07.09 – LE PARABOLE DEL REGNO 8: LA LAMPADA (Marco 4.21-25(

7.08 – Le parabole del regno 8 (La lampada, Marco 4.21-25)

 

“21Diceva loro: «Viene forse la lampada per essere messa sotto il moggio o sotto il letto? O non invece per essere messa sul candelabro? 22Non vi è infatti nulla di segreto che non debba essere manifestato e nulla di nascosto che non debba essere messo in luce. 23Se uno ha orecchi per ascoltare, ascolti!». 24Diceva loro: Fate attenzione a quello che ascoltate. Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi; anzi, vi sarà dato di più.25Perché a chi ha, sarà dato; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha.

 

            Prima di affrontare questa parabola è necessario considerare gli scopi che si prefigge ciascun evangelista: se da Matteo abbiamo saputo che le parabole del regno furono sette, non è detto che fossero in realtà di più e che abbia riportato quelle che, secondo lui, rappresentassero la totalità che poteva interessare i suoi lettori ebrei. Infatti, guardando alle parabole citate da Matteo, vediamo che parlano di tutto ciò che avviene nel cuore umano dal momento in cui viene eventualmente ricevuto il buon seme, diventando figlio di Dio, alle difficoltà e benedizioni che si scoprono fino alla costituzione del regno. Marco, dietro indicazioni di Pietro allora presente con gli altri agli insegnamenti di Gesù, aggiunge questa parabola e quella del seme informandoci che “Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa” (4.33) e sappiamo che più volte è riportato che erano i discepoli stessi a chiedergli spiegazioni in merito, sintomo di un interesse che gli altri uditori non avevano.

Abbiamo così la lampada, figura a noi già famigliare perché presa come esempio nel sermone sul monte quando si legge “…né si accende la lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono in casa” (Matteo 5,15). La lampada illumina, metterla “sotto un vaso o un letto”, come riporta Luca, non avrebbe senso e così è della fede, ma qui la lampada è impiegata con un significato più esteso. Alla luce delle parole del verso 22, vediamo qui la figura dello Spirito Santo e i suoi effetti, facendo luce all’ambiente che lo circonda. Nel buio, se ci pensiamo, è la luce la prima che vediamo per quanto, dando la sua presenza per scontata, ci soffermiamo su ciò che ci circonda. La lampada è necessaria per vedere nell’oscurità indipendentemente dal fatto che conosciamo o meno l’ambiente in cui ci dobbiamo muovere e, senza di lei, sarebbe facile inciampare, urtare, farci male.

Scrivendo ai Filippesi l’apostolo Paolo scrive “Fate tutto senza mormorare e senza esitare, per essere irreprensibili e puri, figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa” (Filippesi 2.14,15). Il cristiano che quindi è tale non per un atteggiamento assunto allo scopo di darsi un contegno o aderire ad una religione, ma perché sa di avere trovato una ragione per vivere ed amare, si ritrova innocente “in mezzo a una generazione malvagia e perversa” che vive nelle tenebre, priva di luce. L’aggettivo “malvagio”, dal tardo latino “malifatius” cioè “che ha cattivo fato”, è riferito sia alle persone che operano il male compiacendosene, restando indifferenti alle conseguenze che esso provoca, ma anche a individui cattivi, avversi. Il termine “perverso”, poi, è un aggettivo tipico ad indicare chi è intimamente e ostinatamente incline a fare il male, provandone compiacimento, chi è mosso o improntato dalla volontà di farlo.

La lampada, quindi, che illumina gli ambienti bui, è la figura dello Spirito Santo che sarebbe un controsenso mettere sotto il moggio, recipiente che veniva usato come unità di misura per il volume del grano o simili, impedendole di fare luce.

Sempre Paolo, parlando dello Spirito, scrivendo ai Corinti dice che “A ciascuno è stata data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole” (1 Corinti 12.7,8).

Dalle parole “A ciascuno è stata data” vediamo che non esistono credenti che, se onesti, non abbiano ricevuto un dono di cui l’apostolo elenca i maggiori: di fatto, ognuno di loro ha una lampada, la stessa che ebbero le “dieci vergini” di un’altra parabola, con la quale illuminare il proprio cammino, portare luce e custodirla per l’arrivo dello Sposo; ecco perché nessuno può metterla sotto il moggio, ma deve averne cura e porla sul candelabro. Sarà poi il tempo a dimostrare se alla lampada, considerata la sua insostituibile funzione, verrà data la manutenzione necessaria “…per essere irreprensibili e puri, figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa. In mezzo a loro voi risplendete come astri nel mondo, tenendo salda la parola della vita” (Filippesi 2.15).

