05.30 – INTRODUZIONE AL PADRE NOSTRO II/II (Matteo 6.9-13)

05.31 – Padre nostro – Introduzione II (Matteo 6.9-13)

 

5E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 6Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.7Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. 8Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate.9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

Siamo così arrivati al secondo incontro introduttivo sulla preghiera insegnata da Gesù, nel sermone sul monte, ai discepoli e a tutti quanti vollero incontrarlo. Il verso settimo prende in esame una categoria nuova di persone, cioè i pagani che vengono associati ai farisei e a chi pratica una vuota religiosità alla quale potevano affiancarsi anche manifestazioni di lesionismo corporali che estendevano il concetto di “mortificazione” che avveniva tramite il digiuno. È interessante il verbo greco che ha utilizzato forse lo stesso Matteo dall’aramaico, “Battologhéo”, riferito a Battos, poeta greco verboso e prolisso noto per le sue continue ripetizioni inutili e retoriche. È scritto che i pagani pensano di essere esauditi per la moltitudine delle loro parole: un riferimento (anche) a 1 Re 18.26 quando viene riportato che i profeti di Baal invocarono il nome del loro dio dal mattino fino a mezzogiorno, “26…ma non si udì alcuna voce e nessuno rispose. Intanto essi saltavano intorno all’altare che avevano fatto”. 27A mezzogiorno Elia cominciò a beffarsi di loro e a dire «Gridate più forte, perché egli è dio: forse sta meditando o è indaffarato o è in viaggio, o magari si è addormentato e dev’essere svegliato». 28Così essi si misero a gridare più forte e a farsi incisioni con spade e lance secondo le loro usanze finché grondavano di sangue. 29Passato mezzogiorno, essi profetizzarono fino al tempo di offrire l’oblazione, ma non si udì alcuna voce, nessuno rispose e nessuno diede loro retta”. Troviamo un riferimento interessante anche nel Nuovo Testamento, in Atti 19.34 quando, per circa due ore, tutti gridavano “Grande è la dea Diana degli Efesini”. È un mantra, la ripetizione infinita, cui non pochi tra i medici della psiche e purtroppo anche nel cristianesimo attribuiscono un valore.

Illuminanti le parole in Ecclesiaste 5.1-3 “1Bada ai tuoi passi quando vai alla casa di Dio: avvicinati per ascoltare piuttosto che per offrire il sacrificio degli stolti, i quali non sanno neppure di far male. 2Non essere precipitoso con la tua bocca e il tuo cuore non si affretti a proferire alcuna parola davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu sulla terra: perciò siano le tue parole poche. 3Poiché con le molte occupazioni vengono i sogni e con le molte parole la voce dello stolto”. È importante notare che, in questi versi, quando troviamo scritto “Dio” il testo originale abbia il plurale Elohim e quindi suggerisca il concetto trinitario che andrebbe tradotto “Iddio”. C’è però il pericolo di un fraintendimento, poiché la lettura di questi versi sembra esortare a una preghiera breve a prescindere: chi può quantificare il tempo giusto per farlo? Nel senso, vanno bene pochi secondi o pochi minuti? Se sì, quanti? Quante parole sono necessarie perché, come ha scritto Salomone, siano considerate “poche”?

In realtà Nostro Signore e il riferimento nell’Ecclesiaste non parla del pregare tanto o poco, ma all’intelligenza della persona: “pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con intelligenza”, scrisse Paolo in 1 Corinti 14.15. È probabile che qui Gesù, che passava notti intere a pregare, abbia fatto un riferimento al non fare della ripetizione e della lunghezza della preghiera un obbligo con la speranza-garanzia che questa venga esaudita esattamente come speravano i profeti di Baal di cui abbiamo letto. È la preghiera del pagano che chiede segni, miracoli, manifestazioni soprannaturali o che la vita si svolga attraverso esaudimenti di richieste materiali; quella del cristiano, invece, deve avere intenti e origini opposte viste nel dialogo, nel confronto col Padre ora possibile grazie allo Spirito Santo e all’intercessione del Risorto.

Infatti il verso successivo parte con l’esortazione – comandamento: “Non siate come loro” e ne spiega il motivo, “perché il Padre vostro sa le cose di cui avete bisogno prima che gliele chiediate”. Se il pagano è convinto che il suo dio vada informato delle cose che gli necessitano, il cristiano è spinto alla preghiera fondamentalmente perché ha bisogno della comunione col Padre e che questo implica necessariamente un profondo esame di coscienza: ci presentiamo a lui consci delle nostre mancanze e ne chiediamo perdono? Abbiamo dei pesi che ostacolano il nostro cammino di comunione? Ci mettiamo davanti a Lui con onestà di cuore, rifuggendo le eventuali contaminazioni, siamo attenti? Abbiamo dei peccati non confessati e non lasciati?

Il Padre sa di cosa abbiamo bisogno prima che glielo domandiamo. Siamo qui a un bivio: il Creatore che sa cosa necessita realmente la Sua creatura, ma questa spesso non conosce le sue necessità spirituali, al contrario delle sollecitudini ansiose che ha ben presente: “Non cercate di che cosa mangerete o che cosa berrete e non ne siate in ansia, perché le genti del mondo cercano tutte queste cose, ma il Padre vostro sa che voi ne avete bisogno” (Luca 12.29-30).

 

Il sette, l’otto e altri numeri

Quello che mi ha stupito ed altrettanto edificato nell’esaminare il contesto di questa preghiera è la posizione che occupa il sostantivo “Padre” all’interno dei capitoli 5 e 6 del Vangelo di Matteo. Vediamo i versi che precedono il “Padre nostro”:

 

  1. “…affinché siate figli del Padre vostro” (5.45)
  2. “Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro, che è nei cieli” (5.48)
  3. “…altrimenti voi non ne avrete ricompensa presso il Padre vostro, che è nei cieli” (6.1)
  4. “… e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà ricompensa palesemente” (6.4)
  5. “…chiudi la porta e prega il Padre tuo, che vede nel segreto” (6.6)
  6. “…e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà pubblicamente” (6.6)
  7. “…il Padre vostro sa le cose di cui avete bisogno prima che gliele chiediate” (6.8)
  8. “Padre nostro che sei nei cieli…” (6.9)

 

Le riflessioni che si possono fare a questo punto sono molte. Guardando ai primi sette versi che riportano la parola “Padre”, non si può ignorare che la loro quantità ha riferimento diretto a Dio, alla Sua opera, pienezza e perfezione. La presenza di questo numero è costante in tutta la Bibbia a partire dalla Genesi quando fu il settimo giorno a fare da sigillo alla creazione. Tra innumerevoli episodi citabili, sono particolarmente importanti le sette volte in cui il generale del re di Siria Naaman fu mandato a bagnarsi nel Giordano da Eliseo per guarire dalla lebbra, oltre ai sette anni impiegati da Salomone per costruire il Tempio, per non parlare della costante del numero nel libro dell’Apocalisse.

