15.38 – LA CONGIURA CONTRO GESÙ (Giovanni 12.9-10)

15.38 – La congiura contro Gesù (Giovanni 12. 9-10)

 

9Intanto una gran folla di Giudei venne a sapere che egli si trovava là ed accorse, non solo per Gesù, ma anche per vedere Lazzaro che egli aveva resuscitato dai morti. 10I capi dei sacerdoti allora decisero di uccidere anche Lazzaro, perché molti Giudei se ne andavano a causa di lui e credevano in Gesù”

 

Sembra strano dedicare un capitolo ad un’intenzione che, lo ricorderemo certamente, non è la prima volta che viene segnalata nei Vangeli. Proprio per questo, proprio perché viene letta quasi “en passant” e soprattutto è scambiata per un moto interiore “politico” o religioso (nel senso che in essa si tende a vedere la reazione quasi ovvia che ha da sempre un potere quando viene minacciato), è necessario stendere alcuni appunti: leggere il Vangelo o la Scrittura infatti non comporta una mera lettura, ma richiede un ascolto spirituale, una seria indagine: farsi domande, lasciare emergere dubbi e risolverli, non evitare il verso “scomodo”, ma lasciarlo libero di poter suscitare pensieri destinati a risolversi con un tempo che non sta a noi stabilire.

Per affrontare, più che comprendere perché sono versi dal contenuto chiarissimo, quanto troviamo descritto, dobbiamo ricordare le volte in cui i Giudei, quindi scribi, farisei e alti sacerdoti, presero decisioni contro Gesù. La prima volta che un Evangelista annota qualcosa in proposito lo abbiamo in Matteo 12 (parallelo in Marco 3) quando Gesù guarì un uomo dalla mano anchilosata nella Sinagoga di Capernaum: quel miracolo avvenne in giorno di sabato e per questo leggiamo che “i farisei uscirono e tennero consiglio contro di lui per farlo morire” (12.14). Analoga nota la presenta Marco in 3.6 in cui aggiunge che, unitamente ai loro, c’erano anche gli erodiani, gruppo minore che parteggiava e sosteneva Erode.

Non credo sia il caso di ricordare tutti gli episodi in cui fu deliberato l’omicidio di Gesù perché credo che chiunque abbia letto e legga i Vangeli sappia che le reazioni di violenta avversione nei Suoi confronti si verificarono ogni qualvolta Lui pose le persone di fronte alla prova di essere Figlio di Dio: le prese di posizione avverse si presentarono di fronte ai miracoli e ai discorsi contro i quali non riuscirono a controbattere – attenzione – non per poca cultura, ma perché le parole e le azioni di vita non hanno nulla a che fare con quelle di morte, che sappiamo destinata ad essere sconfitta.

Quindi, di fronte a un miracolo che si presenta sempre e soltanto come frutto del perdóno e dell’amore di Dio sul peccatore o su un enunciato di verità, non resta altro che gioire o capitolare, vale a dire ammettere di essersi sbagliati fino a quel momento e quindi convertirsi, cambiare modo di pensare.

Certo che poi, parlando a proposito della prima volta in cui ci fu intenzione di uccidere Gesù, questa fu da parte di Erode il Grande, che temeva fosse nato Uno che sarebbe diventato Re dei Giudei e lo avrebbe spodestato. Ricordiamo infatti le parole dell’angelo a Giuseppe, “Erode vuole cercare il bambino per ucciderlo” (Matteo 2.13).

Il problema allora non risiede tanto nel fatto che le persone avverse a Nostro Signore progettarono la Sua morte per ignoranza, ma in quanto appartenenti a una categoria umana e spirituale diversa: “Voi non credete perché non fate parte delle mie pecore” (Giovanni 10.26), parole che ci riconducono ad un altro Suo intervento proprio verso di loro: “Se dico la verità, perché non mi credete? Chi è da Dio ascolta le parole di Dio. Per questo non mi ascoltate: perché non siete da Dio” (8.46,47).

Ecco allora che viene chiamato in causa l’ascolto, possibile solo se esiste volontà di capire per crescere, imparare; l’ascolto interviene quando una persona è consapevole di essere mancante di qualcosa e per questo mette tutto il proprio impegno per mutare la situazione di difetto in cui si trova.

E allora, anche se si tratta di un argomento già affrontato, andiamo ancora una volta a Caino e Abele, che cercherò di trattare in un modo diverso da quanto fatto finora. Si tratta chiaramente di una vicenda molto nota, che possiamo introdurre secondo 1 Giovanni 3.11,12: “Per quale motivo lo uccise? Perché le sue opere erano malvage, mentre quelle di suo fratello erano giuste”. Caino, quindi, fu “contro” Abele, ne fu l’avversario, con tutto quello che comporta questo termine, e lo fu per scelta, per non avere ascoltato le parole che Dio gli rivolse per correggerlo.

Nel trattare i due fratelli va ricordato che esiste una lettura ebraica dell’episodio in base alla quale i due fossero gemelli, elemento che viene dedotto dal fatto che il testo di Genesi 4.1,2, “Adamo conobbe Eva sua moglie, che concepì e partorì Caino. (…). Poi partorì ancora Abele, suo fratello”, fa riferimento a un concepimento e due parti. La parola “ancóra”, poi, in ebraico “asàf”, significa “aggiungere qualcosa” per cui la nascita di Abele sarebbe stata aggiunta a quella di Caino.

Secondo questa interpretazione, che va presa come un’ipotesi francamente interessante, Caino e Abele partono nel cammino della loro vita terrena assolutamente pari, hanno esperienze educative comuni, sicuramente vengono informati dai loro genitori sul perché della sofferenza e del lavoro cui erano costretti per sopravvivere, ma ben presto prendono direzioni diverse, cioè uno lavora la terra e l’altro cura e alleva le pecore, rivelando in tal modo la loro personalità. Caino eredita una parte del lavoro del padre Adamo, che ricordiamo udì la sentenza che Dio emise su di lui, “Maledetto sarà il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai cibo tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto” (Genesi 3.17-19). In 3.23 è ancora di più evidenziata l’attività di Adamo quando leggiamo “Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto”. Prima Adamo trovava diletto e piena espressione di sé nel curare il Giardino, nella terra contaminata, invece, a dominare sono il dolore e il sudore del volto.

Ora abbiamo qualcosa di profondamente interessante nel verbo “lavorare”, “avàd” e “ovèd”, “lavorante” che significa letteralmente “servo”: Adamo, col suo peccato, divenne “servo della terra” non solo a livello lavorativo, ma soprattutto spirituale, immerso in una condizione totalmente asservita ad un suolo che prima, come accennato dominava perfettamente.

Caino quindi fu “servo” doppiamente, della terra in cui era stato inserito senza averlo chiesto ai propri genitori, ma ancora di più di se stesso, dei suoi impulsi, delle sue tendenze. Dal testo del racconto non solo emerge l’interessamento di Dio nei confronti di Caino per metterlo in condizione di essere come il fratello, cioè un uomo a Lui gradito, ma lo pone in guardia da qualcosa di terribile che voleva dominarlo: “Se non agisci bene – cioè spiritualmente – il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai – se vorrai essere come tuo fratello, cioè a me gradito –.“ (4.7).

