4.04 – APOSTOLI 4 (Luca 6.12-16)

4.4 – Apostoli IV (Luca 6.12-16)

 

 12In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. 13Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: 14Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, 15Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; 16Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore.”

BARTOLOMEO 

           Sappiamo che Natanaele e Bartolomeosono la stessa persona e che a lui si Filippo, non appena lo incontrò, gli parlò di Gesù che lo aveva da poco chiamato a seguirlo. Filippo, in questo modo, dette prova di essere una persona selettiva perché non parlò di Gesù a chiunque incontrava per la strada, ma si mise alla ricerca dell’amico col quale probabilmente aveva condiviso i discorsi su Colui che Giovanni Battista annunciava dicendo di non essere degno neppure di sciogliergli il laccio dei sandali. Se Filippo “era di Betsaida, città di Andrea e Pietro” (Giovanni 1.44), sapeva anche dello Spirito Santo sceso su di lui in forma di colomba, evento che agli attenti ebrei che aspettavano “la consolazione di Israele” non poteva sfuggire.

L’amicizia tra Filippo e Natanaele si basava allora, al di là di quella umana, proprio sul profondo interesse sull’arrivo del nuovo inviato di Dio per il quale abbiamo visto che lui pregava sotto il fico. Questo apostolo è una bella figura di uomo in attesa della rivelazione, della manifestazione del Signore aperta, nonostante la titubanza iniziale espressa con quel “può esserci qualcosa di buono da Nazareth?”; alla possibilità: all’affermazione “Noi abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, il figlio di Giuseppe, da Nazareth”, risponde con un’obiezione cui non fa comunque seguito un’esclusione categorica. E infatti, seguì Filippo che lo condusse da Gesù che lo definì “Un israelita in cui non c’è falsità”, o come traduce Diodati “in cui non vi è frode alcuna”.

Natanaele, allora, era una persona onesta dal punto di vista morale e spirituale, simile a quel Simeone di cui parla Luca definendolo “Uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione di Israele”: al primo, Simeone, ormai vecchio, fu concesso di vedere Gesù nato da poco, al secondo, il cui nome significa “Dono di Dio”, di condividerne il ministero pubblico.

Tornando al loro primo incontro, vediamo che Nostro Signore gli si rivela come colui che già lo conosceva, perché prima lo definisce come uomo in cui non vi era falsità e poi di averlo visto sotto l’albero al quale si recava per pregare, dichiarazioni che compendiano sia la conoscenza dell’uomo, ma soprattutto la sua presenza spirituale: “Prima che Filippo ti chiamasse, ti ho visto quando eri sotto il fico”. Natanaele capì immediatamente il messaggio: Gesù non lo aveva visto perché passava di là, nei pressi dell’albero, ma perché era testimone della sua preghiera che non riguardava argomenti quotidiani personali, ma la venuta del Messia con particolare riguardo all’annuncio del Battista di cui pregava perché potesse averne parte.

Sappiamo che, alle parole su di lui, rispose “Rabbi, tu sei il Figlio di Dio, il Re di Israele”, una dichiarazione di fede completa, non senza la gioia per le sue preghiere esaudite che fece sgorgare spontanea una testimonianza che addirittura precede quella di Pietro: Natanaele chiama Gesù Rabbi, cioè “Mio maestro” più che “Maestro” in genere, poi “Figlio di Dio” riconoscendogli un’origine non terrena, e infine “Re d’Israele”, confermando di credere pienamente nella Sua funzione messianica. Soprattutto, poi, è quel “Figlio di Dio” posto fra gli altri due titoli a rivelare che Natanaele riconoscesse a Gesù quanto scritto in Salmo 2.7-9: “Voglio annunciare il decreto del Signore. Egli mi ha detto «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato. Chiedimi e ti darò in eredità le genti e in tuo dominio le terre più lontane. Le spezzerai con scettro di ferro, come vaso di argilla le frantumerai”.

Soffermandoci molto brevemente su questa profezia, che ha per tema il sostentamento del Signore al Suo Consacrato, quell’ “oggi” si riferisce al momento in cui il Figlio sarebbe stato dichiarato agli uomini, cui segue la promessa dell’eredità sulle “genti e le terre più lontane”, cioè le popolazioni pagane che avrebbero creduto in Lui profetizzate da Noè stesso con le parole “Iddio allarghi Iafet, e dimori nelle tende di Sem” (Genesi 9.27). E la violenza che traspare dallo spezzare e frantumare è riferita non al destino finale di quelle genti e territori, ma di quella parte di umanità che muoverà guerra, in tempi che devono ancora venire, a tutto ciò che esulerà dalla religione dell’impero mondiale destinato a realizzarsi e di cui intravediamo oggi comunque il corpo.