Forse può essere interessante, a proposito del Sette, citare la figura di Ivan Nikolayevich Panin (1855 – 1942), critico letterario nichilista e agnostico molto conosciuto in Canada e negli Stati Uniti d’America, che si convertì al Cristianesimo quando, analizzando numericamente i testi del Nuovo e Antico Testamento, dopo un lavoro durato otto anni ed aver riempito un totale di circa 40mila pagine, giunse alla conclusione che il numero 7 è alla base di tutta la struttura letteraria biblica a patto che questa non sia manipolata tramite l’inserimento di parole non presenti nell’originale. Ivan Panin dedicò i restanti 50anni della sua vita allo sviluppo della scienza dei numeri biblici rifiutando incarichi universitari anche prestigiosi.

Può essere interessante cercare in rete “Ivan Panin” dove i dati sulla sua ricerca abbondano. Mi limito a trascrivere la sua ricerca sul verso di Genesi 1.1 “Nel principio Iddio creò i cieli e la terra”.

La frase in ebraico è composta di sette parole, ciascuna delle quali ha il suo valore numerico complessivo, che si ottiene sommando il valore di ogni lettera:

– בראשית 913 (400+10+300+1+200+2) Nel principio

– ברא 203 (1+200+2) creò

– אלהים 86 (40+10+5+30+1) Dio

– את 401 (400+1) Articolo indefinito non traducibile

– השמים 395 (40+10+40+300+5) i cieli

– ואת 407 (400+1+6) e

– הארץ 296 (90+200+1+5) la terra

In questo breve versetto, il numero sette con i suoi multipli ricorre in decine di combinazioni di cui riportiamo solo alcuni esempi:

– Il numero delle parole del verso è 7.

– Vi sono tre importanti parole: Dio, cieli, terra che hanno valore 86, 395, 296. Sommati tra loro danno 777, cioè 111×7.

– Il numero delle lettere di queste tre parole (Dio, cieli, terra) è 14 (2×7).

– Il numero delle lettere delle quattro restanti parole è sempre 14 (2×7).

– Il numero totale delle lettere ebraiche in questa frase è dunque 28 (4×7).

– Le prime tre di queste sette parole ebraiche contengono il soggetto e il predicato della frase: “Nel principio Iddio creò”. Il numero delle lettere di queste tre parole è 14 (2×7).

– Le altre quattro parole contengono l’oggetto della frase: “i cieli e la terra”. Il numero delle lettere di queste quattro parole è anch’esso 14 (2×7).

– Il valore numerico del verbo “creò” è 203 (29×7).

– Il numero trovato sommando il valore numerico della prima e dell’ultima lettera di tutte e sette le parole che compongono questo versetto è 1393 (199×7).

– Il numero 1393 si divide nella seguente maniera:

  1. a) il numero che si ottiene sommando i valori numerici della prima e dell’ultima lettera della prima e della settima parola è un multiplo di 7: 497 (71×7)
  2. b) Il numero che si ottiene sommando i valori numerici della prima e dell’ultima lettera delle cinque parole rimaste in mezzo è anch’esso un multiplo di 7, cioè 896 (128×7),

– L’ultima lettera della prima e dell’ultima parola hanno un valore numerico totale di 490 (70×7)

– La più breve parola è al centro. Il numero ottenuto sommando le lettere di questa parola sommate con le lettere della parola alla sua sinistra è 7.

– Il numero ottenuto sommando le lettere di questa parola sommate con le lettere della parola alla sua destra è 7.

 

Le perfezioni del numero non ricorrono solo nell’AT, ma anche nel Nuovo. Ad esempio nella genealogia di Gesù riportata da Matteo (che non a caso scrive per gli ebrei) e, sempre nel primo capitolo, ai versi da 18 a 25 in cui si narra della visita dell’angelo a Maria e della nascita di Gesù. In questo caso abbiamo:

  • in numero delle parole greche è 161 (23×7)
  • il valore numerico di queste 161 parole è di 93.394 (13.342×7)
  • Il numero delle forme grammaticali in cui queste 161 parole ricorrono è 105 (15×7)
  • Il valore numerico di queste parole usate nelle 105 forme è 65.429 (9347×7)
  • Di queste 105 forme il numero dei verbi è 35 (5×7)
  • Di queste 105 forme il numero dei nomi propri è 7
  • Il numero delle lettere in questi 7 nomi propri è 42 (6×7)
  • Il numero delle forme trovate in questo brano, ma che non si trovano in nessun’altra parte del Vangelo di Matteo è 14 (2×7)
  • Il valore numerico di queste 14 forme è 8.715 (1.245×7)
  • Le sei parole greche trovate in questo brano e che non si trovano in nessun’altra parte del libro di Matteo hanno un valore numerico di 5.005 (715×7)
  • Il numero delle lettere di queste sei parole è esattamente 56 (8×7)
  • L’unica parola trovata qui, ma che non so trova in nessun’altra parte del NT è il nome “Emanuele” il cui valore numerico è 644 (92×7)
  • Il numero delle forme
  • Il valore numerico di tutte le parole usate dall’angelo è di 21.042 (3006×7)
  • Il numero delle forme usate dall’angelo è 35 (5×7)
  • Il numero delle lettere greche in queste 35 forme usate dall’angelo è 168 (24×7)
  • Il valore numerico delle 35 forme usate dall’angelo è di 189.397 (2.772×7).

Ho riportato questi dati unicamente per rendere un’idea della perfezione che esprime questo numero.

 

Torniamo al tema delle prime sette volte in cui compare la parola “Padre”: notiamo che, negli aggettivi accanto a questa parola, abbiamo quattro volte “Vostro” e tre “Tuo”, a mio giudizio una chiara allusione alla stabilità (il numero 4) della Chiesa che sarebbe nata (vista in quel “Vostro” che accomuna) e alla imminente, nuova perfezione del rapporto individuale (il numero 3) visto nel “Tuo”, possessivo che abbiamo già visto Maria di Magdala dichiarare splendidamente con le parole “…hanno portato via il mio Signore e non so dove l’abbiano posto” (Giovanni 20.13). Era il Signore di tutti, ma in questa espressione Maria volle dichiarare tutto l’amore individuale che aveva per Lui e Lui per lei, così come ogni credente dovrebbe testimoniare.

