11.17 – CHI VUOL SALVARE LA PROPRIA VITA, LA PERDERÀ (Matteo16.25,20)

11.17 – Chi vuol salvare la sua vita (Matteo 16. 25,26)

 

 25Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. 26Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? 

            Siamo qui al seguito del discorso di Gesù dopo le parole su cui abbiamo cercato di meditare nei due capitoli precedenti, relative alla necessità di prendere ciascuno la propria croce, e seguirlo. Dopo questa massima, vengono esposte le ragioni: chi avrà soluto salvare la propria vita, la perderà, ma chi l’avrà persa per causa Sua, la troverà. “Volere”, “salvare” e “perdere” sono allora i tre perni attorno ai quali ruota il principio espresso da Nostro Signore. Il primo è un verbo che significa “Tendere con decisione, o anche soltanto con il desiderio, a fare o conseguire qualcosa”. Quando è seguito da un verbo all’infinito, come in questo caso, esprime per lo più la tendenza a conseguire, o la determinazione a fare qualcosa. Voler “salvare la propria vita” è quasi un’azione obbligata perché tutti tendono a questo: sottrarsi a un pericolo, a un danno che, in questo caso, si riferisce chiaramente alla morte.

Una prima lettura del testo è quindi quella letterale, rivolta nella prospettiva a quanti saranno uccisi per la loro testimonianza alla Parola di Dio: ricordiamo Stefano e l’apostolo Giacomo, fratello di Giovanni, il primo dei Dodici a venire ucciso per mano di Erode Agrippa I, come leggiamo in Atti 12.1-3, “In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa. Fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni. Vedendo che ciò era gradito ai giudei, fece arrestare anche Pietro”.

Sono personalmente convinto che il senso del verso 25 sia quello che ho riportato, ma poiché la Scrittura parla a tutti gli uomini indipendentemente dall’epoca nella quale vivono, è giusto sottolineare che, se per noi europei la persecuzione contro i cristiani non è per ora in atto, per lo meno non in modo dichiaratamente violento, questa esiste in molti Paesi del pianeta. Nel corso della storia i cristiani morti per la loro fede sono stimati in circa settanta milioni, di cui quarantacinque solo nel XX secolo. Una ricerca datata 8 giugno 2011 condotta da Massimo Introvigne, fondatore e direttore del Centro Studi sulle Nuove Religioni, ha portato la statistica secondo la quale nel mondo viene ucciso un cristiano ogni cinque minuti. Possiamo quindi fare le nostre debite considerazioni sul fatto che da decenni venga ricordata la “Shoah”, si dice sei milioni di ebrei uccisi dal Nazismo, e non quella dei settanta milioni di cristiani. In merito a quanto scritto poco prima riguardo all’Europa, l’Osservatorio sull’intolleranza e discriminazione contro i cristiani in Europa, membro della Piattaforma dell’Agenzia Europea dei diritti fondamentali, segnala che proprio anche da noi, come Continente, i casi di intolleranza e discriminazione nei confronti dei cristiani siano in aumento. Il Report dell’Agenzia in questione, segnala 241 casi tra il 2013 e il 2014. Citando la prefazione al lungo documento, reperibile in rete in lingua inglese, il dott. Gudrun Kugler, direttore dell’Osservatorio, spiega: “La società sempre più secolare in Europa ha sempre meno spazio per il cristianesimo. Alcuni governi e attori della società civile cercano di escludere invece di accogliere. Ci vengono segnalati innumerevoli casi di intolleranza verso i cristiani. Ricercando, documentando e pubblicando questi casi speriamo di creare una consapevolezza che è un primo passo verso un rimedio” (che mai avverrà, stante la società verso la quale stiamo andando).

Nelle Maldive, meta di vacanza di molti europei, è stato proclamato nel 1994 l’Atto di Unità Religiosa che vieta la promozione di ogni manifestazione diversa dall’Islam o di ogni opinione che sia in disaccordo con quella degli esperti islamici. Nel 2011 le autorità hanno espulso un’insegnante accusata di diffondere il Cristianesimo, avendo trovato una Bibbia nella sua casa. In Arabia Saudita il possesso di una Bibbia è considerato un crimine, in Corea del Nord la dittatura ateo-comunista proibisce qualsiasi appartenenza a gruppi cristiani e, al 2015, si parla di una cifra oscillante tra i 50mila e i 70mila cristiani imprigionati a vita nei campi di lavoro forzato. La Cina ha istituito una “Chiesa patriottica nazionale” e quei cattolici che non ne fanno parte sono considerati agenti di una potenza straniera.

E potremmo continuare, sottolineando le parole troppo blande di Papa Francesco che si limitò a dire, nell’Angelus del 15 marzo 2015, “Che questa persecuzione contro i cristiani, che il mondo cerca di nascondere, finisca e ci sia la pace”. “Che il mondo cerca di nascondere” perché la fede è messa al bando, perché l’informazione deve essere controllata e canalizzata, perché le menti devono restare spente e, dando voce ai morti del passato instillando l’orrore per il regime Nazista, tacciano quelle dei morti del presente e la gente possa convincersi che il Male appartiene al passato.

