07.17 – CINQUE CANTICI I/V (Marco 4.41 – Isaia 42.1-4)

7.17 – Cinque cantici I/V (Marco 4.41 – Isaia 42.1-4)

41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?»”.

Abbiamo citato nel capitolo precedente alcuni episodi dell’Antico Patto in cui l’Iddio vivente intervenne di persona in giudizio o per soccorrere e guarire, considerando che la domanda “Chi è costui…” dei discepoli, in realtà, non aveva senso. Poiché non esiste un solo verso della Scrittura che non abbia qualcosa da dire all’uomo indipendentemente del tempo in cui vive, credo a questo punto sia giusto esaminare la persona di Gesù sotto l’aspetto profetico in particolare basandoci sui quattro (o cinque a seconda delle interpretazioni) cantici sul “Servo del Signore” di Isaia il cui compito era fornire degli indizi importanti affinché quelli che lo attendevano potessero riconoscerlo quando fosse venuto in terra.

Riguardo al numero dei cantici se ne considerano quattro se si prende il testo del profeta come libro, rotolo originario in cui non c’era una suddivisione in capitoli. Accademicamente parlando, questo è il loro numero. Considerando però Isaia in quanto testo diviso in capitoli come pervenuto a noi oggi (Stephen Langton, 1214 circa), essendo il quarto spezzato, per pura comodità strutturale se ne possono contare cinque. Entrambi sono numeri importanti: alla stabilità perfetta del numero quattro, si affianca il cinque, che in questo caso rappresenta una sottolineatura del precedente che reca in sé il concetto di chiusura, fine, elemento ciò a cui nulla può essere aggiunto. Non a caso, in un precedente studio, è stato associato al cinque il numero delle pareti di una casa più il tetto.

 

PRIMO CANTICO (Isaia 42.1,4) 

“Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto in cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni. Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta: proclamerà il diritto con verità. Non verrà meno e non si abbatterà, finché non avrà stabilito il diritto sulla terra, e le isole attendono il suo insegnamento”.

Molti sostengono che il “servo” sia Israele anche perché, nel capitolo 41, di lui si parla utilizzando lo stesso termine: “Ma tu, Israele, mio servo, tu Giacobbe, che ho scelto, discendente di Abramo mio amico, sei tu che io ho preso dall’estremità della terra e ho chiamato dalle regioni più lontane e ti ho detto: «Mio servo tu sei, ti ho scelto, non ti ho rigettato!». Non temere, perché io sono con te; non smarrirti, perché io sono il tuo Dio. Ti rendo forte e ti vengo in aiuto e ti sostengo con la destra della mia giustizia”. Si tratta di un passo molto bello che però non ritrae il servo come uomo, l’eletto di Dio  unico che, nel primo cantico, appare come persona che comparirà in un momento preciso come conseguenza dell’aver scelto Giacobbe e dell’amicizia con Abramo.

Sinceramente, ogni volta che leggo o penso alle parole “Abrahamo mio amico” resto stupito e commosso nel contemplare il Dio Onnipotente chiamare così un uomo, una creatura talmente imperfetta di fronte a Lui. Eppure gli parlava, eppure nel caso della distruzione di Sodoma assistiamo a un dialogo di esseri tra i quali intercorreva una rispettosa confidenza; addirittura leggiamo le parole di JHWH che, prima di agire in giudizio, dice “Dovrò forse nascondere ad Abrahamo quanto sto per fare?” (Genesi 18.17). E così, di fronte a questo scritto, la memoria va a Gesù e all’estensione enorme che diede ai suoi e che a volte dimentico: “Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici perché tutto ciò che io ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (Giovanni 15.14,15).

