18.21 – I SADDUCEI E LA RISURREZIONE (Luca 20.27-39)

16.21 – I sadducei e la risurrezione (Luca 20. 27-39)

 

27Gli si avvicinarono alcuni sadducei – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: 28«Maestro, Mosè ci ha prescritto: Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello29C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. 30Allora la prese il secondo 31e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. 32Da ultimo morì anche la donna. 33La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». 34Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; 35ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: 36infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. 37Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe38Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui». 39Dissero allora alcuni scribi: «Maestro, hai parlato bene». 40E non osavano più rivolgergli alcuna domanda. 

 

L’intervento dei Sadducei su Gesù fu il terzo che i Suoi oppositori gli fecero nel martedì della passione: usciti di scena i capi dei sacerdoti con gli scribi, subentrarono gli erodiani con i discepoli dei farisei e quindi intervennero costoro, che nel campo delle varie fazioni giudaiche costituivano un caso a parte sotto molti aspetti, compreso quello della mancanza di scritti loro attribuibili. Da alcuni testi del Nuovo Testamento sappiamo che alcuni sadducei si recarono a vedere Giovanni Battista che battezzava e li chiamò “Razza di vipere” (Matteo 3.7), che si avvicinarono a Gesù per chiedergli “un segno dal cielo” (16.1), che parlò del “lievito dei farisei e dei sadducei”, che non credevano nella risurrezione, che la loro era una corrente che faceva parte del Sinedrio che giudicò gli apostoli Pietro e Giovanni (Atti 4.1; 5.17) e intervennero in una disputa con l’apostolo Paolo che “Sapendo che un parte era di sadducei e una parte di farisei, disse a gran voce nel sinedrio: «Fratelli, io sono fariseo, figlio di farisei; sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella resurrezione dei morti». Appena ebbe detto questo, scoppiò una disputa fra farisei e sadducei e l’assemblea si divise. I sadducei infatti affermano che non c’è risurrezione, né angeli, né spiriti; i farisei invece proclamano tutte queste cose”.

A parte questi dati, il resto è incerto perché sulla loro origine esistono solo teorie tramandate; fatto sta che si caratterizzavano per l’assoluto rifiuto della legge orale farisaica, pretendevano di attenersi alla sola Legge di Mosè, negavano l’esistenza del destino e la prescienza divina con l’uomo che, in grado di scegliere fra bene e male, poteva attirare su di sé il benessere o la sventura. Negavano anche l’esistenza di premi o punizioni nell’Ade e la persistenza dell’anima dopo la morte del corpo. I sommi sacerdoti Anna e Caiafa erano fra questi.

I Sadducei, per quanto in pochi, erano influenti perché erano persone fra le più ricche del popolo e d’alto rango e, come i farisei, erano un partito non solo religioso, ma politico, per quanto non amati dal popolo a differenza dei primi, che ostacolavano tutto ciò che non apparteneva alla tradizione giudaica. Con la catastrofe del 70, questi scomparvero dalla storia anche se i capisaldi della loro dottrina sopravvissero come forma di eresia e purtroppo attecchirono nelle Comunità cristiane.

Ad esempio l’apostolo Paolo sarà costretto a combattere contro coloro che, nella Chiesa di Corinto, negavano la resurrezione: “Ora, se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti? Se non vi è resurrezione dei morti, neanche Cristo è risorto! Ma se Cristo non è risorto, vuota è allora la nostra predicazione, vuota anche la nostra fede. (…) Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perditi. Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini”. (1°, 15.12-19)

Il modo con cui i sadducei si rivolgono a Gesù e il caso che espongono, del tutto ipotetico, riflette lo stile delle discussioni accademiche che si svolgevano nelle varie scuole religiose: in questo caso si prende spunto dalla Legge sul levirato di Deuteronomio 25.5,6 che proteggeva la discendenza, “Quando i fratelli abiteranno insieme – cioè non si saranno ancora divisi in famiglie – e uno di loro morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto non si sposerà con uno di fuori, con un estraneo. Suo cognato si unirà a lei e se la prenderà in moglie, compiendo così verso di lei il dovere di cognato. Il primogenito che ella metterà al mondo, andrà sotto il nome del fratello morto perché il nome di questi non si estingua in Israele”.

Ora il fine della Legge era quello di impedire l’estinzione di qualsiasi famiglia di tutte le tribù e la relativa alienazione dei beni che sarebbe avvenuta qualora la donna si fosse maritata con “un estraneo”, chiaramente alla famiglia dello sposo defunto. Da questo principio i sadducei traggono una vicenda che aveva come unico scopo quello di mettere Gesù in difficoltà, essendo secondo loro la questione irrisolvibile.

In realtà sulla resurrezione c’era confusione anche presso i farisei, poiché secondo loro questa assomigliava al ridestarsi da un lungo sonno per cui chi si svegliava riprendeva a compiere le stesse attività che aveva prima di morire.

Quello su cui a mio avviso va posto l’accento è il fatto che i sadducei non avevano senso perché, non credendo nella resurrezione, e quindi di un premio o un castigo dopo la morte, non si capisce quale utilità avesse la loro credenza, al di là di una forma di moda alla quale da sempre l’aristocrazia è sensibile. Eppure ammettevano la Scrittura, rigettando la tradizione orale farisaica. In realtà le opinioni su cosa accettassero e cosa no le opinioni sono discordi, poiché vi è chi sostiene riconoscessero la sola Legge di Mosè e chi invece si limitassero al rifiuto della tradizione orale farisaica. Gesù comunque, rispondendo alla loro tortuosa domanda, cita proprio Mosè quando sentì la voce di Dio che gli si presentò: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abrahamo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”.

Ebbene con questa frase il Signore certamente fornì a Mosè le proprie credenziali e citando i Padri non fece solo un riferimento al passato, ma soprattutto al presente, al fatto che Abrahamo, Isacco e Giacobbe certo erano morti con il corpo, ma erano “viventi” oltre quella porta del sepolcro che si era inevitabilmente chiusa. Da notare poi che YHWH non aveva promesso di essere il loro Dio a termine, cioè fino alla loro morte, ma in eterno, quindi oltre e per sempre.

