07.04 – LE PARABOLE DEL REGNO: LA ZIZZANIA (Matteo 13.24-30)

7.04 – Le parabole del regno 3 (La zizzania, Matteo 13.24-30)

 

“4Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. 25Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. 26Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. 27Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: «Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?». 28Ed egli rispose loro: «Un nemico ha fatto questo!». E i servi gli dissero: «Vuoi che andiamo a raccoglierla?». 29«No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. 30Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio»”

 

            Leggendo la parabola colpisce la frase di apertura, “il regno dei cieli è simile a un uomo”, paragone non riferito tanto alla persona che compie una determinata azione, ma al suo modo di operare. “Il regno dei cieli è simile a” si troverà in molte parabole a conferma della totalità degli interventi di Dio nei confronti della sua creatura. Anche nel testo di oggi c’è un campo che, come nella prima parabola del seminatore, ma qui ancora di più, si riferisce a tutto il territorio da coltivare posseduto. Ora Gesù, dopo aver presentato nella parabola precedente la sorte che hanno i semi che cadono chi nella strada, chi nel terreno pietroso e chi in mezzo alle spine, entra nei dettagli occupandosi di ciò che avviene nel campo vero e proprio, seminato con “buon seme”, quindi una sorta di prodotto certificato dal quale si attende, come anche i suoi servi, un raccolto ricco e abbondante.

Nel “buon seme” riconosciamo il Vangelo, la Parola di Dio, che dà come risultato una crescita che l’apostolo Pietro descriverà con le parole “…generati non da un seme corruttibile, ma incorruttibile, per mezzo della parola di Dio viva ed eterna” (1 Pietro 1.23). Poi l’aggettivo “buono” non può che rimandarci alla creazione, quando la frase “E Dio vide che ciò era buono” compare al termine di ciascun giorno che si concluse col Suo riposo dopo i sei. Il “buon seme” che viene messo nel campo porta in sé l’approvazione del Creatore proprio come fu all’inizio quando leggiamo “Dio disse: «La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che fanno sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la propria specie». E così avvenne. E la terra produsse germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie. Dio vide che era cosa buona.” (Genesi 1.11,12). È evidente il rimando al tempo antico in cui c’era un progetto di perfezione e di equilibrio, lo stesso che si aspettava il padrone nel campo tramite il raccolto. Anche questa fu una parabola di cui i discepoli chiesero il significato: al verso 37 di questo stesso capitolo leggiamo “Colui che semina il buon seme, è il Figlio dell’uomo”. Addirittura poi, a testimonianza di quanto debba identificarsi chi ha creduto nella Parola, “il buon seme sono i figli del regno”. Un’identità totale.

Si arriva così al verso 25, che ci conferma che questo racconto sia in un certo senso speculare a quello della Genesi perché anche qui assistiamo ad una strategia ostile per rovinare, inquinare e se possibile distruggere tutto il lavoro accurato svolto con la semina, per quanto riguarda la parabola, e con la tentazione andata a buon fine, circa i nostri progenitori. Se con loro il nemico dovette mimetizzarsi e minare dalle fondamenta l’equilibrio e l’ingenuità-fragilità di Eva, qui raccoglie personalmente i semi di una pianta che non si trovava in commercio perché tossica, dando capogiri e vomito. Di sapore amaro, impossibile da distinguere dal grano o dall’orzo allo stato di piantina, in caso di contaminazione del campo chi faceva il raccolto era costretto o a estirpare le infestanti (ma come vedremo sarebbe stata un’azione poco prudente) oppure attendere che le due specie si lasciassero riconoscere crescendo.

L’azione del “nemico” viene fatta di notte, “mentre tutti dormivano” perché un campo, al contrario di un gregge, non lo si vigilava. Questo nemico agisce di nascosto, con il preciso obiettivo di rovinare il raccolto e lo fa con un’azione identica al proprietario del terreno, cioè semina: un ideale di vita falso, delle verità alternative, un modo di essere tossico, contaminante, indigeribile con l’obiettivo di rovinare il progetto del Creatore. C’è quindi un seme buono, la Parola di Dio che genera vita, e uno cattivo, del nemico, anch’esso una vita la dà, ma utile a portare danno agli altri. La spiegazione di Gesù, “Il campo è il mondo, il buon seme sono i figli del regno e la zizzania sono i figli del maligno” (v.38), è eloquente sull’identità di questi personaggi e come purtroppo gli uni siano costretti a condividere lo stesso spazio, quello del mondo. E si badi che possiamo leggere il termine “campo” in due modi, cioè tanto il mondo inteso come terra, quando come Chiesa, poiché è la storia a insegnare che anche al suo interno si nascondono, più o meno bene, individui che tutto fanno tranne che portare un frutto buono a vantaggio degli altri, della dottrina o dell’esempio. Gli scritti del Nuovo Patto sono pieni di esempi in proposito e più volte sono scritte esortazioni a guardarsi dai falsi profeti, l’aggiornamento neotestamentario dei farisei del tempo di Gesù.

