Ma voi non fatevi chiamare «rabbì», perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. 9E non chiamate «padre» nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. 10E non fatevi chiamare «guide», perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. 11Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; 12chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato”.13Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti alla gente; di fatto non entrate voi, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrare. [ 14]15Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo prosèlito e, quando lo è divenuto, lo rendete degno della Geènna due volte più di voi.(…) 23Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima sulla menta, sull’anéto e sul cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della Legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste invece erano le cose da fare, senza tralasciare quelle. 24Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!25Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma all’interno sono pieni di avidità e d’intemperanza. 26Fariseo cieco, pulisci prima l’interno del bicchiere, perché anche l’esterno diventi pulito!27Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che assomigliate a sepolcri imbiancati: all’esterno appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume. 28Così anche voi: all’esterno apparite giusti davanti alla gente, ma dentro siete pieni di ipocrisia e di iniquità.29Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che costruite le tombe dei profeti e adornate i sepolcri dei giusti, 30e dite: «Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non saremmo stati loro complici nel versare il sangue dei profeti». 31Così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli di chi uccise i profeti. 32Ebbene, voi colmate la misura dei vostri padri. 33Serpenti, razza di vipere, come potrete sfuggire alla condanna della Geènna?”

Dal ritratto che Gesù fa di questi personaggi, comprendiamo il motivo del “razza di vipere” dato loro da Giovanni, che li vide assieme ai sadducei, altro gruppo che si distingueva dai farisei perché rigettava la tradizione basando la sua fede solo sulla Legge scritta di Mosè. Se i sadducei, che negavano l’immortalità dell’anima, la resurrezione del corpo, uno stato futuro di ricompensa o di pena e l’esistenza di un mondo spirituale guadagnavano al loro partito i più facoltosi tra il popolo, i farisei erano sostenuti e riveriti. Ebbene, a entrambi è detto “Chi vi ha fatto credere di sfuggire all’ira a venire?”: quegli uomini vengono invitati a non illudersi sul loro destino a meno che non venga mutato da una conversione. Paolo ai Romani (2.3-8) scrive “Pensi forse, o uomo che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto tu fai lo stesso, di sfuggire al giudizio di Dio? O ti prendi gioco della ricchezza della Sua bontà, della Sua tolleranza e della Sua pazienza senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente, accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le loro opere: la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore i incorruttibilità, sdegno e ira contro coloro che, per ribellione, resistono alla verità e obbediscono all’ingiustizia”.

Giovanni mette anche in evidenza il fatto che, di lì a poco, l’essere figli di Adamo non avrebbe più avuto alcun valore, essendo per chi lo ascoltava un vanto appartenere al popolo eletto. Il paragone con le pietre, elementi inanimati e inutili, non è escluso fosse un riferimento profetico ai pagani che, un giorno, avrebbero ricevuto il Vangelo. E qui viene spontanea la connessione con l’apostolo Giovanni quando, nell’inno di apertura su cui ci siamo soffermati all’inizio di queste meditazioni, scrive che i suoi non lo hanno ricevuto, “ma a tutti quanti l’hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio”. Le parole che seguono l’invettiva contro farisei e sadducei sono forti: già la scure è posta alla radice degli alberi e ogni albero che non avrebbe dato frutti sarebbe stato tagliato e gettato nel fuoco. Quegli uomini erano invitati a convertirsi e a fare frutti degni di essa, unico modo per non venire tagliati.

Vediamo allora che Dio non concede presunzione. Se la domanda a Giovanni era “Chi sei?”, la risposta in sintesi è “E voi, chi cercate?”. Allo stesso modo l’uomo deve chiedersi quanto in lui pesino le convinzioni che si porta con sé come bagaglio storico che influenzano le proprie scelte e il suo carattere: ti ribelli apertamente a Dio negandolo? Credi, hai un’esperienza, sai cosa sei, oppure vivi in una fede nella quale ti compiaci giudicando il prossimo e sentendoti privilegiato e superiore? Quando parli di fede, elenchi una serie di norme, riti e pratiche, oppure sei testimone di un intervento di Dio nella tua vita? Quello che farisei e sadducei dovevano sapere era che la scure era già pronta, è già pronta anche se non possiamo sapere quando si abbatterà. Di qui la necessità della conversione che, oggi, è data dallo Spirito Santo che convince l’uomo di essere un peccatore bisognoso del perdono di Dio. Chi lo rifiuta non è diverso dalle due categorie di persone che andarono a Giovanni Battista per interrogarlo: basati su una giustizia che si erano attribuiti, pronti a difendere le loro convinzioni senza però chiedersi nel profondo se queste poggiassero sulle basi di una coscienza serena e obiettiva, presuntuosi, in una parola ipocriti.