Ora il “Padre nostro” compare per l’ottava volta quanto a parola “Padre”, ma per la prima con il possessivo “nostro”, segno di un cambiamento profondo, lo stesso che comporterà la resurrezione di Cristo, avvenuta sì nel primo giorno della settimana, ma anche nell’ottavo così come è chiamato altrimenti. Il “Padre nostro” come posizione e definizione può essere considerato sia all’ottavo posto, sia al primo ciclico di una serie di altri che si trovano a seguire. L’otto è quindi abbinabile alla nuova vita, quella eterna a cui destina tutti coloro che Lo accolgono, Lui che ci ha dimostrato che non è la morte ad avere l’ultima parola per cui è chiamato anche “Il primogenito dai morti” (Apocalisse 1.5), ma ancor di più in Romani 8.29: “…poiché quelli che ha preconosciuto, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Suo Figlio, sia da essere lui il primogenito fra molti fratelli”. Il numero otto ha riferimento con un’altra creazione, quella appunto della “Nuova creatura” di cui parla l’apostolo Paolo in 2 Corinzi 5.17: “Se dunque uno è in Cristo, è un nuova creatura; le cose vecchie son passate, ecco, tutte le cose sono diventate nuove”. È un ottavo giorno che ogni essere umano può sperimentare.

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05.29 – INTRODUZIONE AL PADRE NOSTRO (Matteo 6.9-13)

05.30 – Padre nostro – Introduzione I (Matteo 6.9-13)

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

            Sono due le osservazioni da fare su questo testo: la prima è che, per lo meno in questa versione, viene finalmente corretta la traduzione “non indurci in tentazione” che purtroppo è diventata di dominio comune fra molti credenti, e la seconda è che manca, dopo “liberaci dal male” la pericope “Poiché tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli” in uso presso le Comunità Evangeliche. Non si tratta di un’aggiunta, azione dalla quale i veri traduttori si guardano bene di fare, né di un’omissione (per la quale vale lo stesso principio); piuttosto è questa una frase che si trova presente non in tutti i manoscritti e riportarla o meno è una scelta. “Tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli” non si trova nella Vulgata (IV secolo), ma compare nella versione Peshito, Siriaca e in quelle Sahidica e Thelaica del II secolo per poi mancare in quella Latina, dello stesso periodo. Siccome è opinione comune che gli antichi cristiani, seguendo l’esempio ebraico, avessero l’abitudine di aggiungere questa dossologia alla fine delle loro preghiere, alcuni hanno qui individuato una reminiscenza di tale uso. Personalmente mi ritengo a favore di una sua inclusione. Prima di trattare il “Padre nostro” sezione per sezione, credo sia giusto introdurlo; per farlo dovremo inevitabilmente tornare ai versi che abbiamo già letto la volta scorsa, quelli da 5 a 8, sui quali saranno possibili riflessioni aggiuntive.

La preghiera del “Padre Nostro”, sotto certi aspetti, si può dire che sia stata l’unica ad essere insegnata da Gesù a quanti lo ascoltavano e non possiamo escludere che fu ripetuta, come modello, in più occasioni, non sempre con le stesse parole così come leggiamo e confrontiamo Matteo e Luca che ci suggeriscono così l’idea di una preghiera dalla struttura non rigida e mnemonica, ma di contenuti.

Matteo, come abbiamo visto, la inserisce nel discorso detto “della montagna” in un punto particolarmente importante, cioè dopo avere affrontato il tema della preghiera individuale; Luca la pone in un momento più generico che viene descritto con queste parole: “Mentre stava pregando in un luogo, quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni insegnò ai suoi discepoli»” (Luca 11.1). Quel discepolo dovette constatare la differenza tra il modo di Gesù di presentarsi davanti al Padre e il suo: da lì si rese conto che, nonostante la tradizione che gli era stata trasmessa, non sapeva pregare cioè gli mancavano gli elementi per relazionarsi realmente con Dio. Se una persona chiede ad un’altra di insegnargli qualcosa, ammette di non saperla fare, o di farla male.

Due furono quindi i momenti “ufficiali” in cui fu insegnato il modello che tutta la cristianità conosce a memoria, ma non si può escludere che il Signore, stante la sua importanza, lo abbia proposto, in tutto o in parte, anche in altre circostanze nonostante Marco (che scrisse sotto la supervisione dell’apostolo Pietro) e Giovanni non ne parlino. Si può essere autorizzati a fare questa supposizione perché sappiamo che i Vangeli contengono una minima parte di quello che Gesù fece e insegnò: “Vi sono ancora molte altre cose fatte da Gesù che, se si volessero scrivere una ad una, credo che il mondo intero non potrebbe contenere i libri che si potrebbero scrivere” (21.25).

Sarebbe un errore esaminare questa preghiera senza soffermarci sugli insegnamenti precedenti ad essa; per questo credo sia giusto rileggere i versi da 5 a 9 di cui ci siamo occupati nello scorso studio, che spiegano la differenza tra il metodo di ragionamento umano, orizzontale, e quello di Dio, verticale: 5E quando pregate, non siate come gli ipocriti: poiché amano starsene a pregare nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze in modo da apparire agli uomini, vi dico per certo che ricevono la loro ricompensa. 6Tu invece, quando preghi, entra nella tua stanza e, chiusa la tua porta, prega il tuo Padre, quello (che è) nel segreto, e il tuo Padre che vede nel segreto ti ricompenserà. 7Pregando, non sproloquiate come i pagani, che ritengono che saranno esauditi nella loro verbosità. 8Dunque non siate simili ad essi, poiché il vostro Padre sa di che cosa avete bisogno prima che voi lo chiediate”.

La prima impressione che si ricava da questa lettura è che essa parla di separazione: saltano subito alla mente i frammenti “non siate come”, “Tu invece” e ancora, rafforzando il concetto, “dunque non siate simili ad essi”, riferiti a due categorie ben precise, sostanzialmente accomunate alle persone che non vanno oltre alla religiosità ostentata e quindi, intenzionalmente o per ignoranza, simulano per un proprio tornaconto. L’ipocrita, termine riferito anticamente all’attore, quindi una persona che fingeva di essere colui che nella realtà non era, trova un suo collegamento, per i tempi in cui Gesù parlava alle folle o ai discepoli, con i Farisei e gli Scribi, definiti appunto ipocriti. La preghiera finta si può manifestare con due atteggiamenti: il primo è esteriore e si caratterizza con manifestazioni pubbliche fine a se stesse nei luoghi di adunanza (sinagoga) o scelti per l’occasione: non in viottoli o in quei posti isolati in cui Gesù si recava spesso, ma quelli in cui la gente passava e non poteva fare a meno di considerare le persone che vedeva pregare, in piedi e oscillando avanti e indietro come gli ebrei usano fare ancora oggi, come pie. Si trattava di una strategia portata avanti per avere un’influenza maggiore presso il popolo e che andava a rafforzare il ruolo che quei personaggi avevano nella società del tempo influendo molto più dei Sadducei, che erano in maggioranza, nelle decisioni del Sinedrio.