Ora, dettaglio che non può emergere in nessuna traduzione italiana, è il fatto che la parola ebraica per “peccato” è di genere femminile, mentre il pronome “suo” e l’articolo “lo” sono maschili, da cui ne consegue che Caino avrebbe dovuto guardarsi da qualcosa di ben peggiore rispetto al semplice “peccato”, cioè non la trasgressione a ciò che allora era la legge della coscienza, ma ciò che lo muoveva, lo generava, lo suggeriva, allora come oggi. E chi, se non l’Avversario, che se ne serve per rompere in alcuni casi irrimediabilmente la comunione fra Creatore e creatura?

Caino tuttavia, presumiamo dopo aver meditato le parole rivoltegli, scelse di perpetrare l’omicidio del fratello illudendosi così di risolvere il problema: non sarebbe stato più umiliato dal vedere Abele benedetto. La decisione di quell’omicidio si potrebbe dire, da una prima lettura, che fu causata dall’invidia e certamente è vero, ma il motore di tutto risiedé nel fatto che Caino, anziché mettere in pratica il consiglio di Dio, si diede all’Avversario diventando in tal modo un suo angelo, cioè un portatore dei metodi e ideali distruttivi di Satana, appunto “omicida fin dal principio” (Giovanni 8.44). Non solo, ma mentre Adamo, come detto, trasmise alla sua discendenza le ragioni della sofferenza e della morte, Caino, figlio primogenito, alla propria stirpe tramandò ideali di autonomia e violenza, a conferma del rifiuto del concetto di dipendenza da Dio che invece praticava il fratello.

Infatti leggiamo che “Caino si allontanò dal Signore – con tutto ciò che il termine comporta – e abitò nella regione di Nod – che significa “esilio” – a oriente di Eden” (4.16). Tra i suoi figli abbiamo Lamec, che si diede alla poligamia, Tubal-Kain, che lavorò il ferro e il bronzo, cioè le armi, Iabal che “fu il padre di quanti abitano sotto le tende, presso il bestiame”, quindi fu l’ideatore della città intesa come protezione e difesa coi propri mezzi che porterà poi a Babele, che tutti conosciamo.

E si possono citare in proposito le parole di Guido Vignelli: “Il modello del globalismo contemporaneo è la Torre di Babele, targato Onu e Ue. Una pretesa di costruire un regno fondandolo non in obbedienza alla legge divina, come era stato il patto di Noè, ma su un mero contratto sociale, ricomparso ad Abu Dhabi come “fraternità universale”. Babele fu il primo tentativo di creare un nuovo ordine mondiale, costruendo una società multietnica, multiculturale e multireligiosa, basate sul consenso a una ideologia e una legislazione laiche. Un assalto al cielo, un tentativo di riprendersi i poteri soprannaturali perduti col peccato originale, al fine di realizzare un nuovo paradiso terrestre. I babelici non desideravano che Dio scendesse da loro, ma pretendevano di salire da Lui; non speravano di essere salvati dall’Incarnazione di Dio, ma pretendevano di salvarsi da soli elevandosi al livello divino, probabilmente mediante il ricorso ad arti magiche e ad influenze demoniache. Si ripeté il peccato di superbia dei nostri progenitori. Un delirio di onnipotenza: e Dio intervenne per far fallire l’empio progetto. Confuse le menti e le lingue, e non riuscirono più a capirsi e a intendersi tra loro. Sorsero contrasti e divisioni che interruppero la costruzione e poi mandarono in rovina l’intera città. Quella costruzione politica, invece dell’intesa, dell’unione e della pace universali, provocò quelle incomprensioni, diffidenze e odi che sono tuttora le cause degli umani conflitti. Da allora fino alla Pentecoste il genere umano non riuscì più a unirsi per compiere un’opera comune, perché “se non è Dio a porre le fondamenta della Città, invano si affaticano i suoi costruttori” (Salmo 126, 1). Babele non voleva affratellare le genti nella verità e nella carità, ma schiavizzarle nell’errore e nell’ingiustizia, costruendo sulla terra non un paradiso, ma un inferno. Questo tentativo è avvenuto più volte nel corso dei secoli (cfr Dan 2,31-43) destinato a crollare perché privo di fondamento religioso e morale. Si pensi ai disastrosi progetti dei movimenti politici utopistici della storia moderna”.

Se Caino aveva erroneamente visto nella morte del fratello la soluzione al problema dell’umiliazione conseguente al fatto di venire posto costantemente di fronte al proprio fallimento, così i farisei e i capi religiosi, in quella di Gesù, vedevano il ripristino di una religione con un metodo di pensiero e opere che non avevano in realtà più alcun senso, come dimostrato non solo con la Risurrezione, ma anche dalla cortina del tempio, che si squarciò in due (Matteo 27.51).

Tornando al nostro testo, abbiamo letto che “I capi dei sacerdoti decisero di uccidere anche Lazzaro”, cioè praticare la forma più estrema per l’annullamento del miracolo della sua risurrezione, che vedeva la morte impotente di fronte alla Parola di Dio, “Lazzaro, vieni fuori!”.

Se l’omicidio di Abele provocò la nascita di Set (“sostituto”) con risultati ancora più forti perché con suo figlio Enos “si cominciò a invocare il Nome del Signore” (4.26), la morte di Gesù ebbe come conseguenza la nascita della Chiesa con la discesa dello Spirito Santo, di coloro che un tempo erano “stranieri e nemici, con la mente intente nelle opere cattive; ora egli vi ha riconciliati nel corpo della sua cane mediante la morte, per presentarvi santi, immacolati e irreprensibili dinnanzi a lui, purché restiate fondati e fermi nella fede, irremovibili nella speranza del Vangelo che avete ascoltato, il quale è stato annunciato in tutta la creazione che è sotto il cielo” (Colossesi1.21-23).

Credo sia quindi stato necessario affrontare, seppur molto brevemente, le due genealogie a confronto: l’idea dell’omicidio di Lazzaro e di Gesù non nasce da un banale impeto né da un progetto politico religioso, ma dall’avversione profonda che prova una generazione appartenente all’Avversario verso tutto ciò che è opera di Dio. Amen.

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15.36 – IL CONVITO DI BETANIA II/II (Marco 14.3-9)

15.36 – Il convito di Betania II/II(Marco 14.3-9)

 

3Gesù si trovava a Betània, nella casa di Simone il lebbroso. Mentre era a tavola, giunse una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande valore. Ella ruppe il vaso di alabastro e versò il profumo sul suo capo. 4Ci furono alcuni, fra loro, che si indignarono: «Perché questo spreco di profumo? 5Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!». Ed erano infuriati contro di lei.6Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me. 7I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me. 8Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura. 9In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto».

 

Esaminati brevemente gli amici di Gesù risiedenti in Betania, veniamo ora a Maria, che, secondo il racconto di Giovanni, “Prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo” che quindi tutti poterono avvertire. Matteo aggiunge un altro particolare, prima che ciò avvenisse, “…gli si avvicinò una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo molto prezioso e glielo versò sul capo mentre egli stava a tavola” (26.7).

Dai dati che abbiamo è quasi d’obbligo fare un collegamento con un episodio che ha dei punti in comune e cioè quello della peccatrice innominata che opera in modo analogo, anche se sui soli piedi del Maestro. Vediamo ciò che unisce queste due donne e al tempo stesso le divide nel senso che ciascuna di loro onorò il Maestro in modo differente, dopo avere letto l’episodio in Luca 7.36-39: la prima, “una peccatrice”, con la sua preghiera muta e sentita profondamente al punto da sacrificare un “profumo molto prezioso”, dimostra tutta la sua adorazione per Colui che poteva perdonare ogni peccato e l’aveva salvata, a differenza dei suoi conterranei che la condannavano a prescindere. Versando il profumo sui piedi di Gesù, è come se volesse benedire i suoi passi, comunicargli che nulla poteva fare se non esprimere la sua riconoscenza per ogni Suo gesto. Per farle questa azione, come Maria, sacrifica, offre ciò che ha di più prezioso, il profumo (probabilmente proveniente da Gerico) che molte donne conservavano per il giorno del loro matrimonio il cui valore era di 300 denari, la paga di circa un anno di lavoro di un operaio, o bracciante.

