16.30 – IL SERMONE PROFETICO III: GUERRE E RUMORI DI GUERRE (Matteo 24.4-8)

16.30 – Il sermone profetico 3: Guerre e voci di guerre (Matteo 24.4-8)

6E sentirete di guerre e di rumori di guerre. Guardate di non allarmarvi, perché deve avvenire, ma non è ancora la fine. 7Si solleverà infatti nazione contro nazione e regno contro regno; vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi: 8ma tutto questo è solo l’inizio dei dolori.

Incontriamo per la prima volta (v.6) la parola “fine” che per bocca di Gesù leggeremo per tre nel corso di questa prima parte che potremmo definire “l’inizio dei dolori”. Anche qui, per quanto la “fine” sia un chiaro riferimento alla domanda dei discepoli sulla “fine del mondo”, estenderei il concetto anche su quella di Gerusalemme nell’anno 70, dando prevalenza comunque a ciò che è “fine” secondo il greco “télos” cioè “compimento, termine”, ma anche “morte”, quindi qualcosa di definitivo dal quale è impossibile tornare indietro. Fine quindi del mondo che conosciamo con l’avvento di quello nuovo, e della città che tanto rappresentava per il popolo di Israele che però, avendo rifiutato l’Emanuele, il “Dio con noi”, non aveva più senso di esistere; per lo meno, godendo delle benedizioni di Dio che aveva avuto.

Veniamo al verso 6, “E sentirete di guerre e rumori di guerre”, che andrebbe tradotto con “Siete sul punto di sentire di guerre e voci di guerre”, quindi conflitti in atto o in fase di preparazione che minacciano di accadere. Per la doppia valenza che diamo alle parole contenute nel sermone profetico, vediamo brevemente il periodo degli anni precedenti il 70 d.C. in cui l’impero romano era in preda a grandi agitazioni: quattro imperatori, Nerone, Galba, Otone e Vitellio, muoiono di morte violenta nello spazio di un anno e mezzo. Nerone si suicida nel 68, gli altri vengono uccisi dai pretoriani (Galba), dai soldati di Vespasiano (Vitellio), un altro ancora si suicida (Otone), questi ultimi tre tutti nel 69. Giuseppe Flavio parla di molti conflitti causati dall’odio nazionale fra i Giudei di Persia e i loro vicini nei territori pagani, oltre a quelli tra gli abitanti di Cesarea e i Giudei. A Babilonia ne morirono uccisi 50mila ed altrettanti in varie città assire e “voci di guerre” giunsero alle orecchie dei Giudei quando gli imperatori Caligola, Claudio e Nerone minacciarono di spedire contro di loro i loro eserciti, cosa che poi non fecero. Caligola, addirittura, intendeva far porre una propria statua nel Tempio ed essere venerato come un Dio; ciò avvenne nel 40 ma, lui morendo nel 41, il progetto non ebbe seguito.

L’anno 66, poi, fu particolarmente significativo sia per una violenta repressione romana ad Alessandria d’Egitto a causa di conflitti fra Greci ed Ebrei in cui morirono altre 50mila persone, senza contare lo scoppiare di più rivolte a Gerusalemme che sfociarono in vere e proprie battaglie che causarono seimila morti.

Quanto alla trasposizione delle parole del verso 6 ai nostri tempi, credo che vi sia poco da rilevare salvo che l’esistenza di “guerre e voci di guerre” sia sempre esistita e gli ultimi due conflitti mondiali testimonino, a parte la follia dell’uomo, il fatto che non sia per forza il caso di gridare agli “ultimi tempi” non perché non li siano in senso letterale, ma in quanto la cristianità è in essi da sempre e questo stato di cose è uno degli innumerevoli messaggi contenuti nel Vangelo. I cristiani non si devono spaventare o pensare a una fine imminente che obbedisca ai loro orologi, ma meditare sul fatto che “deve avvenire (tutto questo), ma non è ancora la fine” che avverrà solamente quando “Questo Vangelo del Regno sarà annunciato in tutto il mondo, perché ne sia data testimonianza a tutti i popoli; e allora verrà la fine” (v. 14), che ritengo sia un altro indicatore importante.

Al momento in cui scrivo queste riflessioni, a parte la conosciuta guerra fra Russia e Ukraina, che sarebbe terminata da tempo se non ci fossero interferenze e aiuti interessati da Stati Uniti ed Europa, i conflitti in atto sono 59, per non parlare di quelli minacciati o taciuti.

Abbiamo letto che “deve avvenire (tutto questo)” – le parole tra parentesi non sono tradotte nel testo –, quindi si tratta di eventi inevitabili perché l’uomo senza Cristo non può che cercare di prevalere sul proprio simile, tramare ai suoi danni, depredarlo. La carne è sempre pronta a portare rovina ovunque e lo vediamo anche nella Chiesa che ha conosciuto e conosce da sempre periodi terribili in cui l’amore non è stato predicato né praticato. Spesso ho sentito dire, e mi sono trovato anche d’accordo, che Gesù Cristo ha vinto, ma il Cristianesimo – quello “ufficiale” – ha fallito e sotto certi aspetti è un’affermazione che non è possibile contestare. Ora anche questo rientra nel “tutto questo deve avvenire” perché lo spirito dell’uomo è inevitabile che si manifesti, in un modo o in un altro.

Il verso 7 va invece diviso in due parti, la cui prima solo apparentemente è un richiamo alle guerre, perché “si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno” suggerisce più l’idea di un complottare generale di un popolo a danno dell’altro quasi in momenti di isteria collettiva, cosa che a mio parere può essere vista nelle coalizioni degli Stati, e penso alla NATO, all’UE, in cui solo apparentemente esiste unità d’intenti, ma covano sotto traccia tutta una serie di risentimenti e rivendicazioni che, per ora, non sfociano in conflitti aperti solo perché ci sono interessi più grandi da difendere. Il sollevarsi di “una gente contro l’altra ed un regno contro l’altro” (secondo una traduzione diversa) è una frase che testimonia ancora una volta l’impossibilità di avere pace duratura al di fuori dell’amore di Dio. Anzi, tanto più l’uomo si allontana da Lui, tanto più si avvicina alla rovina.

Seguono a questo punto due “flagelli” visti nelle “carestie e terremoti in vari luoghi”, tre secondo altri che traducono “pestilenze, fami e terremoti”, questo sia come conseguenza delle guerre (le carestie e la fame) che come fatti autonomi.