Dicendo Gesù che “Dio non è dei morti, ma dei viventi, perché tutti vivono per lui”, dà un insegnamento assoluto alla frase di Esodo da Lui citata, ma non solo, anche per relazione a Genesi 17.7 quando disse ad Abramo “Stabilirò la mia alleanza con te e la tua discendenza dopo di te, di generazione in generazione, come alleanza perenne, per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te”: che senso avrebbe un’alleanza con Dio fino a quando l’essere umano è in vita per il battito cardiaco? Se così fosse, tutte quelle moltitudini di morti avrebbero vissuto invano. L’alleanza “perenne”, se è Dio a dichiararla tale, non può essere incrinata dalla morte o da altri eventi, compreso un Suo ipotetico ripensamento, essendo Lui il Legislatore e non potendo sconfessarsi.

Luca, nel riportare questo episodio, non cita le parole di Gesù rivolte ai sadducei che invece Matteo e Marco inseriscono: “Vi ingannate, perché non conoscete le scritture, né la potenza di Dio” (Matteo 22.29), “Non è forse per questo che siete in errore, perché non conoscete le scritture, né la potenza di Dio?”. L’errore, quindi, esiste, germina e si diffonde per questi due motivi. E non conoscere la Sua potenza significa vivere con la mancanza di fede come condizione, àmbito, consuetudine.

Non si crede perché esiste un testo, ma perché si sa, si è sperimentato l’amore, l’assistenza e si è creduto nella potenza di Dio per come tramandata attraverso i secoli. Ogni cristiano, poi, l’ha sperimentata con interventi nella propria vita e non solo con la liberazione dal dominio del peccato e della morte. Tutto quello che troviamo scritto è un deposito di sapere che il Creatore ha rivelato, ad esempio, a Giobbe, vissuto si reputa in un periodo addirittura antecedente a quello di Abramo.

Ebbene Giobbe disse “Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro” (19.25-27). Quindi, quell’uomo viveva con uno scopo. Ricordiamo le parole di Davide in Salmo 17. 15, “Ma io nella giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua immagine”, 48.16 dei figli di Core, 15 “Certo, Dio riscatterà la mia vita, mi strapperà dalla mano degli inferi”.

Isaia 26.19 “Ma di nuovo vivranno i tuoi morti. I miei cadaveri risorgeranno! Svegliatevi ed esultate, voi che giacete nella polvere” e, per finire, chiarissimo a chiusura del discorso, 1 Samuele 2.26, “Il Signore fa morire e fa rivivere, fa scendere nello Scheol e fa risalire”.

Inoltre Gesù spiega molto bene la sorte dei risuscitati, che si troveranno con un corpo diverso, trasformato rispetto a quello che li caratterizzava quando erano nella loro vita terrena: si noti “quelli che sono giudicati degni della vita futura”, quindi non tutti. Il processo di trasformazione alla risurrezione trova un suo significato proprio nelle parole del verso 35 e 36: nella vita futura infatti si diventa “figli della resurrezione” appropriandosi in maniera visibile della qualifica di “figli di Dio” che si aveva già nella carne, ma in modo limitato a causa della debolezza di essa. Figli di Dio e quindi “eredi”, che diventano tali appieno nel momento in cui l’eredità viene loro data.

“Non possono morire” perché è scritto che la morte verrà eliminata per sempre (Isaia 25.8), perché la promessa è “Li strapperò di mano agli inferi, li riscatterò dalla morte? Dov’è, o morte, la tua peste? Dov’è, o inferi, il vostro sterminio?” (Osea 13.14). Del resto, su tutto abbiamo la parola di Gesù a Marta, “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede  in me, non morirà in eterno” (Giovanni 11.25,26).

E proprio l’apostolo Giovanni, per lo Spirito, forse meditando queste parole, ebbe una rivelazione importante che scrisse nella sua prima lettera: “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che, quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”. (3.2). La compatibilità del corpo spirituale che finalmente potrà vedere Dio e vivere.

L’episodio si chiude con l’apprezzamento di “alcuni scribi”, non tutti, possiamo pensare di quella parte di loro che credeva in Gesù, ma senza palesarlo per timore degli altri; “Maestro, hai parlato bene” può anche costituire un’approvazione generica perché i sadducei erano stati sconfessati pubblicamente e quindi avevano perso, fatto sta che tutti rimasero senza argomenti contro di Lui non solo in merito alla resurrezione, ma non trovarono un tema da sottoporgli che potesse costituire un tranello. Questo, naturalmente, durò poco tempo, perché sappiamo che vi fu la questione del comandamento più grande, sorta da un anonimo Dottore della Legge e la domanda, questa volta da parte di Gesù, sulla relazione fra Gesù figlio di Davide e Signore: lì sì è scritto che “Nessuno era in grado di rispondergli e da quel giorno nessuno osò più interrogarlo” (Matteo 22.46). Resta la tristezza nel constatare che, con tutti gli argomenti che avrebbero potuto sottoporGli per crescere, si misero sempre nella condizione di escogitare questioni che non portassero da nessuna parte. Ma così fa ogni uomo che disprezza la propria vita, nonostante creda di amarla. Amen.

* * * * *

 

16.20 – IL TRIBUTO A CESARE (Matteo 22.15-22)

16.20 – Il tributo a Cesare (Matteo 22. 15-22)

 

15Allora i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 16Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. 17Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». 18Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. 20Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». 21Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». 22A queste parole rimasero meravigliati, lo lasciarono e se ne andarono.

