05.28 – COME PREGARE (Matteo 6.5-8)

05.29 – Come pregare (Matteo 6.5-8)

5E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.6Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.7Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. 8Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate.”.

Qui inizia il secondo insegnamento di Gesù sulla pratica della “giustizia” che, nel caso di specie, abbiamo visto essere tripartita in elemosina, preghiera e digiuno. Il gruppo di versi letto è molto particolare perché, secondo Matteo, precede l’esposizione del “Padre nostro” e, prima di insegnarla, Nostro Signore si preoccupa ancora una volta di far riflettere sulla differenza tra ciò che è ostentazione con fini non spirituali e il reale atteggiamento che deve contraddistinguere la preghiera. Ci troviamo su un terreno delicato perché, alla luce delle parole “hanno già ricevuto la loro ricompensa”, possiamo individuare uno stato d’animo che trova la sua soddisfazione nell’avere lo sguardo degli altri, che di se stessi: poltrone o palchi privati non si trovano solo a teatro, ma purtroppo sono numerosi anche in quel cristianesimo fatto di manifestazioni esteriori che alimentano costantemente quella “loro ricompensa” di cui parla Gesù.

Ci siamo già occupati del fatto che chiunque si colloca, o pretende di farlo, in una posizione spirituale dichiarando la propria fede agli uomini, da quel momento è inevitabile si ponga come esempio e quindi “insegni”: lo fa con le proprie azioni quotidiane indipendentemente dal fatto che si metta a predicare o a testimoniare in maniera più o meno dotta o ricercata. Abbiamo infatti letto “Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli” (Matteo 5.19-20). Se leggiamo il verso successivo, poi, appare chiaro che esiste una profonda differenza tra l’ipocrisia e la pratica della verità, come dalle parole “Se la vostra giustizia non supererà– cioè non andrà oltre – quella degli scribi e dei farisei, voi non entrerete nel regno dei cieli” (v.21). Le due categorie di persone che Gesù cita così spesso, scribi e farisei, col loro esempio negativo avevano finito per insegnare agli altri “a fare altrettanto”, vale a dire avevano ridotto la preghiera a un atto formale, facendo sì che anche quella personale ne risentisse: tutti li vedevano e nella loro ignoranza, o umana “semplicità”, avevano finito per considerarli persone veramente devote ammirandoli e, inevitabilmente, quell’atteggiamento formale aveva finito per contagiarli.

La preghiera pubblica era quella che veniva fatta in tempi stabiliti del giorno e il giudeo devoto si fermava ovunque si trovasse (a meno che il luogo non fosse impuro) e recitava quanto prescritto stando in piedi. Lo faceva immedesimandosi nel testo, solitamente quello di un Salmo, facendolo proprio, perché ancora non era sceso lo Spirito Santo che, come scrive l’apostolo Paolo ai Romani “…viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con sospiri ineffabili” (8.26). Anche i musulmani pregano in pubblico a tempi prestabiliti e l’osservanza di questa pratica è considerata un segno di grande devozione.

Gesù, venuto “non per abolire, ma per adempiere” non intende demolire la preghiera pubblica, ma censura gli intenti diversi dalla sincerità con cui ci si dovrebbe approcciare ad essa e, con le parole “amano stare ritti in piedi”, smaschera quanti agivano in tal modo.

Ma cosa chiedere al Dio che ascolta e vede, come raccordare una posizione pubblica con il prossimo che ti guarda e considera, con l’accoglimento e l’esposizione reale dei contenuti? Nostro Signore non si occupa dell’orazione comunitaria della Chiesa in cui è inevitabile che i fratelli si ritrovino alla Sua presenza, ma ancora una volta si occupa della persona con quel “ma tu” sul quale ci siamo già soffermati tempo addietro. Gesù doveva spiegare ai presenti sul monte che tutto partiva dall’interno dell’uomo invitato a cercare prima di tutto il rapporto individuale con YHWH che lo avrebbe guidato e chiamato direttamente. Ricordiamo sempre che la Chiesa è comunità formata da individui, ciascuno con la sua funzione vista nel corpo di Cristo e nelle “molte membra”, o se vogliamo è un edificio composto da molte pietre, non mattoni cotti in una fornace, ciascuno con le stesse dimensioni e fattezze.