Veniamo al Cantico: lo abbiamo già trattato nel capitolo 3.12 intitolato “Il servo che ho scelto”, ma cercheremo di ampliarlo, affrontarlo in modo differente. Colpisce l’inizio, “Ecco”, che si utilizza quasi unicamente per indicare un momento preciso in cui cambiano le cose oppure per confermare una realtà oggettiva dopo un’attenta verifica: ricordiamo ad esempio quando, alla fine del sesto giorno della creazione, leggiamo “Dio vide quanto aveva fatto ed ecco, era cosa molto buona” (Genesi 1.31) oppure, in negativo, la constatazione prima del giudizio tramite il diluvio: “Iddio guardò la terra ed ecco, essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra” (6.12). Molto usato in tutta la bibbia, a questo avverbio le concordanze dedicano circa cinque pagine molto fitte, tra le quali spiccano molti riferimenti non solo alla venuta del Cristo, ma anche a momenti particolari come al Suo ingresso in Gerusalemme, “Ecco, viene il tuo re”, alla “Vergine che concepirà e darà alla luce un figlio” e tanti altri.

L’ “Ecco” con cui si apre il primo cantico allude allora a un momento in cui il piano di Dio si raccorda alla storia umana e lo possiamo individuare tanto con la nascita di Gesù rivelata ai pastori, “Ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo” (Luca 2.10), quanto con l’inizio del Suo Ministero pubblico di cui Luca scrive “Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento»” (3.21,22).

Proseguendo nel cantico, il “servo” sarebbe stato sostenuto e l’ “eletto” avrebbe ricevuto il compiacimento del Padre. Ai due termini, “servo” ed “eletto”, viene anteposto il possessivo “mio”, quindi sta a qualificare un’appartenenza precisa, esclusiva, perché proprio quel popolo che avrebbe dovuto rappresentarlo sulla terra di fronte agli altri, testimoniando di Lui con una condotta santa, fallì preferendo portare la quotidianità al centro della propria vita come leggiamo dalle parole “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me” (Isaia 29.13). Certo, la stessa cosa la fanno molti nella Chiesa là dove il Nome di Cristo non è predicato correttamente e vengono a mancare uomini in grado di guidare, insegnare, ricordare che quella Parola “viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio” è la sola che può condurre alla vita eterna.

Così scrisse San Gregorio nel 300 circa: “Cos’è la Scrittura se non la lettera di Dio onnipotente alla Sua creatura? Cerca dunque di meditare ogni giorno la Parola del tuo Creatore. Impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio. Così tu bramerai le realtà celesti con maggior desiderio e il tuo animo sarà preso con più ardore dalle gioie invisibili. Che lo Spirito riempia della Sua presenza la tua anima e riempiendola la renda più libera”. Parole importanti che rivelano, come molti passi, che non avendo la Chiesa nessun potere di salvare, ma solo quello di portare il Vangelo, se al suo interno lascia agire degli usurpatori, non solo fallisce nel proprio mandato, ma può scandalizzare e portare gli altri all’ateismo e all’abbandono. Non è un fatto nuovo, ma una realtà che si verificava già ai tempi antichi: “Per causa vostra, il nome di Dio è bestemmiato fra le genti” (Romani 2.24). Anche Tito 2.6-8 mette in risalto il fatto che la condotta fuori luogo di quanti si definiscono cristiani, causa lo screditamento del Vangelo: “Esorta ancora i più giovani ad essere prudenti– qualità che a loro manca quasi per natura – offrendo te stesso come esempio in opere buone: integrità nella dottrina, dignità, linguaggio sano e irreprensibile, perché il nostro avversario resti svergognato, non avendo da dire nulla di male contro di noi”.

Se la Chiesa non guarda a Cristo, di cui è detto nel passo in esame “Ho posto il mio Spirito su di lui”, fallirà inesorabilmente sostituendo alla carità e all’amore il potere, la tradizione, il rito, il denaro senza alcuna possibilità di poter riconoscere la presenza di Gesù nei suoi membri.