Tanto la donna innominata quanto Maria dettero a Gesù quanto avevano di più prezioso e non giunsero certamente a questa scelta da un giorno all’altro, ma sicuramente dopo avere meditato molto, la prima sulle parole che Lui diceva alla folla, sul perdono di Dio e i miracoli che lo dimostravano, la seconda sull’insegnamento potremmo dire “personalizzato” ricevuto in casa sua a Betania. Non sappiamo cosa il Maestro disse a Maria, ma certamente le parlò anche della Sua morte sacrificale a favore dell’uomo che altrimenti sarebbe stato condannato all’impossibilità di avere aperte le porte per comunicare con Dio. Ricordiamo sempre che la Legge, la cui amorosa osservanza unita alla fede poteva rendere l’uomo “giusto”, non risolveva il problema alla radice nel senso che non poteva bastare, ma era “un pedagogo che conduce verso Cristo”, per cui Gesù era al tempo stesso punto d’arrivo e di partenza del piano del Padre per la redenzione della Sua creatura caduta.

Sia l’una che l’altra donna vengono criticate per la loro scelta, la prima addirittura disprezzata moralmente (“Se costui fosse un profeta, saprebbe di che genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!”) e l’altra per lo spreco che faceva, ma di questo parleremo più avanti perché ciò che conta veramente è il primato che entrambe danno a Gesù, probabilmente consapevoli che solo Lui avrebbe capito l’amore e la gratitudine che gli portavano. Non rileviamo dal testo infatti alcuna reazione alle parole dei presenti (per Maria) o degli sguardi che dicevano più di mille parole (per la peccatrice innominata). E mi vengono in mente le parole dell’apostolo Paolo in Galati 1.10: “È forse il consenso degli uomini che cerco, o è quello di Dio? O cerco di piacere agli uomini? Se cercassi di piacere agli uomini, non sarei servitore di Cristo”.

Parallelo e più ancora incisivo per chi porta il Vangelo è 1 Tessalonicesi 2.4 che riporta “Come Dio ci ha trovato degni di affidarci il Vangelo, così noi lo annunciamo, non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori”. In altri termini allora il comportamento di queste due donne è un esempio per tutti perché non tennero in alcun conto l’opinione e il giudizio degli altri.

Maria, però, oltre che i piedi, unge con il nardo (la peccatrice aveva la mirra) anche il capo di Gesù e dobbiamo chiederci perché. Per rispondere adeguatamente occorre collegarsi all’unzione regale che troviamo dichiarata in 2 Re 9 quando Eliseo, chiamato uno dei figli dei profeti e gli diede il compito di ungere Ieu, figlio di Giosafat. Leggiamo al verso 6 “Si alzò ed entrò in casa e quello gli versò l’olio sulla testa dicendogli: «Così dice il Signore, Dio d’Israele: Ti ungo re sul popolo del Signore, su Israele»”.

Maria unse il capo di Gesù con olio senza parlare e così disse molto di più: col profumo che teneva presumo gelosamente conservato lei si annulla, dimostra che non c’era modo migliore di impiegare ciò che aveva di più prezioso per onorare il proprio Maestro. Versando il profumo dichiarava, annunciava prima a sé e poi agli altri in uno splendido rapporto interpersonale la regalità di Gesù e soprattutto il fatto che il di Lui sacrificio sarebbe stato gradito al Padre molto di più degli altri (sacrifici) che stavano per essere aboliti una volta per sempre. A proposito del profumo che si spande per tutto l’ambiente, ricordiamo che fu proprio a seguito del primo sacrificio ordinato nella Legge, quello dell’ariete, ad essere “Un olocausto in onore del Signore, un profumo gradito – atri traducono “soave” –, un’offerta consumata dal fuoco in onore del Signore” (Esodo 29.18). Questo termine varrà anche per tutti gli altri fatti liberamente come offerta a Dio (Levitico 1.9, 13, 17 e rif.) e non è difficile individuare in questi quello del Cristo, che volontariamente scelse di assumere “forma di servo”.

Lo abbiamo letto e anticipato, conseguenza fisica del gesto di Maria fu che il profumo di quel nardo si sparse per tutta la casa per cui fu avvertito da tutti indipendentemente dal modo con cui giudicarono il suo gesto. Questo ci parla anche del nostro comportamento come credenti, che non può essere confuso con quello degli altri uomini, ma deve distinguersi tramite l’assunzione di una posizione netta a fronte di quelle di convenienza o di dogma che il mondo e la religione vorrebbero imporre. Il profumo avvertito da tutti fu l’ultimo risultato di una serie di azioni, primo fra tutte l’ascolto delle parole di Gesù, quindi la loro assimilazione, la scelta di cosa e come fare, l’abbandono della propria dimora per portare il profumo e versarlo: sembrano cose ovvie ed è vero, ma rivelano una progressione, una successione che da molti cristiani non viene rispettata nel senso che cercano di apparire o si affaticano attorno a cose che dovrebbero venire come risultato di un pensiero obiettivo e serio e non da un facile entusiasmo motore di scelte non ponderate, azzardate. E chi scrive, purtroppo, ha fatto più di un’esperienza in tal senso. E ne ha pagato le conseguenze, talvolta molto amaramente.

Il gesto di Maria, profondamente meditato, che offre quanto ha di più prezioso, è anche figura dell’insegnamento spirituale incompreso: nessuno infatti fu in grado di leggere le motivazioni profonde che spinsero quella donna ad offrire e Gesù ad accettare, ma tutti rilevarono l’assurdità di “tutto” quello spreco perché, se è vero che fu Giuda a fare quella considerazione, credo che tutti condividessero le sue parole, da lui più o meno influenzati. È il concetto della pietà ipocrita che si sta diffondendo sempre di più anche nel campo cristiano.

È importante esaminare, leggendo tutti e tre gli evangelisti, il dialogo intercorso fra Maestro e discepoli: Matteo scrive “Perché questo spreco? Lo si poteva vendere a caro prezzo per darlo ai poveri. Ma Gesù, accortosene – parlavano evidentemente a bassa voce – disse loro: «Perché infastidite questa donna? Essa ha compiuto una buona azione verso di me; i poveri li avrete sempre con voi: non così me. Versando quest’olio sul mio corpo, lei lo ha fatto in vista della mia sepoltura” (26.10).

Le parole chiave per comprendere l’intervento di Gesù sono due, “buona azione” e “sepoltura” perché i Giudei, a proposito delle buone opere, le dividevano in elemosina e opere caritatevoli, queste ultime considerate le più importanti e comprendevano, tra le altre, la sepoltura dei morti. Maria, allora, aveva compiuto in modo profetico ciò che era più urgente, l’anticipazione di un gesto di pietà nei confronti del Maestro che poi faranno tutte quelle donne che, precedute da Giuseppe D’Arimatea e da Nicodemo, dopo la crocifissione vollero imbalsamare il Suo corpo anche se ciò non fu possibile perché già risorto.