Anche qui abbiamo un riferimento all’antichità: Tacito, Svetonio, Eusebio e Flavio parlano del fatto che una grande carestia afflisse Roma, l’Egitto, la Grecia e la Palestina sotto il regno di Claudio nel 48 circa, tra l’altro profetizzata da Agabo in Atti 11.28: “In quei giorni alcuni profeti scesero da Gerusalemme ad Antiochia. Uno di loro, di nome Agabo, si alzò in piedi e annunciò, per impulso dello Spirito, che sarebbe scoppiata una grande carestia su tutta la terra”. Tacito narra che, nell’anno 65, a Roma morirono 30mila persone di peste e, riguardo ai terremoti, abbiamo quello di Creti (Toscana) nel 46, a Roma nel 51, in Apamea (Siria) nel 53, in Campania nel 58, poi a Laodicea nel 60 e l’ultimo in Palestina nel 67.

Se poi andiamo a Luca 21.11 abbiamo altri riferimenti, cioè “vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo”, altro riferimento che richiede due distinte collocazioni, la prima delle quali, come sempre, nell’epoca anteriore alla presa di Gerusalemme: leggiamo Giuseppe Flavio che, mentre descrive quanto avvenuto in città a quel tempo, descrive dei fenomeni molto particolari: “A causare la loro morte (di molti ebrei radunatisi al piazzale esterno del Tempio) fu un falso profeta che in quel giorno aveva proclamato agli abitanti della città che il Dio comandava loro di salire al Tempio per ricevere i segni della salvezza. E in verità allora, istigati dai capi ribelli, si aggiravano tra il popolo numerosi profeti che andavano predicando di aspettare l’aiuto del Dio, e ciò per distogliere la gente dalla diserzione e per far coraggio a chi non aveva nulla da temere da loro e sfuggiva al loro controllo. Nella disgrazia l’uomo è pronto a credere, e quando l’ingannatore fa intravedere la fine dei mali incombenti, allora il misero s’abbandona tutto alla speranza. Così il popolo fu allora abbindolato da ciarlatani e da falsi profeti, senza più badare né prestar fede ai segni manifesti che preannunziavano l’imminente rovina. Quasi fossero stati frastornati dal tuono e accecati negli occhi e nella mente, non compresero gli ammonimenti di Dio. Come quando sulla città apparvero un astro a forma di spada e una cometa che durò un anno. O come quando, prima che scoppiassero la ribellione o la guerra, essendosi il popolo radunato per la festa degli Azzimi nell’ottavo giorno del mese di Xanthico, all’ora nona della notte l’altare e il Tempio furono circonfusi d’un tale splendore, che sembrava di essere in pieno giorno, e il fenomeno durò mezzora: agli inesperti sembrò di buon augurio, ma dai sacri scribi fu subito interpretato in conformità di ciò che accadde dopo. Durante la stessa festa, una vacca che un tale menava al sacrificio partorì un agnello in mezzo al sacro recinto; inoltre, la porta orientale del Tempio, quella che era di bronzo e assai massiccia, sì che la sera a fatica venti uomini riuscivano a chiuderla, e veniva sprangata con sbarre legate in ferro e aveva dei paletti che si conficcavano assai profondamente nella soglia costituita da un blocco tutto d’un pezzo, all’ora sesta della notte fu vista aprirsi da sola. Le guardie del santuario corsero a informare il comandante, che salì al Tempio e a stento riuscì a farla richiudere. Ancora una volta questo parve agli ignari un sicurissimo segno di buon augurio, come se il Dio avesse spalancato a loro la porta delle sue grazie; ma gli intenditori compresero che la sicurezza del santuario era finita di per sé e che l’aprirsi della porta rappresentava un dono per i nemici, e pertanto interpretarono in cuor loro il prodigio come preannunzio di rovina. Non molti giorni dopo la festa, il ventuno del mese di Artemisio, apparve una visione miracolosa cui si stenterebbe a prestar fede; e in realtà, io credo che ciò che sto per raccontare potrebbe apparire una favola, se non avesse da una parte il sostegno dei testimoni oculari, dall’altra la conferma delle sventure che seguirono. Prima che il sole tramontasse, si videro in cielo su tutta la regione carri da guerra e schiere di armati che sbucavano dalle nuvole e circondavano le città. Inoltre, alla festa che si chiama la Pentecoste, i sacerdoti che erano entrati di notte nel tempio interno per celebrarvi i soliti riti riferirono di aver prima sentito una scossa e un colpo, e poi un insieme di voci che dicevano: «Da questo luogo noi ce ne andiamo». Ma ancora più tremendo fu quest’altro prodigio. Quattro anni prima che scoppiasse la guerra, quando la città era al culmine della pace e della prosperità, un tale Gesù figlio di Anania, un rozzo contadino, si recò alla festa in cui è uso che tutti costruiscano tabernacoli per il Dio e all’improvviso cominciò a gridare nel tempio: «Una voce da oriente, una voce da occidente, una voce dai quattro venti, una voce contro Gerusalemme e il tempio, una voce contro sposi e spose, una voce contro il popolo intero». Giorno e notte si aggirava per tutti i vicoli gridando queste parole, e alla fine alcuni dei capi della cittadinanza, tediati di quel malaugurio, lo fecero prendere e gli inflissero molte battiture. Ma quello, senza né aprir bocca in sua difesa né muovere una specifica accusa contro chi lo aveva flagellato, continuò a ripetere il suo ritornello. Allora i capi, ritenendo – com’era in realtà – che quell’uomo agisse per effetto di una forza sovrumana, lo trascinarono dinanzi al governatore romano. Quivi, sebbene fosse flagellato fino a mettere allo scoperto le ossa, non ebbe un’implorazione né un gemito, ma dando alla sua voce il tono più lugubre che poteva, a ogni battitura rispondeva: «Povera Gerusalemme!». Quando Albino, che era il governatore, gli fece domandare chi fosse, donde provenisse e perché lanciasse quella lamentazione, egli non rispose, ma continuò a compiangere il destino della città finché Albino sentenziò che si trattava di pazzia e lo lasciò andare. Fino allo scoppio della guerra egli non si avvicinò ad alcun cittadino né fu visto parlare con alcuno, ma ogni giorno, come uno che si esercitasse a pregare, ripeteva il suo lugubre ritornello: «Povera Gerusalemme!». Né imprecava contro quelli che, un giorno l’uno un giorno l’altro, lo percuotevano, né benediceva chi gli dava qualcosa da mangiare; l’unica risposta per tutti era quel grido di malaugurio, che egli lanciava soprattutto nelle feste. Per sette anni e cinque mesi lo andò ripetendo senza che la sua voce si affievolisse e senza provar stanchezza, e smise solo all’inizio dell’assedio, quando ormai vedeva avverarsi il suo triste presagio. Infatti un giorno che andava in giro sulle mura gridando a piena gola: «Ancora una volta, povera la città, e povero il popolo, e povero il tempio!», come alla fine aggiunse: «E poveretto anche me!», una pietra scagliata da un lanciamissili lo colpì uccidendolo all’istante, ed egli spirò ripetendo ancora quelle parole” (Guerra Giudaica, Libro VI, 298-309).

