08.08 – LA PRIMA VISITA A NAZARETH (Luca 4.16-30) I/II

8.08 – La prima visita a Nazareth 1 (Luca 4.16)

 

Premessa

Affrontare la o le visite di Gesù a Nazareth pone problemi sul numero di volte in cui si recò nella città che lo vide diventare adulto, da quando aveva circa tre anni e mezzo fino ai trenta. A parte il ritorno dall’Egitto, la questione di quante furono le volte in cui si recò “nella sua città” è ancora aperta anche se, leggendo i racconti dei sinottici, si possono distinguere due episodi, per quanto vi sia chi sostiene fossero stati tre. Luca, nel passo che esamineremo, introduce quanto avvenne con le parole “Gesù, sospinto dallo Spirito, se ne tornò in Galilea e la sua fama andò per tutta la contrada circonvicina. Ed egli insegnava nelle loro sinagoghe, essendo onorato da tutti. E venne in Nazareth, dove era stato cresciuto” (4.14-16): si tratta di una premessa di ampio respiro al nostro episodio, che comprende molte attività svolte da Nostro Signore e il particolare dei concittadini che volevano buttarlo giù da una rupe, non citato da Matteo e Marco, lascia intendere che i due evangelisti non si riferiscano allo stesso avvenimento.

Considerando il mio metodo d’indagine, lo stesso peraltro di molti, è indubbio che leggere cronologicamente il Vangelo può portare a capire meglio alcuni fatti, evitare una lettura approssimativa e valutare più agevolmente il perché di certe frasi, ma è anche innegabile che la questione dell’esatta disposizione temporale non sia stata considerata rilevante dagli evangelisti che giustamente decisero di scrivere dei libri “aperti”, che parlassero a tutti nell’immediato essendo il “regno dei cieli”, allora come oggi, “vicino”. Luca lascia intendere che Gesù andò una prima volta a Nazareth quando entrò nella Galilea per stabilirvisi; Matteo (13) la colloca dopo l’esposizione delle parabole del Regno e Marco (6) prima dell’invio dei dodici in missione: è il loro racconto, più o meno temporalmente coincidente, a farmi optare per il fatto che quella città fu visitata due volte. Vediamo, sotto questo mio modo di disporre gli episodi, ciò che scrive Luca:

 

16Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. 17Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: 18Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, 19a proclamare l’anno di grazia del Signore. 20Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. 21Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».  22Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». 23Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: «Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!»». 24Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. 25Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; 26ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova a Sarepta di Sidone. 27C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». 28All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. 29Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. 30Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino”.

 

Il verso 16 inizia in modo solo apparentemente banale: la prima pericope “Venne a Nazareth” racchiude uno scopo, un piano per gli abitanti di quella città e lascerebbe intendere, se non conoscessimo ciò che avvenne, uno sviluppo positivo di quell’arrivo in mezzo a loro. “Venne a Nazareth” ci autorizzerebbe a pensare che contenga una speranza, un accoglimento del “lieto annunzio” da parte degli abitanti di quella città che, proprio perché conoscevano Gesù, lo avrebbero accettato. La seconda pericope, “dove era cresciuto”, ne accentua l’idea perché l’essere cresciuto in una cittadina equivale all’avere una reputazione, nel bene o nel male. E sappiamo che proprio a Nazareth è scritto che “…il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui” (Luca 2.40), particolare che dobbiamo tener presente perché quanto detto nel verso non costituiva un fatto privato, ma pubblico nel senso che era impossibile non riconoscere quanto avveniva in quel giovane. Il verso citato si riferisce al Gesù bambino, fino ai dodici anni; ma ciò che fu dopo il suo bar mitzwah, quindi dopo i tredici, è detto che “…cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (v.52). Ora, calcolando che la permanenza in Egitto durò dai due ai tre anni e mezzo, gli abitanti di Nazareth ebbero modo di farsi un’opinione su Gesù per 27 anni circa in cui lo videro lavorare, lo sentirono parlare e lo videro agire non certo a sproposito, frequentare la Sinagoga assiduamente così come prendere la parola come consuetudine nelle sue riunioni. Va ricordato che i bambini erano ammessi nelle Sinagoghe dall’età di sei anni e dovevano frequentarle con assiduità dopo i tredici. Quindi la conoscenza che gli abitanti di Nazareth avevano di Gesù, che lo incontravano ogni sabato nelle assemblee, fu costante per quattordici anni, sempre parlando approssimativamente.