Natanaele, chiamando Gesù in quel modo, si sentì certamente liberato, ascoltato, esaudito e stette sempre vicino a Gesù anche se di lui non sappiamo altro, se non che era di Cana di Galilea e fu testimone del miracolo dell’acqua mutata in vino. Era presente con tutti gli altri discepoli nella casa di Gerusalemme in cui si riuniva la Chiesa ed alcuni hanno ipotizzato che fosse uno scriba o comunque una persona versata nelle scritture: ciò coinciderebbe col fatto del fico, pianta sotto la quale gli scribi amavano studiare, con i tre attributi coi quali qualifica Gesù e con la stessa domanda su Nazareth perché gli scribi sapevano benissimo, come abbiamo visto nell’episodio in cui Erode si informa da loro su dove sarebbe nato il Messia, che era Bethlehem e non Nazareth il luogo in cui questi sarebbe nato.

 

LEVI MATTEO

Abbiamo sviluppato recentemente il carattere e la personalità di quest’apostolo nell’affrontare la sua chiamata, avvenuta mentre esercitava la sua professione. Era una persona colta, metodica e conoscitore delle scritture come ha testimoniato scrivendo il suo Vangelo, in lingua aramaica poi tradotto in greco, entrambe lingue parlate in Israele ai tempi di Nostro Signore. Scopo del suo scritto, il primo del canone, è quello di presentare Gesù come Re: “Dov’è il re dei giudei che è nato? Abbiamo visto spuntare la sua stella, e siamo venuti ad adorarlo” (Matteo 2.2). Parente di Gesù, era anche fratello di Giacomo di Alfeo, anche lui chiamato ad essere apostolo che nel passo di Luca è collocato al nono posto. Nel gruppo dei dodici, c’erano così tre coppie di fratelli.

 

TOMMASO

Non sappiamo quando avvenne la sua chiamata, ma è certo che seguisse il Signore come discepolo da tempo. Tommaso compare raramente, ma credo che per capirne il carattere occorra partire dal nome: “Toma” significa “Gemello” così come il suo nome greco, Didimo. Quando leggiamo quindi le traduzioni che scrivono “Tommaso detto Didimo” nei tre episodi narrati da Giovanni 11.16; 20.24 e 21.2, in realtà non abbiamo un soprannome, ma due nomi dal significato identico. Gemello è un doppio ed è indice di una personalità che, pur avendo indubbiamente dei pregi come la costanza di cui aveva dato prova seguendo Gesù nei suoi spostamenti da quando fu chiamato, era una persona spiritualmente instabile, in bilico tra il comprendere e non, capace di slanci impetuosi e di atteggiamenti che denotavano una mancata comprensione delle parole che sentiva da Gesù.

Il primo episodio, in Giovanni 11, è riferito alla malattia, poi morte, di Lazzaro che Gesù risusciterà e al clima che si era creato attorno a Lui da parte dei Farisei: quando Gesù dichiarò ai discepoli che voleva tornare in Galilea perché Betania, città di Lazzaro, era là, i suoi gli dissero “Maestro, i giudei poco fa cercavano di lapidarti, e tu vai di nuovo là?” (11.8), tranne Tommaso che sbottò dicendo “Andiamo anche noi a morire con lui!” (v.15), dichiarazione temeraria ma che dice molto su come Tommaso considerasse la propria vita e amasse il suo Maestro, pur con la sua natura rudimentale.

Abbiamo poi Giovanni 14, all’ultima cena, in cui rivela quanto poco avesse capito, o per meglio dire quanto poco in lui fosse rimasto, di tutte le parole che Gesù aveva detto in sua presenza: è un passo che molti conoscono ed è riferito alle ultime parole dette agli undici, poco dopo che Giuda era uscito dalla sala in cui mangiavano: “Il vostro cuore non sia turbato. Credete in Dio, e credete anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte stanze, se no ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto. E quando sarò andato e vi avrò preparato il posto, ritornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io siate anche voi. Voi sapete dove io vado e conoscete anche la via”. Facciamo ora attenzione alle parole di Tommaso, che prende la parola esprimendosi al plurale: “Signore, noi non sappiamo dove vai; come possiamo dunque conoscere la via?” (vv.1-5). Le parole successive di Gesù furono “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se mi aveste conosciuto, avreste conosciuto anche mio Padre, fin da ora lo conoscete e l’avete visto”. Al che sappiamo che intervenne Filippo dicendo “Signore, mostraci il Padre e ci basta”.