Finito questo excursus breve, ma necessario, veniamo alla “vita” di cui Gesù parla per quelli che le persecuzioni del mondo non le subiscono ancora: possiamo definire la “vita” come il risultato di un impulso che il Creatore ha dato in origine a ciò che sarebbe rimasto altrimenti inerte. Per il regno vegetale si trattò di un ordine dato alla Terra: “La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che fanno sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la propria specie”. Ciò avvenne il terzo giorno. Poi il quinto giorno la stessa cosa avvenne per le creature del mare e gli uccelli, ma il sesto fu la volta degli animali e dell’uomo, l’unica creatura a ricevere l’alito vitale di Dio per cui “fu fatto anima vivente”.

Il Creatore quindi costituì l’uomo responsabile di tutta la sua opera: Lui l’aveva fatto, prodotto dalla polvere della terra, e a lui apparteneva anche dopo la caduta ed ecco perché nessuno poteva arrogarsi il diritto di togliergli la vita nel senso fisico del termine: “Del sangue vostro, ossia della vostra vita – quella naturale, come per tutti gli animali – io domanderò conto; ne domanderà conto ad ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, ad ogni suo fratello” (Genesi 9.5). Un principio che non mutò mai nel corso delle dispensazioni.

Solo più avanti, nella dispensazione della Legge, si intravede un parallelismo tra vita carnale e vita spirituale, per quanto già con il Diluvio ed altri episodi appaia chiaro il principio in base al quale il vivere ha senso solo se perseguito ricercando Dio per a Lui adeguarsi: “Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male” (Deuteronomio 30.15). Al verso 19 viene detto “Prendo oggi a testimoni contro di voi il cielo e la terra; io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione: scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza”.

A questo punto è chiaro che la “vita” di cui parla YHWH nella Sua Legge si riferisce solo apparentemente a quella orizzontale, ma tenda alla sopravvivenza spirituale, che per ora definiamo superficialmente fisica e psichica, poiché il vivere in senso puramente animale è cercato da pochi. Che i due tipi di “vita” sono quelli che costituiscono l’uomo lo sa bene anche l’Avversario, che in Giobbe 2.4, a Dio che gli parlava di quanto fosse integro “il mio servo Giobbe”, Gli rispose “Pelle per pelle; tutto quello che possiede, l’uomo è pronto a darlo per la sua vita”.

Per “vita”, quindi, si intende tutta la persona e non solo il fatto che il muscolo cardiaco svolga la sua funzione. Interessante la preghiera in Salmo 26.9, “Non associare a me i peccatori, né la mia vita agli uomini di sangue” e 49.9, già citato in altra riflessione, “Troppo caro sarebbe il riscatto di una vita: non sarà mai sufficiente per vivere senza fine e non vedere la fossa”: se l’uomo fosse un animale, con l’anima che risiede nel sangue come tutte le altre creature, sarebbe sacrificabile, potrebbe essere ucciso senza colpa, essendo la sua sopravvivenza totale relegata a quel liquido. Ultimo passo relativo agli scritti dell’Antico Patto degno di considerazione si trova sempre in questo Salmo, ai versi 15 e 16: “Come pecore sono destinati agli inferi, sarà loro pastore la morte; scenderanno a precipizio nel sepolcro, svanirà di loro ogni traccia, gli inferi saranno la loro dimora. Certo, Dio riscatterà la mia vita, mi strapperà dalla mano degli inferi”.

Qui possiamo vedere tanto la certezza di riscatto della “vita” in toto espressa dal salmista che pone una distinzione tra ciò cui gli uomini tendono per natura, il benessere fisico, e quello di chi invece fonda la sua vita con Dio come riferimento, “Certo, Dio riscatterà”.

Veniamo però al Nuovo Patto, in cui Gesù, esponendo la parabola del figlio prodigo, riporta le parole del padre che lo vide tornare: “Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Luca 15.22-24). Si può essere allora morti anche vivendo, o si può vivere senza essere morti e soprattutto c’è una vita eterna, quella che cercava il giovane ricco che incontreremo (Luca 18. 18-27): quella persona gli chiese “Maestro buono, che devo fare per eredita la vita eterna?”; dopo avergli riferito che aveva osservato tutti i precetti della legge, alle parole “Se vuoi esser perfetto, va’, vendi ciò che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi” è scritto che “Se ne andò rattristato, perché aveva molti beni”: la vera vita, quella eterna, si trasformò per quella persona in qualcosa di secondario perché ne aveva un’altra, la propria, alla quale dava priorità. Ecco allora che quel giovane fece una scelta, volle salvare la sua vita, quella che gli apparteneva come essere pensante, cosciente, che lo faceva persona nella carne, e non quella della rinuncia, che gli avrebbe tolto i suoi averi materiali, ma gliene avrebbe dati altri, spirituali, in cambio.

Da notare che Gesù non chiese a quel ricco di abbandonare i suoi averi e darli ai poveri come condizione per avere la vita eterna, ma di abbandonarli come prima cosa dentro di sé e poi seguirlo perché solo così il suo dare agli altri avrebbe avuto un senso: non lo chiama ad essere altruista o “buono”, ma a far parte del gruppo dei discepoli realizzandosi pienamente, a liberarsi di un ostacolo. Se ci fermassimo alla prima parte della Sua risposta, il cosiddetto “vangelo sociale” sarebbe legittimato.