 

Nello scorso capitolo 22 abbiamo affrontato la parabola delle nozze, riportata dal solo Matteo, collocabile dopo quella dei contadini omicidi. Ora Marco, alla fine di questa, annota: “Essi cercavano di catturarlo, perché si erano resi conto che aveva detto quella parabola contro di loro, ma temettero la folla e, lasciatolo, se ne andarono” (12.17). Luca riporta un dettaglio nella loro reazione; “In quel momento gli scribi e i capi dei sacerdoti cercarono di mettergli le mani addosso, ma ebbero paura del popolo” (Luca 20.19).

Ritiratisi, i membri del Sinedrio escogitarono un altro sistema: “Si misero a spiarlo e mandarono degli insidiatori, che si fingessero persone giuste, per coglierlo in fallo nel parlare e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore” (Luca 20.20) e qui la trappola escogitata riguardava proprio un argomento molto delicato, vale a dire il pagamento del “tributo a Cesare”.

A Gesù vengono quindi inviati, dai membri del Sinedrio allora intervenuti, i discepoli dei farisei “con gli erodiani”, un insieme assurdo perché vediamo associati i discepoli degli strenui difensori dell’ortodossia della religione ebraica, oppositori del governo romano, con i sostenitori di Erode e quindi di Roma di cui quel re era strumento e vassallo. È agevole vedere l’Avversario che inizia a muovere come sue pedine la totalità delle pericolose correnti del pensiero giudaico, i rappresentanti della nazione pur mancando gli zeloti, che costituivano un gruppo a parte di sicari: il martedì della settimana della Passione, giorno che stiamo considerando, Gesù avrà a che fare prima con scribi, farisei e capi dei sacerdoti, qui coi loro discepoli e gli erodiani ed infine coi sadducei a proposito della resurrezione; tutti alleati, incuranti delle divergenze dottrinali insanabili tra i gruppi, pur di riuscire a sconfiggere il loro nemico comune. Una volta ottenuto l’obiettivo, sarebbero tornati a disprezzarsi in tutta tranquillità.

Perché qui vengono mandati i discepoli dei farisei con gli erodiani? Perché, qualunque risposta Gesù avrebbe potuto dare, avrebbe avuto dei testimoni autorevoli che lo avrebbero denunciato alle autorità costituite: a parte l’untuoso, retorico, direi insopportabile preambolo con cui Lo avvicinano, identico nella sostanza nei sinottici, secondo i veri mandanti le risposte possibili avrebbero potuto essere due: A) dichiarava lecito il tributo, ma in questo caso il popolo che lo seguiva sarebbe rimasto scandalizzato perché il loro Messia non avrebbe mai potuto accettare di riconoscere un dominatore straniero pagandogli una tassa; B) dichiarava il tributo illecito e allora sarebbe stato passibile di denuncia al procuratore romano come ribelle.

La sottigliezza della domanda risiede anche nel fatto che, in quanto oppositore di Roma se avesse dichiarato illecito il tributo, sarebbe stato facile associarlo idealmente a quel famoso “Giuda il Galileo” menzionato da Gamaliele in Atti 5.36,37: “Tempo fa sorse Teuda, che pretendeva di essere qualcuno e a lui si aggregarono circa quattrocento uomini. Ma fu ucciso, e quelli che si erano lasciati persuadere da lui furono dissolti e finirono nel nulla. Dopo di lui sorse Giuda il Galileo, al tempo del censimento, e indusse gente a seguirlo, ma anche lui finì male, e quelli che si erano lasciati persuadere da lui si dispersero”. Le rivolte capitanate o organizzate da questo personaggio, represse dal governatore della Siria Pubblio Quintilio Varo in modo cruento, si conclusero con la crocifissione di duemila persone.

Veniamo ora a come si presentano a Gesù i suoi insidiatori: lo chiamano “Maestro” e gli dicono “Sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità”, frase che esprime adulazione, ipocrisia e soprattutto anticipa il giudizio che si abbatterà su di loro. Come infatti proprio disse il Maestro, “Ora io vi dico che d’ogni parola oziosa che avranno detta, gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio, poiché dalle tue parole sarai giustificato, e dalle tue parole sarai condannato” (Matteo 12.36-37). Soprattutto, “Dio citerà in giudizio ogni azione, anche tutto ciò che è occulto, bene o male” (Qoèlet 12.14).

A Gesù non sfuggirono i secondi fini di quelle persone (li chiama “ipocriti”), ma si può estendere questo loro comportamento alle azioni e ai discorsi degli uomini in genere, alla loro coscienza e ragionamenti “…che ora li accusano, ora li difendono, così avverrà nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini, secondo il mio Vangelo, per mezzo di Cristo Gesù” (Romani 2.16).

L’aggettivo “argòs”, riferito alle “parole” significa “vane, inconsiderate, inconcludenti, non portanti ad alcun bene”, quindi “cattive, maliziose, maligne”, indici di un progetto perpetrato a danno altrui, come nel caso di questo episodio e di tutti quelli in cui una persona costruisce azioni o discorsi tesi a ledere il prossimo per, naturalmente, trarre un vantaggio per sé. Questo comprende anche discorsi inconcludenti, che non hanno un fine costruttivo. Quindi, “dalle tue parole sarai giustificato e dalle tue parole sarai condannato” significa proprio che, provenendo queste dal cuore, rilevano ciò che è al suo interno, la natura, l’anima e lo spirito di chi le proferisce.

Veniamo ora alla domanda posta che richiedeva, secondo le intenzioni degli interroganti, solamente un semplice “sì” o “no”, quanto bastava per accusare Gesù; spiegazioni ulteriori non erano previste. C’era però un altro grosso problema, secondo me, sul quale Nostro Signore avrebbe potuto intervenire ed è proprio, più che la questione del tributo, sul denaro che gli mostrarono, che aveva raffigurato il volto dell’imperatore Tiberio, figlio e successore di Augusto. Era un’immagine, quindi in contrasto con la Legge di Mosè che ne proibiva l’uso, di un uomo che, come imperatore, era considerato per lo meno dai Romani come un dio e lui stesso si considerava tale.