Perché tanta ignoranza? Le reazioni dei discepoli testimoniano due realtà comuni a tutti gli uomini e connesse tra loro: la prima è che non basta sentire delle parole o un’esposizione chiara di concetti se non li si assimilano, soprattutto se questi hanno carattere spirituale. Si rischia di prenderli come dei dati di cui ne si intuisce l’importanza, ma senza un’illuminazione e la volontà onesta di capirle, ci si perde. La seconda è che, senza un’illuminazione, si corre il rischio di essere sterili, di fare magari molto, ma senza raccogliere un frutto. Con ciò non si vuole giudicare gli undici, ma fare un’applicazione alla nostra vita perché ci può essere lo zelo senza la conoscenza così come la conoscenza senza zelo che, entrambe, portano a un nulla, o a un poco, di fatto. Sempre Giovanni al capitolo 6 del suo Vangelo riporta un episodio interessante in proposito: si trovava nella sinagoga di Capernaum con molti giudei e discepoli quando Gesù prese a insegnare e fece un discorso che scandalizzò molti a tal punto che numerosi discepoli smisero di frequentarlo; fu quando disse che, se non avrebbero mangiato la sua carne e bevuto il suo sangue, non avrebbero avuto la vita in loro. Allora è scritto “Da quel momento molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui. Allora Gesù disse ai dodici: «Volete andarvene anche voi?» e Simon Pietro gli rispose «Signore, da chi ce ne andremo? Tu hai parole di vita eterna. E noi abbiamo creduto e abbiamo conosciuto che tu sei il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente»” (Giovanni 6.66-69). Ecco l’importanza del capire, del “credere” e “conoscere”: uno crede perché sperimenta, elabora dentro di sé, matura con tempi che non possono essere immediati, passo dopo passo, tempo dopo tempo, insegnamento dopo insegnamento.

La differenza esistente tra gli apostoli prima e dopo la discesa dello Spirito Santo credo che insegni questo: se Dio non dà una mente nuova, tutto resta inutile, vuoto, privo di risultato e qui sta la verità e l’essenza della condizione apostolica, perché lo Spirito Santo ricordò loro tutte le cose che Gesù aveva insegnato nella sua giusta dimensione. Non leggiamo più di errori dottrinali da parte degli apostoli, salvo un fraintendimento di Pietro sulla circoncisione. Forti di questo avvenimento, una parte del cristianesimo è convinta che sia sufficiente credere per venire illuminati su tutto e comprendere ogni passo della Bibbia che si legge, ma lo stato di apostolo fu unico e limitato agli undici, Mattia a parte che comunque era stato con loro per molto tempo. Purtroppo, costoro non tengono presente che la natura umana è ben presente in tutti e porta con sé presunzione, egoismo, o peggio integralismo, figlio di ignoranza e grettezza. Appartenere a una Chiesa non è appartenere a un gruppo da difendere, ma avere un’identità che si condivide con gli altri, è “essere uno” pur con le differenze di carattere, di doni e di chiamate. Ma ci vuole rispetto, carità reciproca e identificazione, altrimenti quella Chiesa sarà solo uno dei tanti gruppi religiosi che fanno propaganda. E si spegnerà spiritualmente.

Il terzo episodio di Tommaso è quello più conosciuto: non era con gli altri quando Gesù, risorto, si presentò a loro e, quando li raggiunse e gli dissero “Abbiamo visto il Signore”, rispose “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò” (20.25 e seguenti). Qui il “Gemello”, di nome e di fatto, dimostra due cose, cioè di non credere alla testimonianza degli altri e di difendere fino infondo quella parte di uomo in lui che si opponeva a credere una volta per tutte. Tommaso credo sia conosciuto ingiustamente come colui che non credeva perché poi riconoscerà Gesù come suo “Dio”, cosa che nessuno degli altri prima di allora aveva mai detto usando quelle parole. Tommaso dice agli altri che vuole verificare: non gli basta vedere Gesù risorto, vuole toccare con mano, esaminare che sia effettivamente Lui e non un sosia: dovevano esservi i segni dei chiodi non come cicatrici, ma ci avrebbe dovuto passare il dito e avrebbe dovuto mettere la mano nel costato, cioè nel torace, nel punto in cui entrò la lancia del soldato romano che causò la fuoriuscita di sangue ed acqua.

Giovanni ci informa che, quando Gesù ritornò ai dodici otto giorni dopo, non si oppose alla richiesta di Tommaso, non lo sgridò perché aveva messo in dubbio la sua risurrezione: “Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!»” (Giovanni 20.26,29).

Il giudizio di chi legge l’episodio è quasi sempre negativo su quest’apostolo, ma in realtà mostra una trasformazione definitiva da un essere a un divenire definitivo: non essere incredulo, ma (diventa) credente. Definendo Gesù “mio Dio”, Tommaso con quel possessivo capitola una volta per tutte. Don Claudio Doglio, nel suo “Personaggi giovannei” scrive a proposito dell’imperativo rivolto a Tommaso “È un cammino, è la prospettiva della vita, non diventare nella strada della incertezza, della infondatezza, della infedeltà, della sfiducia, ma diventa nella strada della fondatezza, della certezza, della fiducia, della fedeltà. Diventa, matura, cresci; nel dubbio, nella situazione doppia, scegli la strada giusta”.

Può concludere questa riflessione la beatitudine dichiarata da Gesù a tutti quelli che avrebbero creduto: la richiesta di Tommaso non è più possibile, il Figlio siede alla destra del Padre eppure il cristiano è il frutto della testimonianza dei dodici. Si crede per tanti motivi, ma primo fra tutti perché Egli è risorto, vincendo la morte e il peccato al nostro posto, perché avessimo vita nel Suo nome. Amen.

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