La ricchezza è qui vista come “vita”, cioè tutto ciò che rappresenta essa per l’uomo, ma va intesa come possesso, materiale o affettivo, cioè tutto quello che ci condiziona nelle nostre scelte, come più volte sottolineato, qualcosa relegato al bene che si possiede, sia denaro, cose, persone, affetti. E qui siamo chiamati molto a meditare, perché la nostra esistenza non può essere condizionata dai nostri “beni”, non può esservi compromesso, ma distinzione. Sotto questa lettura, hanno pieno senso le parole di Paolo a Timoteo nella sua prima lettera: “Invece quelli che vogliono arricchire – anche nel senso dell’Ego – cadono vittime di tentazioni, di inganni e molti desideri insensati e funesti, che affondano gli uomini nella rovina e nella perdizione. Infatti l’amore del denaro – amore e non disponibilità di esso – è radice di ogni specie di mai; e alcuni che vi sono dati, si sono sviati dalla fede e si sono procurati molti dolori” (6.9-10).

L’affermazione di Gesù sulla “propria vita” è allora intesa nel suo senso più ampio, cioè l’uomo deve chiedersi cosa lo spinge, lo anima nel profondo e meditare sul fatto che, seguendo i propri impulsi naturali e anche venendo a “guadagnare il mondo intero”, quello che Gli voleva dare Satana, a nulla servirebbe se perdesse la propria anima, la sola ad essere immortale.

Perché non c’è nulla che possiamo dare a Dio in cambio, neppure noi stessi, se non fossimo stati da Lui accolti. Amen.

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11.16 – SEGUIRE GESÙ: PRENDERE LA CROCE II (Matteo 16.24)

11.16 – Seguire Gesù: prendere la croce II (Matteo 16. 24)

 

 24Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.

 

Nello scorso capitolo abbiamo lavorato, nelle sue parti essenziali, sul corrispettivo di Luca che, al “prendere la sua croce”, aggiunge “ogni giorno”. Prima di esaminare il significato della “croce” di cui Gesù parlò ai discepoli e alla folla da Lui direttamente chiamata, sottolineiamo che il seguirLo doveva essere una scelta libera e ponderata: “Se qualcuno vuole venire dietro a me”. In pratica la porta della Grazia è aperta a tutti, ma quel “se” avvisa chi vuole seguirlo che non può farlo restando la persona di prima, cioè pretendendo di mettere sullo stesso livello se stesso e Dio, cercare un compromesso per vivere tenendo separato ciò che appartiene alla propria natura umana da ciò che è il confronto con Lui. La cosa è impossibile perché non si può “servire a due padroni”, perché “o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro.” (Matteo 6.24).

“Se” quindi, attirato dai miracoli e dai discorsi di Gesù, una persona si sente attratta da Lui, deve sapere che si troverà presto o tardi di fronte alla necessità di rinnegare se stesso, cioè fare i conti con tutti quegli elementi che hanno rappresentato fino a quel momento il centro della sua vita, per abbandonarli. Alcuni lo fanno subito, in blocco, totalmente, altri con una progressione perché si comincia dalle piccole cose per poi arrivare alle grandi e non viceversa. Il rinnegamento di se stessi inizia quando si acquisisce la conoscenza che “in me non abita alcun bene”, è come iniziare con vestiti invernali un cammino sotto il sole per svestirsi progressivamente, abbandonando ciò che non serve perché portarlo addosso diventa un problema fastidioso. Credo che sia pertinente in proposito Colossesi 3.12-17 “Vestitevi dunque, come eletti di Dio, santi ed amati, di sentimenti di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza. Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a vicenda, se uno ha di che dolersi di un altro. Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi. Al di sopra di tutte queste cose vestitevi dell’amore che è il vincolo della perfezione. E la pace di Cristo, alla quale siete stati chiamati per essere un solo corpo, regni nei vostri cuori”.

“Rinnegare se stessi” è strettamente connesso al “prendere la propria croce” e al seguire Gesù, due azioni ciascuna delle quali implica l’altra perché altrimenti sarebbero entrambe sconnesse, senza senso perché solo se fatte assieme garantiscono la sopravvivenza della persona.

Venendo alla seconda parte di queste riflessioni, mi sono chiesto se i presenti al discorso di Gesù, discepoli compresi, potessero capire cosa s’intendesse effettivamente per “croce”, non essendovi un solo caso in cui è menzionata nelle loro Scritture, nella Legge, nei Profeti o negli altri Libri. Forse i più informati avranno fatto il collegamento con la crocifissione, praticata dai Romani dal 200 a.C., ma dalle origini persiane, da Antioco Epifane ed Alessandro Magno ancora prima, ma la ritengo un’eventualità rispetto al fatto che il suo vero significato verrà rivelato proprio con l’esecuzione di Gesù ed il Suo risorgere.

Come abbiamo fatto con l’ “ogni giorno”, vediamo allora le applicazioni sul prendere “la propria croce”. La prima domanda che mi sono fatto è se i presenti conoscessero il significato della parola. Ho fatto due ipotesi, che probabilmente si assommano tra loro e danno un unico risultato: primo, la crocifissione era stata introdotta dai romani nel 200 a.C., ma era in uso presso i babilonesi, i persiani e i cartaginesi dai quali i romani l’appresero. La storia umana ha tramandato la crocifissione di duemila abitanti ordinata da Alessandro Magno quando conquistò Tiro nel 332. La croce, quindi, è possibile che abbia provocato nei presenti un immediato riferimento al dolore e alla morte. Secondo, ma più che un’ipotesi è un dato, è che Gesù nominò quello strumento di morte in modo tale che fosse capito nel suo significato più ampio dopo, quando appunto a provarla sarebbe stato lui stesso.