Marco invece scrive “Perché tutto questo spreco di olio profumato? Si poteva benissimo vendere quest’olio a più di trecento denari e darlo ai poveri. Ed erano infuriati contro di lei. Allora Gesù disse: «Lasciatela stare, perché le date fastidio? Ella ha compiuto verso di me un’opera buona; i poveri infatti li avrete sempre con voi e potrete beneficiarli quando volete, me invece, non mi avrete sempre. Essa ha fatto ciò che era in suo potere, ungendo in anticipo il mio corpo per la sepoltura”. Qui sottolineerei “tutto”, perché secondo i discepoli si sarebbe al limite potuto usare un po’ d’olio per Gesù e il rimanente venderlo e darlo ai poveri. La filosofia del “un colpo al cerchio e uno alla botte”.

Arriviamo infine a Giovanni, che imposta il quadro in modo differente: “Allora Giuda Iscariotha, uno dei dodici, discepolo che doveva poi tradirlo, disse: «Perché quest’olio profumato non si è venduto a trecento denari per poi darlo ai poveri?». Questo disse nono perché gli importasse dei poveri, ma perché era ladro, aveva la borsa e portava via quello che vi mettevano dentro” (12.4-6). Quindi vediamo che tanto Giuda che gli altri erano scandalizzati verso Maria nonostante avesse usato un olio che era di sua proprietà, per cui formulare giudizi e rimproveri era non solo inutile, ma anche inopportuno. Guardando al gesto dei discepoli in sé, possiamo chiederci: quanti cristiani, guardando la pagliuzza nell’occhio degli altri e non la trave del loro, si comportano giudicando con superficialità ed immediatezza? Veramente tanti, oserei dire troppi. E farsi i fatti propri è raccomandato in 1 Tess. 4.11: “Vi esortiamo, fratelli, a progredire ancora i più e a fare tutto il possibile per vivere in pace, occuparvi delle vostre cose – quindi non delle altrui – e a lavorare con le vostre mani, come vi abbiamo ordinato, e così condurre una vita decorosa di fronte agli estranei e non avere bisogno di nessuno”.

A qualsiasi gesto spirituale, quindi, vi sarà sempre la presenza contraria, oppositiva, il disturbo di chi vorrà sminuirlo, deriderlo, ridurlo a uno spreco di forze. Come osservava un fratello, ogni uomo di Dio troverà sempre il suo Caino. Però, Gesù permise la trascrizione dell’avvenimento con Maria protagonista, in cui lo onorò come credo nessun’anima abbia mai fatto prima di lei, perché il suo fu un gesto anche profetico. Amen.

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15.36 – IL CONVITO DI BETANIA I/II (Marco 14.3-9)

15.36 – Il convito di Betania I/II(Marco 14.3-9)

 

3Gesù si trovava a Betània, nella casa di Simone il lebbroso. Mentre era a tavola, giunse una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande valore. Ella ruppe il vaso di alabastro e versò il profumo sul suo capo. 4Ci furono alcuni, fra loro, che si indignarono: «Perché questo spreco di profumo? 5Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!». Ed erano infuriati contro di lei.6Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me. 7I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me. 8Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura. 9In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto».

 

Si tratta di un episodio ricordato da Matteo, Marco e Giovanni, anche se con qualche variante e un ordine cronologico diverso; Luca 19.20 scrive, come raccordo, “Dette queste cose, Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme” e Giovanni, in 12.1. “Sei giorni prima della Pasqua”. Ora, provenendo da Gerico, Betania era l’ultima città che si incontrava e distava da lei circa tre chilometri, posizione che spiega la presenza di molti Giudei sul posto.

Introducendo l’episodio possiamo dire che Betania, il cui nome significa “Casa dei datteri” o “Casa di dolcezza”, rientra in quelle città particolari che Gesù incontrò durante il Suo Ministero, come Cana che vide il Suo primo miracolo, Capernaum che Lo annoverò fra i suoi concittadini acquisiti e tante altre. Betania però fu diversa perché costituì per Gesù la città dell’amicizia e della comunione in quanto gli amici che risiedevano là, Marta, Maria e Lazzaro, costituirono per Lui una pausa di letizia e gioia nell’attesa di dare la propria vita in sacrificio per la salvezza del peccatore.

Sul rapporto che Nostro Signore aveva con queste persone non credo vi sia bisogno di approfondire: probabilmente l’amicizia con loro nacque quando fu ospitato in casa di Marta, quando vi fu il famoso dialogo perché Maria non l’aiutava nei lavori e fu pronunciata la famosa frase “Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta”; con quella Gesù, come amava osservare un fratello, non solo ha avvisato l’uomo che la morte gli avrebbe rubato ogni cosa (parenti, amici e proprietà), ma ha altresì ribadito che nessuno, solo con le proprie opere, potrà evitare il giusto giudizio di Dio.

A questo riguardo è inevitabile pensare alla parabola dell’uomo ricco che disse “Anima mia, hai disposizione molti beni, per molti anni: ripòsati, mangia, bevi e datti alla gioia”. Sappiamo però che le cose per lui andarono diversamente, perché Dio gli disse “Stolto, questa notte stessa – in opposizione ai molti anni di godimento preventivati – ti sarà richiesta la tua vita – che s’illudeva di godere per molto tempo –, e quello che hai preparato di chi sarà?”. Tutto quello che quell’uomo aveva accumulato, da lì a poco sarebbe stato completamente sperperato dai suoi eredi, qualora ne avesse avuti, o in alternativa – aggiornamento ai tempi nostri – li avrebbe incamerati lo Stato.

 

Ora abbiamo letto che “Gesù si trovava a Betania, in casa di Simone il lebbroso”, persona sicuramente da Lui guarita che diede un convito in Suo onore, per cui anche Simone va annoverato tra le persone amiche, riconoscenti per tutto ciò che aveva fatto per loro. Alcuni identificano quest’uomo nell’unico tra i dieci (Samaritano) che tornò a ringraziare Gesù.

Ora, come abbiamo letto, l’arrivo di Nostro Signore a Betania provocò una festa fra i suoi amici e presumiamo tutto il villaggio, in cui tutti ricordavano molto bene la risurrezione di Lazzaro avvenuta pochi giorni prima e Simone mise la sua casa a disposizione per il convito che si svolse la sera, quindi a sabato concluso. Qui possiamo fare una prima riflessione: Simone, grazie all’intervento di Gesù nei suoi confronti, era passato da una condizione di emarginazione totale, evitato dal popolo, costretto a trovare rifugio in anfratti del terreno o caverne e a sopravvivere grazie alla carità altrui, al reintegro totale; era rientrato in possesso della sua casa, aveva potuto riallacciare le proprie amicizie sospese dalla malattia e ora si trovava vedere finalmente, non più soggetto al vincolo della distanza, Gesù da vicino, sentirlo parlare, muoversi nella sua spontaneità come mai gli era stato concesso.

Ragionando sul convito in casa di Simone si può pensare alla serenità e gioia reciproca che ne derivò, ma questa è una lettura umana e corrisponde al vero solo in parte, poiché a tavola vi era Colui che il profeta Isaia aveva descritto come “Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace”, cioè il Figlio di Dio e il Figlio dell’uomo assieme, con quelle sue due nature che resero l’impossibile e l’impensabile possibile e concreto, cioè l’annullamento dell’inimicizia, a causa del peccato, fra Dio e l’uomo.

