06.07 – TUTTO MI È STATO DATO DAL PADRE MIO (Matteo 11.25-30)

6.07 – Tutto mi è stato dato dal Padre mio  (Matteo 11.25-30)

 

25In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. 26Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. 27Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
28Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. 29Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. 30Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
”.

 

            Dopo aver definito un aspetto della benevolenza di Dio consistente nel nascondere o rivelare le Sue verità, Gesù passa, al verso 27, ad enunciare una realtà di enorme portata, distinguendosi da tutti i profeti venuti prima di Lui: ricorda la Sua posizione di “Figlio” intesa come seconda persona dell’esistere e manifestarsi di Dio, definendosi implicitamente della stessa sostanza del Padre pur restando da Lui distinto. Anche qui, come già avvenuto nel precedente studio in cui avevo diviso in quattro blocchi la parte finale dei discorso di Gesù, il verso 27 presenta parti distinte: nella prima abbiamo il potere dato a Nostro Signore dal Padre, nella seconda il rapporto di reciprocità intercorrente tra i due e infine vediamo il Cristo come unico rivelatore-mediatore tra il Padre e gli uomini. Si tratta di un verso che condensa molte verità e per questo non si può affrontare in un’unica sessione.

Riguardo alle parole “Tutto mi è stato dato dal Padre mio”, possiamo dire che chiamano in causa Gesù come Alfa e Omega, Primo e Ultimo, Principio e Fine. Il verbo “essere” viene usato al passato prossimo, “è stato” ma ha riferimento anche al presente e all’eternità di modo che sarebbe stato possibile, all’israelita che avrebbe voluto riflettere su quelle parole, meditare il significato di quelle parole nel passato e nel presente. Sappiamo che Gesù disse “Prima che Adamo fosse, io sono” (Giovanni 13.19) facendo riferimento quindi alla sua preesistenza rispetto alla creazione. Sappiamo, perché è sempre Giovanni a dirlo ed è stato il primo argomento trattato in questa lettura cronologica, che “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio (…) tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste” (1.1,2). Se la partecipazione del Figlio fu attiva e perciò indispensabile alla creazione, lo fu anche in Eden in cui possiamo vederlo raffigurato nell’albero della Vita, al centro del giardino, il solo che avrebbe potuto garantire coi suoi frutti ad Adamo ed Eva la sopravvivenza. Fatto “della stessa sostanza del Padre” di cui ci occuperemo nella prossima meditazione, vediamo che al verso ventisettesimo si esprime quasi a voler sottintendere il fatto che ci fu un momento preciso in cui gli è stato dato quel “tutto” di cui parla: è un riferimento a quel verso di Salmo 2.7 “Voglio annunciare il decreto del signore. Egli mi ha detto: «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato. Chiedimi e ti darò in eredità le genti e in tuo dominio le terre più lontane». Le spezzerai con scettro di ferro, come vaso di argilla le frantumerai”.

Possiamo fare due riferimenti in proposito, di cui il primo è dell’apostolo Paolo che utilizzò questo Salmo per spiegare agli Ebrei proprio l’identità del Cristo: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padre per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo. Egli è l’irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette nella maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato. Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato»? E ancora: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio»? Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: «Lo adorino tutti gli angeli di Dio». Mentre degli angeli dice: «Egli fa i suoi angeli simili al vento, e i suoi ministri come fiamma di fuoco», al Figlio invece dice:« Il tuo trono, Dio, sta nei secoli dei secoli»” (Ebrei 1.1-6).