La storiografia moderna, alla luce di alcuni dati raccolti, tende a sminuire le cronache di Giuseppe Flavio, indubbiamente esagerate quando parla del numero dei morti soprattutto nell’assedio e presa di Gerusalemme del 70, per cui anche il racconto che abbiamo letto non è escluso possa essere arricchito di particolari suggestivi, ma certo è che soprattutto la presenza dei falsi profeti e dei fenomeni nel cielo sono indizi particolarmente importanti.

Concludendo, anche questo verso ci parla della visione storica perfetta di Gesù e di quanto sia limitata la nostra: non siamo in grado di tener conto del passato per farne tesoro, ma vogliamo sempre vivere il presente, con la presunzione (o sperando) che il futuro sia uguale a lui. L’uomo, più o meno consciamente, ragiona così, fa così. Ma si troverà a fare i conti con l’orologio di Dio, che dalla Sua perfetta eternità vuole liberare chi crede nel Suo amato Figlio. Amen.

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16.29 – IL SERMONE PROFETICO II: L’INGANNO (MAtteo 24.4-8)

16.29 – Il sermone profetico II: L’inganno (Matteo 24.4-8)

 

4Gesù rispose loro: «Badate che nessuno vi inganni! 5Molti infatti verranno nel mio nome, dicendo: «Io sono il Cristo», e trarranno molti in inganno. 

 

È indubbio che l’analisi del sermone profetico di Gesù ai Suoi sia uno dei compiti più ardui di tutto il Vangelo stante i motivi accennati nello scorso capitolo e che la stessa difficoltà si riscontri anche nell’organizzarne l’esposizione perché, se la si affronta considerando verso per verso, si rischia di non avere la visione dell’insieme che credo sia la più importante. Essendo però lo scopo di queste riflessioni sul Vangelo quello di fornire degli stimoli di riflessione e approfondimento individuale e non quello di stabilire verità assolute, ciascuno potrà sviluppare con appunti personali e raggruppare i temi trattati da Nostro Signore secondo le sue necessità.

Affrontare i capitoli 24 e 25 del Vangelo di Matteo, tra l’altro, non può essere fatto senza riferimenti a quelli di Marco 13 e di Luca 21, indispensabili per completare il testo del primo evangelista, che come sappiamo scrive fondamentalmente per lettori ebrei. Dobbiamo anche tenere presente che, a differenza degli ascoltatori o lettori che ci hanno preceduto per una ventina di secoli circa, la nostra posizione è avvantaggiata proprio perché abbiamo un patrimonio di dati storici che ci consentono di risolvere alcuni punti che, per gli antichi cristiani, erano molto più difficili da interpretare. Leggendo alcuni commentari ho notato che gli autori tendono a considerare quanto profetizzato da Gesù in senso unilaterale: ad esempio ho notato che vi è chi confina le Sue parole unicamente alla distruzione di Gerusalemme o proietta le sue considerazioni contestualizzandole in un futuro ancora a venire, a mio parere sbagliando perché i riferimenti che il Figlio di Dio riguardano, come vedremo, entrambi i periodi.

 

Delle sette parti in cui si divide il sermone profetico la prima riguarda la “fine”, vale a dire quel punto fermo che Dio metterà (come da sempre) per porre termine alle pretese di autonomia dell’uomo che si vuole svincolare da Lui come avvenne, appunto, “ai giorni di Noè”. Al tempo stesso abbiamo anche una valenza molto più immediata, vale a dire la “fine” di quel sistema religioso che aveva in Gerusalemme e nel Tempio il suo massimo punto di riferimento. I credenti al tempo degli Apostoli, quindi, avrebbero avuto in queste parole di Gesù una guida atta a porli nella condizione di riconoscere i tempi esattamente come lo abbiamo noi oggi per quanto riguarda le analoghe manifestazioni da Lui descritte.

Ciò a cui dobbiamo fare caso, per ora, è che Gesù inizia il suo discorso non con un elenco di segni o eventi come i discepoli Gli avevano chiesto, ma con un avvertimento: “Badate che nessuno vi inganni”, o “vi seduca”, proponendo così due temi, l’attenzione estrema che loro – e quindi per relazione i cristiani – avrebbero dovuto porre verso chi li avrebbe voluti “ingannare”, cioè portarli deliberatamente a una falsa opinione, a un errore di valutazione, a un’illusione. E quando si parla di “inganno” non può che venire alla mente quello più grande, subito dai nostri progenitori, quando Eva fu indotta a prendere il frutto proibito in Eden e a darlo al marito. Se l’inganno è perpetrabile solo con la menzogna, ecco che l’Avversario è definito suo padre (Giovanni 8.44) quindi se ne serve e lo utilizzerà, proprio riguardo all’argomento che esporrà Gesù, in modo estremamente mirato: “Sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno segni e prodigi da sedurre, se fosse possibile, anche gli eletti” (Marco 13. 22). Prima della Sua “venuta” e della “fine”, dovrà trascorrere allora un periodo pieno di travisamenti e frodi spirituali, oltre che caratterizzato da eventi terribili per l’umanità di cui Gesù parlerà nei versi successivi. Se poi, come hanno scelto altri traduttori, all’inganno si pone la seduzione, il senso è ancora più forte, perché sedurre significa “portare a sé”, quindi a una persona che ha fini diversi dal modo di essere del proprio bersaglio: suo scopo è quello di utilizzarlo per i propri fini e poi abbandonarlo.

Riguardo al fuorviare, si può dire sia un’attività cui l’Avversario si dedica con ostinazione ed estrema cura da sempre: Così dice il Signore degli eserciti, Dio d’Israele: Non vi traggano in errore i profeti che sono in mezzo a voi e i vostri indovini; non date retta ai sogni che essi sognano, perché falsamente profetizzano nel mio nome: io non li ho inviati” (Geremia 29.8,9). Se un profeta non è inviato da Dio, va da sé che agisca anche nella Chiesa in nome e per conto dell’Avversario.

