06.05 – I GUAI SULLE CITTÀ (Matteo 11.20-24)

6.05 – I guai sulle città (Matteo 11.20-24)

 

20Allora si mise a rimproverare le città nelle quali era avvenuta la maggior parte dei suoi prodigi, perché non si erano convertite: 21«Guai a te, Corazìn! Guai a te, Betsàida! Perché, se a Tiro e a Sidone fossero avvenuti i prodigi che ci sono stati in mezzo a voi, già da tempo esse, vestite di sacco e cosparse di cenere, si sarebbero convertite. 22Ebbene, io vi dico: nel giorno del giudizio, Tiro e Sidone saranno trattate meno duramente di voi. 23E tu, Cafàrnao, sarai forse innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai! Perché, se a Sòdoma fossero avvenuti i prodigi che ci sono stati in mezzo a te, oggi essa esisterebbe ancora! 24Ebbene, io vi dico: nel giorno del giudizio, la terra di Sòdoma sarà trattata meno duramente di te!».”.

 

            Chi cerca di seguire il filo cronologico del Vangelo noterà che Luca, dopo le parole sulla generazione che si rifiutava di vedere in Gesù il Cristo, riporta l’invito a pranzo di un Fariseo in cui avvenne l’adorazione della peccatrice innominata. Matteo però, nel suo Vangelo rivolto agli ebrei, fa proseguire il discorso di Nostro Signore coi famosi “guai” verso le città mentre l’altro evangelista le colloca in occasione dell’invio dei settanta discepoli.

In questo passo Nostro Signore nomina alcune città molto significative accorpandole in due gruppi distinti: Corazìn, Betsaida e Cafàrnao (o Capernaum) da un lato, Tiro, Sidone e Sodoma dall’altro, quindi tre (numero che potremmo definire “del compimento” o “dell’autonomia”) più tre per un totale di sei, numero dell’imperfezione. Riguardo alle città del primo gruppo Matteo specifica “nelle quali era avvenuta la maggior parte dei suoi prodigi”: a Capernaum fissò la sua temporanea residenza quando, all’età di circa trent’anni, giunse dopo aver lasciato Nazareth, ricevuto il battesimo da Giovanni e percorso la Samaria. Là sappiamo che fece non solo molti miracoli di guarigione, ma soprattutto predicò la “buona novella” che può essere sintetizzata, per allora, con le parole del Battista “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Matteo 3.2), analoghe a quelle di Gesù (Matteo 4.17). Regno dei cieli che, quando sarà definitivamente compiuto, non costringerà chi crede a vivere col corpo in un altro regno, quello sulla terra, gestito dall’Avversario e dai suoi angeli.

Ora, pensando a quanto abbiamo letto finora nei Vangeli nella nostra imperfetta, presunta lettura cronologica, abbiamo visto e vedremo una quantità enorme di gente accorrere a Lui per ascoltarlo, per ottenere la guarigione da malattie di ogni sorta: non possiamo ignorare che tutto quell’agire diede come risultato la presenza di “circa 120” persone desiderosa di stare unite ad attenderlo (Atti 1.15), numero che è una promessa visto in quello degli apostoli, 12, per 10, la completezza agli occhi di Dio per l’uomo. Al di là di questo numero così simbolico, ci chiediamo dove fossero andati a finire tutti gli altri, quei ciechi guariti, quei lebbrosi che avevano potuto riacquistare una dignità e vita sociale prima di allora interdetta, quegli indemoniati così atrocemente umiliati nel corpo, ma soprattutto nella mente; pensiamo anche a tutti coloro che ebbero l’onore di conoscerlo, di parlargli, di pranzare e cenare assieme a Gesù. Certo non possiamo affermare categoricamente che tutti quelli che si erano convertiti si trovassero a Gerusalemme, ma quei “120” ci parlano di quanto sono rare la riconoscenza fattiva e la conversione per quanto sappiamo che, dalla discesa dello Spirito Santo in poi, il numero dei cristiani crebbe molto rapidamente, oserei dire in modo esponenziale.

