07.23 – CINQUE CANTICI V.III (Isaia 53.4-6)

7.23 – Cinque cantici V-III (Isaia 53.4-6)

 

4Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. 5Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. 6Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. 7Maltrattato si lasciò umiliare e non aprì la bocca. Era come un agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì la sua bocca. 8Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu messo a morte. 9Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno sulla sua bocca. 10Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con i dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. 11Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. 12Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.

 

“Eppure” è una congiunzione avversativa che si riferisce a parole dette precedentemente: “Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo di dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima”  (v.3); “Eppure”esprime opposizione, contraddizione a un giudizio di altri. È la pietra scartata dai costruttori diventata angolare cui abbiamo accennato precedentemente.

Il verso quarto, nella sua prima parte, si riferisce al ministero pubblico del Servo e alla sua conclusione: la frase “si è caricato delle nostre sofferenze e si è addossato i nostri dolori” ha indubbiamente connessione col peccato dell’umanità portato alla croce, ma anche all’immedesimazione nello stato rivelatore di esso, visto nell’infermità, nella malattia, nella possessione dello spirito del male, tutti elementi che, senza il “peccato originale”, non esisterebbero. Pensiamo alla vita  Gesù in terra: non si limitò alla crocifissione, punto culminante della Sua esistenza, ma nacque, crebbe, raggiunse l’età di trent’anni in cui i Leviti iniziavano a prestare servizio nel Tempio, dopo di che iniziò a sua predicazione non limitandosi all’esposizione di belle e interessanti teorie: non si fermò mai per il bene dell’uomo guarendolo spiritualmente e fisicamente: “Venuta la sera, gli portavano molto indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la parola e guarì tutti i malati, perché si compì ciò che era stato detto dal profeta Isaia: «Egli ha preso le nostre infermità e si è caricato delle nostre malattie»” (Matteo 8.16). Gesù era l’unico a poter mantenere la promessa “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò riposo”.

Ecco allora che Nostro Signore si fece carico della pena dell’esistenza umana. Come? Vivendola, faticando e condividendo la vita di tutti anche guarendoli, lui che lo poteva fare, dimostrando così ai beneficiari, quindi anche a noi, non tanto che a Dio nulla era impossibile, concetto che già conoscevano, ma che Lui si interessava di loro e per loro aveva un progetto di salvezza. Dal mondo teorico della teologia astratta rabbinica, il miracolato veniva posto al centro, nella condizione di vivere personalmente la grazia che gli era stata fatta.  Al posto di “Eppure” della nostra traduzione, Diodati usa “Veramente”, cioè un “amen”, che esclude un sentimentalismo celebrativo e al posto di “caricarsi delle nostre sofferenze” usa il “portare” che suggerisce un moto, una continuità, un’attività incessante.

Ci sono poi due sostantivi, “dolore” e “sofferenza”, che potremmo intenderli come sinonimi, ma sbaglieremmo perché il primo è un fatto oggettivo mentre la seconda è soggettiva e può addirittura essere il costrutto dell’immaginazione di chi la prova. Il primo è inevitabile, è uno strumento di informazione e di allarme, appartiene al nostro corpo costituito di ossa, muscoli, nervi, cellule, organi. La seconda è stata invece definita “l’esperienza dell’esperienza del dolore che è sempre soggettiva e mai universale. Interiorizzata, problematizzata, cosciente e interrogante, riguarda il corpo vissuto che interagisce con il sé vissuto”. Con la prima parte del verso quarto, allora, Isaia guarda e vede il Servo come Colui che ha svolto un’opera perfetta, senza tralasciare nulla del corpo e dell’anima dell’uomo per alleggerirlo: si è “caricato” e si è “addossato”. Ha “portato” quotidianamente i dolori e le sofferenze della sua creatura per la quale aveva creato il mondo assieme al Padre e allo Spirito Santo.

E gli uomini? E il popolo? Salvo rarissime eccezioni, fraintese, poiché “e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato”: dimenticando le Sue parole e i miracoli che spaziarono dalla guarigione di una febbre alta alla resurrezione del figlio di una vedova di Nain, del capo di un Sinagoga o di Lazzaro per non parlare dell’ultimo, il riattaccare l’orecchio di Malco. Ebbene, nell’immediato, nel tempo del buio, il risultato fu lo scuotere la testa dei presenti alla crocifissione. Per loro era inconcepibile che chi aveva aiutato gli altri non potesse liberarsi, o coi suoi “poteri” o con l’intervento di Colui del quale pretendeva di essere figlio.