Già dopo la morte di Giulio Cesare (44 a.C.) chiunque aspirasse al potere cominciò a presentarsi come un eletto divino e il nome stesso “Augusto” deriva da “auge”, normalmente utilizzato con riferimento agli dèi e alle loro prerogative. Vennero così eretti templi in onore dell’imperatore e proprio Augusto, padre di Tiberio, è raffigurato in un gioiello dell’epoca con indosso una corona di alloro, simbolo di sapienza e gloria, con in mano uno scettro con l’aquila di Giove.

Gesù però non fa alcun cenno né sulla liceità del tributo a Cesare, né al fatto che quella moneta raffigurava qualcosa di profondamente pagano, si estranea da qualsiasi questione per limitarsi ai fatti; non solo, ma è come se stabilisse un baratro fra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio: si fa dare un denaro, l’equivalente del tributo, e chiede di chi fosse l’immagine ivi raffigurata.

Loro, erodiani e discepoli dei farisei, avevano quella moneta, il denaro o denario, segno che lo utilizzavano e che quindi, de facto, accettavano di essere sudditi di Roma e, viene da pensare non certo a torto, quel tributo lo pagassero già. Per gli erodiani nessuno stupore, che invece si concreta coi farisei e loro discepoli che, se volevano comunque gestire un’autorità, per quanto religiosa, sul popolo, ben dovevano adattarsi ai voleri di Roma.

Quello che però va sottolineato è che Gesù, pur distinguendo nettamente “Cesare” da Dio, li considera parte della vita degli uomini di allora. Qui abbiamo una frase più interpretata che tradotta, “Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” quando l’originale è “Rendete a Cesare le cose di Cesare e a Dio le cose di Dio” che amplia di molto il significato, essendo “le cose” “tutto quello che è di”, quindi non solo il denaro. Traducendo “ciò che”, il concetto può risultare ridotto.

Col parere dichiarato di Gesù entriamo in un campo per noi nuovo perché ci troviamo sottoposti a due poteri, uno temporale e uno spirituale come in Proverbi 24.21, “Figlio mio, temi il Signore e il re, e coi ribelli non immischiarti, perché improvviso sorgerà il loro castigo e la rovina mandata da entrambi chi la conosce?”: si tratta di due poteri ben distinti e, riguardo al “re” non è detto che vada rispettato solo se è giusto, ma anche nel caso contrario.

Così scrivono gli Apostoli Paolo e Pietro: “Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi si devono le tasse, date le tasse; a chi l’imposta, l’imposta; a chi il timore, il timore; a chi il rispetto, il rispetto” (Romani 13.6-7), “Tenete una condotta esemplare fra i pagani, perché, mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere diano gloria a Dio nel giorno della sua visita. Vivete sottomessi ad ogni umana autorità per amore del Signore: sia al re come al sovrano, sia ai governatori come inviati da lui per punire i malfattori e premiare quelli che fanno il bene. Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete Dio, onorate il re” (2 Pietro 12,14,17).

L’unico caso in cui non è ammessa l’ubbidienza alle Autorità costituite, che dovrebbero agire nell’interesse della collettività, è quello in cui intendano costringere il credente a comportarsi in maniera opposta al volere di Dio, come fu nel passato con Sadrac, Mesa e Abednégo che si rifiutarono di adorare la statua d’oro di Nebucadnesar (Daniele 3.16-18), e come disse lo stesso Gesù a Satana che lo tentava, “il Signore, tuo Dio, adorerai: a lui solo renderai il culto” (Matteo 4.10) dove “a lui solo” ci parla dell’unica esistenza in grado di sostenere il peso dell’eternità, della creazione, dell’universo.

Anche la massima sovrana del rapporto col Signore, “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”, rientra nel principio del “rendere a Dio le cose di Dio”, evento possibile solo e unicamente nel momento in cui Lo si conosce, perché altrimenti amarLo sarebbe impossibile.

E il principio fondamentale è che Dio non può essere amato senza aver fatto un’esperienza diretta con Lui. Qui sta, ancora una volta, la differenza fra religione e fede, che deriva proprio da un contatto diretto che chi non l’ha provato non può capire. Il vero cristiano parla di esperienza di vita con Gesù, della Sua grandezza, del dono vivificante che ha fatto di sé per la sua e altrui salvezza, il religioso parla di riti, di osservanze, di un’infinità di dèi minori che possono soccorrere, intercedere, fare miracoli e guarire, di pellegrinaggi, di penitenze sotto varie forme, dimenticando che il Cristo è Colui che è l’Onnipotente e non ha bisogno di altri collaboratori o intermediari.

Occorre quindi “rendere le cose di Dio” o “di Cesare” perché è scritto che “Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio” (Romani 13.1): costituite da Lui non perché perfette, ma col fine che gli uomini che le compongono provino su di sé la responsabilità sul popolo loro affidato e ne rispondano personalmente, e basta scorrere i libri storici della Scrittura per vedere quanti re hanno agito secondo il Signore o hanno fatto del male, alcuni di loro anche molto.

Con l’indicazione a “rendere a Cesare le cose di Cesare e a Dio le cose di Dio”, Gesù quindi separa fra loro le due aree, ma non sminuisce la prima a sottolineare che, nonostante estranea ad Israele e pagana, andava osservato quanto da lei stabilito.

Anche per noi, che viviamo un tempo difficile in cui corrotti e corruttori hanno praticamente il dominio del mondo, fino a quando non arriverà il tempo in cui si dichiareranno apertamente in opposizione al Vangelo, vale lo stesso principio, restare soggetti a un sistema che certo non onoriamo, ma che è lì per volere di Dio, comunque soggetto ai Suoi piani e in quanto tale va rispettato in attesa che, se sarà in grado e troverà argomenti giustificativi, venga chiamato a rendere conto davanti a Lui. Ma sappiamo che, come l’abusivo alle nozze, ammutolirà.