La seconda nota è tratta dal commento a “Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato” che fece Papa Giovanni Paolo II all’Udienza Generale del 16 ottobre 1985: «…sono parole profetiche; Dio parla a Davide del suo discendente. Mentre, però, nel contesto dell’Antico Testamento queste parole sembravano riferirsi solo alla figliolanza adottiva, per analogia con la paternità e la figliolanza umana, nel Nuovo Testamento si svela il loro significato autentico e definitivo: esse parlano del Figlio che è della stessa sostanzadel Padre, del Figlio veramente generatodal Padre. E perciò parlano anche della reale paternità di Dio, di una paternità a cui è propria la generazione del Figlio consostanziale al Padre. Esse parlano di Dio, che è Padre nel senso più alto e più autentico della parola. Parlano di Dio, che eternamente genera il Verbo eterno, il Figlio consostanziale al Padre. In ordine a lui Dio è Padre nell’ineffabile mistero della sua divinità. “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato”. L’avverbio “oggi” parla dell’eternità. È l’“oggi” della vita intima di Dio, l’“oggi” dell’eternità, l’“oggi” della santissima e ineffabile Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo, che è amore eterno ed eternamente consostanziale al Padre e al Figlio».

Ricordiamo, dando una lettura limitata di Gesù come Alfa e Omega, che fu testimone di tutti gli avvenimenti della storia avvenuta sia nel mondo spirituale che terreno: ad esempio il Luca 10.18 “Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore” e che, sempre in Luca, raccontò ai discepoli le realtà che vide sia poco prima del diluvio che della distruzione di Sodoma: “Come avvenne nei giorni di Noè, così sarà nei giorni del figlio dell’uomo: mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e venne il diluvio e li fece morire tutti. Come avvenne anche nei giorni di Lot: mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano; ma, nel giorno in cui Lot uscì da Sodoma, piovve fuoco e zolfo dai cielo e li fece morire tutti”.

 

Fatto questo brevissimo excursus relativo ai tempi antichi, vediamo quelli del presente nel senso di quando Gesù svolgeva il Suo Ministero terreno, perché quel “Tutto mi è stato dato” si riferisce sì alla dignità che aveva presso il Padre, ma sono convinto abbia avuto il suo sigillo ufficiale, terrenamente parlando, una volta ottenuta la vittoria su Satana non cedendo mai alle sue tentazioni nel deserto. Ricordiamo che in quell’occasione l’Avversario giocò il tutto per tutto su di Lui quando era totalmente debilitato dalla quarantena del digiuno. Giova ricordare che l’espressione di Matteo “Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame” (4.2) non sta ad indicare un tempo preciso, ma il numero “Quaranta” sottintende “quanto basta per”. Solo la vittoria in quella circostanza avrebbe messo Gesù nella possibilità di affrontare il Suo Ministero con tutta l’autorità datagli dal Padre. Quindi, quel “Tutto mi è stato dato”, sta anche a significare che, dopo la tentazione nel deserto, Nostro Signore ha davvero dimostrato pubblicamente di essere l’unico in grado di sconfiggere Satana: la vittoria su di lui, nel deserto e negli altri luoghi in cui fu portato, era la garanzia di tutti i miracoli e della stessa resurrezione in cui gli effetti della morte furono annullati. Infatti “…per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!» a gloria di Dio Padre” (Filippesi 2.9-11).

Ora facciamo attenzione alla definizione di Gesù Cristo che ogni lingua deve proclamare, volente se in lui avrà creduto o nolente se lo avrà rifiutato: “Signore”. Guardiamo meglio le parole di Paolo ai versi 10 e 11 utilizzando la versione letterale di don Pietro Ottaviano: “…affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio di (esseri) celesti e terrestri e sotterranei e ogni lingua professi che Signore (è) Gesù Cristo a gloria di Dio Padre”: “ogni ginocchio” di qualunque entità pensante, che vive indipendentemente dalla propria area di appartenenza: celeste (quindi spirituale, gli angeli), terrestre (uomini e donne) o sotterranea (gli esseri oscuri, lontani da Dio per scelta). Cosa significhi quel “Signore”, poi, lo si individua in quel “della stessa sostanza del Padre” di cui abbiamo accennato all’inizio. Chi Lo vide in quella forma, e contemporaneamente nel ruolo distinto dal Padre, fu l’apostolo Giovanni, premiato per aver dato la propria vita al servizio del Vangelo quando fu rapito in spirito e scrisse il libro della Rivelazione, di cui ora vedremo brevemente pochi versi, tenendo presente che si tratta di una visione relativa a prima del giudizio, con la Chiesa non ancora rapita.