Ai tempi di Gesù siamo in un periodo intermedio; basta pensare all’idea imperfetta che i suoi discepoli avevano di Lui, non avendo abbandonato l’idea che fosse comunque un liberatore terreno, non capendo chi fosse realmente come avverrà in seguito.

Andando a ritroso nell’ordine con cui Gesù nomina le città del primo gruppo, dopo Capernaum troviamo Bethsaida, “Casa della pesca”, che sappiamo essere quella dove operavano i primi quattro discepoli, cioè Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni, appunto pescatori, oltre a Filippo che lì era nato. Anche a Bethsaida, a quanto ne sappiamo e per come scrive Matteo, “era avvenuta la maggior parte dei suoi prodigi” eppure pochi lo seguirono. È allora da un lato commovente la folla che si raduna per ascoltarlo, che beneficia dei suoi insegnamenti nella Sinagoga e gli riconosce un’autorità ben diversa da quella degli Scribi e Farisei, ma dall’altro triste constatare che di tutto quanto Gesù fa per loro finisce per essere dimenticato nel momento in cui si chiama in causa la conversione e il ravvedimento. Le sue non erano parole generiche, bei discorsi di un predicatore preparato, ma tutto era sostenuto da miracoli indiscutibili a provare che chi chiamava ad una rivisitazione della propria vita era Dio stesso o, per come poteva essere visto allora, un grande profeta da Lui inviato.

Arriviamo così a Corazìn, nome che invano cercheremmo nella Bibbia e che compare solo qui e in Luca. Questa città distava tre chilometri circa da Capernaum, ma non ci è stato trasmesso nessun miracolo in lei espressamente avvenuto, a conferma del fatto che i Vangeli riportano una minima parte di quanto fatto e detto da Gesù che comunque passò da lei più volte. Corazìn, attualmente chiamata Keraze o Kerazie, è oggi solo sito archeologico, ma a quei tempi i suoi abitanti erano sia costantemente informati di quanto avveniva nella città vicina, Capernaum, sia erano stati testimoni della “maggior parte dei prodigi” operati da Nostro Signore. Ricordiamo Matteo, che ci illumina scrivendo “Gesù percorreva tutta la Galilea insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo. La sua fama si diffuse per tutta la Siria e conducevano a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici; ed egli li guarì” (4.23,24).

Ecco allora che, se Capernaum e Betsaida indicano inequivocabilmente luoghi in cui Gesù aveva operato, Corazìn è l’immagine di ciò che è avvenuto realmente anche se ufficialmente non se ne sa nulla; quindi, citando queste tre città, Gesù intende dire che Lui sa ciò che non sappiamo e che il suo giudizio è perfetto, messaggio diretto soprattutto a noi che, appunto, di Corazìn non ignoriamo tutto. Se Gesù non l’avesse nominata, non sapremmo della sua esistenza a meno di non essere archeologi, storici o “addetti ai lavori”. Capernaum, Betsaida e Corazìn allora rappresentano il tutto, non solo un’area geografica precisa, definita, come intese chi ascoltò Nostro Signore allora. Queste tre città sono un riferimento e le parole di Gesù sono un atto d’accusa verso tutti quei centri abitati che, nonostante il Vangelo sia annunciato in un modo o in un altro – ma comunque annunciato – lo respingono. Certo ai tempi delle tre città il miracolo, per la mentalità di allora e il fatto che le profezie dovevano adempiersi, era teoricamente per molti una condizione basilare per poi credere, ma oggi, parlando il Vangelo comunque al cuore e rivelando lo spirito delle persone, fa le stesse cose, per quanto con manifestazioni differenti.

Ma l’atto di accusa, il messaggio agli abitanti delle tre città non si ferma qui: Gesù condanna la durezza del cuore dei loro abitanti chiamando in causa altri luoghi la cui immoralità era nota, Sodoma più di tutte. È giusto sottolineare che il vero peccato di Capernaum, Betsaida e Chorazìn non fu il non aver creduto, ma l’indifferenza a fronte di tutto quanto era stato in loro detto e operato, del prendere atto senza cambiare nulla.

