05.35 – PADRE NOSTRO 5/9 (Matteo 6.9-13)

05.35 – Padre nostro – V (Matteo 6.9-13)

 

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

 

RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI…

Il verso 12 è molto chiaro e parrebbe non necessario di approfondimenti: si chiede al Padre la remissione dei debiti che abbiamo con Lui come noi ci impegniamo a fare altrettanto con chi li ha verso di noi o, meglio, perché abbiamo avuto, accettando il Vangelo, lo stesso trattamento da Lui. Anche se è così, possiamo dire che questo è un verso molto impegnativo e la comprensione di quanto esprime credo possa far del bene a tutti noi, stante il rapporto profondo e continuo esistente tra Antico e Nuovo Patto. Ancora una volta dobbiamo partire dalla realtà conosciuta dagli uditori di Gesù che, nell’attesa che la parola “debito” venisse spiegata con la parabola del servo spietato, potevano collegarsi alla preghiera che Salomone rivolse a YHWH quando l’Arca dell’alleanza fu trasferita nel tempio. La preghiera è contenuta in 1 Re 8.36-50 e ne riportiamo una parte: “Quando il tuo popolo Israele sarà sconfitto di fronte al nemico perché ha peccato contro di te, ma si converte a te, loda il tuo nome, ti prega e ti supplica in questo tempio, tu ascolta nel cielo, perdona il peccato del tuo popolo Israele e fallo tornare sul suolo che hai dato ai loro padri. Quando si chiuderà il cielo e non ci sarà pioggia perché hanno peccato contro di te, ma ti pregano in questo luogo, lodano il tuo nome e si convertono dal loro peccato perché tu li hai umiliati, tu ascolta nel cielo, perdona il peccato dei tuoi servi e del tuo popolo Israele, ai quali indicherai la strada buona su cui camminare, e concedi la pioggia alla terra che hai dato in eredità al tuo popolo. Quando sulla terra ci sarà fame o peste, carbonchio o ruggine, invasione di locuste o bruchi, quando il suo nemico lo assedierà nel territorio delle sue città o quando vi sarà piaga o infermità di ogni genere, ogni preghiera e ogni supplica di un solo individuo o di tutto il tuo popolo Israele, di chiunque abbia patito una piaga nel cuore e stenda le mani verso questo tempio, tu ascoltala nel cielo, luogo della tua dimora, perdona, agisci e da’ a ciascuno secondo la sua condotta, tu che conosci il suo cuore, poiché solo tu conosci il cuore di tutti gli uomini, perché ti temano tutti i giorni della loro vita sul suolo che hai dato ai nostri padri”.

Qui viene descritta una realtà che è presa d’atto di una sconfitta, di eventi che, per la dispensazione in cui si trovava il popolo, potevano essere chiaramente riconducibili ad un intervento di Dio teso a punire una condizione di peccato. Allo stato di cose descritto, cioè l’essere vinti dal nemico, la presenza della siccità, della malattia o altro, segue una vera richiesta di perdono dovuta a un forte dolore interiore. Il popolo, cioè, non avrebbe dovuto soltanto “chiedere perdono” come in un banale rito, ma convertirsi (ricordiamo le parole di Giovanni Battista, “ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino”).  Salomone stesso dice “Se si convertono dal loro peccato”, ponendo la condizione, la sola in grado di testimoniare che il ravvedimento è avvenuto e che la richiesta di perdono è sincera. Possiamo dire che, relativamente alla remissione del peccato da parte di Dio, la stessa cosa avviene anche oggi: in questo tempo in cui le calamità naturali sono una conseguenza delle violenze che uomini scellerati hanno perpetrato su un pianeta prossimo al collasso, non possiamo certo fare gli stessi collegamenti dell’Israele allora; tuttavia per ogni uomo viene il momento in cui si ritrova a fare i conti con delle sconfitte di fronte alle quali è obbligato a chiedersi se queste derivino dal naturale svolgersi della vita, oppure siano un richiamo di Dio alla conversione e questo vale anche per i credenti.