Sul problema di cosa avesse voluto realmente dire, molto si è scritto, anche contraddittoriamente, ancora una volta tendendo a dare una sola interpretazione. Come abbiamo visto poco prima per l’ “ogni giorno”, però, anche per la croce credo si debba procedere ad una lettura a strati perché non ci sono riferimenti primari o secondari, ma molti di pari importanza che convergono in un solo punto che li contiene tutti.

La croce parla di testimonianza sofferta. In Atti 5.41,42 leggiamo “Essi – gli Apostoli, dopo che furono flagellati, quindi soffrirono non poco – se ne andarono via dal sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù. E ogni giorno, nel tempio e nelle case, non cessavano di insegnare e di annunciare che Gesù è il Cristo”. Qui allora vediamo che per i Dodici (ricordiamo che Giuda Iscariotha era stato sostituito da Mattia) non era importante ciò che il sinedrio avrebbe loro fatto, ma testimoniare propagandando il Vangelo e Luca, medico, non dice una parola sulle conseguenze della flagellazione, ma pone l’accento sul fatto che “se ne andarono (…) lieti di essere giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù”. La realizzazione personale infatti, contrariamente ad ogni idea umana, non si verifica solo quando meditiamo la Parola o preghiamo, ma anche nel dolore conseguente alla dichiarazione dell’essere credenti e alla testimonianza del Vangelo.

La croce parla di sofferenza a molti livelli, non solo quello della persecuzione cui allude Paolo nelle sue lettere, poiché i persecutori dei cristiani, prima dei romani, furono proprio gli stessi ebrei. Ricordiamo Filippesi 1.29: “Riguardo a Cristo, a voi è stata data la grazia non solo di credere in lui, ma anche di soffrire per lui, sostenendo la stessa lotta che ci avete visto sostenere e sapete che sostengo anche ora”. In Ebrei 10.32-37 si legge “…avete preso parte alle sofferenze dei carcerati e avete accettato con gioia di essere derubati delle vostre sostanze, sapendo di possedere beni migliori e duraturi. Non abbandonate dunque la vostra franchezza, alla quale è riservata una grande ricompensa. Avete solo bisogno di perseveranza perché, fatta la volontà di Dio, otteniate ciò che vi è stato promesso. Avete un poco, infatti, un poco appena, e colui che deve venire verrà, e non tarderà”. E il credente ha bisogno di perseverare perché senza questo metodo si inaridirebbe; soprattutto è chiamato a pensare che il tempo che vive non è quello che è istintivamente portato a misurare coi propri metri umani: l’autore della lettera ricorda che abbiamo “un poco appena” prima del ritorno di Cristo. Attenzione a non sottovalutare la portata della persecuzione, poiché questa viene portata avanti tanto da religioni avverse al cristianesimo – e questo anche oggi –, ma dall’Avversario stesso che fa di tutto pur di incrinare, rovinare e se possibile distruggere il rapporto col Padre. Ci ha già provato e agirà in tal senso fino alla sua fine.

La croce parla di rinuncia e abbandono, come in Filippesi 3.7-11: “Ma queste cose – la storia umana di Paolo con ciò che questa comporta, esperienze, affetti, professione, inserimento sociale –, che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui (…) perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dei morti”.

La croce parla di continuità, come ancora in Ebrei 12.2: “Tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento – Lui solo –. Egli, di fronte alla gloria che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio”.

La croce ci parla del rifiuto della carne intesa nel senso ebraico del termine, basar, che comprendeva il corpo e i sentimenti umani. Leggiamo in Galati 5. 24,25 “Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Perciò, se viviamo nello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito”. Ciò che siamo è e sarà sempre impuro, non importa quanto, fatto sta che il nostro vestito, se non fosse per l’intercessione di Cristo, sarebbe irrimediabilmente sporco e qui, a conferma che la nostra origine rimane, interviene Colossesi 3.5,6: “Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è l’idolatria; a motivo di queste cose l’ira di Dio viene su coloro che gli disobbediscono. Anche voi un tempo eravate così, quando vivevate in questi vizi”. Qui Paolo si esprime al tempo passato, ma proprio perché una volta, quando non credevamo, eravamo dediti a varie forme di peccato che  e qui dobbiamo prestare molta attenzione –rimane come attitudine e richiamo; ricordiamo che a Caino fu ricordato che il peccato era alla porta e lo spiava, attendendo il momento per agire. Anche lui, che viveva la dispensazione della coscienza, era libero di scegliere e prendere o meno i provvedimenti opportuni per salvaguardare il suo essere.

La croce è un riferimento: “Quanto a me, non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Galati 6.14). Da notare la “croce del Signore” come punto di orientamento, poiché è alla croce che fu inchiodato non solo lui, ma anche quel “documento scritto contro di noi” (Colossesi 2.14) senza il quale non avremmo mai avuto accesso al Padre. Poi dal verso di Galati abbiamo la reciprocità: il mondo, per l’apostolo Paolo, non aveva più senso, né per il mondo la sua persona. È un addio reciproco che moti cristiani stentano a mettere in pratica.