Da qui, verso non certo unico nel panorama dell’Antico Patto, andiamo al Nuovo che è molto più dettagliato in cui vediamo che il terreno prediletto dell’inganno è proprio la Chiesa in cui opereranno lupi che si fingeranno agnelli, quindi spiriti distruttori simulanti una volontà di costruire. E già qui si sottolinea l’inganno perché, se costoro agissero con fini e modi chiaramente perversi, nessuno si lascerebbe sedurre: “Questi tali sono falsi apostoli, lavoratori fraudolenti, che si mascherano da apostoli di Cristo. Ciò non fa meraviglia, perché anche Satana si maschera da angelo di luce. Non è perciò gran cosa se anche i suoi ministri si mascherano da ministri di giustizia; ma la loro fine sarà secondo le loro opere” (2 Corinti 11. 12-15). L’avvertimento quindi è “Nessuno vi inganni con argomenti seducenti” (Colossesi 2.4) e non è un caso se tutte le dottrine estranee al Vangelo e le sette che si pretendono cristiane (penso ai Testimoni di G. o ai Mormoni) partono proprio dalla fede in un unico Dio: prendono versi dalla Scrittura e ne distorcono il senso, ma sempre con argomenti apparentemente logici sui quali poi costruiscono teorie e dogmi atroci e che le menti non formate accolgono. Non esiste setta che non si ritenga depositaria di una verità rivelata esclusivamente ai suoi membri e di pratiche che altri non hanno, che non li faccia sentire come dei privilegiati e degli illuminati non dal Vangelo, ma dalle dottrine professate che hanno un fondamento solo apparente.

Pietro stesso, che ascoltò proprio le parole del suo Maestro, scrisse: “Ci sono stati anche falsi profeti tra il popolo, come pure ci saranno in mezzo a voi falsi maestri, i quali introdurranno fazioni che portano alla rovina, rinnegando il Signore che li ha riscattati. Attirando su se stessi una rapida rovina, molti seguiranno la loro condotta immorale e per colpa loro la via della verità sarà coperta di disprezzo. Nella loro cupidigia vi sfrutteranno con parole false; ma per loro la condanna è in atto ormai da tempo e la loro rovina non si fa attendere” (2 Pietro 2.1-3).

L’antidoto a tutto questo è la Chiesa che, attraverso la presenza di apostoli, pastori, maestri ed evangelisti, ha lo scopo di condurre “tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la pienezza di Cristo – questa è la nostra destinazione –. Così non saremo più fanciulli in balìa delle onde. Trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, ingannati dagli uomini con quell’astuzia che trascina all’errore” (Efesi 4.11-14). È quindi la maturità e la conoscenza che vanno cercate una volta avuto il dono della salvezza, iniziando quel cammino fatto di scelte e studio, cercando la dottrina, la sola che possa evitare di essere “in balìa delle onde”, quindi faticare e affannarsi restando fermi col pericolo di annegare, e “trasportati qua e là”, cioè senza arrivare a un dove preciso, ovunque tranne che dove dovremmo essere, “da qualsiasi vento” – di cui sconosciamo l’origine – “di dottrina”, quindi qualcosa che si maschera di certezza, di autorevolezza.

 

Ora affrontiamo quello che è il primo tema, cioè “Molti verranno nel mio nome dicendo: «Io sono il Cristo» e trarranno molti in inganno”. Abbiamo due letture possibili, entrambe esatte, che si riferiscono sia al tempo di Gesù che a quello futuro. Certo nella nostra storia non abbiamo chi ha preteso di essere il Figlio di Dio, ma molte persone, rivestitesi di autorità, che hanno dato origine a movimenti che di cristiano hanno solo l’aggettivo. Nella frase “Io sono il Cristo” però non dobbiamo vedere solo chi si spaccia per Messia, ma soprattutto come guida, come riferimento, mette in atto strategie per distogliere dalla fede o impedire di pervenire ad essa, e allora gli esempi sono veramente tanti: movimenti politici di opinione, organizzazioni che vorrebbero instaurare una morale “nuova” che porti l’uomo ad essere “libero” da leggi morali, classificate come pregiudizi.

 

Con le Sue parole, comunque, Gesù si riferisce in particolare a quegli eventi che si sarebbero verificati prima della distruzione di Gerusalemme perché sappiamo che proprio nel periodo, sia precedente che posteriore alla Sua nascita, c’era la convinzione che sarebbe arrivato il Messia e, non avendo accolto Israele Gesù di Nazareth, seguì altri, anche se non come popolo intero.

Ora vanno tenute presente le parole ai farisei “Io sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi accogliete; se un altro venisse nel mio nome, lo accogliereste. E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” (Giovanni 5.43,44) che in un certo senso anticipa di duemila anni l’accoglienza che Israele darà al “falso profeta” destinato a sedurre lui e le nazioni al tempo della fine.

Qui comunque, in primo luogo, Gesù fa riferimento a tutti coloro che avrebbero sedotto il popolo attraverso prodigi o promesse che non avrebbero potuto realizzare e mantenere. Sotto questo aspetto, ad esempio, possiamo includere il mago Simone, operante in una città della Samaria che “praticava la magia e faceva strabiliare gli abitanti della Samaria, spacciandosi per un grande personaggio. A lui prestavano attenzione tutti, piccoli e grandi, e dicevano: «Costui è la grande potenza di Dio, quella che è chiamata grande»!” (Atti 8.9).

Poi, interessante è ciò che avvenne nel 44 circa, quando operò un certo Teuda, non quello menzionato da Gamaliele in Atti 5.36, di cui Giuseppe Flavio scrive nelle sue Antichità Giudaiche: “Durante il periodo in cui Fado era procuratore della Giudea, un certo sobillatore di nome Teuda persuase la maggior parte della folla a prendere le proprie sostanze e a seguirlo fino al fiume Giordano. Affermava di essere un profeta al cui comando il fiume si sarebbe diviso aprendo loro un facile transito. Con questa affermazione ingannò molti. Fado però non permise loro di raccogliere il frutto della loro follia e inviò contro di essi uno squadrone di cavalleria che piombò inaspettatamente contro di essi uccidendone molti e facendone altri prigionieri; lo stesso Teuda fu catturato, gli mozzarono la testa e la portarono a Gerusalemme. Questi furono gli eventi che accaddero ai Giudei nel periodo in cui era procuratore Cuspio Fado” (XX. 97. V.1 e segg.)