Il fatto poi che la lampada non sia fissa, ma portatile, ci parla del fatto che è in grado di illuminare anche gli angoli che altrimenti resterebbero bui: chiarezza, onestà e trasparenza escludono allora l’ipocrisia, quindi la recitazione, l’assunzione di un ruolo o posizione davanti agli altri che in realtà non si ha, o ciò che viene fatto in segreto, quelle azioni o trame che gli altri non devono sapere. In poche parole, il “lievito dei farisei, che è ipocrisia” perché “non c’è nulla di nascosto che non sarà svelato, né di segreto che non sarà conosciuto” (Luca 12.1,2). Gli “angoli bui” talvolta vengono illuminati da altri che smascherano ciò che secondo le intenzioni dell’ipocrita doveva restare nascosto, altre volte restano tali, ma sono comunque destinati a venire alla luce un giorno, “quando il Signore verrà. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode” (1 Corinti 4.5).

Qui l’apostolo scrive ai credenti sinceri, per cui parla di lode, ma sappiamo da varie parabole che non tutti la riceveranno, perché accanto a quel “Bene, servo buono e fedele”, c’è la condanna di quello “malvagio e fannullone” di cui è detto: “Quel servo inutile, gettatelo nelle tenebre di fuori. Lì sarà il pianto e lo stridore dei denti” (Matteo 25.30). Anche la frase finale  di questo episodio, “Chi ha orecchie per ascoltare, ascolti”, è un appello a coloro che, capendo, sarebbero stati ritenuti responsabili se non avessero agito di conseguenza. In questo caso “ascoltare” significa mettere in pratica, preoccuparsi di seguire le parole di grazia e verità che vengono dette per scampare al giudizio a venire.

Vediamo che qui Gesù dice subito “Fate attenzione a quello che ascoltate”: è un appello contro la distrazione, a non dare tutto per scontato come purtroppo avviene quasi sempre; “Fate attenzione” non significa adagiarsi su quei versi che tornano a nostro comodo, ma esaminare il comportamento che abbiamo alla luce delle aspettative di Dio, stare in guardia estendendo questo atteggiamento a tutti i campi della vita, compreso quello della fede: “Non prestate fede ad ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono venuti nel mondo” (1.Giovanni 4.1).

Il verso 24 del nostro passo aggiunge “Con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi; anzi, vi sarà dato di più”. Qui Gesù va oltre l’ordine di astenersi dal dare giudizi sugli altri perché altrimenti verremo valutati proporzionalmente, ma parla di due destini, di due conseguenze che derivano dal nostro stesso operato: che il fratello non vada giudicato con intransigenza e severità era già stato detto nel sermone sul monte, ma qui la “misura”, pur riferita al principio del “giudizio senza misericordia contro chi non avrà avuto misericordia” (Giacomo 2.13), è connessa ai due comportamenti di “chi semina scarsamente e scarsamente raccoglierà” e “chi semina con larghezza, largamente raccoglierà. Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia” (2 Corinti 9.6).

Quel “vi sarà dato di più”, posto in connessione ai versi che abbiamo appena letto, ci consente di stabilire che nulla dev’essere fatto in modo forzato, che quel “scarsamente” e “largamente” non sono riferiti al poco o al tanto che uno riversa nel suo operare, ma vanno direttamente alla fonte, al donare con gioia senza che vi sia costrizione alcuna. Chi dona con gioia e non perché deve, testimonia di aver compreso e di essere in sintonia col Padre, agli antipodi di quegli ipocriti: “ma il cuore di questo popolo è lontano da me”. Porsi volutamente lontano da Dio è una scelta che porta a conseguenze molto tristi per tutti, ma per il credente sono disastrose perché da un lato non è né può essere quello che era prima, e dall’altro non fruttifica, non mette in rendita il talento lui affidato, diventa tiepido cioè assume quella posizione di neutralità e di insapidità che sono inammissibili per un cristiano salvo che non si trovi a vivere un periodo di difficoltà, di adattamento, in poche parole manifestazioni incidentali di “umanità” che possono sempre capitare e, mi viene dire, sono quasi inevitabili soprattutto quando si è giovani.