Leggiamo al verso 39 che “a un certo punto spuntò anche la zizzania”, cioè diventò ufficialmente riconoscibile suscitando la meraviglia dei servi, in cui possiamo identificare quegli angeli che non svolgono la funzione di mietitori: “…e il nemico che l’ha seminata è il diavolo, mentre la mietitura è la fine del mondo, e i mietitori sono gli angeli”.

La domanda che i servi fanno al Signore del campo può essere letta come ingenua, perché la risposta se la sarebbero potuti dare da soli in quanto, per l’abbondanza della zizzania nel campo, difficilmente avrebbe potuto essere causata da semi portati dal vento. Va tenuto presente però cosa siano gli angeli, esseri innocenti a parte l’antica ribellione di alcuni di loro a Dio, che non hanno una volontà propria, ma sono essenzialmente degli esecutori ai Suoi ordini. La loro domanda è sotto certi aspetti simile a quella che rivolsero le anime dei martiri in Apocalisse 6.10,11: “Fino a quando aspetti, o Signore, che sei il Santo e il Verrace, a fare giustizia del nostro sangue sopra coloro che abitano la terra?– contro le zizzanie – E a ciascuno di essi fu data una veste bianca e fu loro detto che si riposassero ancora un po’ di tempo, finché fosse completato il numero dei loro conservi e dei loro fratelli, che dovevano essere uccisi come loro”.

Apriamo una breve parentesi: la loro è una domanda che, come quella dei mietitori, precede il raccolto finale. Anche ad essi viene detto di attendere e viene data loro una “veste bianca”, riferimento alla loro giustizia, quindi viene loro ricordata la beatitudine e la ricompensa che avrebbero avuto, ma che questa non sarebbe stata fruibile senza che prima fossero stati raggiunti da tutti gli altri, che abitavano ancora in un corpo di carne.

Mettiamo un attimo da parte ciò che Giovanni ci ha trasmesso per volere di Dio e torniamo alla risposta data ai mietitori: non era ancora il tempo per procedere. Se l’Apocalisse ci ha spiegato uno dei perché, qui Gesù ne dà un altro: si sarebbero strappate senza volerlo le piantine buone non per distrazione o errore, ma anche perché, essendo la zizzania cresciuta accanto al grano, le radici delle piante si erano intrecciate fra loro ed estirpando una piantina cattiva si sarebbe corso il rischio di fare altrettanto con il grano. Questo perché nessun’anima che il Padre ha dato al Figlio deve andare perduta.

Torniamo ora ai versi di Apocalisse successivi, quelli da 12 a 17: “E vidi quando l’Agnello aprì il sesto sigillo, e vi fu un violento terremoto. Il sole divenne nero come un sacco di crine, la luna diventò tutta simile a sangue, le stelle del cielo si abbatterono sopra la terra come un albero di fichi, sbattuto dalla bufera, lascia cadere i frutti non ancora maturi. Il cielo si ritirò come un rotolo che si avvolge, e tutti i monti e le isole furono smossi dal loro posto. Allora i re della terra e i grandi, i comandanti, i ricchi e i potenti, e infine ogni uomo, schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei monti, e dicevano ai monti e alle rupi: «Cadeteci addosso e nascondeteci dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello, perché è venuto il grande giorno della loro ira, e chi può resistervi?».

Ecco, questo è un solo aspetto della mietitura, una delle sue fasi che, se ci verrà dato, affronteremo quando potremo fare un’analisi del libro dell’Apocalisse che, per il poco che è stato citato in questo studio, fa risultare assente la Chiesa.

Tornando alla parabola, anche ai mietitori viene detto di pazientare ancora un po’ di tempo, cioè fino a quando sarebbe stato impossibile sbagliare nel selezionare le piantine buone da quelle cattive e il raccolto avrebbe potuto iniziare e proseguire senza problemi. In tal modo l’opera del nemico sarebbe stata vana.