C’è un particolare interessante in Atti 21.38 quando Paolo si rivolse al comandante delle guardie parlando in greco. Questi, stupito, gli rispose: “Allora non sei tu quell’egiziano che in questi ultimi tempi ha sobillato e condotto nel deserto i quattromila ribelli?”; se non avessimo il testo di Guerre Giudaiche II:258 – 13, 4 e oltre, non potremmo inquadrare le sue parole, per noi utili anche per il tema che stiamo trattando: “…oltre a questi, si formò un’altra banda di delinquenti: le loro mani erano meno lorde di sangue ma le loro intenzioni non erano meno empie, sì che il danno da essi inferto al benessere della città non restò inferiore a quello arrecato dai sicari. Individui falsi e bugiardi, fingendo di essere ispirati da Dio e macchinando disordini e rivoluzioni, spingevano il popolo al fanatismo religioso e lo conducevano nel deserto promettendo che ivi Dio avrebbe mostrato loro segni premonitori della liberazione. Contro costoro Felice, considerandoli come istigatori alla ribellione, mandò truppe a cavallo e a piedi e ne fece gran strage. Ma guai ancor maggiori attirò sui giudei il falso profeta egiziano. Arrivò infatti nel paese un ciarlatano che, guadagnatasi la fama di profeta, raccolse una turba di circa trentamila individui che s’erano lasciati abbindolare da lui, li guidò dal deserto al monte detto degli ulivi e di lì si preparava a piombare in forze su Gerusalemme, a battere la guarnigione romana e a farsi signore del popolo con l’aiuto dei suoi seguaci in armi. Felice prevenne il suo attacco affrontandolo con i soldati romani, e tutto il popolo collaborò alla difesa sì che, avvenuto lo scontro, l’egizio riuscì a scampare con alcuni pochi, la maggior parte dei suoi seguaci furono catturati o uccisi mentre tutti gli altri si dispersero rintanandosi ognuno nel suo paese. Ma dopo che anche questi furono domati, si verificò di nuovo un’infiammazione da un’altra parte, come in un corpo malato. Infatti i ciarlatani e i briganti, riunitisi insieme, istigavano molti a ribellarsi e li incitavano alla libertà, minacciando di morte chi si sottometteva al dominio dei romani e promettendo che avrebbero fatto fuori con la violenza chi volontariamente si piegava alla schiavitù. Distribuitisi in squadre per il paese, saccheggiavano le case dei signori, che poi uccidevano, e davano alle fiamme i villaggi, sì che tutta la Giudea fu piena delle loro gesta efferate. La gravità di questa guerra andava crescendo di giorno in giorno”.

 

Concludendo le riflessioni su questo verso, se è vero che è adattabile a qualunque epoca, va data preponderanza al fatto che i primi cristiani avrebbero dovuto essere risparmiati dalle atrocità dell’assedio di Gerusalemme e avrebbero dovuto interpretare correttamente i tempi proprio a partire dai falsi Cristi, quindi dai presunti Messia, che sarebbero sorti. Allo stesso modo i credenti venuti dopo hanno avuto modo di vedere molti “condottieri del popolo”, conquistatori, imperatori e duci di ogni nazione operare presentando modelli di società, sostenere e creare religioni poi miseramente crollate una volta raggiunto il loro apice. Per quanto mi riguarda, non ci rimane che attendere l’ultimo, quello più terribile, dal quale la Chiesa sarà però risparmiata. Amen.

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16.28 – IL SERMONE PROFETICO, INTRODUZIONE (Matteo 24.1-3)

16.28 – Il sermone profetico 1: Introduzione (Matteo 24.1-3)

1 Mentre Gesù, uscito dal tempio, se ne andava, gli si avvicinarono i suoi discepoli per fargli osservare le costruzioni del tempio. 2Egli disse loro: «Non vedete tutte queste cose? In verità io vi dico: non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sarà distrutta».3Al monte degli Ulivi poi, sedutosi, i discepoli gli si avvicinarono e, in disparte, gli dissero: «Di’ a noi quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo».

Il sermone profetico di Gesù, altrimenti conosciuto come “discorso escatologico”, è una monumentale descrizione degli eventi futuri che riguardano la cristianità, tanto antica che presente e futura, riportato dai Sinottici in base alle sottolineature che si prefiggono. Non abbiamo, nella trattazione di Gesù, una chiara divisione per argomenti, cioè una distinzione precisa di quanto avverrà nel tempo, un “da” “a” in circa venti secoli di storia, ma continue incursioni ora in un momento ora in un altro, parallelismi ambivalenti in risposta alla domanda che “i discepoli”, cioè “Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea” (Marco 13.3) gli rivolsero “in disparte”: “Di’ a noi quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo”. Sono tre fatti ben precisi, secondo il nostro avvertire il tempo che scorre, molto lontani tra loro. Ecco allora che Gesù, potremmo dire “confidò” a quattro persone a Lui vicine i segni indicativi dei tempi, lasciando a loro il compito di rivelarli ad altri, come poi fecero.

I versi che ci accingiamo ad analizzare, parte dei quali già affrontati quando abbiamo riflettuto su Luca 17, costituiscono una sorta di prefazione agli effettivi contenuti anticipatori di eventi, ma sono ugualmente importanti per capire cosa mosse i discepoli a quella triplice domanda e soprattutto cosa videro prima di porla e quali raccordi fecero nella loro mente.

Gesù, commentato il gesto della vedova povera, decise che era tempo di far ritorno a Betania e uscì dal Tempio coi Suoi. Qui è d’obbligo una precisazione e cioè: secondo Marco, la sera del mercoledì, avvenne il famoso convito in casa di Simone il Lebbroso in cui Maria, sorella di Marta, unse col proprio olio Gesù: il suo gesto assumerebbe un’enorme valenza profetica rispetto alla collocazione da me fatta dopo la resurrezione di Lazzaro. L’unzione di Gesù, con tutti i suoi significati, secondo Marco avrebbe preceduto di pochissimo il Suo arresto e Passione.

Va riconosciuto che l’episodio dell’unzione è collocato da Marco il mercoledì sera della settimana della Passione, da Giovanni “Sei giorni prima della Pasqua”, con Matteo che pare concordare col primo, pur non suddividendo i giorni.

 

Cosa avvenne all’uscita dal Tempio? Il gruppo prese subito la via verso il monte degli Ulivi, che prima costeggiava tutta quella enorme costruzione per poi salire, mostrandola in tutta la sua magnificenza. Lungo questa parte del percorso era impossibile non notare quanto il Tempio fosse imponente. Notizie in merito le abbiamo da Giuseppe Flavio sia nelle Antichità che nelle Guerre Giudaiche: “Il tempio inferiore, nella parte più bassa, fu dovuto tener su con muri di 300 cubiti (circa 160 m) e in certi posti anche di più: tuttavia l’intera profondità delle fondamenta non appariva perché i costruttori colmarono buona parte dei burroni volendo livellare le stradicciole della città. Nella costruzione delle fondamenta furono impiegate pietre di 40 cubiti di grandezza (20 m). Di tali fondamenta erano degne anche le fabbriche sovrastanti. Doppi erano infatti i portici, e sostenuti da colonne di 25 cubiti di altezza (12,50 m) che erano monoliti di marmo bianchissimo ricoperti con impalcature di cedro; la loro magnificenza naturale, la levigatura e l’aggiustamento offrivano uno spettacolo ammirevole” (Guerre, V. 188-191). Alla costruzione avevano lavorato 10mila uomini, dopo essere stati addestrati a fare i muratori e i carpentieri.

Impossibile quindi che il Tempio, al di là del significato religioso che aveva, non destasse sentimenti di profonda ammirazione, gli stessi che si possono provare di fronte alle nostre grandi cattedrali con tutta la simbologia che racchiudono, il linguaggio dei gesti raffigurato soprattutto nei portali, i labirinti, ecc.