Se infatti col termine “Figlio di Dio” abbiamo la Sua provenienza e origine, col quello di “Figlio dell’uomo” abbiamo racchiusa tutta la realtà contemplabile dell’inimmaginabile. Mi spiego: Gesù visse fino a circa 30 anni come qualunque altro uomo, ogni suo risultato materiale e spirituale fu frutto di fatica e preghiera, poi dimostrò la sua sovrannaturalità e fu l’Emmanuele rivelato, il “Dio con noi” finalmente raggiungibile, tangibile, conoscibile. E tutto questo è così ancora oggi perché, da quando si manifestò, l’unico elemento cambiato è il non essere più in mezzo a noi con il corpo. Quando parlo di “contemplazione dell’inimmaginabile” è proprio tutto ciò che comprende 1 Corinti 2.14, “L’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito”. Al cristiano, di fatto e non di nome, salvato per Grazia mediante la fede, si apre in virtù dello Spirito Santo tutto un universo nuovo di cui non avrebbe mai potuto supporre l’esistenza.

Su Simone, poi, possiamo aggiungere che, a differenza di altri come ad esempio nell’episodio dell’unico tornato indietro su dieci, fu tra coloro che seppero essere riconoscenti a Gesù e glorificarono Iddio facendo di sé stesso una testimonianza continua: pensiamo al suo soprannome e al fatto che chiunque lo sentiva chiamato così, “il lebbroso” non poteva fare altro se non informarsi sulla sua guarigione avendo in risposta che era stato miracolato da Gesù, come noto a tutti.

Se quindi il primo personaggio con la lebbra avuta un tempo testimonia la realtà dell’uomo nel peccato che trova in Cristo il perdono e quindi la guarigione, in Lazzaro invece vediamo sperimentata la violenza della morte, che unisce tutti, credenti e non, tranne coloro che si troveranno in vita al rapimento della Chiesa, quando saranno trasformati “in un batter d’occhio”.

Con questi due personaggi, quindi, Gesù rivelò di essere in grado di ripristinare immediatamente la relazione fra l’uomo e Dio (la guarigione di Simone) e di liberare dal buio e dalla distruzione eterna della morte (Lazzaro), poiché sappiamo che questa non si limiterà a far cessare la vita in chi ha ancora un battito, ma chiuderà per sempre all’anima la possibilità di esistere qualora si sia consapevolmente non risposto al messaggio del Vangelo.

Terzo personaggio, la cui presenza è rivelata dal solo Giovanni, è Marta, di cui è scritto che “serviva” (12.2). Questo particolare, che apparentemente non aggiunge nulla al suo carattere perché l’abbiamo già conosciuta indaffarata nei lavori di casa, in realtà non è da sottovalutare perché, se Simone è figura del peccatore perdonato per Grazia e Lazzaro di colui che è risuscitato perché Gesù avrebbe vinto gli inferi e la morte, Marta lo è del servitore che non antepone mai le sue opere a quelle del suo Signore: in altri termini lei serve perché già facente parte di quella comunione e non per farsi notare o acquisire meriti, altrimenti ne sarebbe stata esclusa. Marta serviva al convito sotto lo sguardo benevolo di Gesù che la considerava a tutti gli effetti una dei Suoi e lo faceva come conseguenza naturale di questo nel senso che metteva a disposizione degli altri ciò che sapeva fare e qui risiede il valore di questa donna che dona liberamente quel che ha di suo. In lei e in ciò che fa vediamo le opere come conseguenza della fede e di ciò che si è gratuitamente ricevuto da Dio: “Per questa grazia, infatti, siete salvi mediante la fede e ciò non viene da voi, ma è un dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene” (Efesi 2.9).

Tra l’altro, particolare nascosto, tanto Marta che la sorella Maria di lì a poco, non avrebbero potuto trovarsi lì perché a quel tempo le donne non potevano presenziare ai conviti per cui non si può altro che dedurre che il loro stare in quel luogo fosse stato autorizzato da Gesù che, così facendo, anticipa ancora una volta la Dispensazione della Grazia in cui la donna non è più soggetta ad una società maschilista, ma al solo marito in modo non dispotico, cioè secondo la gerarchia spirituale stabilita da Dio che vede Lui al primo posto, seguito da Gesù, dall’uomo e dalla donna. Non è escluso, stante le regole di allora, che Marta servisse a tavola sotto lo sguardo magari contrariato dei Dodici, ancora legati a modelli di comportamento e tradizioni ormai antiquate.

Marta dunque, se è figura del peccatore perdonato abilitato dalla Grazia a servire, quindi a operare, necessita di una breve riflessione tesa a distinguere tra fede e opere perché al riguardo, purtroppo nella Chiesa, esiste confusione avendo chi le antepone alla fede (oppure le ritiene indispensabili per ottenere la salvezza) ed altri che, all’opposto, non le ritengono necessarie, dimenticando che queste altro non sono se non la conseguenza naturale del credere, come dal versetto successivo: “Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo” (Efesi 2.10). E notare il verbo “camminare” che allude ad un percorso preciso, fatto di volontà e decisione, ma anche possibilità di arresto, sospensione, deviazione cadute. Solo chi non cammina non corre dei rischi, ma come sappiamo dalle parabole delle dieci mine e dei talenti, non è una scelta consigliabile.

Chi vuole camminare nelle buone opere non è necessario che intraprenda chissà quali imprese, ma è sufficiente che porti con sé Gesù Cristo in ogni posto in cui si reca, in ogni spazio mentale che si prende. Se questo non è possibile, sappiamo già di sbagliare. Questo, spiegato in modo forse banale, ma essenzialmente semplice, credo sia l’unica cosa che possiamo fare perché sarà Lui poi a guidare, tramite lo Spirito Santo, i passi della persona.

Concludendo allora questa prima parte, abbiamo potuto considerare le prime tre persone che si incontrano nel racconto offertoci da Marco e Giovanni. Ciascuna di queste ci rappresenta nelle fasi della nostra vita spirituale (o, se preferiamo, di quanto ci è stato dato e siamo): abbiamo infatti il perdóno dei peccati cui segue la riconoscenza e il desiderio di conoscere Gesù sempre più da vicino, quindi la cittadinanza nel cielo, la promessa di risurrezione a nuova vita e la possibilità di agire e servire Colui che per il nostro perdóno ha dato la vita. Amen.

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15.35 – LA PARABOLA DELLE DIECI MINE III/III (Luca 19.15.27)

15.35 – La parabola delle dieci mine III: consegna e verifica (Luca 19.15-27)

 

15Dopo aver ricevuto il titolo di re, egli ritornò e fece chiamare quei servi a cui aveva consegnato il denaro, per sapere quanto ciascuno avesse guadagnato. 16Si presentò il primo e disse: «Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate dieci». 17Gli disse: «Bene, servo buono! Poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere sopra dieci città». 18Poi si presentò il secondo e disse: «Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate cinque». 19Anche a questo disse: «Tu pure sarai a capo di cinque città». 20Venne poi anche un altro e disse: «Signore, ecco la tua moneta d’oro, che ho tenuto nascosta in un fazzoletto; 21avevo paura di te, che sei un uomo severo: prendi quello che non hai messo in deposito e mieti quello che non hai seminato». 22Gli rispose: «Dalle tue stesse parole ti giudico, servo malvagio! Sapevi che sono un uomo severo, che prendo quello che non ho messo in deposito e mieto quello che non ho seminato: 23perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Al mio ritorno l’avrei riscosso con gli interessi». 24Disse poi ai presenti: «Toglietegli la moneta d’oro e datela a colui che ne ha dieci». 25Gli risposero: «Signore, ne ha già dieci!». 26«Io vi dico: A chi ha, sarà dato; invece a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. 27E quei miei nemici, che non volevano che io diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me»».