La croce, infine, ci parla di noi, visti come “vasi di creta” e della nostra condizione: “In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre, infatti, noi che siamo vivi veniamo consegnati alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale” (2 Corinti 4.8-11). Interessante il riferimento alla morte e al corpo, poiché il credente non si appartiene, ma è di Colui che lo ha salvato: portiamo “la morte di Gesù” in noi in quanto salvati per essa, ma ciò che è mortale in noi rivestirà immortalità.

Ecco allora che “prendere la propria croce ogni giorno” è un’espressione che comprende tutti questi riferimenti, ciascuno dei quali emerge a seconda delle circostanze, sempre conosciute molto più di quanto crediamo noi, da Nostro Signore Gesù Cristo e dal Padre. Amen.

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11.15 – SEGUIRE GESÙ: PRENDERE LA CROCE I (Matteo16.24)

11.15 – Seguire Gesù: prendere la croce I (Matteo 16. 24)

 

 24Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.

 

Il parallelo di Marco ci informa che Gesù e i discepoli erano soli quando avvenne il riconoscimento di Pietro e il suo rimprovero, quindi tutto questo si verificò a distanza dalla gente che Lo seguiva. Anche lì, in quel territorio di Cesarea di Filippo, le persone Lo riconobbero e Lo seguivano, ma credo in maniera diversa; ricordiamo che in altri episodi, presente la folla, era detto che  “non avevano tempo neppure per mangiare” e quando Nostro Signore volle portarli in un luogo isolato per farli riposare, tornati dalla missione che aveva loro affidato, ci riuscì in parte. Qui invece in Marco 8.34 leggiamo “Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro”: li dovette chiamare, ma chi erano?

Gesù, all’inizio del Suo Ministero, opera nel territorio della Giudea e Galilea, con una visita in territorio Samaritano. Lì conosce e opera anche nei confronti di persone non appartenenti al popolo di Israele nel senso puro del termine, che tuttavia gli manifestarono una grande fede. Poi, come visto ultimamente, passa nella zona di Tiro e Sidone, tra i pagani, guarendo la figlia della donna cananea, o siro-fenicia. Quindi va nella Decapoli, rientra nella Galilea, per la seconda volta dà da mangiare alla folla (quattromila persone) “sette pani e pochi pesciolini” per poi entrare nella regione di Cesarea di Filippo: abbiamo tre passaggi in territori non ebrei che avvengono poco prima del Suo riconoscimento come “il Cristo” e del nuovo periodo di istruzione dei Dodici. Le persone che Gesù chiamò a Sé per farsi ascoltare, erano allora pagani ed ebrei, essendo imminente il Suo Sacrificio. Tra l’altro, qui è la prima volta in cui Nostro Signore, prima di parlare, “convoca la folla” rivelando cosa significhi veramente seguirlo e lo fa partendo dal significato più immediato del verbo, “venir dietro di me”, perché per seguire una persona bisogna necessariamente porsi avendola quanto meno a portata d’occhio per fare il suo stesso percorso.

E qui Gesù dice chiaramente che il “venir dietro di me” non è un’azione che possa risolvere qualcosa, ma è necessaria una piena identificazione in Lui. “Rinneghi se stesso, prenda la sua croce – Luca aggiunge “ogni giorno”e mi segua”, frase identica in tutte le versioni salvo, come abbiamo letto, ciò che Luca aggiunge.

A questo punto necessita una precisazione, e cioè: non è la prima volta che Nostro Signore parla della necessità di prendere “la propria croce”. La prima volta che espresse questo concetto l’abbiamo nel sermone in Matteo 10.38, “Chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me”, che abbiamo esaminato in un precedente capitolo. Allora, però, questa frase era inserita in un contesto molto più ampio, in un discorso rivolto ai Dodici prima di inviarli in missione e lo abbiamo trattato come tale, cioè dedicandovi un breve ed essenziale sviluppo che qui cercheremo di estendere in modo più ampio e complesso ricordando che la Parola di Dio poche volte ha dei riferimenti univoci.

Sappiamo infatti che la voce di YHWH è paragonata a un suono: Daniele, quando lo udì, cadde “stordito con la faccia a terra” (10.9) e che Giovanni, in un verso già citato, in Apocalisse 1.15 scrive “La sua voce era simile al fragore di grandi acque”; riferimento al rumore bianco, cioè la somma di tutte le frequenze udibili. Il rumore bianco, per definizione, è quello caratterizzato dall’assenza di periodicità nel tempo e da ampiezza costante su tutto lo spettro di frequenze. Quello delle onde del mare è un primo esempio. Quindi la multiformità del messaggio, la sua contemporaneità nel momento. È necessario allora cercare di districarsi, quando siamo in presenza di espressioni e concetti che, come nel nostro caso, ne comprendono molti: “prendere la propria croce” è uno di questi; sono parole strutturate in modo tale da presentare un numero elevato di strati, di rimandi, di concetti.

I termini chiave di questo verso, facendo riferimento a Luca, sono due, la “croce” e “ogni giorno” e credo sia utile cominciare da quest’ultimo, che ci parla fondamentalmente di continuità, necessaria anche solo per l’apprendimento e il mantenimento di qualsiasi professione che richiede costanza, studio, pratica e aggiornamento. Nel campo spirituale troviamo molti esempi negli scritti dell’Antico e del Nuovo Patto.