Ebbene Marco ci riferisce che, lungo il cammino, “Uno dei suoi discepoli gli disse: «Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!»” (13.1). Sono convinto che, se ci chiedessimo cosa provasse quel discepolo (forse Pietro?) dentro di sé, fosse proprio ciò di cui è stato riferito e la sua frase parafrasata possa essere “Guarda cosa è stato capace di fare l’uomo!”. Ricordiamo che Erode il Grande lo aveva costruito per motivi politici nonostante il suo discorso per convincere il popolo a sostenere quella costruzione.

 

Riporto il passo di Giuseppe Flavio perché dalla loro lettura ciascuno potrà trarre le proprie conclusioni sull’ipocrisia di Erode (ricordiamo che non era Giudeo) e quella della politica attuale: “Fu in questo tempo, nel diciottesimo anno del suo regno, dopo gli eventi sopra menzionato, che Erode diede inizio a un lavoro straordinario, la ricostruzione del tempio di Dio a sue proprie spese, allargandone i recinti ed elevandolo a una altezza più imponente. Riteneva che l’adempimento di questa impresa sarebbe stata l’opera più insigne di quelle finora compiute e sufficiente ad assicurargli una memoria immortale. Ma siccome era conscio che la folla non era disposta né facile a intraprendere un’impresa così grande, pensò che fosse opportuno predisporre tutti a lavorare all’intero progetto facendo un discorso al popolo. Perciò lo convocò e parlò come segue: «Per quanto mi riguarda tutte le altre opere portate a termine durante il mio regno, miei concittadini, non ritenni necessario parlarne, sebbene fossero tali che il prestigio che da esse mi viene è inferiore alla sicurezza che hanno portato a voi, poiché nelle maggiori difficoltà non trascurai quanto vi poteva essere di aiuto nei vostri bisogni, e nelle mie costruzioni, ho tenuto d’occhio sia la mia invulnerabilità che quella di tutti voi, e, per volere di Dio, ritengo di avere condotto la nazione giudaica a uno stato di prosperità, mai conosciuto finora. Ora mi pare che non ci sia alcun bisogno di parlarvi delle varie costruzioni che abbiamo erette nella nostra regione, nelle città della nostra terra e in quelle dei territori conquistati, come dei più bei ornamenti con i quali abbiamo abbellito la nostra nazione, avendo coscienza che voi tutti le conoscete benissimo. Non così è dell’impresa che ora vi proporrò; è l’impresa più pia e bella del nostro tempo, quella che ora vi illustrerò. Così era, infatti, il tempio che i nostri padri hanno innalzato al Dio Altissimo dopo il loro ritorno da Babilonia; ma alla sua altezza mancavano sessanta cubiti, per raggiungere quella del primo tempio edificato da Salomone. Nessuno condanna i nostri padri di negligenza nel loro pio lavoro, poiché non fu mancanza loro se il tempio è più piccolo; furono Ciro e Dario, figlio di Istarpe, che prescrissero tali dimensioni per l’edificio, e dato che i nostri padri erano soggetti a loro e ai loro discendenti e dopo di essi ai Macedoni, non ebbero alcuna opportunità di restaurare questo primo pio archetipo alle sue primitive misure. Siccome ora, per volere di Dio, governo io e continuerà a esservi un lungo periodo di pace, abbondanza di ricchezze e raccolti buoni e, ciò che più conta, i Romani sono, per così dire, i padroni del mondo e amici leali, cercherò di rimediare alla svista causata dalla necessità e sudditanza dei tempi passati, e per mezzo di questo atto di pietà ottenere un totale ritorno a Dio per il dono di questo regno”. Erode parlò così e il suo discorso fece stupire la maggioranza degli ascoltatori, poiché fu qualcosa di totalmente inaspettato. Mentre una parte non era disturbata dalla inverosimiglianza delle sue promesse, erano sgomenti al pensiero che egli buttasse giù l’intero edificio e poi non avesse i mezzi sufficienti per realizzare il suo progetto. E tale pericolo pareva loro molto grande, e l’ampiezza dell’impresa sembrava di difficile realizzazione. Mentre essi la pensavano così, il re parlò incoraggiandoli; diceva che non avrebbe tirato giù il tempio prima di avere pronto tutto il materiale necessario per la fine dell’impresa. E queste assicurazioni non le smentì”.

 

Ecco, “Guarda che edifici e che costruzioni!” era una frase che conteneva tutto lo stupore di quel discepolo, che forse pensava anche a quell’enorme vite d’oro con grappoli d’uva, sempre di oro puro, sopra gli architravi all’ingresso, o alla porta che conduceva alla parte interna del Tempio dello stesso materiale, e alla muraglia che reggeva i portici, “la più grande edificata dall’uomo di cui si sia mai sentito parlare” (A.G. XV.396).

Ebbene Gesù dà a quel discepolo una risposta che avrebbe spento i suoi entusiasmi a tal punto che la riferì agli altri: “Vedi queste grandi costruzioni? Non sarà lasciata qui pietra su pietra, che non sarà distrutta”. Sappiamo a cosa si riferiscono queste parole, ma qui vorrei sottolineare lo stupore che sicuramente si impadronì di questo anonimo perché tutti sono in grado, a volte nemmeno tanto, di leggere il presente. Ciò che vediamo e conosciamo, come i palazzi, le strade, le persone, ci sembrano lì da sempre e istintivamente pensiamo che per sempre possano durare, in particolare in una bella giornata di sole in cui il calore e la quiete che avvertiamo ci fanno sentire al centro del nostro piccolo mondo fatto di consuetudini, di riferimenti ai quali diamo, senza accorgercene, importanza. Omeostasi. Le giornate di sole, però, ci furono anche quando Gerusalemme era sotto assedio e quando furono sterminati i suoi abitanti e il Tempio distrutto. Solo nel cinema queste azioni avvengono nel grigio o comunque nel cupo.

Mi vengono in mente le parole di Gesù su quello che definisco “il grande inganno”, che appartengono proprio a questo capitolo di Matteo: “Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti, così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo” (37-40).

Ancora: “…sapete che il giorno del Signore verrà all’improvviso, come un ladro di notte. E quando la gente dirà: «C’è pace e sicurezza», allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie di una donna incinta e non potranno sfuggire” (1 Tessalonicesi 5.1-3).

L’uomo naturale confida sempre in se stesso. Se si ammala ha sempre dentro di sé l’idea di non avere nulla di grave, di poter vivere per sempre che poi non è che un “ancora un poco” perennemente allungato, procrastinato. Come diceva un primario, “Non ho mai visto un paziente che, in punto di morte, chiedeva di poter vivere anche solo un minuto in più”.