Ultima considerazione, conscio del fatto di avere comunque espresso concetti stringati sui quali ciascuno potrà riflettere, va fatta sulla reazione degli insidiatori di Gesù: per Matteo “rimasero meravigliati”, secondo Marco “ammirati” (12.17), Luca invece aggiunge “Così non riuscirono a coglierlo in fallo nelle sue parole di fronte al popolo e, meravigliati della sua risposta, tacquero”. È degno di nota Marco, che con quell’ “ammirati” intende dire che Gesù aveva soddisfatto con la sua risposta entrambe le fazioni che erano andate da lui, gli erodiani perché aveva ammesso il tributo a Cesare, i discepoli dei farisei perché aveva specificato che, assolvendo al tributo, non per questo potevano sentirsi a posto con la loro coscienza in quanto restava sempre aperto il conto con Dio. Certo, interpretarono la risposta a modo loro. Non era infatti pensabile che, limitandosi alla dazione di un denaro, fosse chiusa la questione, anzi, per concludere possiamo leggere le parole di Malachia 3.8-9, 8Può un uomo frodare Dio? Eppure voi mi frodate e andate dicendo: «Come ti abbiamo frodato?». Nelle decime e nelle primizie. 9Siete già stati colpiti dalla maledizione e andate ancora frodandomi, voi, la nazione tutta! 10Portate le decime intere nel tesoro del tempio, perché ci sia cibo nella mia casa; poi mettetemi pure alla prova in questo – dice il Signore degli eserciti -, se io non vi aprirò le cateratte del cielo e non riverserò su di voi benedizioni sovrabbondanti”.

La mancanza d’amore per Dio, che deriva dal non averlo conosciuto e sperimentato, porta alla frode nei Suoi confronti perché l’essere umano si ritiene, nella propria assurda e tragica ignoranza, più furbo di Lui: 6Il figlio onora suo padre e il servo rispetta il suo padrone. Se io sono padre, dov’è l’onore che mi spetta? Se sono il padrone, dov’è il timore di me? Dice il Signore degli eserciti a voi, sacerdoti che disprezzate il mio nome. Voi domandate: «Come lo abbiamo disprezzato il tuo nome?». 7Offrite sul mio altare un cibo impuro e dite: «In che modo te lo abbiamo reso impuro?». Quando voi dite: «La tavola del Signore è spregevole» 8e offrite un animale cieco in sacrificio, non è forse un male? Quando voi offrite un animale zoppo o malato, non è forse un male? Offritelo pure al vostro governatore: pensate che sarà soddisfatto di voi o che vi accoglierà con benevolenza? Dice il Signore degli eserciti” (Malachia 1.6-8).

E torniamo all’originario peccato di Caino, che pretendeva di instaurare un rapporto con Dio che si piegasse ai suoi voleri e accogliesse sacrifici con un cuore lontano da Lui. Amen.

* * * * *

 

16.19 – LA PARABOLA DELLE NOZZE REGALI II/II (Matteo 22.8-14)

16.19 – La parabola delle nozze regali II (Matteo 22. 8-14)

 

8Poi disse ai suoi servi: «La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; 9andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze». 10Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. 11Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. 12Gli disse: «Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?». Quello ammutolì. 13Allora il re ordinò ai servi: «Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti». 14Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

 

“La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni” ci parla del progetto di Dio per il Suo popolo che, come sappiamo, non volle capire, comprendere l’importanza della chiamata totale realizzatasi con la venuta di Suo Figlio sulla terra. Il non essere “degni” è una pietra tombale che si chiude definitivamente su Israele come popolo, non certo sui singoli appartenenti che si sarebbero convertiti, quello che, a partire dall’epoca di Gesù in poi, lo ha costantemente rifiutato nonostante la scienza profonda nella Scrittura posseduta che però si disperdeva (e disperde) in un’infinità di rivoli che, anziché illuminare, portano il buio: “Guide cieche, che filtrate il moscerino e inghiottite il cammello!” (Matteo 23.24)

A proposito della constatazione sull’indegnità degli invitati, in base alla quale potremmo ipotizzare che Dio si fosse sbagliato a convocarli, si tratta di una constatazione in termini antropomorfi come in Genesi 6.6, “E il Signore di pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo” o 32.14, “E il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo”: qui è una visione amara sul fatto che i destinatari dell’invito non lo avevano tenuto in alcuna considerazione, “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”.

Quel re, che non aveva bisogno di nessuno, potente, assolutamente ricco, chiama gli invitati due volte e addirittura nella seconda chiamata spiega, quasi ce ne fosse bisogno, cosa quelle persone avrebbero trovato al pranzo e cioè cibi che mai avrebbero potuto gustare altrove, come rileviamo dalle parole “il mio pranzo”, “i miei buoi e gli animali ingrassati”.

Notiamo ora che ai “servi” viene data un’indicazione completamente diversa dalla prima e cioè di chiamare degli sconosciuti, gente trovata per le strade, chiunque avrebbero incontrato: i “servi” non sono più i profeti che parlavano a Israele di ravvedimento e conversione, ma quelli che operano nella dispensazione della Grazia per i quali non vale più l’ordine “Non andate ai Gentili, e non entrate in nessuna città dei Samaritani” (Matteo 10.5), ma piuttosto la realtà descritta in Colossesi 3.11, “Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Sciita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti”. “Tutti – appunto – quelli che troverete” e, certo anche se non è detto, vorranno venire. Impensabile un trasporto coatto di sconosciuti, a cui nulla può importare, a una festa di nozze. Una risposta, affermativa o negativa, un invitato la dà sempre.

Abbiamo letto che quei servi “radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni”, non nel senso che costituirono un’accozzaglia di gente la cui presenza il re non avrebbe potuto tollerare, ma che quell’invito fu rivolto a tutti gli uomini senza distinzione di razza, condizione sociale e soprattutto esperienza di vita. Non esiste nessun essere umano che non sia degno del Vangelo come messaggio di salvezza e ravvedimento, ma esiste chi lo rifiuta e quindi sceglie da sé la morte in cui vivere.