Ancora, quel “vi sarà dato di più”, si riferisce sicuramente alla vita futura, ma anche a quella presente, quella del cammino, perché “Ogni tralcio che in me non porta frutto(il Padre) lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché poti più frutto” (Giovanni 15.2): questo verso ci ricorda la cura che ha il Padre del tralcio, in cui Gesù con le parole “Io sono la vite, voi i tralci” identifica tutti coloro che hanno creduto in lui, a condizione che si verifichi il rapporto “rimanete in me, e io in voi”. Il tralcio infruttifero viene tagliato per evitare che tolga nutrimento agli altri, quelli utili, di cui il Padre si occupa personalmente perché fruttino di più. Capiamo? È come se ci venisse detto che il tralcio buono non ha alcun merito, ma che viene posto solamente nella condizione di rendere maggiormente.

Gesù conclude il suo insegnamento con un avvertimento: “A chiunque ha, sarà dato; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha”, dove “avere” e “non avere” sono riferiti al vaglio finale che Lui stesso opererà nell’ultimo giorno. “Chiunque”, quindi senza raccomandazioni o distinzioni, sarà trovato in possesso delle opere consone alla propria fede sarà premiato, ma chi “non avrà”, cioè in oltraggio alle possibilità ricevute, avrà dimostrato di essere quello di prima, “gli sarà tolto anche quello che ha”, cioè la vita e verrà escluso dal regno assieme a tutta quella massa di falsi profeti, seminatori di dottrine estranee, di figli spirituali dei farisei, non certo estinti nemmeno oggi. Anche Luca, riportando la parabola, fa una variante interessante, cioè al posto di “quello che ha” scrive “ciò che crede di avere” perché le illusioni destinate a crollare che ci si fa in questa vita sono tante.

Riassumendo: c’è una lampada che fa luce. È, sono, coloro che hanno creduto davvero. L’hanno ereditata, ricevuta come è scritto: “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”. Quell’ “ogni” ci parla del fatto che la scelta di non credere è volontaria perché non prendere atto della luce è impossibile. A meno di non rifiutarla, di non essere figli delle tenebre. Amen.

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07.02 – LE PARABOLE DEL REGNO, INTRODUZIONE

7.02 – Le parabole del regno (Introduzione)

 

            Tutti i sinottici, scrivendo del periodo trascorso da Gesù e i suoi lontano da Capernaum “per città e villaggi predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio”, pongono un accento particolare, nella prima parte della loro cronaca, su quello che Lui disse, sui suoi insegnamenti, esattamente come avvenuto sul sermone sul monte che abbiamo analizzato in Matteo 5. Il viaggio missionario di Nostro Signore, sotto l’aspetto della predicazione, partì proprio dalla città in cui viveva in un contesto preciso riferito da Matteo: “Ora in quello stesso giorno Gesù, uscito di casa, si pose a sedere presso il mare. E grandi folle si radunarono intorno a lui, così che egli, salito su una barca, si pose a sedere, e tutta la folla stava in piedi sulla riva” (Matteo 13.1,2).

La nota “In quello stesso giorno” per Matteo è riferito a discorsi che per ragioni narrative e dottrinali raggruppa in un unico contesto, ma che suppongo fosse lo stesso in cui avvenne il pranzo a casa di Simone il fariseo. Prima di esaminare il gruppo cosiddetto delle “parabole del regno”, dobbiamo vedere cosa effettivamente fosse la parabola e perché Gesù l’utilizzò così frequentemente.

Contrariamente a quanto si possa supporre, il metodo della parabole non fu usato solo da Lui, ma era un genere letterario utilizzato per illustrare, con esempi immaginari ma assolutamente veritieri o possibili, una verità morale e religiosa. La parabola può essere confusa con la favola anche se essa ha per protagonisti animali in situazioni inverosimili e ha per lo più lo scopo di intrattenere le persone. Nel mondo antico entrambi i generi abbondavano, ma soprattutto nel giudaismo esisteva il màshàl, il genere parabolico, che troviamo a volte anche nel Talmud e nella Midrash (insegnamento); anche ai tempi di Gesù i Rabbini ne facevano uso per spiegare le Scritture al popolo che le apprezzava e le ricordava con facilità abbinandole al loro corretto significato spiegato dai maestri.