Altra caratteristica del “servo” e dell’ “eletto” è la discrezione con la quale opererà nel corso del Suo ministero terreno: la frase “Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce” lo distacca immediatamente dalla metodologia dell’arrogante, vuoto e presuntuoso che, allora come oggi, cerca di farsi seguire dal prossimo ricorrendo alla cosiddetta arte oratoria, alla retorica, al convincere gli altri quasi fosse un venditore, tutte attività praticate dai Farisei. La mente umana cerca spesso l’effetto, le grandi manifestazioni, è convinta che la potenza di Dio debba sempre essere accompagnata, in quanto tale, da qualcosa di stupefacente. Ricordiamo che il profeta Elia non usò lo stesso metro valutativo quando, in 1 Re, leggiamo “Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna” (19.11-13).

Nel non spezzare “la canna incrinata né la fiamma smorta”, che nel linguaggio simbolico allude alla misericordia, vediamo l’opera di soccorso del Figlio sull’uomo perché, invece di infierire su elementi deboli, al contrario li raddrizza, cura e ravviva. Perché non sono i sani ad avere bisogno del medico. Il “servo” avrebbe allora compiuto la sua missione con modestia e pacatezza, non sferzando il popolo per indurlo a conformarsi a nuove regole, ma trasformando interiormente chi si lascia trasformare. Perché si possono insegnare tante cose, ma non l’amore.

Proclamerà il diritto con verità”, compito riservato ai re, ai sacerdoti e magistrati se inteso da un punto di vista giuridico, ma se interpretiamo “diritto” come dottrina (Torah), allora si tratta di compito riservato ai profeti per cui l’ “eletto” assolverà a queste quattro funzioni. Egli “non verrà meno e non si abbatterà, finché…” cioè esiste un’opera incessante da parte sua, quel non aver “dove posare il capo” per tutto il periodo del ministero terreno. L’opera del Servo vediamo avrà un termine che verrà espresso nelle parole “Tutto è compiuto” con cui Gesù si riferisce tanto al fatto che non aveva trascurato nulla nella Sua opera che si concludeva alla croce, quando al futuro, alle conseguenze che la Sua morte avrebbe portato: Agnello di Dio innocente che toglie il peccato del mondo, ma anche apertura della porta in cielo per quanti avrebbero voluto varcarla credendo in Lui.

Si può quindi citare Colossesi 2.9-14: “È in lui che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi partecipate della pienezza di lui, che è il capo di ogni Principato e di ogni Potenza.  (…) Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce”. Eppure gli ebrei, per i quali fondamentalmente il Servo è venuto, ne rifiutano il sacrificio in quanto la Bibbia non ammette il sacrificio umano, confondendo il Gesù uomo con l’Agnello di Dio.

Quindi, tornando a noi: chi crede, ha fatto proprio il Vangelo credendo in Gesù Cristo, è partecipe della Sua pienezza. Con la Sua risurrezione ha dato vita anche a noi, morti per le colpe e la nostra non appartenenza al popolo eletto. “Il documento scritto contro di noi” è la Legge nel suo complesso, annullata quanto a potere di condannare l’uomo privandolo della possibilità di essere vivificato da Dio: “Anche voi eravate morti per le vostre colpe e i vostri peccati, nei quali un tempo viveste alla maniera di questo monto, seguendo il principe delle potenze dell’aria, quello spirito che opera negli uomini ribelli.(…) Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo. Per grazia infatti siete stati salvati” (Efesi 2.1.2; 4,5). Ebbene questo documento scritto è stato “tolto di mezzo, inchiodandolo sulla croce” cioè:  Gesù è stato tolto dalla croce per essere deposto nel sepolcro ed è risuscitato dopo tre giorni, ma la Legge è ancora là, su quel legno, senza più alcun potere. I dieci comandamenti certo restano l’eterna misura del bene e del male, ma non sono più causa di morte come un tempo; se mai di responsabilità perché dal loro rispetto dipenderà la posizione che avremo nel Regno, le “molte” o “poche battiture”, la comunione con Lui nel cammino terreno, l’essere salvati “come attraverso il fuoco” oppure no.

Ecco, anche questo fa parte di quell’ “insegnamento” che le “isole” aspettano: il Vangelo, potenza di Dio per chiunque crede. Amen.

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