Viene spontaneo pensare che, se quando Gesù era dodicenne parlava in mezzo ai sapienti di Gerusalemme e “…tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte” (Luca 2.47), le volte in cui fu invitato a parlare e commentare dei passi nella Sinagoga in Nazareth non furono poche. Riesce difficile pensare che, fino a quando non iniziò il Suo Ministero, Gesù abbia taciuto sulle verità scritturali nonostante sarà la vittoria sull’Avversario nel deserto a sancire ufficialmente l’inizio del Suo Ministero, che era veramente Lui “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”.

Non credo sia azzardato pensare che Nostro Signore “si alzò” perché invitato dal responsabile dell’assemblea – come in uso ancora oggi ance se con qualche variante –, ma dobbiamo porre la nostra attenzione su quel “gli fu dato il rotolo…” e “trovò il passo”.

Qui va fatta una premessa, cioè che la lettura della Legge o dei Profeti, come parte del servizio nella Sinagoga, rendeva necessaria la loro divisione in sezioni in modo tale che, nel giro di tre anni, tutta la Scrittura potesse essere letta e commentata interamente. La Chiesa di Roma ha adottato questo stesso metodo nelle letture che vengono proposte nella Messa quotidiana in cui, appunto in tre anni, viene letta tutta la Bibbia anche se, purtroppo, ben pochi se ne accorgono o frequentano le sue assemblee quotidianamente.

Secondo quest’usanza ebraica, allora, Gesù “trovò il passo” richiesto per quel sabato in cui ricorreva il giorno della purificazione, quello dell’espiazione dei peccati che si celebrava il 10 di Tizri (ottobre). Era lo Yom Kippur, considerato il giorno più santo e solenne dell’anno ancora oggi. Credo che in quella Sinagoga stava avvenendo qualcosa di straordinario: nel giorno della purificazione si leggeva Isaia 61.1,2 “Lo spirito del Signore Dio è su di me – come visualizzato al Suo battesimo – perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione – le credenziali del perfetto inviato, il Cristo, il Messia –; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore”.

Oggi” si compiva “questa scrittura” che i presenti avevano “ascoltato”. Si trattava di un annuncio formidabile che avrebbe dovuto riempire di gioia i suoi uditori anche perché molti erano gli elementi che andavano a convergere in un unico punto, cioè Gesù stesso. È fondamentale sottolineare che il verso di Isaia 61.2 è letto parzialmente, essendo nella sua interezza “…a promulgare l’anno di grazia del signore, il giorno di vendetta del nostro Dio, per consolare gli afflitti”: perché Gesù si fermò, nella sua lettura, all’ “anno di grazia”?  Oppure: perché Matteo non scrive interamente il passo? Perché intendeva sottolineare qualcosa che gli israeliti conoscevano molto bene, cioè il Giubileo che ricorreva ogni 50 anni in cui venivano rimessi tutti i debiti, messi i prigionieri in libertà, affrancati gli schiavi e le terre che erano state confiscate venivano restituite ai proprietari (Levitico 25.9-17). Il Giubileo era stato quindi istituito come simbolo per  anticipare le conseguenze della venuta del Cristo. È interessante, nel capitolo citato del Levitico, il fatto della terra restituita: terra dove abitare che rimanda sia a quella promessa, scelta da Dio per il suo popolo, sia a quella nuova, ai famosi “nuovi cieli e nuova terra”; questa almeno è l’applicazione che mi sento di fare attorno al verso 23 di Levitico 25: “Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti. Perciò, in tutta la terra che avete in possesso, concederete il diritto di riscatto per i terreni”. È un verso che allora rivendicava il potere di YHWH sul creato, ma che oggi pone chi crede in una posizione radicalmente diversa: “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio” (Efesi 2.12).