Attraverso le parabole, soprattutto quelle relative al “Regno”, Nostro Signore cercava di proporre delle verità che andavano a cozzare contro l’idea che il popolo aveva di un regno instaurato sulla terra, che come sappiamo si sarebbe dovuto caratterizzare tramite un Messia potente che, alla guida di un esercito invincibile, avrebbe sottomesso tutte le nazioni e le avrebbe governate assieme al suo popolo. Ecco allora che Gesù non dovette solo rifiutarsi di venire proclamato re quando il popolo voleva farlo, ma soprattutto far capire che il regno che avrebbe instaurato un giorno sarebbe stato profondamente diverso da quello che si aspettavano: fu quindi necessario spiegare le verità di quello non dichiarandole apertamente, dando così l’opportunità ai suoi avversari di attaccarlo più di quanto già non facessero, ma velandole, dicendo le stesse cose in maniera diversa. Se ci pensiamo, riguardo alle verità fruibili a pochi, è quello che non solo Gesù, ma tutta la Scrittura fa continuamente presentando simboli, situazioni, verità e descrizioni che possono essere lette solo per la grazia e l’intercessione dello Spirito Santo, deputato alla rivelazione e mettendo da sempre ogni metodo di lettura a lui estraneo nell’errore.

Il discorso che Nostro Signore tenne sulle rive del lago di Galilea, e in privato coi discepoli, è un aggiornamento del sermone sul monte in cui aveva trattato la Legge perché qui, fondamentalmente, parte dai diversi effetti che ha la Parola sulle persone che l’ascoltano (il seminatore) per arrivare alla fine, quando la zizzania verrà legata in fasce per essere bruciata e il grano “riposto nel granaio” o, nella parabola dei pesci, quando “verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà il pianto e lo stridore dei denti”.

In questo nostro studio ci rifaremo alle parabole così come esposte da Matteo che, a differenza di Marco e Luca, le organizza in modo completo: Luca riporta solo quella del seminatore e Marco vi aggiunge quella del granello di senape, specificando “Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro, ma ai discepoli, in privato, spiegava ogni cosa” (Marco 4.33,34).

Questo contesto può generare un falso interrogativo, a parte quanto già detto sulla necessità di un insegnamento prudente da parte di Gesù: la spiegazione del suo insegnamento “simbolico” non era qualcosa di riservato a degli eletti particolari, ma a quanti erano desiderosi di capire. Infatti proprio al termine dell’esposizione della prima parabola, quella del seminatore per noi neppure tanto complicata, leggiamo che “Allora i discepoli gli domandarono che cosa significasse quella parabola” (Luca 8.9): furono i discepoli a chiederlo e non gli altri, che ascoltavano senza capire e nulla dicevano evidentemente perché mancava loro la volontà di approfondire, la sensibilità per recepire, la possibilità di scegliere tra la vita e la morte come aveva fatto da poco l’innominata peccatrice, che arrivò a comprendere di aver bisogno del perdono di Gesù dopo aver assemblato le Sue parole e raggiunta la consapevolezza che avrebbe potuto guarirla dalla condizione di peccato in cui versava.

Al contrario i presenti, certo non tutti perché alla luce dell’esempio della donna che unse i piedi di Gesù i frutti della Parola raramente sono immediati, avevano un interesse che non andava oltre la curiosità e volevano restare ancorati alle loro convinzioni: infatti leggiamo “A voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato.(…) Perché il cuore di questo popolo è divenuto insensibile, essi sono diventati duri d’orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi e non ascoltino con le orecchie, e non intendano col cuore e non si convertano, e io li guarisca” (Matteo 13.11-15).

Si noti che la distinzione “A voi è dato, ma a loro no”, non si riferisce a una scelta arbitraria di Nostro Signore, che in base alle proprie simpatie favorisce alcuni a danno di altri, ma alla condizione spirituale in cui versavano i due gruppi: i discepoli, gli apostoli, chi Lo seguiva e ascoltava dava quotidianamente prova di mettere la propria persona in second’ordine, aveva lasciato ciò che lo legava alla sua quotidianità, rinunciato a ciò che possedeva per seguirlo volendo vivere la vita del Vangelo per capire con le proprie povere forze visto che lo Spirito di Verità non era ancora sceso su di loro. Le altre persone presenti costituivano un grande insieme di estranei al cui interno forse si mescolava qualcuno che sarebbe stato colpito dalle parole di grazia e verità di Gesù e lo avrebbe avvicinato, come effettivamente avvenne. “A loro non è dato” perché non erano “delle sue pecore”.