Giovanni, nel suo scritto, non vide Gesù come lo aveva conosciuto, non posò il suo capo sul su petto come avvenne nell’ultima cena, ma rimase spaventato nel contemplarlo. Gesù gli si presenta così: “Dice il Signore Dio: io sono l’Alfa e l’Omega, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente” (1.8).

Giovanni racconta: “Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro. I capelli del suo capo erano candidi, simili a lana candida come neve. I suoi occhi erano come una fiamma di fuoco. I piedi avevano l’aspetto del bronzo splendente, purificato nel crogiolo. La sua voce era simile al fragore di grandi acque. Teneva nella sua destra sette stelle e dalla bocca usciva una spada affilata, a doppio taglio, e il suo volto era come il sole quando splende in tutta la sua forza. Appena io lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando la sua mano destra su di me, disse: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi” (1.12-18).

Giovanni è costretto a voltarsi. Dio arriva sempre da dove uno non se lo aspetta, indipendentemente dalla posizione spirituale che ha ricevuto. Prima vede i sette candelabri d’oro, figura delle sette Chiese (1.20) e sappiamo che questo metallo è sempre riferito a YHWH. Dopo i candelabri ecco un essere dalle sembianze umane il cui vestito ricorda quello del Sommo Sacerdote, cinto in modo da richiamare la giustizia e la fedeltà con la quale esercita la sua funzione, anche qui con oro. Ricordiamo le parole “Con la sua veste lunga fino ai piedi portava tutto il mondo” (Sapienza 18.24) ed Esodo 28.4 “E questi sono gli abiti che faranno: il pettorale e l’efod, il manto, la tunica ricamata, il turbante e la cintura. Faranno vesti sacre per Aaronne, tuo fratello, e per i suoi figli, perché esercitino il sacerdozio in mio onore”. Nei capelli e nel volto c’è un richiamo alla visione di Daniele quando ci parla dell’”Antico dei giorni” e gli occhi erano “come– non gli veniva un termine esatto – fiamma di fuoco”, quel fuoco che sappiamo purifica, prova, giudica e separa la paglia, stoppa e legno dall’oro e dall’argento. I piedi, figura del cammino, di quella parte del corpo che consente uno spostarsi, erano di bronzo, figura anch’essa del giudizio, “purificato nel crogiolo”, a sostegno della perfetta santità del percorso di Gesù sulla terra e, se i piedi sono anche quelli che sorreggono la persona, ecco le basi con le quali sarà in grado di sussistere e giudicare: non solo cioè come Dio che risiede “nell’alto dei cieli”, ma in quanto Dio che si è fatto carne, uomo, e venne ad abitare in mezzo a noi. La Sua voce, poi, è un rumore bianco, cioè quel suono che comprende tutte le frequenze udibili esattamente come il bianco, somma di tutti gli altri: la totalità del messaggio, dell’appello, delle iniziative di Dio a favore dell’uomo, ma anche l’impossibilità di comprenderla senza lo Spirito Santo.

Le sette stelle da Lui tenute in mano stanno a significare il dominio e la forza sugli angeli delle sette chiese (1.20) che rappresentano la Chiesa nella sua storia attraverso i secoli; la spada affilata e a doppio taglio, definizione che i lettori della lettera agli Ebrei conoscono, è figura addirittura meno efficace della Parola stessa. Infine abbiamo il volto, abbagliante, inguardabile da occhio umano perché “come il sole che splende in tutta la sua forza”, quella della perfezione e della santità. Le parole che Gesù dice a Giovanni non lasciano dubbi sulla Sua identità: è lo stesso con cui l’apostolo ha camminato per i territori descritti nei Vangeli, lo stesso che ha visto risorto e salire al cielo e che ora non riconosce e ancora una volta ha bisogno di quel “Non temere” di cui più volte abbiamo letto e leggeremo. E tutto gli è stato dato dal Padre. Amen.

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