Nell’ultima parte della preghiera di Salomone, poi, vediamo come veda il popolo come organismo di individui, passando ad esaminare il singolo perché facente parte di esso e per questo dotato di individualità e responsabilità: “Dà a ciascuno secondo la sua condotta, tu che conosci il suo cuore”. Lo stesso avviene anche oggi per noi.

Nel Padre nostro Gesù parla di “debiti”perché, come vedremo, esiste un “debito” con Dio, quello che non c’è uomo sulla terra che non abbia, e dei “debiti”. Il primo è quello che rendeva i cristiani incompatibili con Lui visto nella condizione di peccato ereditata alla nascita, i secondi sono quelli che come credenti possiamo sempre contrarre a causa di una mancata vigilanza sulle nostre azioni, cioè quelli che possiamo commettere nella carne perché siamo defettibili. Essere dei salvati non implica l’essere santi e puri a prescindere delle nostre azioni, cioè che siamo stati liberati dal peccato una volta per tutte e che quindi non peccheremo più, ma percorrere una strada fatta di astensione da ciò che offende la nostra dignità e posizione di credenti penalizzando anche fortemente il rapporto che abbiamo con Lui.

Cos’è il peccato? È un termine che si riferisce a qualsiasi azione che possiamo commettere estranea alla volontà e santità di Dio. Il “peccato” è prima di tutto un modo di ragionare, di essere e di vivere, quello di chi esiste ignorando più o meno deliberatamente la Sua presenza, le Sue aspettative nei confronti della creatura che si ritrova così abbandonata a se stessa e cerca di soddisfarsi da un punto di vista fisico e psichico raggiungendo lo scopo per brevi periodi. Ora sappiamo che, grazie al sacrificio di Cristo sulla croce, chiunque lo comprenda e lo accetti consapevolmente per la propria salvezza eterna, in tal modo accogliendolo, viene fatto figlio di Dio venendo liberato dalla sua condizione di peccatore: viene accolto così com’è, viene perdonato, cessa di essere straniero ed avventizio secondo versi che abbiamo citato diverse volte.

L’Agnello di Dio toglie il “peccato del mondo”, non “dal” mondo, non elimina la possibilità di compierlo anche da parte di chi è salvato e redento. E per “togliere” si intende prendere su di sé. C’è un’opinione diffusa in certe Chiese cristiane secondo la quale chi ha creduto, perdonato una volta per sempre dal sangue versato di Cristo, non abbia più bisogno di domandare il perdono dei suoi peccati quotidiani perché non può più peccare. Eppure Giovanni nella sua prima lettera sappiamo che scrive “…se qualcuno ha peccato, noi abbiamo un Avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto“ (1 Giovanni 2.1).

Davide scrisse “Per il tuo nome, Signore, perdona la mia colpa, anche se grande” (Salmo 25.11), e “Liberaci e perdona i nostri peccati, a motivo del tuo nome” (Salmo 79.9), richieste rivolte a chi è tanto giusto quanto pietoso nei confronti della creatura che a Lui si rivolge. Possiamo dire che la preghiera del “Padre nostro” si occupa non del debito originale, ma di quelli che si accumulano o possono presentarsi lungo il nostro cammino terreno di cui chiediamo la remissione, possibile a due condizioni: perché ne abbiamo compreso la portata e perché li abbandoniamo, la sola azione che possa dimostrare, come già detto, l’avvenuto ravvedimento. Quando ero bambino e andavo a confessarmi, al termine c’era l’”atto di dolore” che si concludeva con le parole “propongo di non offendervi mai più, Signore misericordia perdonatemi”: col tempo, mi sono chiesto se pronunciare quelle parole a distanza di giorni non fosse un alibi, un modo per legittimare certi miei comportamenti perché tanto venivo perdonato e assolto comunque. La stessa cosa succede a molti anche oggi, che pongono in essere comportamenti liberi sapendo che tanto poi, andandosi a confessare, si pentono formalmente regolando così i propri “debiti”.