C’è da precisare che le parole di Nostro Signore sul popolo “diventato insensibile” non sono sue, ma costituiscono un collegamento col profeta Isaia che, in 8.18 e 19.26, scrive le stesse cose. È giusto sottolineare il termine utilizzato, “è diventato insensibile” e “sono diventati duri d’orecchi”, evidentemente riferito a una condizione raggiunta dopo una serie di azioni volontarie, poiché si diventa qualcosa solo con l’esercizio e la pratica, conscia o inconscia. Il fatto che uno divenga insensibile o duro d’orecchi significa che prima non lo era, un po’ quello che avviene con quanti si ammalano dopo una serie di azioni che hanno intossicato il loro organismo. Ecco allora che l’uomo compie sempre, più o meno consapevolmente, un percorso spirituale con azioni che possono giovargli o nuocergli.

Citando poi Giuseppe Ricciotti, a proposito della parabola, scrive “…è chiara, ma anche oscura. È eloquente, ma anche reticente. Per chi la contempli con animo sereno e non preoccupato, è chiara ed eloquente; a chi la scruti con occhio torbido e animo prevenuto, non dice nulla, qualora per lui non dica il contrario di ciò che vuol dire. È dunque non tenebra, ma luce, e luce misericordiosamente adatta per occhi che si trovino in condizioni speciali, cioè puri, non malati”. Occhi che, secondo il testo di Isaia citato, sono stati chiusi deliberatamente, come nel caso dei due sommi sacerdoti che, informati della resurrezione di Lazzaro, anziché aprire gli occhi e voler indagare l’episodio per conoscere i fatti e se necessario riconoscere in Gesù il Figlio di Dio, decisero di far morire entrambi: “Ora i capi dei sacerdoti deliberarono di far morire anche Lazzaro, poiché a motivo di lui molti lasciavano i Giudei e credevano in Gesù” (Giovanni 12.10,11). Il timore di perdere onorabilità e rispetto, che la loro tradizione umana venisse infangata, prevalse sulla verità che avrebbero dovuto ammettere revisionando tutta la loro vita, mettendo in pratica quel “ravvedimento” di cui lo stesso Giovanni Battista aveva predicato, la metànoia.

Il “non udire” di cui parlò Nostro Signore ai discepoli quindi era riferito al fatto che, per la struttura mentale che si era venuta a creare nel popolo a causa del suo rifiuto continuato al messaggio evangelico, questi udivano parole che non andavano oltre al timpano, l’orecchio esteriore, esattamente ciò che avviene nel primo caso offerto dalla parabola del seminatore: “Quando qualcuno ascolta la parola del regno e non la comprende, viene il maligno e rapisce ciò che era stato seminato nel suo cuore” (13.18). Interessante la versione di Marco: “…sono quelli in cui la parola è seminata e, una volta che l’hanno ascoltata, subito viene Satana, e toglie via la parola seminata nei loro cuori” (4.15); qui vediamo che c’è una connessione col non comprendere e l’intervento dell’Avversario che viene “subito” proprio perché la persona la disprezza già a monte, a prescindere. “Subito” perché non fa nessuna fatica: non deve neppure estirpare una piantina, ma semplicemente portar via un seme. La parola non è capita né apprezzata perché il cuore carnale ha già di che soddisfarsi, basta a sé stesso, è già sazio tanto allora quanto oggi. Là dove un cuore basta a se stesso, dove un orecchio non riesce ad udire e dove gli occhi sono chiusi, si ha quindi il verificarsi di quel “…ma a loro non è dato”, che suona come una sentenza.

Ecco allora che tutto torna e, alla fine, è l’uomo stesso che si condanna da solo. Ogni volta che in noi manca una reale volontà di sottomissione allo Spirito di Dio, alla profondità della Sua Parola, subentra la nostra e ci rende incapaci di seguirlo, di essere Suoi strumenti, di vivere pienamente e nella libertà che solo il Vangelo può dare. Amen.

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