06.06 – HAI NASCOSTO QUESTE COSE AI SAPIENTI (Matteo 11.25-30)

6.06 – Hai nascosto queste cose ai sapienti (Matteo 11.25-30)

25In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. 26Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. 27Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
28Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. 29Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. 30Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
”.

            Anche i versi di questo passo costituiscono un problema per chi cerca una lettura cronologica del Vangelo perché Luca li pone in un contesto diverso, cioè non dopo che Gersù ricevette i due discepoli di Giovanni Battista, ma quando tornarono a Lui i settantadue che aveva inviato a evangelizzare dando loro potere di guarire gli ammalati e cacciare i demoni.

Comunque sia Nostro Signore esulta e proferisce una lode al Padre. Il passo che esamineremo può essere diviso in quattro blocchi distinti: il primo è compreso dai versi 25 e 26, descrive una realtà spirituale e costituirà il cuore della nostra riflessione; il secondo, al verso 27, è una dichiarazione di autorità e di rapporto Padre – Figlio – credenti, il terzo (vv.28 e 29) è un invito ad andare a Lui e infine il quarto, al verso 30, è una definizione della vita cristiana e in cosa essa consista.

Il primo blocco parte dalla benevolenza del Padre intesa come manifestazione di sé e del Suo piano di redenzione per l’uomo, benevolenza che comprende tanto il rivelare che il nascondere. Qui si apre un capitolo immenso, difficile da spiegare in poche parole. Sembra, da quanto dice Gesù, che il fatto che un uomo creda o meno dipenda dalla scelta di Dio, ma in realtà Lui nasconde o rivela a seconda di ciò che abita la persona. Il primo esempio che mi viene in mente è quello del faraone d’Egitto che, nella sua presunzione, fu punito con l’indurimento del cuore, cioè portando all’esasperazione ciò che già comunque era in lui. Da notare che il cuore del faraone è definito in Esodo 7.14 “irremovibile” prima ancora che Dio lo indurisse ancora di più. In tutta la storia umana raccontata dalla Bibbia non esiste un solo caso di uomo o donna che si siano persi senza avere l’orgoglio e un’alta opinione di sé che li hanno accecati a tal punto da non vedere altro al di fuori della propria persona o dei suoi averi, materiali o intellettivi. E possiamo richiamare le parole “Guai a voi, ricchi” che abbiamo visto nel sermone sul monte, in cui abbiamo dimostrato che non è la ricchezza ad ostacolare la persona nel suo avvicinarsi a Dio, ma il valore che la persona le  attribuisce e l’uso che ne fa.

Andiamo ora agli scritti dell’Antico Patto, fondamentali per capire le basi di tutti i discorsi di Gesù: già Isaia scrisse “Guai a coloro che si credono sapienti e si reputano intelligenti” (5.21), dove l’errore è “credersi” e “reputarsi”, cioè attribuirsi un valore da sé stessi, probabilmente misurandosi coi propri simili e rendendosi protagonisti di una commedia tragica alla quale credere per primi. È ciò che facevano gli Scribi e i Farisei, per lo meno la maggior parte di loro, snaturando il senso della Legge che era stata loro, assieme all’esortazione alla santità dalla quale si teneva accuratamente lontano. Dando prevalenza alla lode con le labbra, ma allontanando il loro cuore da Lui, si sentirono dire “…poiché il Signore ha versato su di voi uno spirito di torpore, ha chiuso i vostri occhi, cioè i profeti, e ha velato i vostri capi, cioè i veggenti. Per voi ogni visione sarà come le parole di un libro sigillato: si dà a uno che sappia leggere– e comprendere – dicendogli «Per favore, leggilo», ma quegli risponde «Non posso, perché è sigillato», oppure si dà un libro a chi non sa leggere dicendoli «Per favore, leggilo», ma quegli risponde «Non so leggere». (…) Continuerò a operare meraviglie e prodigi con questo popolo; perirà la sapienza dei suoi sapienti e si eclisserà l’intelligenza dei suoi intelligenti” (29.10-15).

Da queste parole vediamo come Isaia delinei già la realtà di cui Nostro Signore prenderà atto nei versi di Matteo che abbiamo letto: stante l’alto concetto che avevano di loro stessi quegli uomini, ma impermeabili all’umiltà e al ravvedimento, Dio non li ha puniti con malattie o calamità, ma li ha lasciati in balia di loro stessi dando loro uno spirito di torpore privandoli di profeti e di veggenti che agissero secondo il Suo volere. E sappiamo che tra Malachia e Giovanni Battista ci furono circa 400 anni di silenzio da parte Sua. Posti di fronte all’impossibilità di capire, ecco che secondo Isaia quella gente sarà costretta a rivolgersi ad altri che non riusciranno ad aiutarli, a spiegare, far loro comprendere. Così, come al Faraone non rimase altro che un trono inutile, ai “sapienti e intelligenti” non resterà altro che un teatro vuoto. Attori senza pubblico.