“Ogni giorno” lo troviamo per la prima volta in Esodo 16.4 a proposito della manna: “Il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina o no secondo la mia legge”. Qui abbiamo un nutrimento dato direttamente da Dio al suo popolo, che non poteva prenderne per conservarlo perché “quando il sole cominciava a scaldare, si scioglieva” e addirittura, si esprime meraviglia perché solo quando veniva raccolta doppia razione il giorno antecedente il sabato, “non imputridiva, né vi erano vermi” (v.24). Il primo riferimento, allora, è che “ogni giorno” il credente è chiamato nel suo interesse a cercare il proprio nutrimento spirituale, di cui abbiamo traccia nella preghiera del “Padre Nostro”.

E qui i riferimenti sono numerosi: ricordiamo Deuteronomio 11.1, “Ama dunque il Signore, tuo Dio, e osserva ogni giorno le sue prescrizioni; le sue leggi, le sue norme e i suoi comandi”, Proverbi 8.24 “Beato l’uomo che mi ascolta, vegliando ogni giorno alle mie porte, per custodire gli stipiti della mia soglia”, per non parlare delle promesse, tutt’oggi valide, contenute nel Salmo 1: “Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli arroganti, ma nella legge del Signore trova la sua gioia, la sua legge medita giorno e notte. È come un albero piantato lungo corsi d’acqua, che dà frutto a suo tempo: le sue foglie non appassiscono e tutto quello che fa, riesce bene. Non così, non così i malvagi, come pula che il vento disperde; perciò non si alzeranno i malvagi nel giudizio né i peccatori nell’assemblea dei giusti, poiché il Signore veglia sul cammino dei giusti, mentre la via dei malvagi va in rovina”.

Anche in questi versi abbiamo un primo significato di quell’ “ogni giorno” detto da Gesù, che sarebbero delle belle massime religiose se non sapessimo che c’è un rapporto stretto tra l’avvicinarsi a Dio e il confronto con Lui, che “Ogni giorno ha compassione e dà in prestito, e la sua stirpe sarà benedetta” (Salmo 37.26). In opposizione abbiamo le conseguenze della disubbidienza così descritta in Deuteronomio 28.33: “Un popolo che tu non conosci mangerà il frutto del tuo suolo e di tutta la tua fatica. Sarai oppresso e schiacciato ogni giorno”, verso rientrante nelle maledizioni nel caso in cui Israele non Lo avesse seguito.

“Ogni giorno” ci parla anche del sacrificio quotidiano dei due agnelli (Esodo 28.29) a conferma del bisogno continuo di remissione a prescindere e non solo per un peccato specifico, per il quale esistevano precise norme. Così anche noi constatiamo quotidianamente la nostra debolezza e fragilità, necessitando sempre del perdóno anche per quelle mancanze dovute a inavvertenza, che non vediamo.

La quotidianità ci parla anche di testimonianza e di pratica concreta di fede: ricordiamo Atti 5.52, “Ogni giorno, nel tempio e nelle case, non cessavano di insegnare e annunciare che Gesù è il Cristo”, 16.5, “Le Chiese intanto andavano fortificandosi nella fede e crescevano di numero ogni giorno” ed Ebrei 3.13 “Esortatevi piuttosto a vicenda ogni giorno, finché dura questo oggi – cioè il tempo presente – perché nessuno di voi si ostini, sedotto dal peccato”. Tutto questo perché la vita che viviamo non dà tregua quanto a problemi, siano essi spirituali o pratici perché “a ciacun giorno basta la sua pena”.

Ecco allora che quell’ “ogni giorno” di cui parla Gesù comprende tutti questi elementi; in pratica non dobbiamo dimenticare che il riferimento è al nutrimento spirituale, al sacrificio dell’Antico Patto fatte le opportune applicazioni, a trovare nel Signore l’unico riferimento conoscendo la Sua cura, alla testimonianza e al fatto che ci troveremo sempre di fronte a degli elementi avversi, siano essi persone o problemi contingenti della vita. Un’espressione che ne racchiude tante altre e contemporaneamente, “il suono di grandi acque” di cui è stato accennato poco sopra.

In altri termini la “croce”, che esamineremo nel prossimo capitolo, se fosse da prendere “ogni giorno” limitandoci al suo stretto significato, genererebbe in noi un senso di disagio, assumendo un significato di condanna quasi senza speranza come fu per Adamo quando si sentì dire “…maledetto sarà il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi – non più l’albero della vita –. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai” (Genesi 3. 17-19).

Molto tempo è però passato da quel giudizio e ci troviamo certamente in una posizione diversa dai nostri progenitori perché sappiamo che l’ “ogni giorno” in cui la croce va presa comporta assistenza, aiuto e benedizione. Non siamo lasciati soli nel nostro cammino mai, a meno che non siamo noi a volerlo ignorando la cura e l’attenzione continua che il Padre, grazie all’intercessione del Figlio, ci vuole dare. Amen.

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11.14 – VATTENE DA ME (Matteo 16.21-23)

11.14 – Vattene da me (Matteo 16. 21-23)

 

 21Da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. 22Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». 23Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!».