Del resto, i costruttori della torre di Babilonia erano convinti di arrivare fino al cielo, di procurarsi fama e una stabilità politica unica e non turbabile dai pochi che non avrebbero aderito al loro progetto.

 

Eppure, tornando al nostro testo, Gesù con le Sue parole non dice qualcosa di nuovo, per lo meno scritturalmente, né vuole dirlo, ma dà un’indicazione sul tempo della fine della città, dice che la distruzione sta per arrivare, cosa già profetizzata per la prima volta in 1 Re 9.7 con le parole “Eliminerò Israele dalla terra che ho dato loro, rigetterò da me il tempio che ho consacrato al mio nome; Israele diventerà la favola e lo zimbello di tutti i popoli”; “Sion sarà arata come un campo e Gerusalemme diventerà un cumulo di rovine, il monte del tempio un’altura boscosa!” (Geremia 26.18), “…li darò in preda agli stranieri e saranno bottino per i malvagi della terra che li profaneranno. Distoglierò da loro la mia faccia, sarà profanato il mio tesoro, vi entreranno i ladri e lo profaneranno” (Ezechiele 7. 20-22) e infine, dettagliato e inequivocabile, Daniele 9.26,27: “Dopo sessantadue settimane, un consacrato sarà soppresso senza colpa in lui. Il popolo di un principe che verrà distruggerà la città e il santuario; la sua fine sarà un’inondazione – di popolo straniero e di sangue – e guerra e desolazioni decretate fino all’ultimo”.

 

Il gruppo di Gesù e dei discepoli raggiunse così il monte degli Ulivi, la cui strada per Betania lo valicava poco più sotto la sua cima. Da lì si aveva una bellissima visione del Tempio della città e si sedettero nuovamente; fu a quel punto che Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni gli si avvicinarono perché avevano saputo della Sua risposta al discepolo innominato e gli chiesero “quando accadranno queste cose”, cioè il fatto che non sarà lasciata “pietra su pietra”, ma anche, ricordandosi dei Suoi insegnamenti passati, “quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo?”.

Si tratta di una domanda chiara per noi, che sappiamo che, molto sinteticamente,  il ritorno di Gesù sarà per rapire la Sua Chiesa prima della “Gran Tribolazione”, e la “fine del mondo” sarà la sua distruzione per far posto ai “nuovi cieli e nuova terra”, ma per loro non era così perché credevano che tutto fosse da identificarsi in un unico evento, anche se non capivano in che ordine il tutto si sarebbe verificato. La domanda dei discepoli si collegava anche all’affermazione che troviamo alla fine del capitolo 23, “Ecco, la vostra casa è lasciata deserta! Vi dico infatti che non mi vedrete più, fino a quando non direte: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore!»”. Certi di avere delucidazioni, si rivolsero al loro Maestro che gliele fornì. La Sua esposizione, però, era destinata a venire accolta e interpretata solo con lo Spirito che sarebbe disceso e prima di quell’evento il “turbolento” Pietro diede prova di averla compresa perfettamente nelle sue lettere. Amen.

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16.27 – IL QUATTRINO DELLA VEDOVA (Marco 12.41-44)

16.27 – Il quattrino della vedova (Marco 12.41-44)

 

41Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. 42Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. 43Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. 44Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».

 

 

Con questo episodio arriviamo al pomeriggio del martedì quando, terminate le discussioni e gli insegnamenti con parabole, Gesù si sposta con i Suoi nel cortile delle donne, chiamato così non perché loro riservato, ma in quanto più oltre non potevano andare; qui si trovavano murate tredici di quelle che chiameremmo “cassette delle offerte”, dette “trombe” per la loro forma. Di queste, due erano destinate alla famosa tassa del Tempio, il mezzo siclo, ordinata dalla Legge di Mosè; nelle altre finivano i liberi contributi per il servizio giornaliero che avveniva in quel luogo.

Le offerte in Chiesa per noi sono un gesto quasi banale, le vediamo come una somma data per opere che altrimenti essa non potrebbe portare avanti, ma in origine non era così e costituiva una forma di adorazione, di riconoscenza per le benedizioni ricevute con la quale si rinnovava il desiderio di appartenenza al Signore e di avere sempre bisogno di lui. I primi che spontaneamente praticarono questa forma di partecipazione, appunto l’offerta come gesto, furono Caino e Abele che però venne fatta con intenti diversi, il primo con superstizione e sufficienza, soprattutto non tenendo in considerazione il fatto che non poteva presentarsi a Dio in una condizione di peccato, portando avidità e materialismo dentro di sé. Infatti, sappiamo che fu gradito quanto presentò il fratello.

L’offerta del Tempio, di mezzo siclo, è interessante considerare che era stabilita dal Signore come fissa, nel senso che valeva per tutti gli israeliti: “Ogni persona (…) dai vent’anni in su, corrisponderà l’offerta prelevata per il Signore. Il ricco non darà di  più e il povero non darà di meno di mezzo siclo, per soddisfare all’offerta prelevata per il Signore, a ricatto delle vostre vite” (Esodo 30. 14,15). Possiamo leggere, tra queste parole, la presenza dell’uguale debito che avevano tutte le anime davanti a Dio, poveri e ricchi che per questo non dovevano dare né di più né di meno, e nell’ “offerta” una delle figure del sacrificio di Gesù, “venuto per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Matteo 20.28; Marco 10.45).

 

Quanto veniva versato nelle altre undici “trombe” era invece una somma libera perché basata su necessità oggettive: lavori necessari all’edificio o acquisto di materiali e utensili per il servizio. Era un dare molto sentito, in cui il popolo ritrovava la sua identità, ma che costituiva anche, per alcuni, un’occasione di fare sfoggio di sé, mostrare pubblicamente la propria generosità e confermare al tempo stesso lo status sociale cui apparteneva.

 

Tornando al nostro testo trovo molto bella quest’immagine di Nostro Signore “seduto”, penso perché desideroso di riposare dopo tutto quanto fatto fino ad allora, prima di intraprendere coi Suoi il cammino verso Betania; sedeva e “osservava come la folla vi gettava le monete”: “osservava”, non “guardava”, verbo che ci suggerirebbe qualcosa fatto quasi per passare il tempo.

Al contrario con quell’ “osservava come”, abbiamo il Dio dell’Antico e del Nuovo Patto che legge nei cuori di quanti, appartenenti al Suo popolo, davano le offerte. “Come la folla vi gettava le monete” cioè se in modo consapevole di partecipare, sostenendolo, al servizio del Tempio, oppure per farsi vedere dal prossimo, o ancora come consuetudine, versando lo stretto necessario per non fare la figura degli indifferenti. Va venuto presente che mancavano pochi giorni alla Pasqua e l’affluenza al Tempio doveva essere grande.