Tra i tanti passi dei Vangeli che parlano dei comportamenti di costoro, ricordiamo le parole “E io vi dico che se la vostra giustizia non sarà maggiore di quella degli Scribi e dei Farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Matteo 5.20) e ancor di più quell’esempio in cui Gesù mette a confronto la preghiera di Fariseo e di un pubblicano: 10Due uomini salirono al tempio a pregare, uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il Fariseo, ritto in piedi, pregava dentro di sé così: «Ti ringrazio, o Dio, perché io non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti e adulteri, e nemmeno come quel pubblicano. 12Io digiuno due volte la settimana, pago le decime su tutto ciò che posseggo». 13Il pubblicano, invece, stando da lontano, non ardiva neppure alzar gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo «O Dio, abbi pietà di me, che sono peccatore». 14Io vi dico che questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro: perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”. Anche qui abbiamo un modello di preghiera errato e uno corretto: il primo resta lì, non va oltre al semplice compiacimento personale (ecco il “premio”) che non porta ad alcun vantaggio nel suo presunto rapporto con Dio, mentre il secondo, al di là del gesto esteriore del battersi il petto, frequente in Israele al pari dello stracciarsi le vesti, porta il frutto della giustificazione addirittura in un tempo in cui Gesù non si era ancora totalmente identificato nel peccatore arrivando a morire e risorgere per lui.

La preghiera del Fariseo che abbiamo letto contiene due “Io” espliciti (“non sono come gli altri uomini” e “digiuno due volte la settimana”) e due impliciti (“Ti ringrazio” e, in osservanza alla legge,  “pago le decime”): un totale di quattro, numero che ci parla dell’uomo, ma soprattutto di stabilità e base su cui costruire e quindi dell’opinione alta, ferma e assoluta che quell’uomo aveva di sé . Nel nostro versetto 5, rileviamo un altro particolare: queste persone è scritto che “amano” fare le cose che abbiamo letto, quindi si compiacciono ancora di più nella loro religiosità ostentata che va a gonfiare il loro orgoglio che si autoalimenta all’infinito impedendo quel processo di esame interiore, di coscienza, che ogni credente è chiamato a compiere. È solo un serio e consapevole inventario delle proprie azioni che può condurre la creatura alla conclusione di essere sempre e solo un peccatore che, per vivere, ha bisogno del perdono di Dio.

Il verso 6 propone invece un profondo cambiamento di rotta, visto nel “Ma tu”. Un invito, un avvertimento personale, molto più rafforzativo di un generico “voi”. “Tu” che leggi le mie parole che un mio servo ha riportato e che sono giunte a te dopo più di 2000 anni, “tu” che mi stai ascoltando su questo monte, “tu” che vuoi esimerti dal metodo ipocrita che ti ho appena descritto o vuoi sapere come fare, “quando preghi, entra nella tua stanza e, chiusa la tua porta, prega il Padre tuo, che è nel segreto, e il tuo Padre che vede nel segreto ti ricompenserà”.

C’è qui una situazione diametralmente opposta alla precedente, tesa a dimostrare l’assoluta intimità del rapporto non più con un Dio altissimo e irraggiungibile, ma con qualcosa di molto più vicino all’uomo. La preghiera comunitaria, così necessaria nell’adorazione e in altre circostanze, passa qui in secondo piano poiché una Chiesa, per definirsi tale, non può che essere composta da persone che hanno un’esperienza privata e personale, appunto, col Padre.

Ora nell’esortazione a entrare nella propria stanza e chiudere la porta c’è un messaggio che non poteva essere ignorato dalle persone allora presenti, poiché è un riferimento alla resurrezione del figlio della Sunamita operata da Eliseo (2 Re 4.32,33) di cui è scritto “Quando Eliseo entrò in casa, vide il fanciullo morto e sdraiato sul suo letto. Egli allora entrò, chiuse la porta dietro a loro e pregò l’Eterno”. Stessa cosa farà l’apostolo Pietro per la resurrezione di Tabita (Atti 9.40) e prima delle sue visioni sul puro e impuro (10.9 e seguenti), per quanto si trovasse sul terrazzo di casa. Le rivelazioni di Dio avvengono sempre quando la persona si trova appartata, e credo non potrebbe essere altrimenti. Nella solitudine, si conosce. Chiedere onestamente l’aiuto di Dio quando si guarda in se stessi è un’azione che produce sempre un risultato.

Nel verso sesto c’è una cronologia: l’intento della preghiera, l’ingresso nella stanza e la chiusura della porta. Le prime due azioni si spiegano da sole, la terza è una condizione. La porta chiusa ci parla di scelta, di condizione seria, del lasciare fuori tutto ciò che è di impedimento tanto all’esposizione che all’ascolto. La preghiera non è mai, non può essere un elenco sterile di bisogni più o meno carnali che vengono presentati a Colui che può, ma un rapporto tra creatura e Creatore qui rivelato come Padre. La chiusura della porta non può essere qualcosa di rituale, un’obbedienza a quanto troviamo scritto in questo passo, ma l’atto finale di un processo spirituale e mentale attraverso il quale rinunciamo a noi stessi consapevoli di non poter nascondere nulla a Colui che ci ha ammessi alla Sua presenza. Il Padre tuo è “in segreto” e “in segreto ricompensa” (alcune traduzioni riportano “ti ricompenserà in palese”) perché a volte l’esaudimento è recepito dal singolo, in altre anche da quanti conoscono il nostro stato e lo vedono mutare.

L’essere “in segreto” del Padre implica la Sua perfetta lettura della coscienza e dei suoi intenti, pronta a rivelarne se del caso la sua ipocrisia e a rendere un premio ad essa proporzionato. L’essere “in segreto” ci parla della profondità del rapporto creatura redenta – Creatore: se nulla può essergli nascosto possiamo avere la certezza, nella preghiera, non tanto del suo esaudimento, ma della correttezza della sua valutazione. Il Padre “riguarda” in segreto, verbo che ci parla della Sua perfetta valutazione e conoscenza del nostro esistere che è al tempo stesso prezioso e, sotto l’ottica dei “servi inutili”, insignificante. Ricordiamo Luca 17.10 “…così anche voi, quando avrete fatto tutto ciò che vi è stato ordinato, dite: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare»”.

Il segreto può essere di Dio – i Suoi piani rivelati e non – oppure dell’uomo, temporaneo, pericoloso: quanti segreti abbiamo? Quante cose ci illudiamo di tenere nascoste? Ebbene, “Non vi è nulla di nascosto che non si debba manifestare e nulla di segreto che non venga a risapersi e non venga messo in luce” (Luca 8.17).