L’ipocrita recita una parte, ha un ruolo che è quello di impressionare un pubblico, nulla a che vedere con la verità e l’esaudimento che si ritrovano nel rapporto personale con Dio. Si tratta di scegliere. Vuoi una ricompensa? Scegli se avere quella dell’ammirazione umana da parte dei membri di una comunità religiosa, o quella che proviene dalla ricerca dell’incontro col tuo Signore, che Davide ha descritto in modo stupendo e poetico nel Salmo 139 citato la volta scorsa.

Nelle parole di Gesù però c’è molto di più, perché l’insegnamento sulla preghiera occupa una posizione centrale e si allarga notevolmente, essendo un “tu” al tempo stesso personale e comunitario. Ci possiamo infatti ricollegare alle parole di Maria di Magdala quando, piangente vicino al sepolcro vuoto, rispose ai due angeli che le chiedevano il motivo delle sue lacrime: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto” (Giovanni 20.13). Certo Maria non poteva avere l’esclusiva dell’appartenere a Cristo e viceversa, ma queste parole rappresentano il sentimento di totale aderenza a Lui. Quel Signore che umanamente non sapeva dove fosse nonostante avesse dichiarato che sarebbe risorto, dal punto di vista affettivo e del rapporto individuale era unicamente di quella donna e al tempo stesso degli altri coi quali aveva condiviso la vita di predicazione del Vangelo. Ma la prevalenza del rapporto è da vedersi con il “mio”: è lui che mi ama, mi parla, mi sostiene.

Ecco allora il “tu” che diventa “mio”, cioè non può che coinvolgere l’esterno e l’interno della persona e da lì riversarsi nella comunità, nella Chiesa. Ecco allora che il “mio” diventa poi “nostro”, un plurale che leggiamo nella preghiera del Padre nostro: “nostro” – “dacci oggi” – “rimetti a noi” – “non indurci” – “liberaci dal male”. Sono quattro richieste perché possiamo rimanere in equilibrio, per quanto il “non indurci” sia una traduzione errata e vada piuttosto intesa come “non esporci” o meglio ancora, come vedremo, “non abbandonarci”. Avremo modo di affrontare i plurali nelle prossime riflessioni; per ora è necessario sostare ancora sul singolare, che si riflette comunque nel plurale e viceversa perché è da lì che parte la costruzione della Chiesa, la Comunità dei salvati che Dio riunisce sulla terra in attesa di chiamarli a Lui per sempre.

La comunità beneficia sempre della preghiera del singolo, della persona spirituale che ben difficilmente si dichiarerà tale per avere una posizione d’onore sugli altri: agirà con l’obiettivo di camminare unito a Cristo, o a YHWH per gli uomini dell’Antico Patto. Pensiamo ad Abramo che fece intercessione per Sodoma, a Simeone “guardiano” del Tempio, al “rimanente fedele” degli ultimi tempi e al passo “Iddio conosce quelli che sono suoi”.

L’esortazione di Gesù è quindi quella di cercare la comunione col Padre “nel segreto”, di chiudersi in camera, concetto che esamineremo nel corso della trattazione del “Padre nostro”, là dove nel “chiudere la porta” individuiamo l’atto con cui lasciamo fuori tutto ciò che ci ha accompagnato fino a poco prima, non certo solo le persone: pensieri, idee, preoccupazioni, turbamenti, perché viceversa correremmo il rischio di ripetere le nostre richieste come una sorta di mantra oppure, attaccati al contingente, presenteremmo una “lista della spesa” esattamente come farebbero quei “pagani che credono di venire ascoltati a forza di parole”. È il bambino che vede solo le proprie necessità e si crede al centro del mondo, non l’adulto ed è per questo che abbiamo l’esortazione ad essere “bambini in malizia e uomini maturi in senno” (1 Corinti 14.20).