Giovanni Battista, però, offre un’altra immagine oltre a quella della scure: quella di chi sarebbe venuto dopo di lui, attinta dal mondo agricolo che il suo uditorio non poteva ignorare: “Egli ha in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel suo granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile”. Si tratta di una scena di futura realizzazione in cui il Gesù glorificato dal Padre separerà il grano dalla pula, cioè eliminerà i vari involucri della spiga, portati via dal vento perché leggeri, per riporre il grano, i salvati, nel suo granaio, figura del Suo Regno. Questo concetto verrà poi ampliato da Gesù con la parabola del grano e della zizzania in Matteo 13.24-30 (leggere). La “pula” non va confusa con la paglia, termine usato in alcune traduzione: la paglia i contadini la usavano e la usano tuttora e, con questo termine, il discorso di Giovanni in merito perde il suo significato.

Giovanni Battista fece questo discorso in pubblico e i presenti compresero molto bene che il discorso alla “razza di vipere” era rivolto a delle persone precise, ma le similitudini della scure posta alla radice degli alberi, che spesso la Scrittura paragona agli uomini, e della separazione della pula dal grano li fecero sentire coinvolti: per questo Luca ci parla di alcune domande che gli rivolsero altre persone in 3.10-14.

 

10Le folle lo interrogavano: «Che cosa dobbiamo fare?». 11Rispondeva: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha, e chi ha da magiare faccia altrettanto». 12Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare, e gli dissero «Maestro, che cosa dobbiamo fare?» 13ed egli disse loro «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». 14Lo interrogavano anche alcuni soldati: «e noi, che dobbiamo fare?». Rispose: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, contentatevi delle vostre paghe».

 

Il Battista, grazie alle domande che i presenti gli posero, poté entrare nello specifico e per ognuno ebbe un messaggio, dando non dei precetti, ma indicando delle azioni che consistevano nella rinuncia di sé: l’atteggiamento egoista doveva finire inquadrando la loro vita verso il trattamento del superfluo a motivo della povertà esistente fra il popolo; possiedi due tuniche? Pensasse a chi non ha la possibilità di comprarsene una tunica. Lavori come esattore? Non vessare il contribuente, non aumentargli i tributi per arricchirti. Sei un militare? Fai il tuo lavoro, ma non darti al saccheggio, alle estorsioni e non fare violenza su civili inermi.

Questa è la fine del discorso di Giovanni sul comportamento che una persona in attesa del Cristo doveva avere. Era un messaggio che andava contro corrente anche allora: contro corrente perché il fine della carne è quello dello “star bene” che non è chiaro in cosa consista, che non si raggiunge mai e che spesso è fonte di preoccupazione per mantenerlo. L’uomo, la carne, non accetta la precarietà e tende a considerare gli eventuali risultati ottenuti col guadagno un gradino di una scala di cui non riesce a vedere la fine. La carne non si sazia solo col denaro, ma se abbandonata a se stessa diventa dominante e coinvolge tutti gli aspetti della persona, costruisce un sistema in cui l’individuo finisce per considerarsi al centro di esso: solo lui è importante, gli altri sono solo dei satelliti che gli ruotano attorno.

E la rinuncia a considerare se stessi un centro non poteva venire da un atteggiamento morale, ma dall’accettazione del messaggio: il regno dei cieli è vicino, “dopo di me viene uno al quale non sono degno di portare i sandali”, frase diversa rispetto a quella letta in Giovanni e Marco, che ci dà un secondo significato perché era lo schiavo che, quando il padrone tornava a casa, gli scioglieva e portava quelle calzature là dove gli veniva ordinato di deporle. In quel modo Giovanni pone un ulteriore distinguo tra il suo ruolo e quello del messia, perché leggiamo che “tutti, riguardo a Giovanni, si chiedevano in cuor loro se non fosse il Cristo” (Luca 3.15).