Leggiamo che prima di parlare “Gli occhi di tutti erano fissi su di lui”, cioè sapevano chi era e ancor più come stava operando nelle città a loro vicine e lontane, ma non si soffermarono sulla frase d’esordio, “Oggi si è compiuta questa Scrittura che avete ascoltato”. Ascoltarono, ma non compresero, o non vi dettero peso. Certo Gesù non si limitò a quella, ma il suo discorso fu teso a dimostrare il perché di quelle parole, delle Sue e di quelle del testo, e da ciò che leggiamo, “Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati dalle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca”, è impossibile che non rispondessero emotivamente di fronte a quella predicazione. “Tutti gli davano testimonianza” sta a significare che riconoscevano che le voci che erano giunte a Nazareth sulla forza delle parole e dei ragionamenti del loro concittadino erano vere, che “parlava con autorità” e che era in grado di spiegare la Scrittura meglio di qualunque Scriba o Fariseo. E il responsabile della Sinagoga che Lo invitò a leggere e commentare Lo conosceva.

Purtroppo, alla positività racchiusa nella prima reazione, quella cioè di dargli “testimonianza”, subito se ne aggiunge una negativa vista nel fatto che “erano meravigliati”: i presenti cioè non erano in preda ad un sentimento di stupore entusiasta che porta ad aderire a una posizione precisa, ma erano all’inizio di un tentativo per giustificare razionalmente quanto stava avvenendo in quella Sinagoga. In pratica tutto quanto Gesù diceva loro non veniva accolto nel cuore e nella mente, ma passava attraverso il filtro della diffidenza vanificando le Sue parole. A differenza di ciò che avverrà nella seconda visita in quella città, si chiesero: “Non è costui il figlio di Giuseppe?”, quindi uno di noi, nato qui, uno che ha lavorato il legno fino a poco tempo prima di andarsene a predicare e fare miracoli?

Ecco, è proprio da quella definizione, “il figlio di Giuseppe”, che inizia il processo di screditamento: dimenticavano che Giuseppe discendeva da Davide come Gesù, le promesse ascoltate per chissà quanto tempo nella Sinagoga sul Cristo che sarebbe arrivato, le voci a loro giunte sui miracoli operati e su quanto potente fosse la Sua predicazione. Quella “testimonianza” resta all’inizio si era trasformata in livore perché alla diffidenza cui erano passati si aggiunse l’orgoglio campanilista di cui Gesù si accorse subito e iniziò a parlare dicendo “Certamente voi mi citerete questo proverbio: «Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito accadde a Capernaum, fallo anche qui, nella tua patria!»” (v. 23).

Il proverbio citato, “Medico, cura te stesso”, in uso ancora oggi, non sta a sottintendere che gli abitanti di Nazareth vedessero in Gesù un malato che prima di guarire gli altri doveva pensare a curarsi, ma che in quel “te stesso” rientrassero a pieno titolo loro in quanto Suo prossimo storico e diretto. In altri termini, prima di fare miracoli e predicare all’esterno del loro territorio, avrebbe dovuto iniziare da lì, dalla città di Nazareth, per renderla illustre come Capernaum, oppure fermarsi e compiere in mezzo a loro le identiche, potenti operazioni.

Sappiamo però che Gesù non fece mai un miracolo per soddisfare la curiosità della gente o peggio per pubblicizzare un territorio, ma per testimonianza che doveva essere ricevuta di chi voleva comprendere il piano di Dio: “le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato” (Giovanni 5.36).

Il ragionamento dei nazareni, invece, si configurava nelle parole successive a quelle ora riportate: “Ma voi non avete mai ascoltato la sua voce né mai avete visto il suo volto, e la sua parola non rimane in voi: infatti non credete a colui che egli ha mandato” (vv 36,38).

Concludendo questa prima parte: Gesù, come suo solito, predicò con autorità, grazia e verità, elementi che furono riconosciuti da quanti lo ascoltavano. Il suo fu però un seme caduto sulla strada, subito asportato dagli uccelli del cielo, figura in questo caso dell’Avversario che per la prima volta cercò di ucciderlo, spingendo gli abitanti di Nazareth a buttarlo giù “dal ciglio del monte”. Anche questa volta rimase sconfitto.

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