 

È giusto che la prima sottolineatura sul nostro testo riguardi “Da allora”, tradotta più propriamente “Da quell’ora”, precisazione con la quale si apre un periodo nuovo iniziato quando Pietro riconobbe Gesù come “il Cristo”: da lì, “Da quell’ora” appunto, l’insegnamento di Nostro Signore riguarderà la Sua imminente morte e resurrezione. La conoscenza che gli Apostoli potevano avere di Lui, ancora una volta, doveva procedere per gradi così come quella del credente, se accoglie i Suoi insegnamenti ed è disposto ad modificare i concetti che ha appreso dal sistema mondano in cui ha vissuto fino a prima di incontrarlo, quando pensava “non secondo Dio, ma secondo gli uomini” (v.23).

È importante considerare che non esiste maturità senza formazione e che il Vangelo insegna, al riguardo, che l’improvvisazione o il pressapochismo non possono rientrare nel comportamento di chi lo annuncia, e quindi del cristiano, nel momento in cui si dichiara agli altri come tale. I Dodici, ma dovremmo dire gli Undici, seguirono Gesù per circa tre anni, testimoni di miracoli e soprattutto discorsi che ci hanno tramandato in minima parte; soprattutto le parole del loro Maestro furono non capite e dimenticate, ma quando lo Spirito Santo scese su di loro, le ricordarono tutte sotto un’ottica alla quale non avevano mai pensato, perché prima di quell’avvenimento non in grado di farlo. Ci fu così un tempo per vedere, ascoltare, toccare con mano gli effetti del Vangelo restando stupiti, e ce ne fu un altro in cui quanto appreso, apparentemente senza averne ben capito la portata, ebbe uno sviluppo assolutamente cosciente e partecipato rendendo così adempiute le parole di Gesù quando disse “In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà più grandi di queste, perché voi ne siate meravigliati” (Giovanni 14.12).

Adempimento di queste parole le troviamo nei miracoli compiuti da Pietro e da Paolo, e il “più grandi di queste” non è riferito alla loro portata, ma alla diffusione del Vangelo che avrebbe raggiunto tutto il mondo, mentre Gesù diede tutti gli elementi per essere riconosciuto da Israele come il Cristo, restando inascoltato.

Oggi, per il credente, è tutto diverso e non può più appropriarsi di quanto avvenne a Gerusalemme nel giorno di Pentecoste, quando lo Spirito Santo si manifestò con “lingue come di fuoco e cominciarono a parlare altre lingue” (Atti 2. 3,4): come già detto in un’altra riflessione, lo Spirito di Dio si rivela in lui inizialmente convincendolo di peccato, giustizia e giudizio, dell’incompatibilità naturale che ha con Lui e di salvezza, ma una volta che ciò è avvenuto inizia un percorso che non può essere paragonabile a quello che ebbero altri credenti nei tempi antichi. Si tratta di un cammino di ricerca in cui si ha la Scrittura come unica fonte di orientamento. Anche lì, non sarà necessaria una semplice lettura del testo, ma un’accurata meditazione personale, quella che alcuni chiamano “lectio divina” in cui si lascia da parte ogni richiamo mondano e personale e si studia, ci si documenta, si riflette su una Bibbia che presenti il maggior numero possibile di riferimenti per incrociare tra loro i dati, interrogarsi serenamente sul testo. In pratica, guardando alle parole di Salomone in Proverbi 2. 3-6 “…se appunto invocherai l’intelligenza e rivolgerai la tua voce alla prudenza, se la ricercherai come l’argento e per averla scaverai come per i tesori, allora comprenderai il timore del Signore e troverai la conoscenza di Dio, perché il Signore dà la sapienza, dalla sua bocca escono scienza e prudenza”, si può dire che siano sempre attuali e che ci riguardino profondamente da vicino ancora oggi. Ci sono allora verità che restano e vivono indipendentemente dal tempo in cui furono scritte, ed altre dispensazionali.

Non è facile il cammino cristiano: è pieno di domande, è una strada in salita, di scelte dolorose. Se così non fosse, sarebbe un percorso in discesa e l’ingresso per la porta sarebbe larga, non stretta, nonostante spesso chi propaganda il Vangelo insista sulla Pace di e con Dio, che certamente esiste, ma che scende su di noi dopo un percorso spesso di travaglio e non perché veniamo catapultati a vivere in una sorta di zona franca al riparo da ogni negatività. È chi vive nel mondo e per esso che in lui sta “bene”, non il credente proiettato, in pellegrinaggio verso il mondo futuro che lo attende, altrimenti sarebbe sbagliato l’insegnamento “dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni” (Atti 14.22).

Torniamo al nostro episodio, da sviluppare tenendo presente i racconti di Marco e Luca: quest’ultimo riferisce le parole dette ai Dodici, e cioè “Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere rifiutato dagli uomini, dai capi sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno” (9.22); queste pongono una distanza immensa fra Lui e il popolo che avrebbe dovuto riconoscere in Lui il Messia promesso. Qui Gesù cita gli uomini, i capi sacerdoti e gli scribi, mentre Matteo tutto il Sinedrio, composto dagli Anziani, scelti con voto popolare, i capi sacerdoti, cioè i responsabili delle ventiquattro mute che si alternavano nel servizio al Tempio – ricordiamo Zaccaria, padre di Giovanni Battista, appartenente alla muta di Abia –. Per ultimi abbiamo gli scribi, figura della vera conoscenza che avrebbe dovuto venire trasmessa al popolo e che primi fra tutti avrebbero dovuto riconoscerlo come il Cristo con la stessa sicurezza e naturalezza con la quale risposero ad Erode circa trent’anni prima; “Riuniti tutti i capi sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta” (Matteo 2.4,5).