Sempre Luca ci informa che il Battista non parlò solo di questi argomenti, ma che “Con molte altre esortazioni evangelizzava il popolo” (3.18). Quali, non sappiamo. I quattro Evangelisti ci hanno trasmesse le parole che abbiamo affrontato, per quanto brevemente.

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02.01 – INTRODUZIONE A GIOVANNI BATTISTA (Marco 1.1-8)

Introduzione a Giovanni Battista (Marco 1.1-8)

Della persona e opera di Giovanni Battista parlano tutti e quattro gli Evangelisti che, in base base al loro carattere e agli scopi che si prefiggono, forniscono un quadro esauriente del profeta che segna lo spartiacque tra l’Antico e il Nuovo Testamento. Gesù infatti disse, in Matteo 11.13, “…tutti i profeti e la legge hanno profetizzato fino a Giovanni, e se lo volete accettare, egli è l’Elia che doveva venire”. Si trattava di quell’Elia che gli israeliti attendevano quale profeta che avrebbe preceduto il Messia secondo Malachia 4.5: “Ecco, io vi mando Elia il profeta prima che venga il giorno dell’Eterno, giorno grande e spaventevole”; si tratta di un verso che riassume quel periodo iniziato con la venuta del Cristo e terminerà con il giudizio di Dio sul mondo. I riferimenti a Giovanni Battista, che secondo l’annuncio angelico avrebbe camminato “davanti a lui con lo spirito e la potenza di Elia” sono tanti; il significato del suo messaggio è semplice, ma al tempo stesso ha molte sfaccettature, difficili da affrontare esaurientemente anche in più incontri. Per presentarlo, è possibile iniziare dal racconto di Marco 1.1-8.

1 Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio. 2Come sta scritto nel profeta Isaia:Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. 3Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri.4Vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. 5Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. 6Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. 7E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. 8Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».

Marco è una persona che ebbe un’esperienza particolare: come Luca, non faceva parte dei 12 apostoli anche se, rispetto a lui, abbiamo più dati biografici. Non sappiamo se conobbe Gesù direttamente quando predicava, ma sicuramente era presente nell’orto degli ulivi quando fu arrestato ed è opinione consolidata che lui stesso si citi in un episodio che gli altri evangelisti omettono quando, 14.50-51, scrive “Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono. Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo”. Secondo l’uso degli ebrei che erano in contatto con romani e greci, è quel “Giovanni detto Marco” che Barnaba voleva prendere con sé prima di partire con Paolo verso la Macedonia (Atti 15.37). Sua madre Maria ospitava la Chiesa di Gerusalemme che aveva in Pietro uno degli uomini più autorevoli (leggere Atti 12.1-18).

Marco aveva già allora un rapporto molto diretto con Pietro, che lo definisce “figlio mio”, a tal punto da seguirlo a Roma, indicata dall’apostolo come “Babilonia” nella sua prima lettera in 5.13: “Vi saluta la comunità che vive in Babilonia e anche Marco, figlio mio”. Pietro, quindi, stante il rapporto con questo giovane, gli raccontò gli episodi di cui fu testimone spiegandogli i loro significati dottrinali, mettendolo in condizione di scrivere un Vangelo molto spontaneo e colorito che è il più breve dei quattro. San Girolamo, vissuto nella seconda metà del 300, padre e dottore della Chiesa che tradusse per primo la Bibbia in latino, scrive in proposito “Evangelium, Petro narrante et illo scribente, compositum est”.

Papia, vissuto tra il 70 e il 130, così scrive di Marco: “Marco, divenuto interprete di Pietro, scrisse accuratamente, ma non in ordine, tutto ciò che ricordava delle cose dette o fatte dal Signore. Non era lui, infatti, che Marco aveva visto o seguito, ma come ho già detto fu Pietro. E quest’ultimo impartiva i suoi insegnamenti secondo le necessità del momento, senza dare una raccolta ordinata dei detti del Signore, di modo che non fu Marco a sbagliare scrivendone alcuni così come li ricordava. Di una sola cosa infatti si dava pensiero nei suoi scritti: non tralasciare niente di ciò che aveva udito e non dire niente di falso”.