Ci sono poi due espressioni nella parte finale del racconto di Gesù che meritano un’attenzione particolare, cioè “lasciate che (…) crescano insieme” e “il grano invece riponetelo nel mio granaio”: la prima frase stabilisce che, purtroppo, chi appartiene ai figli di Dio è costretto a “crescere insieme” a chi serve un altro signore, che non può esservi pace sulla terra nel senso completo del termine, nemmeno nella Chiesa che dovrebbe essere assolutamente “santa”, ma che di fatto non lo è a livello di totalità, d’insieme umano, perché anche in essa si nascondono i “figli del maligno”. Anche l’apostolo Paolo, certo riferendosi alla zizzania, scrisse “Questi sono falsi apostoli, lavoratori fraudolenti, che si mascherano da apostoli di Cristo. Ciò non fa meraviglia, perché anche Satana si maschera da angelo di luce. Non è perciò gran cosa se anche i suoi ministri si mascherano da ministri di giustizia, ma la loro fine sarà secondo le loro opere” (2 Corinti 11.13-15). La seconda frase è invece di una consolazione assoluta: “Il grano invece riponetelo nel mio granaio”, dove “invece” e “mio” dicono tutto quel che serve.

La mietitura fu così spiegata ai discepoli; “Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli ed essi raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e gli operatori d’iniquità, e li getteranno nella fornace del fuoco. Lì– e non altrove – sarà pianto e stridor di denti. Allora– non prima – i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchie per ascoltare, ascolti.” (v.41-43).

Si compiranno allora tutte le promesse e ogni cosa sarà definita. E penso che già a Isaia fu rivelata questa verità: “I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre”, e le stelle sono come il sole.

E per quanto riguarda infine il “mio granaio”, così diverso da quello degli altri, leggiamo ancora in Apocalisse: “Ecco, sono compiute! Io sono l’Alfa e l’Oméga, il principio e la fine. A colui che ha sete darò gratuitamente da bere alla fonte dell’acqua della vita. Chi sarà vincitore erediterà questi bene; io sarò Dio ed egli sarà mio figlio” (21.6,7). Amen.

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02.15 – IL CIBO CHE NON CONOSCETE (Giovanni 4.31-38)

2.13 – Il cibo che non conoscete (Giovanni 4.31-38)

 

31Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia». 32Ma egli rispose loro: «Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete». 33E i discepoli si domandavano l’un l’altro: «Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?». 34Gesù disse loro: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. 35Voi non dite forse: «Ancora quattro mesi e poi viene la mietitura»? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. 36Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. 37In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete. 38Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica».”

Nel resoconto che Giovanni fa dell’incontro con la donna samaritana, parla dell’arrivo dei discepoli con le provviste acquistate nelle vicinanze: “27In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: «Che cosa cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?». 28La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: 29«Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?». 30Uscirono dalla città e andavano da lui”.

Mentre quindi la donna andava in città ad annunciare agli altri chi aveva incontrato, si inserisce questo dialogo coi discepoli che, vedendo che Gesù si era dissetato, lo esortavano a mangiare, preoccupati delle sue condizioni perché consapevoli delle energie perse a causa del lungo viaggio sotto il sole. La sua risposta a quell’invito pone per la prima volta a confronto la Sua realtà e quella del discepoli, che fino ad allora avevano seguito quel Rabbi nei suoi spostamenti impressionati dai suoi miracoli e dalle parole di vita che aveva per coloro che lo incontravano. Di lui avevano una visione parzialmente corretta, quella che potevano sperimentare quotidianamente, ma non avevano la piena consapevolezza che verrà loro data solo qualche anno dopo, da quando in Gerusalemme lo Spirito Santo, il Consolatore promesso, scenderà su di loro ed altri per un totale di 120 persone (Atti, capitolo 2).

Sappiamo che in precedenza era avvenuta la tentazione nel deserto in cui Gesù aveva ricordato all’Avversario che l’uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio; qui però abbiamo un annuncio diverso, non in opposizione al metro di ragionamento che Satana cercava di insinuare in Lui, ma di distinzione: “Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete”, cioè “fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera”, parola con cui corregge la loro visione terrena: “Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?”.

Va notato che, nell’ambito di questo episodio, c’è anche la contrapposizione tra l’“acqua” e il “cibo”: l’acqua della vita che Gesù avrebbe dato alla Samaritana e ai suoi conterranei, usi a bastonare se non a uccidere i giudei che transitavano sulle loro terre come attesta Giuseppe Flavio, e il cibo che sia i discepoli che altri ignoravano: la prima era alla portata di chiunque avesse voluto riceverla, il secondo era riservato a Lui, venuto per rivelare il Padre e l’apertura della dispensazione della Grazia.