Il radunare “cattivi e buoni” è però la figura dell’opera incessante della Chiesa portatrice del Vangelo, che alla fine conduce i suoi componenti nella sala delle nozze, quella in cui verrà servito il banchetto, ma in cui si trova “uno” che pretendeva paradossalmente di imporre al padrone di casa la propria presenza senza essersi minimamente adeguato alle sue esigenze che in nient’altro si concretavano se non in un vestito da indossare e portare. E proprio la Chiesa, in quanto territorio di Dio, è suscettibile alle invasioni, scorrerie e disturbi da parte dell’Avversario, come lo stesso Gesù insegna con parabole che la possono coinvolgere, come quella delle zizzanie che crescono nel campo seminato col buon seme: “Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo” (Matteo 13.38). E qui dovremmo aprire un capitolo a parte.

Abbiamo anche “Il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi” (vv.47.48), e ancora 25.1,3 con la parabola delle dieci vergini che “presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio”.

Sotto questo aspetto che vi siano elementi estranei apposta per minare il piano di Dio lo denota la stessa presenza di Giuda Iscariotha nei gruppo dei Dodici e poi di tutte le eresie che sorsero già al tempo di Pietro e di Paolo per poi diffondersi, come quella degli Ebioniti che volevano giudaizzare il cristianesimo, dei Doceti che negavano la natura umana di Gesù, dei Cerinti che vedevano in Lui un semplice uomo, per quanto illuminato in un certo periodo della sua vita.

 

Riassumendo, la nostra parabola finora è passata attraverso tre fasi: in una prima abbiamo l’invito a Israele alle nozze e il “non vollero venire” degli invitati che lo rifiutarono ai tempi del cosiddetto “Antico Testamento”; nella seconda una chiamata più dettagliata, quella fatta ai tempi di Gesù e subito dopo, col rifiuto reiterato del popolo che fa sì che il re giunga a distruggere «la loro città» come avvenuto nel 70 d.C.; infine la terza che è il tempo che tuttora viviamo, quello dei servi che costituiscono la Chiesa che si troverà poi, prima di sedersi al banchetto di Dio, quarta fase, ad affrontare il vaglio dell’operato di ogni suo componente che sarà salvato se si troverà “vestito”, o condannato se non avrà permesso all’amore di Dio di agire, rimanendo la stessa persona di prima.

L’ora della verità si ha con “la sala piena di commensali”, il re entra: sta per verificarsi ciò che aveva anticipato Isaia in 25.6, “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di vini raffinati. Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni. Eliminerà la morte per sempre”.

La “sala piena” in cui il re entra: era tradizione giudaica che quando una persona comune dava una festa, si trovava per prima nel luogo in cui riceveva gli ospiti, ma quando si trattava di un sovrano, questo compariva per ultimo, quando erano giunti tutti i suoi invitati. Quindi la quarta fase, che ho definito “l’ora della verità”, è quella del vaglio in cui il re entra “per vedere i commensali” e quindi conoscerli e accoglierli ufficialmente.

Certo il “vedere” di Dio coinvolge il tutto della nostra persona, le azioni fatte, i peccati non confessati e non lasciati, il nostro cuore che può essere più o meno sincero, ciò che ha realmente motivato ogni nostra azione e quindi il fine della nostra presenza in quel luogo: saremo lì perché desiderosi di entrare finalmente nel luogo promesso, o perché speranzosi di entrarvi nonostante questo non ci competa? E come reagiremo a quegli “occhi di fuoco” di Gesù che sarà lì e con quelli valuterà ciascuno dei presenti?

Qui, però, l’attenzione del re sugli invitati riguarda l’abito nuziale, che era stato offerto a tutta quella gente che, ricordiamolo, era stata presa così com’era, con vestiti inadeguati e per questo, secondo l’uso di allora, l’abito veniva portato sopra quello che già gli invitati avevano. Questo, si badi, nelle condizioni di emergenza perché era costume che i servi consegnassero all’invitato il vestito prima che si celebrassero le nozze e si presentasse così in modo consono all’evento.

Credo che il passo che più di ogni altro illustri il meccanismo del vestito sia quello di Zaccaria 3.3,4, nella visione di Giosuè davanti all’Angelo del Signore: “Giosuè era rivestito di vesti sporche e stava in piedi davanti all’angelo, il quale prese a dire a coloro che gli stavano intorno: «Toglietegli quelle vesti sporche!». Poi disse a Giosuè: «Ecco, io ti tolgo di dosso il peccato; fatti rivestire di abiti preziosi»”, il che per noi vale “Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non lasciatevi prendere dai desideri della carne” (Romani 13.14).

Il tema del vestito prelude all’individuazione di colui che non l’aveva, che certo non era il solo ma che Gesù rappresenta, per una migliore immedesimazione degli ascoltatori, in uno: “Ecco, io vengo come un ladro. Beato chi è vigilante e custodisce le sue vesti per non andare nudo e lasciar vedere le sue vergogne” (16.15). Può aiutare anche Apocalisse 19.7,8: “Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui la gloria, perché sono giunte le nozze dell’Agnello; la sua sposa è pronta: le fu data una veste di lino puro e splendente. Le vesti di lino sono le opere giuste dei santi”.

Alla domanda “«Amico – termine generico, non “filos”, ma “epairos” –  come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?», quello ammutolì”, cioè non ebbe argomenti giustificativi, il suo Io che si voleva imporre, è costretto a dissolversi, scomparire.

Era chiara e risaputa l’usanza: l’accettazione dell’invito comportava indossare l’abito che veniva donato. Chi aveva parlato era un re, non una persona qualunque che, anche se così fosse stato, avrebbe dovuto avere il riconoscimento dell’indossare il vestito per gratitudine, adeguamento. Quella persona, però, voleva fare a modo suo, cioè imporre la sua presenza a prescindere dall’uso consueto, ma soprattutto si opponeva chiaramente al volere del re, così insultando non solo lui, ma anche i presenti che si erano adeguati accettando di indossare quanto da lui richiesto.