Quegli uomini, e con loro molti altri nelle epoche seguenti, non compresero cosa stava realmente accadendo alla croce, anche se, nei versi seguenti del cantico, Isaia lo spiega molto bene. “Lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato”, idea unilaterale non del tutto sbagliata se confinata in quello spazio, ma che non teneva affatto conto del perché si stessero realizzando quegli eventi che l’apostolo Paolo, probabile autore della lettera agli Ebrei, spiegherà molto bene.

Infatti: “Tuttavia quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli– riguardo al corpo per la vita terrena –, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti. Conveniva infatti che Dio, per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria, rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza. Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli, dicendo: «Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, in mezzo all’assemblea canterò le tue lodi»” (2.9-12).

Ancora, nella stessa lettera abbiamo la storia spirituale di Gesù uomo: “Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo chiamato da Dio sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedec” (5.7-10), figura tanto superiore quanto misteriosa sulla quale hanno indagato in tanti, che a un certo punto emerge benedicendo Abramo. Di lui null’altro sappiamo se non che era “sacerdote dell’Iddio altissimo” e re di Salem, poi Gerusalemme secondo una comune opinione. È a lui, al suo “ordine” che viene collegato Gesù nell’esposizione dottrinale dell’apostolo Paolo: “È senza padre, senza madre, senza genealogia, senza inizio di giorni né fin di vita, simile quindi al Figlio di Dio. Questo Melchisedec, rimane sacerdote in eterno” (Ebrei 7.3).

Arrivando al verso quinto abbiamo quattro episodi in coppia divisi in due parti: “trafitto per le nostre colpe e schiacciato per le nostre iniquità” vanno dritti alla realtà immediatamente percepibile, mentre “Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe siamo stati guariti” descrivono gli effetti del Suo sacrificio. Anche qui per avere una visione più ampia è bene andare alla versione Diodati, che scrive “ferito per i nostri misfatti e tritato per le nostre iniquità”: sono gli effetti del peccato perché “Egli portò i nostri peccati– “caricarsi” e “addossarsi” – nel suo corpo sul legno della croce perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti”. Sono parole dell’apostolo Pietro nella sua prima lettera, in 2.24, che si rifà e spiega il verso di Isaia che abbiamo letto. Era quello l’unico modo perché avvenisse la nostra liberazione, non vivendo più per il peccato, ma per la giustizia. E Gesù sappiamo essere l’unica via di accesso al Padre, l’unico Dio perché “vivente”.

Ferito” e “trafitto”: un fratello scrisse che “Al Signore Gesù furono inflitti tutti e cinque i generi di ferite note alla scienza medica: contusioni (percosse con un’asta, senza contare quelli a mani nude); lacerazioni (flagellazione), ferite penetranti (la corona di spine); ferite perforanti (i chiodi) e da punta (la lancia)”.

Così, nello “schiacciato”, o “tritato”, abbiamo una descrizione di quanto la forza del peccato sia devastante, opprimente e distruttiva, patita al nostro posto: “Colui che non aveva conosciuto peccato– perché Santo anche per tutta la sua vita terrena – Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui potessimo diventare giustizia di Dio” (2 Corinti 5.21). Sono parole d’amore impossibile a quantificare così come lo è lo scopo di quest’azione: “perché in lui potessimo diventare giustizia di Dio”. Ognuno di noi è chiamato a chiedersi se lo è e da qui comprendiamo quanto abbiamo bisogno di lui per essere e quindi agire. Personalmente rifiuto la reazione di alcuni credenti a questa frase, che si ritengono santi e perdonati sempre e a prescindere dai loro pensieri, parole ed opere: noi, imperfetti e defettibili per natura, soggetti a volte a sbagli anche macroscopici se perdiamo di vista la nostra realtà, abbiamo bisogno ogni giorno, sempre, della giustizia di Dio alla quale fare appello. Sempre del Suo amore, sempre del suo perdono. Tutto ciò nonostante, per la Sua Grazia, le porte del cielo siano per noi aperte.