Il cibo di Gesù consisteva in due azioni distinte viste nel “fare la volontà di Colui che mi ha mandato” e di “compiere la Sua opera”, strettamente collegate tra loro: la prima, fare la volontà, allude all’attività continua e ininterrotta giorno per giorno tramite la preghiera, la comunione col Padre e la perfetta ubbidienza nei Suoi confronti, la seconda ha riferimento con quel “tutto è compiuto”, sesta frase detta alla croce che precede quel “Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito”.

Compiere è un verbo che usiamo quando abbiamo portato a termine un’azione, un’opera, quando giungiamo al termine di un percorso e implica non solo la sua fine materiale, ma la sua riuscita. Nel caso di Gesù, perfetto esecutore dei voleri e delle aspettative del Padre, abbiamo la perfezione del suo compiere quel “tutto”, vale a dire che nulla era stato tralasciato per la salvezza dell’uomo, cosa possibile solo se quel sacrificio avesse realmente soddisfatto le esigenze di giustizia del Padre viste nell’Agnello di Dio innocente immolato. Senza la perfezione della vita quotidiana di Gesù davanti a Dio Padre, non sarebbero stati possibili i miracoli ed ancor più la Sua resurrezione e quindi la salvezza dell’uomo perché solo la santità, vista nella totale assenza di peccato, avrebbe potuto qualificare il Figlio come l’unico idoneo a riscattare la creatura peccatrice. Abbiamo qui un confronto tra ciò che è divino e santo e ciò che è impuro e peccatore per natura.

L’apostolo Pietro parla del risultato dell’opera di Cristo con queste parole: “…sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri, ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia. Già designato prima della creazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi; per mezzo di lui credete in Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria affinché la vostra fede e la vostra speranza siano in Dio” (1 Pietro 1.18-21).

Soffermiamoci un attimo su queste parole: la prima che abbiamo è il riscatto che, nel diritto privato, è la liberazione da un obbligo contrattuale attuata mediante il pagamento di una somma. Nelle parole di Pietro leggiamo che il cristiano è stato riscattato da un modo di vivere “vano”, cioè vuoto, privo di corpo o consistenza materiale, inutile, trasmessogli dai suoi padri che non potevano fare altrimenti. È infatti la vita vuota, resa tale dalla condizione di peccato in cui vive, l’unica che l’uomo può conoscere e trasmettere agli altri: una vita fondata sull’esclusivo soddisfacimento dei propri bisogni perché “cioè che è nato di carne è carne” e che il quotidiano terreno tende a fargli vedere come ricca e significativa. L’argento e l’oro, che nel mondo in cui viviamo sono i soli in grado di riscattare qualcosa – un appartamento, anni di studio, un debito – beni corruttibili soggetti ad essere rubati dai ladri o per noi oggi dalle banche – nulla possono per il riscatto di un’anima. E il “prezioso sangue di Cristo”, agnello senza difetto né macchia, è l’unico in grado di garantire un futuro eterno alla creatura che lo vuole accettare. Se Dio ai tempi dell’Antico Patto richiedeva il sacrificio di un agnello perfetto e puro esteriormente, Cristo ora è l’agnello perfetto e puro nell’esterno e nell’interno, l’unico, vale a dire che Dio Padre, che scruta e vaglia ogni cosa, prima di accettare il sacrificio del Figlio, ha dovuto riconoscerlo come senza difetto né macchia ai suoi occhi. È una questione di idoneità che nessun uomo avrebbe mai potuto avere.

Pietro afferma che Cristo è stato designato prima della creazione del mondo: il “Sia la luce” fu un ordine emanato dunque dopo che Padre, Figlio e Spirito Santo si consultarono sul da farsi una volta che l’uomo e la donna avrebbero peccato perché sapevano che ciò sarebbe avvenuto. Allora, la creatura di Dio non era predestinata ad essere estromessa da Eden, ma a venire creata e recuperata dal Suo amore.

La seconda parte delle parole di Pietro sono affini a quelle dette da Gesù ai discepoli: è per noi che il Figlio è stato manifestato, perché senza di lui crederemmo (forse) in un Dio generico come molti, un creatore nei confronti del quale non sapremmo quali sentimenti provare e soprattutto quali risposte avere su di lui a fronte di molte domande: chi è, cosa vuole, si interessa di noi, può intervenire nella nostra vita, esiste, o siamo il frutto di un incidente molecolare, di un’evoluzione, della fisica quantistica?