 

Ecco allora che l’eliminare quella persona oggetto di disturbo, scandalo e inquinamento dell’ambiente, era inevitabile. L’ “uno” presente era un abusivo che, col suo comportamento, non si dimostrava tanto diverso da quelli che “non vollero venire”, anzi, col loro aperto rifiuto si erano dimostrati addirittura più onesti. Amen.

* * * * *

 

16.18 – LA PARABOLA DELLE NOZZE REGALI I/II (Matteo22.1-7)

16.18 – La parabola delle nozze regali I (Matteo 22. 1-7)

 

1 Gesù riprese a parlare loro con parabole e disse: 2«Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. 3Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. 4Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: «Dite agli invitati: Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!». 5Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; 6altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. 7Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città.

8Poi disse ai suoi servi: «La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; 9andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze». 10Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. 11Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. 12Gli disse: «Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?». Quello ammutolì. 13Allora il re ordinò ai servi: «Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti». 14Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

 

Terminata la parabola dei contadini omicidi, la questione con i farisei, i capi dei sacerdoti e gli scribi si concluse solo in apparenza e Gesù “riprese a parlare loro con parabole” dove quel “loro” è da identificarsi nel Suo uditorio nel cortile del Tempio. Erano però presenti anche una parte di quelli che Lo avevano interrotto aggredendolo verbalmente chiedendogli con quale autorità facesse “queste cose”, poiché leggiamo, al termine dell’esposizione, verso 15, che “Allora i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi”.

Quanto racconta Gesù in questo passo è di facile comprensione: è chiaro che parla del Padre, del Suo piano di redenzione (inascoltato) per il Suo popolo Israele e per quelli pagani, questi ultimi visti in “tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni”, ma il testo, come accade sempre anche con le parabole “immediate”, contiene altri elementi cui raramente si fa caso a una prima lettura. In questa prima parte, che prenderà in esame i versi da 1 a 7, ci occuperemo di quanto riguarda Israele perché è a Lui che Nostro Signore si riferisce.

Viene subito inquadrato il tema, quello delle nozze e relativa festa, già conosciuto negli scritti dell’Antico Patto e riferito all’unione fra il Signore Dio e il suo popolo. Isaia 60.10 scrive “Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza, mi ha avvolto con il mantello della giustizia, come uno sposo si mette il diadema e come una sposa si adorna di gioielli”, parole dalle quali rileviamo già un’anticipazione del “vestito” di cui parla la parabola al verso 11: Isaia parla di “vesti della salvezza” e di un “mantello della giustizia” come dono, si tratta di elementi che possono arrivare solo da Lui. Qualsiasi altro abito, come abbiamo letto, sarebbe inadeguato e anche se si trattasse di un’imitazione, non sfuggirebbe agli occhi del re.

Il riferimento allo sposo poi diventa più marcato in 62.3, “Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposeranno i tuoi figli; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te” in cui vediamo il rapporto evidente fra i due prossimi alle nozze e la partecipazione di Dio in un matrimonio ancora una volta purificatore, che cancellerà gli errori del passato perché “Ed io ti sposerò in eterno. E ti sposerò in giustizia, e in giudizio, e in benignità e in compassioni. Anzi, ti sposerò in verità e tu conoscerai il Signore.” (Osea 2. 18,19), quindi fine di tutti i fraintendimenti, l’imperfezione della conoscenza, del cammino con le cadute anche pesanti che costringe a dolorose convalescenze perché purtroppo, quando si tratta di pagare il debito per un peccato o un errore, non esiste anestesia.

C’è poi, oltre al tema delle nozze, quello del convito dal quale traspare, non solo negli scritti dell’Antico, ma anche in quelli del Nuovo Patto, che Sposa e invitati sono la stessa cosa: sempre Isaia scrive “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di vini raffinati. Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni. Eliminerà la morte per sempre”. Cantico 5.1 poi recita “Sono venuto nel mio giardino, sorella mia, mia sposa, e raccolgo la mia mirra e il mio balsamo; mangio il mio favo e il mio miele, bevo il mio vino e il mio latte. Mangiate, amici, bevete, inebriatevi d’amore”.

 

Quindi il re manda i suoi servi agli invitati che, attenzione, non sono persone comuni, ma di alto rango e dignità sociale, quelli che avevano con lui un rapporto particolare che possiamo identificare tanto quelle persone che erano responsabili della formazione, costruzione e mantenimento del rapporto con Dio, quanto in tutta la nazione giudaica poiché con Lei il Signore aveva stipulato il Patto, facendola sua per sempre a tal punto di onorarla invitandola alla festa delle nozze. Quale fu infatti il primo scopo della venuta del Figlio? «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele» (Matteo 15.24).

A questo punto abbiamo il verso 3, l’invio dei servitori agli invitati che però “non volevano venire”: è un rifiuto assurdo. Un re è un re, ordina ciò che vuole, può disporre della vita dei suoi sudditi e la storia umana ci ha insegnato che ben raramente si ha un sovrano che ama il suo popolo e lo governa per farlo prosperare; questo re però è diverso, onora chi ha voluto invitare, non ha secondi fini e qui bisogna prestare molta attenzione perché Gesù fa la storia di Israele solo in parte dando solo un cenno ai tempi antichi, quello della Sapienza che “…si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne. Ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola. Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città: «Chi è inesperto, venga qui!». A chi è privo di senno ella dice: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza»”.

La venuta del Figlio, “nato” e “dato” al tempo stesso, fu l’ultimo tentativo di recupero per un popolo che non voleva ascoltare: “Il Signore vi ha inviato con assidua premura tutti i suoi servi, i profeti, ma voi non avete ascoltato e non avete prestato orecchio per ascoltare quanto vi diceva: «Ognuno abbandoni la sua condotta perversa e le sue opere malvagie; allora potrete abitare nella terra che il Signore ha dato a voi e ai vostri padri dai tempi antichi e per sempre. (…). Ma voi non mi avete ascoltato, oracolo del Signore, e mi avete provocato con l’opera delle vostre mani per vostra disgrazia” (Geremia 25.4).