 

Prima di entrare in questo capitolo, va ricordata la natura dell’incarico dato ai servi: è stato scritto che l’ “uomo di nobile famiglia” non li prende a caso, ma non è stato ancora dato alcun cenno sul fatto che la moneta consegnata era d’oro, metallo che nella Bibbia ha sempre riferimento a Dio. Se quell’uomo avesse dato ai servi una moneta d’argento, di rame o di bronzo, la parabola non avrebbe avuto senso. Certo sarebbe rimasto il principio dell’impegno a far fruttare quel denaro, dell’operosità e inoperosità, ma non sarebbe mai stato messo in risalto, in modo chiaro e assoluto, il fatto che quei personaggi ricevono qualcosa di prezioso che non solo non è loro, ma che viene da Dio e quindi ciascun servitore riceve una Sua piccola parte.

Questo amplia notevolmente e integra quanto scritto nello scorso studio perché ricevere una moneta d’oro comporta una responsabilità estrema in quanto non si tratta di maneggiare e impiegare un materiale qualsiasi: l’oro è diverso da tutti gli altri metalli, non ossida, ai tempi dell’Antico e Nuovo Testamento era inattaccabile ai composti chimici. Ecco allora che, per quei servi, ricevere una mina di quel metallo non poteva far sì che pensassero sempre al compito e all’onore ricevuti da quell’uomo che partiva per un paese lontano.

Quando nella prima parte di questo studio abbiamo fatto il confronto con la parabola dei talenti è stato fatto notare come la quantità affidata ai servi sia la stessa, quindi va da sé che il riferimento non possa essere allo stesso argomento: il talento viene consegnato in misura maggiore o minore, la mina è sempre e solo una e questo ci parla di due posizioni diverse nonostante il principio sia il medesimo. Da tener presente fra l’altro che, essendo la mina la sessantesima parte del talento, i significati delle due parabole devono essere differenti. La moneta d’oro che quei servi ricevono, a differenza dei talenti, ha connessione a ciò che viene consegnato a ciascun credente a monte, cioè la salvezza e il dono dell’acquisizione a figlio di Dio. Ad ogni credente viene affidata la responsabilità di condurre una vita degna della propria fede e del portare un “frutto”, che possiamo individuare anche solo in una posizione di coerenza che, di questi tempi, non è poco.

Rileviamo dal nostro testo che, all’atto della consegna della moneta, non viene dato ai servi alcun obiettivo da raggiungere nel senso che viene loro di farla fruttare, ma non quanto perché avrebbero dovuto farlo in base alle loro capacità, cosa che avvenne. Ognuno dei dieci è lasciato libero di agire come meglio crede con l’unica preoccupazione di portare un risultato, indipendentemente dall’ammontare della somma.

 

E giungiamo così al ritorno: chi ha consegnato le mine ora torna come re, tutto è cambiato: un re ha un potere assoluto, decide la vita e la morte dei suoi sudditi, non deve rispondere ad alcuno se non a se stesso, è padrone di tutto e il verso 15, così come è citato, è tradotto impropriamente poiché sarebbe “Accadde che, quanto tornò, dopo aver preso possesso del suo regno, ordinò che fossero chiamati i servi…”. “Dopo aver preso possesso del suo regno”, quindi una volta adempiute tutte le formalità necessarie e ricevuta l’investitura. Questo è un richiamo a tutti quegli avvenimenti che caratterizzeranno il ritorno di Gesù una volta per sempre, quello ufficiale e la presa di possesso del regno sarà caratterizzata dalla constatazione assoluta della Sua potenza e gloria, quando “ogni occhio lo vedrà” (anche quelli di quanti che non avranno creduto in Lui) perché nel Nome di Gesù sappiamo che dovrà piegarsi “ogni ginocchio”. Indipendentemente dal fatto che appartenga al numero dei servi o a quello di coloro che non lo volevano come re, tutti saranno costretti a inginocchiarsi, non esisteranno alternative come quelle escogitate prima del Suo ritorno per non credere, gli dèi illusori creati dagli uomini. Ricordiamo Filippesi 2.10 citato più volte nel corso di questi studi: “Perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù è il Signore!» a gloria di Dio Padre”.

Ora sappiamo che “chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.24), ma anche del rendiconto, del giustificare il nostro operato proprio davanti a quel re che ha donato una moneta d’oro a ciascuno e – attenzione – non la vuole indietro, ma desidera constatare l’uso che ne abbiamo fatto. Tra l’altro va sottolineata la proporzione fra il risultato ottenuto dai servi e l’equivalenza in “città” loro consegnate, riferimento al premio e alla responsabilità nel mondo spirituale che ci attende.

Ora le dinamiche presentateci da questa parabola sono simili a quella dei talenti alla quale rimando, ma credo sia doveroso esaminare l’ultimo caso, quello del servitore infedele perché, anziché far fruttare la moneta come gli altri, la nasconde in un fazzoletto nell’attesa di restituirla al legittimo proprietario, e qui la meditazione si fa impegnativa perché sotto un’ottica prettamente umana quest’uomo non fa poi qualcosa di tanto deprecabile: non ruba, anzi restituisce ciò che gli era stato consegnato dichiarando la propria stima nei confronti del suo re che prende “quello che non ha messo in deposito e miete dove non ha seminato”. Però questo modo di vedere non considera prima di tutto l’oltraggio che viene fatto al re non avendo risposto con l’operosità e la fatica all’onore ricevuto: “io, che sono re, che raccolgo ciò che non ho depositato e mieto ciò che non ho seminato, chiedo la tua collaborazione”. E quello disattende in toto le aspettative del sovrano.

Non solo, ma possiamo considerare che, riponendo la moneta nel fazzoletto, quel servo abbia trascorso il tempo tra la partenza e il ritorno del suo padrone senza far nulla, mentre gli altri suoi pari si davano da fare per far fruttare il deposito ricevuto. È proprio il far nulla, ma ancor di più il totale disinteresse, a condannarlo perché, come viene detto anche nell’altra parabola, “perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Lo avrei riscosso con gli interessi” (v. 23).

Ecco allora che qui vengono messe in rilievo le capacità: quel servo è vero che ricevette una moneta e l’ordine di metterla a reddito come gli altri, ma non gli era stato detto come, era lui che avrebbe dovuto trovare il modo per farlo in base alla proprie forze e possibilità anche perché Gesù qui parla non di tutti i dieci servi, ma solo di quelli che portano il decuplo e il quintuplo, quindi il testo ci autorizza a pensare che gli altri otto abbiano portato tutte le quantità intermedie da dieci fino a due e che tutti vengano ricompensati. Quindi non importa quanto si fa, ma come e perché, qual è il motore del tutto. Se la moneta d’oro è assimilabile ad un’anima redenta, allora le dieci fruttate dal primo servitore sono altre anime e quella messa nel fazzoletto è chi, pur avendo creduto, resta immobile a livello di pensiero, di azione, senza che nessuno sappia niente di lui.

Ancora, se l’oro è oro e non può essere confuso con altro metallo, va da sé che la Chiesa non può barare o cercare, come avvenuto in passato, l’evangelizzazione delle masse e scambiare l’adesione formale delle persone con la conversione e la santificazione, possibile solo quando si ha chiara la propria responsabilità come figli di Dio e questa, purtroppo, viene raramente insegnata.