Invece, per noi, vista la perfezione della Sua vita e del conseguente sacrificio, Dio lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria perché la nostra fede e la nostra speranza siano in Lui. C’è quindi un fine, uno scopo. Fede e speranza in Dio escludono la fede e la speranza nel quotidiano, nelle promesse umane quasi mai mantenute perché la giustizia e l’onore dell’uomo sono suscettibili a enormi variazioni e la scala di valori su cui si basano è quanto mai mobile. Ma sappiamo che “Gesù Cristo è lo stesso di ieri, di oggi e in eterno” (Ebrei 13.8): non cambia, né Lui, né le sue parole che sappiano non passeranno, a differenza del cielo e della terra che conosciamo.

Torniamo ora al nostro episodio, che propone le parole di Gesù ai discepoli espresse tramite una parabola: dal verso 35 in poi il discorso di Gesù passa dalla Sua persona alla loro: nella Sua onniscienza, vede l’opera che stava compiendo nei suoi risultati futuri e la vede non disgiunta da quella dei suoi – allora – cinque discepoli. La visione di Gesù è nel futuro: dalla spiegazione della parabola della zizzania (Matteo 13.24-30) ricaviamo dati importanti: “Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo, il buon seme sono i figli del regno e la zizzania sono i figli del maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo, mentre la mietitura è la fine del mondo, e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, ed essi raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace del fuoco. Lì sarà pianto e stridor di denti. Allora i giusti risplenderanno come il sole nel regno del padre loro. Chi ha orecchi da udire, oda”.

Queste parole, certo più dettagliate da quelle esposte nel nostro episodio che Gesù non spiegò ai discepoli, ci fanno capire quanto sia importante la funzione di chi collabora con Lui nell’Opera di Dio secondo le sue possibilità e i doni ricevuti: c’è un tempo preciso per la mietitura, un giorno e un’ora che “nemmeno il Figlio conosce, ma solo il Padre”, ma il campo del mondo biondeggia da sempre così come la vigna, altra figura di cui Gesù si serve per spiegare il progetto di Dio; la lettura della parabola degli operai delle diverse ore ci può aiutare (Matteo 20.1-16). Le parole di Gesù che abbiamo letto in questa parabola, oltre alla frase del nostro episodio “io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato, e voi siete subentrati nella loro fatica”, si riferiscono a tutti coloro che nel corso dei secoli si sono adoperati perché Dio si rivelasse, dando ciascuno il proprio contributo a partire da Enosh, figlio di Seth figlio di Adamo in Genesi 4.26 in cui leggiamo “Anche a Seth nacque un figlio e lo chiamo Enosh. Allora si cominciò a invocare il nome dell’Eterno”. Poi, per citarne alcuni, pensiamo a Mosè, ai profeti e allo stesso Giovanni Battista che sarebbe stato messo a morte: tutti avevano lavorato al tempo loro e secondo il mandato loro affidato, per preparare il popolo del patto a ricevere il Messia e il Regno di Dio.

Gesù, quando parla di “mietitura” nei versi oggetto di riflessione, non si riferisce tanto a quella finale, nel giorno del giudizio, il solo in cui verrà definitivamente e una volta per tutte separato il grano dalla zizzania apparentemente simile a lui, ma di quella del guadagnare un’anima a Cristo, che contrassegna già la persona come appartenente a lui per cui distaccata, separata dagli altri uomini che non condividono la fede in Lui.

I mietitori di questo tipo, da non confondere con gli altri visti negli angeli, ricevono un salario e raccolgono frutto per la vita eterna, vale a dire che compiono quelle opere che, alla vagliatura del fuoco secondo 1 Corinti 3.13, resisteranno e avranno un premio: gioire insieme a chi miete. Può accadere, presi nelle nostre occupazioni, che ci dimentichiamo che certe espressioni che troviamo nella Scrittura hanno sempre la perfezione come sostanza: non sarà la gioia che intendiamo noi, ma una gioia perfetta, totale, quella che sarà realizzata in spirito e che i pochi che la videro, come Paolo o Giovanni, si ritrovarono impotenti a descrivere nella sua pienezza.

Concludendo, con la citazione del proverbio “l’uno semina, l’altro miete”, popolare ai tempi di Gesù e che alludeva alla precarietà della vita, Gesù intende dire che dove altri seminarono, Cristo manda i suoi discepoli a mietere; dove poi essi avrebbero seminato nel duro terreno delle genti, altri a loro turno ne avrebbero raccolto il frutto visto nella conversione dei Gentili. Ma, in ogni caso, seminatore e mietitori si rallegreranno insieme”, alla e nella gloria di Dio Padre. Amen.

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