Il “non vollero venire” emerge tragicamente ancora in Geremia 6.16-17: “Così dice il Signore: «Fermatevi nelle strade e guardate, informatevi dei sentieri del passato, dove sta la strada buona percorretela, così troverete pace per la vostra vita». Ma essi hanno risposto: «Non la prenderemo», Ho posto delle sentinelle per vigilare su di voi: «Fate attenzione al suono del corno!». Hanno risposto: «Non ci baderemo»”. Si risponde anche coi fatti, che parlano più delle parole.

Ora, il “non vollero venire” viene confermato anche di fronte alla descrizione di cosa gli invitati avrebbero trovato alla festa, che non interessò minimamente i destinatari del messaggio: “Ecco, ho preparato il mio pranzo, i miei buoi e gli animali ingrassati sono stati uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!” (v.4), parole portate da “altri servi”, quelli che operano in un secondo tempo in cui identifichiamo gli apostoli che non parlano solo di nozze, ma di cosa e come sarebbero state celebrate, quindi un tema nuovo, più dettagliato, che rimane non solo inascoltato, ma sostituito da altri irrilevanti perché “quelli non se ne curarono, ma andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero”.

Primo punto è “non se ne curarono”, comportamento di chi, sapendo già cosa è importante per lui, scarta l’invito ricevuto, della serie “ho di meglio da fare”. Esempio antico in proposito lo troviamo in Salmo 106.24,25 riferito ai tempi di Mosè, ”Rifiutarono una terra di delizie e non credettero alla sua parola. Mormorarono nelle loro tende, non ascoltarono la voce del Signore”. Prima ancora i generi di Lot, che quando disse loro di alzarsi e uscire da Sodoma perché il Signore stava per distruggerla, è scritto che “sembrò loro che egli volesse scherzare” (Genesi 19.14).

E si badi che quel “non se ne curarono” è riferito non a gente comune, ma ad appartenenti ad un popolo che il Messia lo aspettava e aveva tutti gli elementi della Parola di Dio per poterlo riconoscere. L’invito che ricevono non è da un re sconosciuto, ma dal loro e per quanto riguarda i tre verbi impiegati riguardo ai servi, cioè “presi”, “insultarono” – altri traducono “trattarono villanamente” – e “uccisero” i riferimenti sono, per il tempo in cui furono pronunciati, profetici perché li troviamo adempiuti nel libro degli Atti, con gli arresti e la prigionia degli Apostoli (4.3; 5.18; 8.3), poi l’insulto è quello corporale, quando furono flagellati (5.40), Paolo fu lapidato e portato fuori dalla città di Listra creduto morto (14.19) e subì un’aggressione violenta che si concluse con l’intervento delle guardie del Tempio: “Afferrarono Paolo, lo trascinarono fuori dal tempio e subito furono chiuse le porte. Stavano già cercando di ucciderlo, quando fu riferito al comandante della coorte che tutta Gerusalemme era in agitazione. Immediatamente egli prese con sé dei soldati e dei centurioni e si precipitò verso di loro. Costoro alla vista del comandante e dei soldati, cessarono di percuotere Paolo”.

Riguardo all’uccisione, infine, ricordiamo i due martiri del Nuovo Testamento, Stefano (7.58), morto lapidato, e Giacomo, fratello di Giovanni, primo fra gli apostoli a morire per mano persecutrice di Erode Agrippa, trafitto con la spada (12.2).

 

È stato detto che gli “altri servi” di cui Gesù parla in questa parabola non sono i profeti dell’Antico Patto, ma del Nuovo; questo lo dice Lui stesso nella Sua invettiva ai Farisei che dobbiamo ancora esaminare: “Ecco, io mando a voi profeti, sapienti e scribi: di questi, alcuni li ucciderete, altri li flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città; perché ricada su di voi tutto il sangue innocente versato sulla terra, dal sangue di Abele il giusto fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia, che avete ucciso tra il santuario e l’altare. In verità vi dico: tutte queste cose ricadranno su questa generazione” (Matteo 23.34 e segg).

Sono queste ultime azioni a suscitare l’ira del re, che da amabile ospitante si trasforma in esecutore: manda le sue truppe, fa uccidere gli assassini e dà alle fiamme la loro città, quella definita da Gesù stesso “del gran re” (Matteo 5.35). Facile identificare in queste “truppe” in quelle romane, che diventano “sue” perché usate come strumento di giudizio.

È anche interessante notare che qui la città di Gerusalemme, chiamata anche “La città di Dio”, viene detta “La loro”, a sottolineare come il Signore si estranei da lei (nonostante l’amore che le porta) esattamente come avvenne, ad esempio, quando il popolo si fece il vitello d’oro ai tempi di Mosè, quando leggiamo “Il tuo popolo si è corrotto” (Esodo 32.7) anziché “Il mio popolo”. Non è solo una curiosità linguistica, ma la descrizione di un fatto enormemente tragico, quello del volto di Dio che si ritira dall’uomo e lo lascia ad un destino terribile quanto inevitabile, quello di essere in totale balìa degli eventi, privo della Sua protezione.

E a questo punto emergono le parole di Proverbi da 1.24: “…vi ho chiamati, ma avete rifiutato, ho steso la mia mano e nessuno se ne è accorto. Avete trascurato ogni mio consiglio e i miei rimproveri non li avete accolti; anch’io riderò delle vostre sventure, mi farò beffe quando su di voi verrà la paura, quando come una tempesta vi piomberà addosso il terrore, quando la disgrazia vi raggiungerà come un uragano, quando vi colpiranno angoscia e tribolazione. Allora mi invocheranno, ma io non risponderò, mi cercheranno, ma non mi troveranno”. Amen.

* * * * *