Appare allora chiara l’urgenza della comprensione del nostro testo che non afferma l’esistenza di una scala di merito, ma evidenzia il fatto che ciascuno dei servi, tranne uno, ha lavorato portando un risultato adempiendo così ai voleri di colui che, partito per ricevere l’investitura, non aveva fissato né un minimo, né un massimo perché il loro lavoro fosse considerato accettabile.

Emergono a questo punto dei personaggi ai quali si fa poco caso, cioè “i presenti”, certamente le guardie reali, pronte ad eseguire gli ordini, nei quali possiamo identificare gli Angeli, i perfetti esecutori delle volontà di Dio così come descritti in Matteo 25.31, “Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra”.

Troviamo gli Angeli anche in 2 Tessalonicesi 1.7, “…quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo, insieme agli angeli della sua gloria, con fuoco ardente, per punire quelli che non riconoscono e che non obbediscono al vangelo del Signore nostro Gesù”, e nella parabola della zizzania, “Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, che raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro” (Matteo 13.40-43).

A questo punto abbiamo un breve intermezzo, vale a dire un’osservazione a Gesù da parte di quanti lo ascoltavano, evidentemente stupiti dell’ordine dato alle guardie del re “prendete la moneta d’oro e datela a colui che ne ha dieci”: secondo costoro era troppo, perché il servo fedele era già stato premiato e aveva già abbastanza mine, ma non secondo il Maestro che stabilì un concetto importante, cioè che “A chi ha sarà dato, a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha”, cioè sarà privato anche del nulla cioè di ciò che credeva di avere, o meglio di quello che ha ricevuto, ma non ha voluto far fruttare. È questa l’unica punizione che rileviamo nella parabola, a parte la logica conclusione dei contrari al regno, e questo ci parla della benignità di Dio che non è un despota pretenzioso, ma valuta nella Sua perfezione l’opera dell’uomo da Lui onorato con un incarico, o dono che dir si voglia.

Con altrettanta perfezione, poi, Gesù fa emergere la condizione di quell’unico servitore che dice“ho avuto paura di te, che sei un uomo severo”, ma che in realtà non aveva avuto alcuna voglia di agire perché, appunto, viceversa sarebbe andato in banca ad affidare la moneta ricevuta, che qui credo sia la figura istituzionale della Chiesa nel senso di cooperazione e dedizione a compiti che, magari non “onorevoli” in senso umano come il Ministero, il Dottorato, la Predicazione etc., sono comunque necessari. Spesso, leggendo la Scrittura, tendiamo a vedere le “cose grandi” come alla nostra portata, ma dimentichiamo che prima dobbiamo dimostrare di saper gestire le piccole secondo Luca 16.10, “Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti”.

Al servitore che non aveva ottemperato l’ordine ricevuto, viene tolta la mina avuta, ma non ne viene rivelata la sorte. Non è cioè assimilato ai nemici del re e nemmeno di lui viene detto, come nella parabola dei talenti, “Il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti” (Matteo 25.30). Perché? Personalmente tendo a considerare il talento/i come uno specifico dono dello Spirito, mentre nella moneta d’oro la salvezza, il titolo di figlio di Dio che non può essere tolto e quindi quel servo poté restare nel palazzo, ma non certo con i privilegi e la posizione dei suoi simili, vivendo una vita a margine che prima non aveva. Per lo meno questo è ciò che mi pare di capire, a differenza dell’omologo di Matteo che chiaramente non tiene in alcun conto quanto ricevuto, cioè una somma più importante dalla quale il suo signore si aspettava di ricavare un reddito.

Le ultime parole di Gesù in questa parabola sono per i nemici che non lo hanno voluto come re: c’è quindi volontà nel rifiuto, visto che davanti a Lui non esiste possibilità di essere neutrali, esattamente come è una scelta non aprire quando Lui bussa alla porta della nostra vita. “Non volere” Gesù come re significa ostinarsi nelle proprie convinzioni, convinti di essere noi con la nostra vita – che poi nostra non è – a valere più di Lui. Significa non distogliere lo sguardo da ciò che siamo per rivolgerlo verso la perfezione, in pratica concretare l’amara constatazione di Gesù, “Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!” (Luca 13.34). È il pianto di Gesù su Gerusalemme, nell’attesa che fosse lei a piangere davvero. Amen.

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15.34 – LA PARABOLE DELLE DIECI MINE II/III (Luca 19.15-27)

15.34 – La parabola delle dieci mine II: la partenza (Luca 19.15-27)

 

11Mentre essi stavano ad ascoltare queste cose, disse ancora una parabola, perché era vicino a Gerusalemme ed essi pensavano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro. 12Disse dunque: «Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare. 13Chiamati dieci dei suoi servi, consegnò loro dieci monete d’oro, dicendo: «Fatele fruttare fino al mio ritorno». 14Ma i suoi cittadini lo odiavano e mandarono dietro di lui una delegazione a dire: «Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi». 

 

Anche se il capitolo precedente è stato dedicato allo sviluppo dei primi versi, possiamo ricordare che il dodicesimo corregge il falso concetto che i presenti avevano di Gesù, vale a dire che a Gerusalemme si sarebbe manifestato come Messia ed avrebbe instaurato il regno di Israele. Certo che, essendo a lei vicino, vi era qualcosa che stava per accadere, ma ciò era la Sua passione, morte e risurrezione: da lì sarebbe partito “per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare”, non la definitiva instaurazione del Suo regno.

Ora, proseguendo la lettura della parabola, vediamo che l’uomo “di nobile famiglia”, quindi di rango elevato, aveva a disposizione una servitù composta da persone di vari profili professionali e ne chiama dieci, numero che non ha riferimento agli apostoli, ma all’esattezza e alla precisione. Più volte il dieci è stato associato soprattutto a quello dei comandamenti, detti “il sommario della Legge” perché quello è il numero riferito a ciò che Iddio si aspetta dall’uomo. Nei “dieci servi” e nelle altrettante monete vediamo allora la cura e premura perché tutto fosse fatto al meglio nel senso che viene organizzata ogni cosa perché fosse l’ideale, l’ottimo a disposizione perché il frutto portato potesse corrispondere pienamente alle aspettative di colui che avrebbe dovuto partire, una volta tornato.

C’è nelle prime parole di questo verso, “un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano” un concetto di distanza implicito nel senso che il “lontano” è chiaramente usato per chi rimane a casa, nel palazzo, ma non per lui. “Lontano” è un termine che implica a qualcosa di poco conosciuto, un luogo in cui le usanze sono diverse, presumibilmente anche la lingua, il modo di esprimersi, capire e intendere le cose. È l’ “uomo nobile” che vi può andare, è lui ad essere atteso in quel luogo, è lui che è destinato a tornare per occupare un posto che è solo il Suo tanto nel “paese lontano” quanto in quello che troverà al Suo ritorno. Tanto i servi quanto le monete, allora, non vanno prese letteralmente cercando di identificarle in personaggi precisi, ma sono figure nel senso che i dieci servi non possono essere gli apostoli, che erano e resteranno dodici anche dopo la morte di Giuda, ma tutti coloro che hanno ricevuto da Gesù un dono per servirlo, visto nella moneta d’oro.

Mine o talenti appartengono solo ed esclusivamente al Signore che le affida ai “servi” con l’unico scopo che vengano da loro usati perché il Suo reddito possa aumentare. Credo che non vi sia un collegamento più pertinente a questa procedura se non in Marco 16.15,16 quando, risorto e prima dell’ascensione, disse “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato”. Ora è importante sottolineare che prima di queste parole, in Luca 24.45, leggiamo che “aprì loro la mente per comprendere le scritture”. Fu da questo momento che gli Undici, prima che Mattia entrasse nel Gruppo, poterono “comprendere”, quindi agire e parlare non più come “brave persone” che avevano dato quanto potevano al loro Maestro, ma come esseri spiritualmente responsabili e coscienti di ciò che erano, questo nell’attesa che fossero “rivestiti di potenza dall’alto” (v.49).