Dio è colui che “conosce i segreti del cuore” (Salmo 44.21) e la Sua onniscienza e onnipresenza è ben descritta nel Salmo 139 di cui riportiamo i versi 3 e 4 particolarmente adatti al tema di cui ci stiamo occupando: “Tu esamini attentamente il mio cammino e il mio riposo e conosci a fondo tutte le mie vie. Poiché prima ancora che la parola sia sulla mia bocca tu, Eterno, la conosci appieno”. E infine, un avvertimento di cui tutti noi abbiamo bisogno per il nostro avanzamento spirituale, alla luce del “premio” di cui Gesù ha parlato a proposito del pregare in modo corretto o errato: “Io, l’Eterno, investigo il cuore, metto alla prova la mente per rendere a ciascuno secondo le sue vie, secondo il frutto delle sue azioni” (Geremia 17.10), perché “Non vi è alcuna creatura nascosta davanti a lui, ma tutte le cose sono nude e scoperte agli occhi di colui al quale dobbiamo rendere conto” (Ebrei 4.13). “…e tutte le chiese conosceranno che io sono colui che investiga le menti e i cuori, e renderò a ciascuno di voi secondo le sue opere” (Apocalisse 2.23). Ecco, io credo che, nella preghiera individuale e non solo, il concetto del “segreto” sia racchiuso anche in tutti questi versi che sono stati citati.

La chiusura della porta va fatta con onestà e consapevolezza perché, se non accettiamo ciò che questo comporta, rischiamo di compiere un gesto come tanti, formale, privo di significato, sterile che non va oltre la ricompensa data alla preghiera dei Farisei, degli ipocriti. La “ricompensa” che riceve chi prega non per proprio tornaconto come visto al verso 5, ma si pone di fronte a Dio per avere una risposta – che può essere positiva o negativa – è vista nel dialogo e nella consapevolezza che la preghiera rivolta sia accolta indipendentemente da quello che chiediamo. Troppo spesso si pretende, complice anche un mancato insegnamento sulla preghiera vista più come il presentare un elenco di richieste cui si accompagnano promesse o “voti” poi non mantenuti, che il “premio”, o ricompensa, di cui Gesù parla consista nell’esaudimento di quanto chiediamo: può anche essere, ma non è il primo elemento sul quale ci si deve basare. Piuttosto, vanno tenute presenti le parole che verranno riportate più avanti in 7.11: “Se dunque voi, che siete malvagi, sapete dare buoni doni ai vostri figli, quanto più il Padre vostro, che è nei cieli, darà cose buone a coloro che gliele chiedono?”.

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05.28 – COME PREGARE (Matteo 6.5-8)

05.29 – Come pregare (Matteo 6.5-8)

5E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.6Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.7Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. 8Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate.”.

Qui inizia il secondo insegnamento di Gesù sulla pratica della “giustizia” che, nel caso di specie, abbiamo visto essere tripartita in elemosina, preghiera e digiuno. Il gruppo di versi letto è molto particolare perché, secondo Matteo, precede l’esposizione del “Padre nostro” e, prima di insegnarla, Nostro Signore si preoccupa ancora una volta di far riflettere sulla differenza tra ciò che è ostentazione con fini non spirituali e il reale atteggiamento che deve contraddistinguere la preghiera. Ci troviamo su un terreno delicato perché, alla luce delle parole “hanno già ricevuto la loro ricompensa”, possiamo individuare uno stato d’animo che trova la sua soddisfazione nell’avere lo sguardo degli altri, che di se stessi: poltrone o palchi privati non si trovano solo a teatro, ma purtroppo sono numerosi anche in quel cristianesimo fatto di manifestazioni esteriori che alimentano costantemente quella “loro ricompensa” di cui parla Gesù.

Ci siamo già occupati del fatto che chiunque si colloca, o pretende di farlo, in una posizione spirituale dichiarando la propria fede agli uomini, da quel momento è inevitabile si ponga come esempio e quindi “insegni”: lo fa con le proprie azioni quotidiane indipendentemente dal fatto che si metta a predicare o a testimoniare in maniera più o meno dotta o ricercata. Abbiamo infatti letto “Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli” (Matteo 5.19-20). Se leggiamo il verso successivo, poi, appare chiaro che esiste una profonda differenza tra l’ipocrisia e la pratica della verità, come dalle parole “Se la vostra giustizia non supererà– cioè non andrà oltre – quella degli scribi e dei farisei, voi non entrerete nel regno dei cieli” (v.21). Le due categorie di persone che Gesù cita così spesso, scribi e farisei, col loro esempio negativo avevano finito per insegnare agli altri “a fare altrettanto”, vale a dire avevano ridotto la preghiera a un atto formale, facendo sì che anche quella personale ne risentisse: tutti li vedevano e nella loro ignoranza, o umana “semplicità”, avevano finito per considerarli persone veramente devote ammirandoli e, inevitabilmente, quell’atteggiamento formale aveva finito per contagiarli.

La preghiera pubblica era quella che veniva fatta in tempi stabiliti del giorno e il giudeo devoto si fermava ovunque si trovasse (a meno che il luogo non fosse impuro) e recitava quanto prescritto stando in piedi. Lo faceva immedesimandosi nel testo, solitamente quello di un Salmo, facendolo proprio, perché ancora non era sceso lo Spirito Santo che, come scrive l’apostolo Paolo ai Romani “…viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con sospiri ineffabili” (8.26). Anche i musulmani pregano in pubblico a tempi prestabiliti e l’osservanza di questa pratica è considerata un segno di grande devozione.

Gesù, venuto “non per abolire, ma per adempiere” non intende demolire la preghiera pubblica, ma censura gli intenti diversi dalla sincerità con cui ci si dovrebbe approcciare ad essa e, con le parole “amano stare ritti in piedi”, smaschera quanti agivano in tal modo.

Ma cosa chiedere al Dio che ascolta e vede, come raccordare una posizione pubblica con il prossimo che ti guarda e considera, con l’accoglimento e l’esposizione reale dei contenuti? Nostro Signore non si occupa dell’orazione comunitaria della Chiesa in cui è inevitabile che i fratelli si ritrovino alla Sua presenza, ma ancora una volta si occupa della persona con quel “ma tu” sul quale ci siamo già soffermati tempo addietro. Gesù doveva spiegare ai presenti sul monte che tutto partiva dall’interno dell’uomo invitato a cercare prima di tutto il rapporto individuale con YHWH che lo avrebbe guidato e chiamato direttamente. Ricordiamo sempre che la Chiesa è comunità formata da individui, ciascuno con la sua funzione vista nel corpo di Cristo e nelle “molte membra”, o se vogliamo è un edificio composto da molte pietre, non mattoni cotti in una fornace, ciascuno con le stesse dimensioni e fattezze.