Marco scrive per far conoscere il Vangelo ai pagani: pochi i riferimenti profetici, poche le parabole e i discorsi, ma fatti circostanziati spesso non in ordine cronologico, con ritratti e particolari vivaci dei personaggi e degli avvenimenti in modo tale che possano essere ricordati facilmente. Marco è anche quello che più di tutti usa il termine “subito” o “prontamente” per descrivere le reazioni della gente che ebbe a che fare con Gesù. L’essenzialità dei suoi racconti, allora, appare adatta per presentare anche Giovanni Battista, introdotta con un verso che è sia di Malachia (3.1) che di Isaia (40.8).

“Ecco, dinnanzi a te mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via” è un verso che si richiama all’uso orientale di inviare dei messaggeri: quando una persona importante stava per mettersi in viaggio, li inviava ad avvisare i villaggi del suo passaggio per provvedere agli approvvigionamenti della scorta e per allestire la tenda per la sosta. La seconda parte, di Isaia, indica il luogo in cui la voce si sarebbe fatta sentire: il deserto, luogo in cui ci vuole un motivo per recarvisi e ancor più per viverci, come aveva fatto Giovanni Battista. “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”, è invece più particolare: lo abbiamo già incontrato tempo fa e allora lo avevamo messo in connessione col cammino del popolo che, di ritorno dall’esilio, aveva bisogno di chi spianasse la strada per rientrare nella propria terra, ma qui, per le parole di Giovanni che esamineremo, ha riferimento a un percorso interiore che ciascun uditore era chiamato a fare per ricevere Colui che stava per arrivare.

Quando si muoveva una personalità eminente, l’arrivo del messaggero in un villaggio provocava sempre scompiglio, turbava la sua quiete fatta di tutta una serie di eventi abituali: occorreva allora fare dei preparativi, cercare materiali, allestire cose. Allo stesso modo “Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati”, provocava inevitabilmente una profonda riflessione e sconvolgimento in coloro che lo ascoltavano e sceglievano volontariamente di farsi battezzare: confessavano i loro peccati non privatamente, ma pubblicamente.

Prima di esaminare il battesimo praticato da Giovanni, bisogna analizzare alcuni elementi suoi caratteristici. Sul vestito avevamo già accennato in precedenza; in particolare va rilevato che Elia vestiva allo stesso modo: “…domandò loro: «Qual era l’aspetto dell’uomo che è salito incontro a voi e vi ha detto simili parole?» Risposero: «Era un uomo ricoperto di peli; una cintura di cuoio gli cingeva i fianchi». Egli disse «Quello è Elia, il Tisbita»” (2 Re 1.7,8).

Ricordiamo che Elia non morì come tutti gli altri uomini, ma scomparve dalla vista del profeta Eliseo nel corso di un avvenimento che troviamo in 2 Re 2.11: “Mentre continuavano a camminare conversando, ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco si interposero tra loro due. Elia salì nel turbine verso il cielo” (2.11). Basandosi sulla profezia di Malachia era così opinione diffusa che quel profeta, assunto in cielo, sarebbe ritornato poco prima di quel giorno “grande e spaventevole” profetizzato. In realtà, quel giorno deve ancora venire e i suoi tempi sono descritti nel libro dell’Apocalisse 11.1-13. Ecco perché Giovanni, a quanti lo interrogavano chiedendogli se fosse Elia, rispose negativamente.

Giovanni vestiva in un modo che lo qualificava quanto ad abbigliamento, ma questo non dava teoricamente alcuna garanzia che fosse un profeta, poiché prima di lui erano giunti diversi personaggi che avevano preteso di essere Elia, se non addirittura il Messia. Testimonianza di ciò la dà lo stesso Gamaliele, maestro di Paolo, quando prese la parola davanti al Sinedrio di Gerusalemme che voleva processare gli apostoli:Tempo fa sorse Tèuda, infatti, che pretendeva di essere qualcuno, e a lui si aggregarono circa quattrocento uomini. Ma fu ucciso, e quelli che si erano lasciati persuadere da lui furono dissolti e finirono nel nulla. Dopo di lui sorse Giuda il Galileo, al tempo del censimento, e indusse molta gente a seguirlo, ma anche lui finì male, e quelli che si erano lasciati persuadere da lui si dispersero. Ora perciò io vi dico: non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se infatti questo piano o quest’opera fosse di origine umana, verrebbe distrutta; ma, se viene da Dio, non riuscirete a distruggerli. Non vi accada di trovarvi addirittura a combattere contro Dio!” (Atti 5.36,39).