Ma non basta: “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione per noi, poiché sta scritto «Maledetto chi è appeso al legno» perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse ai pagani e noi, mediante la fede, ricevessimo la promessa dello Spirito” (Galati 3.13,14). Qui il riferimento è a Deuteronomio 21.21,23 che si riferisce alla morte più infamante: “Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l’avrai messo a morte e appeso ad un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull’albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l’appeso è una maledizione a Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore, tuo Dio, ti dà in eredità”.

Per concludere, chiedendoci cosa voglia dire la frase “ci ha riscattati dalla maledizione della Legge”, possiamo capirla mettendola in connessione con verso sesto del Cantico, “Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada”: questo era il risultato, quando i 613 precetti, 248 positivi e 365 negativi, avevano condotto al contrario di quanto avrebbe dovuto essere il suo scopo: ottenere una nazione santa davanti a tutte le genti con le modalità che troviamo descritte nel capitolo 7 del libro del Deuteronomio. Quella Legge, santa perché procedente da Dio, fu disattesa e per questo divenne, alla luce della Grazia e non di altre, maledizione. Ecco perché ci voleva un riscatto e il prezzo fu pagato non dagli uomini, ma da YHWH nella persona del Servo, fu pagata dal Figlio.

Parliamo ora di numeri. I Maestri ebrei nel Talmud (Makkoth 23b) rilevano che il valore numerico della parola Torah (Legge) è di 611; 613 è la cifra che si ottiene sommando al numero della Legge i primi due dei dieci comandamenti che, a differenza degli altri otto, sono posti in prima persona: ricordiamo il primo “Io sono il Signore Iddio tuo, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù. Non avere altri dèi oltre a me” e il secondo, “Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra. Non ti prostrare a loro e non li servire, perché io, il Signore, sono un Dio geloso; punisco l’iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano, e uso bontà fino alla millesima generazione verso quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti” (Esodo 20.2,4).

Ancora, guardando alla quantità dei precetti positivi e negativi, 248 e 365, il primo era considerato quello delle ossa nel corpo umano (oggi sappiamo che sono 270 alla nascita e 206 nell’adulto) e il secondo non solo quello dei giorni dell’anno, ma anche quello dei legamenti che collegano le ossa fra loro. “Attraverso questi numeri la Torah quindi vuol dire che con le nostre 248 singole ossa dobbiamo compiere le 248 azioni prescritte e che ogni giorno dell’anno dobbiamo impegnarci a non violare i 365 precetti negativi”. Così insegnavano. E aggiungono oggi: “Nella pratica però non tutti questi precetti sono attuabili e non da tutti; alcuni necessitano dell’esistenza del Tempio di Gerusalemme, che secondo la tradizione rabbinica potrà essere ricostruito solo quando giungerà il Messia e radunerà tutte le dieci tribù disperse del popolo d’Israele. Altri sono limitati ai soli uomini, altri alle donne, altri sono rivolti solo ai Kohanim, i membri della famiglia sacerdotale, coloro che cioè vantano di discendere da Aaronne, fratello di Mosè”.

Aggiungo che lo stesso numero 611, 6+1+1=8, suggerisce un nuovo inizio, la Grazia allora non ancora esistente se non nelle profezie messianiche, quindi sotto questo aspetto già da allora la Legge denotava la necessità di un compimento, di una nuova era, o dispensazione più perfetta. E 6+1+3=10, la perfezione vista nell’esigenza di Dio nei confronti della Sua creatura. Come afferma infatti l’autore della lettera agli ebrei qui più volte ricordata, “Ma ora Gesù è incaricato di una funzione nuova e più grande: quella di essere mediatore di un’alleanza molto migliore, fondata su migliori promesse. Infatti, se la prima alleanza fosse stata perfetta, non sarebbe stato necessario sostituirla con un’altra.(…) Così Dio parla di un’alleanza nuova, e perciò dichiara superata l’alleanza precedente. E quando una cosa antica invecchia, le manca poco a scomparire” (8.6-13). Ciò è stato fatto “facendo ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”: senza tutte queste azioni, e altre che vedremo in questo cantico, nulla sarebbe cambiato. Ci sarebbero solo pecore sperdute, senza pastore, destinata a vagare prima di conoscere inevitabilmente la morte. Amen.

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