Sempre dalle parole riferite da Luca, vediamo che Gesù non parlò solo del rifiuto della sua persona che sarebbe culminato con la Sua messa a morte, ma disse anche “e risuscitare il terzo giorno”, parole che non furono comprese dai discepoli perché stupiti e afflitti dall’annuncio della sua morte: quel “venire ucciso” li gettò in un profondo stato di tristezza e stupore, ritenendo impossibile che Uno che aveva fatto così tanti miracoli non fosse invincibile. Che Gesù dovesse risorgere, fu un dato che non venne preso in considerazione da nessuno dei presenti perché non capito, e in tale ignoranza rimasero anche dopo la Sua trasfigurazione, perché leggiamo “Essi tennero per loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti” (Marco 9.10). Non solo, ma anche più di un anno dopo queste parole, i discepoli dettero prova di non averle per nulla elaborate, poiché quando le donne annunciarono loro la resurrezione di Gesù, “Quelle parole parvero loro un vaneggiamento e non credevano ad esse” (Luca 24.11).

Fu così che Pietro, forse interpretando il sentimento di tutti, ma certamente dando ulteriore conferma del suo carattere impetuoso, prese Gesù “in disparte”, letteralmente, a seconda dei manoscritti “tiratolo con la mano” o “presolo con sé”, e “cominciò a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai»”. Solo Matteo riferisce queste parole; Luca non ne parla affatto e Marco parla di un generico rimprovero (8.32). Cosa avvenne realmente?

È probabile che Pietro si rivolse a Gesù portandosi a una distanza molto breve dal gruppo e che volesse parlargli a tu per tu, ma le sue parole furono udite anche dagli altri. Con la sua frase, lo stesso Apostolo che prima lo aveva indicato come “Il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, prima si augura che Gesù si fosse sbagliato, e poi pretende di negare un avvenimento da Lui profetizzato. La sua frase potrebbe essere trattata indulgentemente se fosse stata proferita in un contesto diverso e certamente non riferita al suo Maestro: presa isolatamente, si tratta di un modo di dire scaramantico come se ne sentono tanti, ma per l’ambito in cui fu pronunciata fu molto grave perché la risposta che ebbe fu “Vattene da me, Satana”, il famoso “Vade retro” latino poi tramandato e diventato di uso comune e sempre a sproposito.

Furono le stesse parole pronunciate quando l’Avversario esaurì le sue tentazioni nel deserto e di cui è detto che “si allontanò da lui per un certo tempo”, tradotto anche “fino al momento fissato” (Luca 4.13) per cui, nel caso di specie, Pietro si fece strumento dell’Avversario per tentarlo ulteriormente, facendo leva sull’afflizione degli Undici conseguente alla perdita che avrebbero avuto, ricorrendo anche a quest’arma per distoglierlo dai Suoi propositi, o meglio dal Piano di Dio. “Dio non voglia” è quindi un semplice augurio? È piuttosto un’intromissione, un’ingerenza nel Suo/Loro piano e “questo non ti accadrà affatto” è una negazione di tutte le parole di Gesù al riguardo.

Se l’apparenza della valutazione quindi ci consente di ipotizzare che Pietro volesse rimproverare bonariamente Gesù in realtà Satana, attraverso questo Apostolo, assale Gesù di nuovo, mostrandogli la possibilità di sfuggire i patimenti e la morte, frase pericolosa soprattutto perché pronunciata dallo stesso discepolo che poco prima aveva riconosciuto profondamente l’identità e il ruolo del Suo Maestro. Se Pietro avesse pronunciato alla leggera quelle parole, non avrebbe ricevuto quel rimprovero rivoltogli pubblicamente poiché, se Matteo scrive “Gesù, voltandosi, disse”, Marco ha “Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse”.

“Tu mi sei di scandalo” sono parole che completano il “Via da me, Satana”: ricordiamo che lo “skàndalon” era il laccio, la trappola, la pietra sulla quale s’inciampa non vedendola e Pietro, purtroppo, era proprio uno scandalo quello che stava tendendo e disponendo per Gesù.

“Tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”, identiche parole riportate da Marco dettategli da Pietro che si ricordò molto bene quel rimprovero, vero a differenza di quello che mosse a Gesù: il verbo “fronéo” significa “pensare”, ma anche “compiacersi, essere animato”, quindi impostare il proprio essere lontano da qualcosa. Quell’Apostolo, in quel momento, guardava alla morte di Gesù come a una disgrazia e aveva perso completamente il significato profondo e assoluto che aveva, perché “Come per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà la vita. Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’ubbidienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti” (Romani 8.18,19).

Gesù doveva morire proprio per questo, per essere “consegnato alla morte a causa delle nostre colpe ed è stato resuscitato per la nostra giustificazione” (4.25), perché “se, quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto di più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita” (5.10). “Perché il salario del peccato è la morte, ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore” (6.23). Amen.

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