L’ipocrita recita una parte, ha un ruolo che è quello di impressionare un pubblico, nulla a che vedere con la verità e l’esaudimento che si ritrovano nel rapporto personale con Dio. Si tratta di scegliere. Vuoi una ricompensa? Scegli se avere quella dell’ammirazione umana da parte dei membri di una comunità religiosa, o quella che proviene dalla ricerca dell’incontro col tuo Signore, che Davide ha descritto in modo stupendo e poetico nel Salmo 139 citato la volta scorsa.

Nelle parole di Gesù però c’è molto di più, perché l’insegnamento sulla preghiera occupa una posizione centrale e si allarga notevolmente, essendo un “tu” al tempo stesso personale e comunitario. Ci possiamo infatti ricollegare alle parole di Maria di Magdala quando, piangente vicino al sepolcro vuoto, rispose ai due angeli che le chiedevano il motivo delle sue lacrime: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto” (Giovanni 20.13). Certo Maria non poteva avere l’esclusiva dell’appartenere a Cristo e viceversa, ma queste parole rappresentano il sentimento di totale aderenza a Lui. Quel Signore che umanamente non sapeva dove fosse nonostante avesse dichiarato che sarebbe risorto, dal punto di vista affettivo e del rapporto individuale era unicamente di quella donna e al tempo stesso degli altri coi quali aveva condiviso la vita di predicazione del Vangelo. Ma la prevalenza del rapporto è da vedersi con il “mio”: è lui che mi ama, mi parla, mi sostiene.

Ecco allora il “tu” che diventa “mio”, cioè non può che coinvolgere l’esterno e l’interno della persona e da lì riversarsi nella comunità, nella Chiesa. Ecco allora che il “mio” diventa poi “nostro”, un plurale che leggiamo nella preghiera del Padre nostro: “nostro” – “dacci oggi” – “rimetti a noi” – “non indurci” – “liberaci dal male”. Sono quattro richieste perché possiamo rimanere in equilibrio, per quanto il “non indurci” sia una traduzione errata e vada piuttosto intesa come “non esporci” o meglio ancora, come vedremo, “non abbandonarci”. Avremo modo di affrontare i plurali nelle prossime riflessioni; per ora è necessario sostare ancora sul singolare, che si riflette comunque nel plurale e viceversa perché è da lì che parte la costruzione della Chiesa, la Comunità dei salvati che Dio riunisce sulla terra in attesa di chiamarli a Lui per sempre.

La comunità beneficia sempre della preghiera del singolo, della persona spirituale che ben difficilmente si dichiarerà tale per avere una posizione d’onore sugli altri: agirà con l’obiettivo di camminare unito a Cristo, o a YHWH per gli uomini dell’Antico Patto. Pensiamo ad Abramo che fece intercessione per Sodoma, a Simeone “guardiano” del Tempio, al “rimanente fedele” degli ultimi tempi e al passo “Iddio conosce quelli che sono suoi”.

L’esortazione di Gesù è quindi quella di cercare la comunione col Padre “nel segreto”, di chiudersi in camera, concetto che esamineremo nel corso della trattazione del “Padre nostro”, là dove nel “chiudere la porta” individuiamo l’atto con cui lasciamo fuori tutto ciò che ci ha accompagnato fino a poco prima, non certo solo le persone: pensieri, idee, preoccupazioni, turbamenti, perché viceversa correremmo il rischio di ripetere le nostre richieste come una sorta di mantra oppure, attaccati al contingente, presenteremmo una “lista della spesa” esattamente come farebbero quei “pagani che credono di venire ascoltati a forza di parole”. È il bambino che vede solo le proprie necessità e si crede al centro del mondo, non l’adulto ed è per questo che abbiamo l’esortazione ad essere “bambini in malizia e uomini maturi in senno” (1 Corinti 14.20).

È l’equilibrio che può garantire un esaudimento, che non può essere insegnato ma va ricercato: molto spesso gli insegnamenti di Gesù sono solo un appello al buon senso spirituale che purtroppo non sempre l’uomo possiede e quindi cade in contraddizioni tremende; ricordiamo ad esempio l’offerta sull’altare che non può essere presentata nel momento in cui il nostro prossimo ha qualcosa contro di noi: il “debito” che abbiamo col fratello impedisce l’accoglimento di essa e, nel nostro caso, della preghiera.

Pensiamo ancora al “tu” di Gesù che invita il singolo, l’individuo, a presentarsi lasciando fuori dalla porta tutto quanto può interferire col rapporto col Padre: è quello il momento in cui si realizza il confronto tra due elementi, Dio che ascolta e l’uomo. La porta che tiene fuori ciò che disturba può metterci in condizione non tanto e solo di chiedere, ma di confrontarci, discorrere, fare il punto di situazioni più che chiedere aiuto per i fatti contingenti della vita di cui è detto “il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate” (v.8).

Quando ero giovane mi chiedevo, alla luce di queste parole, per quale motivo io dovessi pregare per le mie necessità se queste erano già conosciute dal Padre: la parte più importante del verso, però, è quella che informa dell’onniscienza di Dio che ci osserva; sa di cosa abbiamo bisogno realmente e non di ciò che noi riteniamo sia importante. E questo consola e illumina. A volte possiamo essere convinti di avere necessità della soluzione ad un problema e vediamo solo quello e purtroppo istintivamente, come i bambini, vorremmo che il suo appianamento fosse immediato: non è così. Non sempre, almeno. L’apostolo Pietro raccomanda di riversare “…su di Lui ogni preoccupazione, perché Egli ha cura di voi” (1 Pt 5.7): questa è una verità che dovrebbe spingerci, nella preghiera che rivolgiamo a Dio nella preoccupazione che talvolta si muta in angoscia, a chiedere quell’aiuto, ma anche l’accettazione di una Sua volontà diversa nei nostri confronti. Perché l’accoglimento della preghiera non è detto che avvenga secondo le nostre intenzioni. L’importante è avere una risposta, la soluzione di un dubbio e, sotto quest’ottica, un “sì” o un “no” hanno lo stesso valore.