Nulla di più sbagliato. Si tratta di un modo di ragionare falso e distorto, utilitaristico, che non ha nulla a che vedere con lo Spirito e tutto ha a che fare con l’essere umano carnale, diabolico e ipocrita perché sapere che non esiste peccato che non possa essere rimesso non è una realtà che possiamo distorcere a nostro vantaggio, servircene per i nostri fini personali. Chi agisce così è una persona che, se non si ravvede, sarà solo un religioso, cioè uno che rientra nelle categorie di cui Gesù sappiamo disse “Questo è il premio che ne hanno”.

Utile in proposito un breve commento e relativa lettura su Efesi 4.17-32 che si apre con un paragone importante. L’apostolo Paolo si rivolge a dei credenti che avevano da poco abbandonato il paganesimo e quindi risentivano inevitabilmente dei suoi retaggi e per questo vengono invitati a meditare sulla loro condizione: “Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri, accecati nella loro mente, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro e della durezza del loro cuore. Così, diventati insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza e, insaziabili, commettono ogni sorta di impurità”. Qui vediamo che il paganesimo, la vita normale quotidiana, “orizzontale”, si caratterizza con vani pensieri, cioè “privi di consistenza, internamente vuoti”, cecità mentale, estraneità alla vita di quell’unico Dio che la vita può dare. Ignoranza e durezza del cuore, entrambe coltivate più o meno consapevolmente, hanno portato insensibilità spirituale e piena disposizione a ciò che è animale e terreno non dando loro altra scelta se non quella di rifugiarsi nella dissolutezza che va a tamponare l’insoddisfazione. I germi del paganesimo, che si concretano nell’anarchia spirituale, li porteremo sempre con noi, se non altro come bagaglio storico. C’è però un’avversativa lapidaria vista nel “Ma” che apre il verso 20: “Ma non così– cioè comportandovi in quel modo – voi avete imparato a conoscere il Cristo, sedavvero gli avete dato ascolto e sein lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare con la sua condotta di prima l’uomo vecchio che si corrompe seguendo passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità”.

Qui abbiamo un grande insegnamento: prima di tutto io noto dei “se”, che vanno idealmente a collegarsi alla preghiera di Salomone citata poco prima; è un “se” che fa la differenza, è una verifica, è un garanzia. Facile dire che si conosce Gesù Cristo e che si ha il Suo Spirito soprattutto in certi ambienti evangelici; molto meno agevole è dimostrare di avere abbandonato l’uomo vecchio che si corrompe seguendo passioni ingannevoli e ancor di più il suo metodo di giudicare. L’uomo vecchio segue le proprie passioni e si basa su di esse, ma alla fine queste crollano. Siamo chiamati a rinnovarci e a rivestire l’uomo nuovo. Siamo chiamati a non rimanere immobili nelle nostre posizioni perché la stasi non esiste e comprometterebbe gravemente la nostra realtà. Chi non si evolve, come ci dimostra la “parabola dei talenti”, in realtà va indietro e peggiora progressivamente senza rendersene conto.

Agire senza rinnovarsi, senza cercare di portare il nostro modo di pensare e di essere a un livello superiore coltivando lo Spirito ma continuando nelle azioni dell’ ”uomo vecchio”, equivale a contristarlo: “E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione. Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato voi in Cristo”. Ecco un’altra applicazione col debito rimesso: lo Spirito Santo abbiamo letto che è un “segno” dato per il giorno della redenzione, ma la presenza dentro di noi di elementi dominanti estranei, come quelli che caratterizzano l’uomo vecchio che a volte torna a manifestarsi, fanno parte di quei tanti “debiti” che abbiamo il diritto dovere di chiedere al Padre che ci siano rimessi. E siccome le stesse azioni negative le possono compiere dei fratelli nei nostri confronti, chiedere che ci venga perdonato senza che noi perdoniamo, è un’assurdità. L’uomo che un giorno si è messo alla ricerca di Dio, trovandolo, non può venire lasciato solo nel proprio cammino di ricerca e edificazione spirituale.

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