Gamaliele in quell’occasione riassunse personaggi noti perché già falsi predicatori messianici erano sorti, sfruttando le attese del popolo per ottenerne vantaggi personali o fomentare ribellioni di cui a pagare non fossero loro, ma quelli che li seguivano. I predicatori messianici parlavano partendo dal presupposto che gli ebrei erano il primo popolo della terra, che avrebbero ottenuto la vittoria contro i romani e, raccolta gente attorno a loro, saccheggiavano quando potevano depositi di armi, si proclamavano re, si davano ai saccheggi, pretendevano di aver fatto miracoli o li promettevano, cercavano in tutti i modi di fare proseliti e tutto, presto o tardi, veniva represso nel sangue o si estingueva quando i loro seguaci capivano di trovarsi di fronte a battaglie perse in partenza.

C’è però un dato da considerare: nonostante tutti quei precedenti Elia era aspettato da tempo in Israele e, quando Giovanni iniziò a predicare, il popolo non rimase indifferente alla notizia, ma accorreva per vedere e sentire da vicino le sue parole, sperando che non fosse uno dei tanti impostori che lo avevano preceduto. Giovanni era cresciuto nel deserto rinunciando alla vita sociale, a un lavoro e quindi alla possibilità di mangiare in modo umanamente decente anziché le locuste e il miele selvatico che riusciva a recuperare, quello che le api producevano nelle cavità degli alberi o delle rocce. Era il suo uno stile di vita che manifestava l’intenzione di vivere alla completa dipendenza da Dio senza preoccuparsi di ciò che avrebbe portato il domani avendo la certezza che Lui avrebbe provveduto; atteggiamento ben diverso da quello del popolo ebraico antico che, liberato dalla schiavitù dell’Egitto, proprio nel deserto mormorava continuamente perché non riusciva a capire come avrebbe potuto trovare acqua e cibo, per non parlare di tutte le volte in cui rimpianse la vita che conduceva in quel Paese.

Giovanni inizia a predicare. Cosa? Vi è un annuncio base visto nelle parole “Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Matteo 3.2) e leggiamo da Matteo “Allora Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui e si facevano battezzare nel fiume Giordano, confessando i loro peccati” (3.5). L’imperativo è “metanoièite”, cioè un invito a considerare non solo il proprio stile di vita, ma il pensiero e i sentimenti presenti nella persona di ciascuno per cambiarli. Tra i significati possiamo includere anche il “cambiare modo di pensare”. Il corrispettivo ebraico allude anche al ritornare indietro da una falsa strada per rimettersi su quella buona. La necessità del ravvedimento predicata dal Battista trovava il suo perché nella vicinanza del “regno dei cieli”, termine che usa solo Matteo (gli altri scrivono “regno di Dio”). “Regno” sta ad indicare un territorio, un insieme di cittadini che vivono tutti sotto una precisa autorità.

Giovanni Battista quindi, rinunciando a qualsiasi egocentrismo nel quale si erano crogiolati i suoi predecessori che agivano spinti dai loro interessi, predica la necessità del ravvedimento non come atteggiamento religioso, ma come esame profondo della propria vita e delle proprie opere per essere pronti, quando sarebbe venuto, ad accogliere quel “Re dei giudei che è nato” che i magi d’oriente erano venuti ad adorare. Chi fra quelli che andavano a lui erano disposti ad operare questo severo inventario della loro vita, lo facevano e “si facevano battezzare da lui nel Giordano, confessando i loro peccati” (Marco 1.5), cioè: la fede nelle parole di Giovanni, la certezza acquisita che il regno dei cieli fosse prossimo, li spingevano a dichiarare il proprio stato di peccatori attraverso una confessione pubblica e questo significava spesso rinunciare a quell’alone di rispettabilità che molti avevano costruito attorno a sé per essere considerati dal loro prossimo. I rispettabili tra il popolo, vale a dire scribi, farisei, sadducei e dottori della Legge, salvo eccezioni che non possiamo escludere, non andavano da lui, ma inviavano delle loro spie nei luoghi in cui predicava.