Chi ebbe un’esperienza diversa da quella che si aspettava, cioè un esaudimento risolutivo di un problema, fu l’apostolo Paolo che, affetto da una malattia agli occhi provocatagli da schiaffi e pugni presi in carcere, pregò Dio che lo guarisse. Paolo passò del tempo a interrogarsi sul perché rimanesse così e, scrivendo ai Corinti, lo spiegò: “Perché  non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di Satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che lo allontanasse da me– ecco il rifiuto dell’usare molte parole come i pagani –. Ed Egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella tua debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Corinti 12.7-9). Da Dio una risposta arriva sempre anche se i suoi tempi non sono i nostri. Paolo accettò questa condizione, continuando a scrivere anche se il corpo dei suoi caratteri, a causa della vista, aumentò considerevolmente e, a un certo punto, dovette ricorrere all’aiuto di altri fratelli che redigessero alcune lettere (pensiamo a Terzio con la lettera ai Romani). Ma ebbe rivelazioni che non furono rivolte a nessun altro uomo.

Il credente è sempre nell’amore di Dio, tanto nella gioia sulla terra quanto nel suo opposto. Prende il dolore come parte integrante di essa. Sa di essere nelle Sue mani. A differenza degli altri uomini non salvati, può guardare a Lui. Sempre. Amen.

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05.27 – PRATICARE LA GIUSTIZIA II/II (Matteo 6.1-4)

05.28 –Praticare la Giustizia II/II (Matteo 6.1-4)

1State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. 2Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 3Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, 4perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.”. 

Nella riflessione precedente abbiamo affrontato il tema delle “buone opere”, o della “giustizia”, partendo dall’aspetto negativo, quello di ciò che viene fatto per ostentazione. Abbiamo anche visto che col termine “giustizia”, in questo caso, si intendevano elemosina, preghiera e digiuno, elementi che si affiancavano alla legge cerimoniale praticata pubblicamente dagli Scribi e Farisei distorcendo così il valore spirituale di quellee azioni. Gesù, però, con il suo insegnamento non intendeva dare a chi Lo ascoltava delle “istruzioni su come ottenere i favori di Dio”, ma piuttosto far riflettere sulle motivazioni che spingono veramente ad agire chi si vuole porre in rapporto col Padre: siamo quello che facciamo e, in quanto esseri pensanti, c’è sempre l’invito a valutarci attentamente rispondendo sempre a una domanda che giunge puntuale: “perché?”. “Perché” è quel ritornello ossessivo che spesso un bambino, arrivato a una certa età, rivolge agli adulti, ma anche sarebbe un metodo che, se adottato in età consapevole, porterebbe a conclusioni senz’altro interessanti; sarebbe un andare alla radice, sarebbe un esame a vasto raggio su ciò che sentiamo sia nella vita quotidiana naturale che in quella spirituale. È un comportamento che raramente attuiamo, abituati come siamo al quotidiano e, soprattutto, a dare tutto per scontato nei rapporti coi nostri simili e con Dio. Chiedersi perché equivale a fermarsi, azione che soprattutto la società attuale fa di tutto per evitare che ciò accada.

Gesù, invece, proponendo due comportamenti tra loro opposti, cioè praticare la giustizia finta e quella vera, spinge i suoi uditori e chi legge le sue parole a riflettere sul valore di questi metodi, ma soprattutto a ricordare che Dio non può essere preso in giro da nessuno: sappiamo che il primo verso del capitolo 6 inizia con “State attenti”. Se nella prima parte di queste riflessioni ci siamo occupati dell’agire per avere l’altrui approvazione, qui esamineremo la verità secondo cui Dio guarda “in segreto” e quindi, alla radice, alla genesi delle nostre azioni.

 

  1. In segreto

C’è un particolare da tener presente non solo nel leggere questi versi, ma tutto il capitolo e cioè: se andiamo a leggere le indicazioni sulle “buone opere” troviamo sempre, a un certo punto, un bellissimo, interessante pronome: “Invece, mentre tu fai l’elemosina” (v.3), “Invece, quando tu preghi” (v.6), “Invece, quando tu digiuni” (v.17). Quando un essere umano incontra Cristo in salvezza e si pone in rapporto con Lui, quindi, esce dalla massa per farsi persona. Questo è il significato del “tu” citato per tre volte. Non è poco perché, se la massa fosse composta da individui pensanti, non sarebbe tale, non sarebbe folla, quella che gridava “crocifiggilo” dimenticando i miracoli e le guarigioni avvenute. La massa è pilotabile da sempre, fa sì che i movimenti politici diventino grandi, è quella che segue la Bestia e il falso profeta, che asseconda e si riconosce nelle mode, viene spinta a fare rivoluzioni da un’élite di “pensatori” perché tutto resti sostanzialmente come prima, dove le cose cambiano perché nulla cambi o, nella migliore delle ipotesi, vince una battaglia ma mai una guerra perché il potere momentaneamente sconfitto ritorna sempre e più forte di prima. E all’occorrenza, con forme diverse. La massa crede, si fa influenzare inconsapevolmente, obbedisce e non programma mai a lungo termine, dà per scontato, gli basta poco per sposare le opinioni che le vengono fornite perché non avendole ne ha bisogno, la massa si plasma col tempo e con strategia.

Il “tu” di Gesù invece chiama in causa direttamente, invita chi Lo ascolta a riconoscersi in Lui e, in caso di risposta affermativa, l’essere umano scopre che il suo nome è scritto nel libro della vita, nel “registro di Dio” come lo definì un giorno un fratello, quello che l’apostolo Giovanni vide in una visione che riporta in Apocalisse 5.1: “E vidi, nella mano destra di Colui che sedeva sul trono, un libro scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli”, quelli che solo il Cristo vittorioso potrà aprire dopo che si saranno compiuti tutti gli avvenimenti descritti nei capitoli dal quinto a 20.12: “E vidi i morti, grandi e piccoli che stavano ritti davanti al trono. E i libri furono aperti. E fu aperto un altro libro, che è il libro della vita. E i morti furono giudicati dalle cose scritte nei libri, secondo le opere loro”. Puntualizzazione: i morti “grandi e piccoli” non sono adulti e bambini, ma persone che nella loro vita sono stati più o meno importanti, ma hanno avuto comunque tutti la responsabilità della gestione del bene più prezioso, la loro vita. Notare la distinzione fra “i libri”, contenenti metaforicamente le azioni di ciascuno di loro, folla, e “il libro” su cui sono scritti i nomi dei salvati, quelli del “tu”: ognuno di loro è conosciuto perché “Le mie pecore conoscono la mia voce ed esse mi seguono” (Giovanni 10.27). Ecco, i tre “Invece tu” sono lo sviluppo del cammino secondo Cristo, quello che compiono quelle “pecore” che conoscono la voce del pastore e quindi non seguono altri, non fidandosi. Chi non ha Lui come pastore, non potrà che perdersi perché ne avrà scelto inevitabilmente un altro, uno alternativo, quello che la vita per il suo gregge non l’avrà mai data.