Ora, confrontando l’atto del chiamare i dieci servi, nel dar loro altrettante mine e nel dire “Fatele fruttare fino a mio ritorno” e quanto avvenuto dopo la resurrezione di Gesù, appare chiaro che il mandato viene conferito a persone di esperienza umana e di contatto profondo con Lui. Gli apostoli, nel contesto che abbiamo citato, non erano giunti a un punto di arrivo, ma a quello di partenza; dopo aver affidatoGli la vita per circa tre anni e mezzo, dopo averlo ascoltato, seguito, visto guarire ogni sorta di malattia e infermità di un popolo, ricevono l’abilitazione a comprendere le Scritture come nessuna scuola scientifica rabbinica avrebbe mai potuto insegnar loro. Sarebbero andati “in tutto il mondo” (conosciuto), ma non mandati allo sbaraglio senza avere idea di cosa avrebbero detto o fatto, avendo certezza della presenza costante di Gesù in e con loro.

La frase che viene detta ai dieci servi è emblematica, “Fatele fruttare fino al mio ritorno”, perché contiene l’istruzione e la durata dell’incarico. E qui si aprono numerosi argomenti di riflessione, il primo e più comodo dei quali è sulla qualifica di queste persone, tradotta col termine generico di “servi” che a una lettura superficiale potrebbero essere assimilati a quelli che avevano un profilo di cuoco, o lavapavimenti, ma in realtà erano persone di rango superiore che si trovavano solo nelle grandi famiglie: fra i Romani gli schiavi non erano tutti impiegati a fare i lavori di casa, ma alcuni ricevevano un’istruzione letteraria e venivano impiegati come maestri o scribi, altri ancora esercitavano mestieri e commerci il capitale dei quali era provveduto dai padroni che poi reclamavano una parte o il totale dei profitti.

Ecco allora che i “servi” e il mandato apostolico non possono essere confusi con la condizione che hanno tutti i credenti in genere: questi, in quanto salvati per grazia, possono sempre portare la loro testimonianza al prossimo come e quando lo ritengono opportuno, ma chi è “servo” non può essere altro che una persona preparata. Si tratta di una distinzione molto importante, esattamente come avviene per l’apostolo che oggi non può esistere per il semplice fatto che non ha vissuto, come quelli veri, con Gesù. Se così non fosse, gli Undici non si sarebbero posti il problema di scegliere, una persona che consentisse il numero originariamente stabilito da Gesù. Dopo il suicidio di Giuda, era necessario che fosse scelto “Uno che divenga testimone, insieme a noi, della sua resurrezione, tra coloro che sono stati con noi per tutto il tempo nel quale il Signore Gesù è vissuto fra noi, cominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato in mezzo a noi assunto in cielo” (Atti 1.21,22).

Se quindi agli Apostoli Gesù diede il mandato dopo tre anni e mezzo, se le mine vengono affidate ai servi dopo una formazione adeguata, allo stesso modo portare il Vangelo con efficacia richiede fondamenti il più delle volte sofferti, attraverso una plasmatura e un lavoro non indifferente di esperienza ed orientamento senza il quale si rischia di non giungere ad  un risultato apprezzabile; si potranno avere dei seguaci, degli adepti, dei religiosi, ma non persone in grado di essere illuminate dalla Verità del Vangelo.

Tornando alla frase “Fatele fruttare fino al mio ritorno” ci dà la durata, non definita, dell’incarico: i servi cioè sanno che il compito ricevuto è a tempo indeterminato. Da quel giorno in poi fu un succedersi di questi attraverso i secoli che hanno portato avanti lo stesso incarico, con efficacia maggiore o minore, come vedremo. L’importante è ricevere la mina, nel quale è indubbio distinguere il dono, e la funzione: non può esservi l’uno senza l’altro e chi porta il Vangelo in un modo o in un altro deve chiedersi se possiede entrambi, per evitare conseguenze devastanti.

“Fino al mio ritorno”, poi, è una frase che implica un’attività continua, che avrà una scadenza non quando lo decideranno i servi, ma quando avverrà il ritorno promesso. Sappiamo da parabole collegate al ritorno di Gesù che alcuni si addormenteranno, si stancheranno, avranno l’idea che obiettivamente il Signore “tarda a venire” e allora si dedicheranno all’inutilità delle cose della vita se non addirittura a sopraffare gli altri, potranno avere la tentazione di nascondere la mina o il talento senza far nulla perché in fondo quanto dato verrà restituito, ma la verità è depositata nel concetto del ritorno dell’ “uomo di nobile famiglia”.

A questo punto Gesù, che si trovava a Gerico e che per questo espose una parabola che, a motivo della reggia e delle vicende ad essa legate, poteva essere ben compresa, include un altro elemento di cui leggiamo al verso 14, “Ma i suoi concittadini lo odiavano e mandarono dietro di lui una delegazione a dire: «Non vogliamo che costui regni sopra di noi»”. Certo è facile individuare in questi personaggi le autorità religiose del popolo o anche solo quanti, fra lo stesso, erano contrari a Gesù, ma in queste parole c’è un riferimento preciso a tempi da poco trascorsi perché, quando in Giudea si seppe che Archelao, figlio di Erode il Grande, era partito per Roma per ottenere da Augusto il diritto a regnare su quel territorio, i suoi sudditi, conoscendo il suo carattere e sapendo a quali conseguenze avrebbe portato un regno diretto da lui, mandarono a Roma un’ambasciata per protestare contro la sua nomina e impedirla in ogni maniera. In realtà le cose furono molto più complesse perché vi fu un processo, Salome sorella del padre lo accusò di cattiva gestione, in Giudea scoppiarono disordini poi repressi da due legioni romane, ma di questo si può prendere atto leggendo i libri di storia.

Fatto sta che qui Gesù, citando i concittadini dell’uomo nobile che lo rifiutano come re, fa un richiamo politico assimilando il rifiuto dei capi religiosi del popolo a riceverlo come “Colui che viene nel nome del Signore” a quelli che non volevano che Archelao regnasse su di loro, cosa che poi avvenne anche se per breve tempo.

Già in queste parole c’è l’impressione di una sentenza imminente e al tempo stesso del fatto che i dieci servi sarebbero stati assolutamente indifferenti al rifiuto di quelli; a loro era stato detto “Fatele fruttare fino al mio ritorno” senza preoccuparsi di altro, come leggiamo dalle parole di Paolo a Timoteo nella sua seconda lettera: “E tu, figlio mio, attingi forza dalla grazia che è in Cristo Gesù: le cose che hai udito da me davanti a molti testimoni, trasmettile a persona fidate, le quali a loro volta siano in grado di insegnare agli altri. Come un buon soldato di Gesù Cristo, soffri insieme con me. Nessuno, quando presta servizio militare, si lascia prendere dalle faccende della vita comune, se vuol piacere a colui che lo ha arruolato. Anche l’atleta non riceve il premio se non ha lottato secondo le regole. Il contadino, che lavora duramente, dev’essere il primo a raccogliere i frutti della terra. Cerca di capire quello che dico, e il Signore ti aiuterà a comprendere ogni cosa” (2.1-7). Amen.

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