Venendo ora a Tiro e Sidone, tralasciando le profezie dell’Antico Patto sulla prima, basta ricordare che erano note per la loro idolatria e libertinaggio. Era particolarmente sentito il culto ad Astarte, la dea della fertilità alla quale purtroppo lo stesso Salomone, ormai corrotto, aveva edificato degli altari.

Ora Gesù, con questo secondo gruppo di città, fa una distinzione affermando in pratica che, parlando della responsabilità di fronte a Dio, è preferibile una vita nell’ignoranza sulle esigenze del Creatore piuttosto che rimanere indifferenti e proseguire per la propria strada una volta averlo incontrato. Come quindi ha dei gradi la positività, vista nel portare frutto in un trenta, sessanta o cento, altrettanto avviene per la negatività dove sarà la coscienza di ciascuno a giudicare, condannare o attenuare la pena sempre secondo le parole di Nostro Signore in Luca 12.47,48: “Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche”.

Tornando un attimo a Capernaum, per contrasto, l’interrogativo “sarai forse innalzata fino al cielo?” è una demolizione del concetto campanilistico dei suoi abitanti – che abbiamo visto pretendevano di averlo in esclusiva –, dell’equazione “abbiamo Gesù, quindi meritiamo ogni onore”. “Precipiterai fino agli inferi” è la risposta, mentre Sodoma, se fosse stata testimone degli eventi verificatisi a Capernaum, esisterebbe ancora e gli abitanti di Tiro e Sidone, “vestiti di sacco e cosparsi di cenere”, si sarebbero convertiti, là dove il “sacco” era il nome che si dava a un tessuto di peli di capra e di cammello corrispondente al “cilicium” romano, così chiamato perché realizzato con tessuto da capre della Cilicia. A quel tempo gli ebrei, in tempi di lutto e profonda umiliazione, portavano una veste di quel tessuto, senza maniche, quasi come un sacco, serrato ai fianchi con una corda. A volte si cospargevano il capo con cenere o terra (Daniele 9.3; Nehemia 9.1) o si mettevano addirittura seduti su di esse (2 Samuele 13.19; Salmo 102.9; Giona 3.6).

Abbiamo quindi, nei termini “sacco e cenere” le espressioni esteriori del cordoglio, certamente reali e non messe in atto per avere quel premio fittizio che di fatto ottenevano i Farisei e di cui abbiamo parlato in uno studio precedente meditando le parole “questo è il premio che ne hanno” a cui fa da contrappunto il “Ma tu”.

Possiamo ricordare, per quanto non nominata da Gesù, ma a completamento del nostro discorso, la Ninive di cui si parla in Giona: in cui leggiamo in 1.2 l’ordine che aveva ricevuto: “Alzati, va’ a Ninive, la grande città, e in essa proclama che la loro malvagità è salita fino a me”. Alla successiva predicazione del profeta che le annunciava la sua distruzione, leggiamo “I cittadini di Ninive credettero a Dio– non a Giona – e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli. Giunta la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere. Per ordine del re e dei suoi grandi fu poi proclamato a Ninive questo decreto: «Uomini e animali, armenti e greggi non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua. Uomini e animali si coprano di sacco e Dio sia invocato con tutte le forze; ognuno si converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani. Chi sa che Dio non cambi, si ravveda, deponga il suo ardente sdegno e noi non abbiamo a perire». Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece”.

Purtroppo, la parte conclusiva del discorso di Gesù sulle città che rifiutano di convertirsi è devastante: “nel giorno del giudizio, la terra di Sodoma sarà trattata più duramente di te!”, parole che non sono pronunciate in preda all’ira o a un sentimento temporaneo di ostilità come potrebbe accadere a un essere umano, ma di verità che riguardano tutti coloro che non si ravvedono anche oggi, con l’obiettivo dell’incontro con il Padre. Amen.

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