E ci troviamo ancora alla divisione in due gruppi, ai due tagli della spada che qui divide chi è massa da chi è diventato persona. Non si tratta di presunzione, ma di condizione ben delineata nella Parola di Dio. Non esiste credente che sia tale perché ha avuto un’esperienza personale col Signore e che non sia protetto dall’ultimo, grande inganno degli “ultimi tempi” visto in quel sistema religioso, politico ed economico che precluderà qualunque possibilità di evasione e distinzione da lui: “E tutti gli abitanti della terra i cui nomi non sono scritti fin dalla fondazione del mondo, la adoreranno” (Apocalisse 13.8), riferito alla Bestia. Mi rendo conto di scrivere concetti che meriterebbero ben altri approfondimenti, ma è importante sapere che ogni azione che facciamo è sempre il frutto di una scelta e non c’è possibilità di essere neutrali nel nostro cammino terreno. Chi è massa segue gli altri, chi è persona – spiritualmente parlando – segue Cristo in un percorso che sarà sempre e solo individuale, per quanto condiviso con altri.

Torniamo però alla persona in genere: comunque sia, che appartenga alla massa o da lei si distingua – e non serve compiere azioni eclatanti per farlo – vale quanto leggiamo in Geremia 17.9,10: “Niente è più infido del cuore e difficilmente guarisce! Chi lo può conoscere? Io, il Signore, scruto la mente e saggio i cuori, per dare a ciascuno secondo la sua condotta, secondo il frutto delle sue azioni”. Ancora: “Sono forse Dio solo da vicino? (…) Non sono Dio anche da lontano? Può nascondersi un uomo nel suo nascondiglio senza che io lo veda?” (23.23,24). Infatti “Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di Colui al quale dobbiamo rendere conto” (Ebrei 4.13).

Ancora una volta abbiamo una distinzione molto importante sul rendiconto, diverso dal giudizio, risparmiato a chi crede: “In verità, in verità io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.24). Piuttosto, il concetto del rendiconto è spiegato dall’apostolo Paolo con queste parole: “Nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco” (1 Corinti 3.11-15).

In questi versi abbiamo prima di tutto la descrizione dell’impossibilità di costruire qualcosa senza Gesù Cristo come motivazione e soprattutto su di lui come fondamento, poi la prova del fuoco che brucerà tutto ciò che di inutile avremo realizzato lasciando soltanto ciò che avremo prodotto di veramente prezioso e accettevole a Dio. Come interpretare però le ultime parole “si salverà, però come attraverso il fuoco”? Il fuoco rovina, guasta, sfigura la persona, crea una sofferenza terribile. Per questo mi pare di capire che, per quanti si troveranno in quello stato, la loro vita nei “Nuovi cieli e nuova terra” sarà in qualche modo penalizzata come, nel quotidiano terreno, chi si ustiona al di là del primo grado incontra seri problemi per gli esiti cicatriziali e resta invalido, visto che la morte, che a volte sopraggiunge nei grandi ustionati, qui non è contemplata. Una cosa è vivere la dispensazione della grazia, data all’uomo per salvarsi e costruire, un’altra affrontare “il rendiconto”. Ecco uno dei perché del timor di Dio: è contemplato che uno sul fondamento costruisca con legno, fieno o paglia, materiali che non duraturi nel tempo e suscettibili ad essere distrutti nel giorno della retribuzione. Ricordiamoci che quando Giovanni vide in visione il Signore, lo descrisse come avente “occhi fiammeggianti” a sottolineare il suo discernimento tra ciò che resiste o no alla perfezione del suo sguardo.

Ecco allora che quel triplice “Invece tu”, indica il metodo, un aspetto del cammino che solo l’amore per Colui che ci ha salvato può spingerci a compiere.

Ho scritto della persona che si differenzia dalla massa: può aiutare l’esperienza di Davide nel Salmo 139 che illustra con parole di verità l’essenza di questo rapporto: “Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano i miei pensieri, osservi il mio cammino e il mio riposo, ti son note tutte le mie vie. La mia parola non è ancora sulla lingua ed ecco, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano. Meravigliosa per me la tua conoscenza, troppo alta, per me inaccessibile. Dove andare lontano dal tuo spirito? Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, là tu sei; se scendo negli inferi, eccoti. Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra”. Facciamo caso ai verbi: scrutare – conoscere – sapere – intendere – osservare – circondare – porre – essere – guidare – afferrare. Sono dieci, a significare la cura totale che Dio ha per l’uomo che ha chiamato. E che le esigenze che ha sono proporzionali alle cure che dà.

E abbiamo letto parole di Davide, nonostante abbia compiuto azioni non sempre degne di un individuo spirituale a tal punto che YHWH non gli consentirà di edificargli il tempio, scegliendo per questo Salomone suo figlio. Questo re conobbe momenti di formidabile comunione con Dio ed altri molto più carnali, quando si adagiò sui lussi della propria vita di corte. Questo ci consente di chiederci: quanto tempo della mia giornata trascorro col mio Dio onestamente? Pensiamo a Giovanni Battista, che stava nel deserto attendendo l’ora per cui era stato preparato. Certo, Davide scrisse questo Salmo gioendo per la possibilità di contemplazione che gli veniva data ed è proprio l’esperienza di essere ascoltato e conosciuto nel profondo a farlo parlare nel modo in cui abbiamo letto. Ecco ciò che è compreso nel “tu” e “in segreto”: un rapporto individuale che nessuno conosce al di fuori di due persone, quella di chi crede e Dio stesso.

Per questo il “tu” è anche una sorta di termometro, indica la nostra posizione spirituale. Davide descrive la conoscenza di Dio con le parole “Meravigliosa”, “troppo alta” e per lui “inaccessibile”, ma non si stancava di contemplarla sentendosi parte di lei e, nonostante fosse conscio di capirla in una quantità infinitesimale, ci ha lasciato come profeta delle verità molto profonde nei suoi Salmi. Davide sapeva di essere parte del piano per la redenzione dell’uomo. Per lui era importante quel “Tu” a prescindere dalla sua natura umana che purtroppo, come per tutti noi, era sempre lì, pronta a penalizzarlo. Chi è salvato entra in un mondo immenso, non potrebbe essere diversamente.

C’è poi la retribuzione, termine che nasconde realtà diverse e che consiste nel sostegno nella vita terrena nonostante le prove, i lutti o le malattie perché “piove sui giusti e sugli ingiusti”, ma anche nel risultato del rendiconto di cui troviamo una descrizione nella famosa parabola detta “dei talenti” (Matteo 24.14-30) in cui viene detto “Sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; entra nella gioia del tuo signore”. Sarà allora che ciò che è segreto diventerà palese ed eterno, mentre le opere di chi avrà agito per ostentazione saranno dimenticate e distrutte. Amen.

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