È l’equilibrio che può garantire un esaudimento, che non può essere insegnato ma va ricercato: molto spesso gli insegnamenti di Gesù sono solo un appello al buon senso spirituale che purtroppo non sempre l’uomo possiede e quindi cade in contraddizioni tremende; ricordiamo ad esempio l’offerta sull’altare che non può essere presentata nel momento in cui il nostro prossimo ha qualcosa contro di noi: il “debito” che abbiamo col fratello impedisce l’accoglimento di essa e, nel nostro caso, della preghiera.

Pensiamo ancora al “tu” di Gesù che invita il singolo, l’individuo, a presentarsi lasciando fuori dalla porta tutto quanto può interferire col rapporto col Padre: è quello il momento in cui si realizza il confronto tra due elementi, Dio che ascolta e l’uomo. La porta che tiene fuori ciò che disturba può metterci in condizione non tanto e solo di chiedere, ma di confrontarci, discorrere, fare il punto di situazioni più che chiedere aiuto per i fatti contingenti della vita di cui è detto “il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate” (v.8).

Quando ero giovane mi chiedevo, alla luce di queste parole, per quale motivo io dovessi pregare per le mie necessità se queste erano già conosciute dal Padre: la parte più importante del verso, però, è quella che informa dell’onniscienza di Dio che ci osserva; sa di cosa abbiamo bisogno realmente e non di ciò che noi riteniamo sia importante. E questo consola e illumina. A volte possiamo essere convinti di avere necessità della soluzione ad un problema e vediamo solo quello e purtroppo istintivamente, come i bambini, vorremmo che il suo appianamento fosse immediato: non è così. Non sempre, almeno. L’apostolo Pietro raccomanda di riversare “…su di Lui ogni preoccupazione, perché Egli ha cura di voi” (1 Pt 5.7): questa è una verità che dovrebbe spingerci, nella preghiera che rivolgiamo a Dio nella preoccupazione che talvolta si muta in angoscia, a chiedere quell’aiuto, ma anche l’accettazione di una Sua volontà diversa nei nostri confronti. Perché l’accoglimento della preghiera non è detto che avvenga secondo le nostre intenzioni. L’importante è avere una risposta, la soluzione di un dubbio e, sotto quest’ottica, un “sì” o un “no” hanno lo stesso valore.

Chi ebbe un’esperienza diversa da quella che si aspettava, cioè un esaudimento risolutivo di un problema, fu l’apostolo Paolo che, affetto da una malattia agli occhi provocatagli da schiaffi e pugni presi in carcere, pregò Dio che lo guarisse. Paolo passò del tempo a interrogarsi sul perché rimanesse così e, scrivendo ai Corinti, lo spiegò: “Perché  non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di Satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che lo allontanasse da me– ecco il rifiuto dell’usare molte parole come i pagani –. Ed Egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella tua debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Corinti 12.7-9). Da Dio una risposta arriva sempre anche se i suoi tempi non sono i nostri. Paolo accettò questa condizione, continuando a scrivere anche se il corpo dei suoi caratteri, a causa della vista, aumentò considerevolmente e, a un certo punto, dovette ricorrere all’aiuto di altri fratelli che redigessero alcune lettere (pensiamo a Terzio con la lettera ai Romani). Ma ebbe rivelazioni che non furono rivolte a nessun altro uomo.

Il credente è sempre nell’amore di Dio, tanto nella gioia sulla terra quanto nel suo opposto. Prende il dolore come parte integrante di essa. Sa di essere nelle Sue mani. A differenza degli altri uomini non salvati, può guardare a Lui. Sempre. Amen.

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