Salomone scrisse che “È gloria di Dio nascondere le cose, è gloria dei re investigarle” (Proverbi 25.2), parole che ci ricordano il fatto che Israele avrebbe dovuto essere “Un regno di sacerdoti”, condizione poi passata alla vera Chiesa. Dio nasconde, i re investigano e trovano, per loro già la ricerca implica lo scoprire perché sappiamo che chi cerca trova e sarà aperto a chi bussa.

Tornando ora al Vangelo, sarà Gesù a spiegare la condizione dei capi religiosi del popolo e di quanti seguivano le loro orme quando, rispondendo ai discepoli che gli chiedevano come mai parlasse in parabole, disse “«Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. Così si compie la profezia di Isaia che dice: Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca. Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano».” (Matteo 13.11-16).

Dio parla e non si presta attenzione, ma si può anche non capirlo perché ciò viene precluso: c’è chi sostiene che questo atteggiamento del Signore eccessivamente duro e che, in fondo, basterebbe un’illuminazione misericordiosa dall’alto perché quelle persone potessero credere, ma non è così perché, anche se illuminati parzialmente, non le saprebbero comunque gestire, portare e assimilare perché ciò che è santo non si dà ai cani e le perle non si buttano ai porci. Parlando al popolo leggiamo che Gesù disse “«È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato, ma siccome dite «Noi vediamo», il vostro peccato rimane»(Giovanni 9.39-41). Quelli che non vedono sono gli stessi che versano nella condizione dei “poveri di spirito”, che riconoscono di aver bisogno della vista esattamente come quei ciechi guariti perché lo chiesero. Sono quei “malati” che hanno bisogno dei medico e per i quali il Figlio si prodigò, donò sé stesso in sacrificio e interviene tutt’ora. Per questo Paolo spiegherà che “Se il nostro Vangelo rimane velato, lo è per coloro che si perdono. In loro, increduli, il dio di questo mondo ha accecato la mente perché non vedano lo splendore del glorioso Vangelo di Cristo, che è immagine di Dio” (2 Corinti 3.4,6). Anche qui c’è sempre una responsabilità interiore: il dio di questo mondo acceca quelli che sono suoi, non gli altri, quelli che hanno gridato di essere salvati, non riconoscendosi né nel mondo, né nell’Avversario che di fatto lo governa. Ricordiamo che Satana fu gettato sulla terra coi suoi angeli e non scagliato nello spazio, o su un pianeta dove non avrebbe potuto nuocere.

Questo dunque Dio ha fatto e fa nella sua benevolenza: ha nascosto “queste cose ai sapienti e le ha rivelate ai piccoli” e qui non può che venire in mente l’episodio in cui i discepoli volevano impedire ai bambini di andare da Gesù che disse “Chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso” (Marco 10.16). Perché? Un bambino non ha preconcetti. Un bambino è naturalmente curioso, sa di non sapere e chiede perché a un adulto in quanto si fida di lui e crede a quello che gli si dice. Ovvio che Nostro Signore qui non parla di persone ignoranti che portano avanti il loro sapere inconsistente e si arroccano su di esso, ma di disponibilità ad accogliere senza quei preconcetti che minano così tanto le possibilità di crescere davvero.

Un bambino impara, anzi è proprio nell’età più tenera che si costruisce la personalità e si pongono le basi per quello che si diventerà un giorno. Un bambino non è malizioso, non fa calcoli, cerca l’affetto di chi glielo può, purtroppo spesso “dovrebbe”, dare. Un bambino è il contrario del sapiente, del presuntuoso, del calcolatore, del ricco. Certo ci sono le eccezioni, ma non è di quelle che si parla in questo passo.

E qui torniamo alla condizione del sapiente secondo il mondo, di chi questa vita la vive bene, prevaricando gli altri, i deboli, le minoranze, chi possiede doppi pesi e doppie misure e le utilizza con disinvoltura, chi calpesta i diritti altrui, ruba, opprime, devasta, rovina non solo fisicamente persone, animali, cose o terra.

Il rivelare “queste cose ai piccoli” e contemporaneamente nasconderle agli altri è spiegato dall’apostolo Paolo in diversi passi, ad esempio nella lettera ai Romani in cui parla di Giacobbe ed Esaù, quando fu preferito Giacobbe, nonostante fosse secondogenito: “C’è forse ingiustizia da parte di Dio? No, certamente! Egli infatti dice a Mosè: Avrò misericordia per chi vorrò averla, e farò grazia a chi vorrò farla.(…) Dio quindi ha misericordia verso chi vuole e rende ostinato chi vuole” (9.14,15,18). E il “chi vuole” non è a suo capriccio, ma una reazione proporzionata all’atteggiamento di ciascuno che coi suoi pensieri e azioni gli permette di agire o meno. Possiamo infine ricordare 2 Tim 1.9: “Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia”. Ci vuole coraggio ad ammettere, quando si ascolta la Parola, che tutto quanto abbiamo fatto fino all’incontro con Dio avrà forse avuto un senso secondo la prospettiva umana, ma è stato in antitesi per la nostra sopravvivenza spirituale. Ci vuole coraggio per accettare il nostro stato di peccatori e soprattutto per ravvedersi, cambiare, rivisitare il nostro metro di valutazione. Ma è l’unico modo per vivere una vita degna, in prospettiva di quella futura. Amen.

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