Alla confessione seguiva il battesimo, l’immersione nelle acque che stava a significare la purificazione del cuore, dichiarava la volontà di cambiare, di acquisire la cittadinanza di quel regno di Dio che stava per arrivare ed era così distante da quello degli uomini peccatori che appartenevano ad un regno diverso, un regno che non fa altro che opprimere e umiliare la persona da un lato e glorificare il monarca, un uomo peccatore al pari dei suoi sudditi.

“Regno dei cieli”, “Regno di Dio” in opposizione soprattutto a quello di Satana, che nel mondo domina e ha tutto l’interesse a che l’uomo si perda, illuso da quella realtà tangibile ai suoi sensi e che gli fa credere di essere immortale o comunque possessore di qualcosa. L’uomo illuso da Satana si rifugia in se stesso, nei suoi averi, nella sua “fede”, nel suo quotidiano convinto di poter disporre liberamente del proprio tempo escludendo la presenza di Dio nella sua vita né più né meno di quel ricco della parabola che Gesù espose in Luca 12.13-21.

In questa parabola, al di là di tutte le riflessioni sull’io di quell’uomo, colpisce il fatto che Dio pone chi si ritiene padrone di sé e delle sue cose di fronte a un termine: “Questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita”, il cui testo letterale dice “richiedono da te la tua anima”, temine che sta ad indicare tutto il suo essere, le sue intenzioni, i suoi progetti perché siano pesati, misurati, vagliati. Chi spiegherà molto bene con figure questo principio sarà più avanti l’apostolo Paolo in 1 Corinti 3.11-15: “Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: infatti quel giorno la farà conoscere, perché con il fuoco si manifesterà, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera, che uno costruì sul fondamento, resisterà, costui ne riceverà una ricompensa. Ma se l’opera di qualcuno finirà bruciata, quello sarà punito; tuttavia egli si salverà, però quasi passando attraverso il fuoco”. Viviamo in un periodo storico in cui, purtroppo, il cristianesimo predica un Dio amorevole, ma spesso omette di dire le Sue esigenze.

Altra parabola importante è quella della casa costruita sulla roccia (Matteo 7.24-29): tanto in questa che nella precedente è utilizzato il termine “stolto”, che indica chi ha poca intelligenza e si comporta in modo insensato.

Giovanni, con la sua predicazione, preparava il terreno con lo scopo di mettere in grado quanti lo ascoltavano di recepire il messaggio che sarebbe stato rivolto a loro da Gesù e di riconoscerlo.

Per ora abbiamo visto solo il senso generale del significato di quel “ravvedetevi”, che Marco ci ha riportato quale base di tutto un messaggio più profondo, rivolto a diverse categorie di persone, che esamineremo nel prossimo capitolo.

“Ravvedetevi perché il Regno dei cieli è vicino” va bene, ma c’è anche l’annuncio dell’imminente arrivo di una persona ben precisa:“Viene dopo di me Colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma Egli vi battezzerà con lo Spirito Santo” (v.8). È un verso che si divide in due periodi ben distinti e il primo riguarda il sciogliere e lacci dei sandali: si tratta di un’usanza molto antica che veniva praticata in pubblico quando una persona rinunciava a un proprio diritto per darlo ad un altro. È probabile che Giovanni si riferisse all’opera di Gesù, che consegnò con il suo sacrificio un popolo nuovo al Padre. Con questa espressione Giovanni spiega ai presenti che non era lui il Messia atteso, ma solo un suo messaggero, quello che l’autorità inviava nei paesi per avvisare del suo transito. Addirittura Giovanni, con l’immagine del sciogliere i lacci dei sandali, arriva quasi ad estraniarsi, annullarsi di fronte alla santità di chi sarebbe venuto dopo di lui, evidenziando la differenza dei ruoli: “Io vi ho battezzato con acqua, ma Egli vi battezzerà con lo Spirito Santo”, parole che si compirono nel giorno della Pentecoste quando lo Spirito Santo scenderà sui membri della primitiva Chiesa di Gerusalemme in Atti 2.1-13.

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