“Tanti ricchi ne gettavano molte”: erano monete di rame, come rivela la parola greca xalkòn (rame), che venivano buttate dentro a manciate; così certo si contribuiva non poco, tecnicamente parlando, alle spese necessarie, ma se al valore offerto non corrispondeva un’azione del donare da parte del cuore, tutto si limitava al gesto e al suo risultato meramente tecnico, meccanico nel senso che quel denaro veniva preso e utilizzato senza che però a monte ci fosse la cosa più importante, vale a dire la partecipazione spirituale del donante. Non c’erano, come quando furono cacciati i mercanti, commerci e trattative sul prezzo, ma una successione di gesti prevalentemente aridi. In altri termini Gesù cercava chi donasse liberamente, con amore e consapevolezza, ma non lo trovava a parte, forse, qualche passante un po’ meno distratto degli altri.

Ma ecco, tra la fila delle persone, avvicinarsi lentamente una vedova, categoria sulla quale già ci siamo soffermati, che Marco si preoccupa di definire “povera”, che “vi gettò due monetine, che fanno un soldo”, originale “due piccioli, che sono un quattrino”, o “quadrante”, corrispondente ai nostri 10 centesimi di euro. Il picciolo era la moneta più piccola, per dimensioni e valore in circolazione e certo metterne due nella tromba non avrebbe influito sul valore complessivo delle offerte, ma quella donna volle comunque donarle dando “tutto quello che aveva per vivere” a differenza dei ricchi che diedero “parte del loro superfluo”, quindi neppure tutto ciò che avevano di inutile, che eccedeva i limiti delle loro necessità.

“Tutto quanto aveva per vivere” ci rivela che, quel giorno, la vedova non avrebbe potuto sfamarsi eppure donò confidando che il Signore l’avrebbe comunque ricompensata. È un gesto che ci parla di fede e amore insieme, perché non ci può essere l’una senza l’altra e per questo i due piccioli sono considerati da Gesù come se avesse gettato “nel tesoro più di tutti gli altri”. È usato il passato prossimo, “ha gettato”, ulteriore conferma che Dio valuta le nostre azioni non quanto a risultato, ma dal motore che le fa muovere, come tante volte è stato fin qui sottolineato.

Quella donna ha dato “tutto ciò che aveva” senza preoccuparsi del presente o del domani consapevole che sarebbe stata ricompensata anche solo con la consapevolezza che Dio avrebbe guardato alla sua offerta e quanto donato era l’espressione concreta dei suoi sentimenti verso il proprio Signore, evidentemente al centro della propria esistenza a tal punto da non pensare al suo sostentamento materiale: la Legge non diceva che bisognava dare tutto e quindi avrebbe potuto versare, se avesse voluto, un centesimo, cioè la decima. Siccome monete da un centesimo (secondo il nostro valore) non esistevano, avrebbe potuto gettarne cinque, cioè una sola moneta, ma così non fece. Diede nel disinteresse di tutti, ma non di Dio, il Solo a cui le importava, per poi confondersi tra la folla, in mezzo a quel popolo osservante, ma lontano dal Signore, salvo eccezioni.

 

Questo episodio, a differenza di altri, ha vita propria nel senso che non ha una doppia applicazione, una per gli uomini di allora e una per noi, ma è lì, fermo nel tempo, a testimoniare che è ciò che abbiamo dentro di noi che ci qualifica davanti al Signore indipendentemente dai gesti più o meno nobili che possiamo fare.

Le riflessioni possibili, allora, riguardano fondamentalmente il cuore della persona, che può essere rivolto verso se stessa, o verso Dio. Si parla di cuore perché si credeva fosse la sede degli affetti e dei sentimenti per il suo battito che muta in base alle emozioni, ma non è una teoria primitiva elaborata nell’ignoranza di un tempo antico: nel muscolo cardiaco si trovano circa 40mila neuroni con memoria a breve e lungo termine; del resto, molte persone che si sottopongono a trapianto sviluppano nuove emozioni e sentimenti che prima non appartenevano loro.

C’è un cuore dell’uomo attaccato alla terra, il cui “ogni intimo intento non è altro che male, sempre” (Genesi 6.5), “è incline al male fin dall’adolescenza” (8.21). C’è un cuore indurito, dall’uomo stesso o da Dio, irremovibile, ostinato, covante odio, insuperbito, ma anche generoso, disposto, dedito alla ricerca, tante definizioni e riferimenti che possiamo sintetizzare, quanto all’uomo che conosciamo, con le parole di Gesù che certo conosceva bene l’essere umano: “Dal cuore provengono propositi malvagi, omicidi, adultéri, impurità. Furti, false testimonianze, calunnie” (Matteo 15.19).

Se un cuore sano, materialmente parlando, è raro da trovare, quello spirituale è impossibile che lo sia a meno di un intervento di Dio: “Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra – insensibile e indurito – e vi darò un cuore di carne – cioè in grado di battere –. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi” (Ezechiele 36.26-27).

Perché tutto questo possa avvenire, per noi, è necessario obbedire a una scelta rigenerante che solo Gesù Cristo può procurare con la conversione della persona, che non avviene da un giorno all’altro, ma è una decisione che viene confermata ogni giorno e possiamo dire si sviluppi nel tempo. E anche qui non si tratta tanto di agire, ma di prepararsi: “La sapienza entrerà nel tuo cuore e la scienza delizierà il tuo animo” (Proverbi 2.10), “Confida nel Signore con tutto il tuo cuore e non affidarti alla tua intelligenza” (3.5), “Il tuo cuore ritenga le mie parole, custodisci i miei precetti e vivrai” (4.4).

Quello del cuore è un tema immenso, nella Scrittura: tra Antico e Nuovo Patto è nominato 747 volte, ma sintetizzando possiamo dire che tutto deriva da lui, vita presente perché se si ferma si muore, ma soprattutto vita eterna perché se Gesù Cristo non vi entra, se il Padre non lo cambia con il suo Santo Spirito come abbiamo letto in Ezechiele, l’uomo non potrà fare altro che tornare e restare la polvere che è e la massima “dov’è il tuo tesoro, qui sarà anche il tuo cuore” dice molto in proposito. È proprio nel credere che viene coinvolto quest’organo perché “Se con la bocca proclamerai: «Gesù Cristo è il Signore!» e con il cuore crederai che lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa professione di fede per ottenere la salvezza” (Romani 10. 9,10). Vediamo da questi versi fino a che punto il muscolo cardiaco è coinvolto e che la fede non è un’illusione della mente, quindi artificio, ma qualcosa di profondamente sentito, di scritto dentro.

Il cuore della vedova del nostro episodio era rivolto a Dio a tal punto da dare liberamente le uniche cose che aveva, dimostrando di non tenere in alcun conto la propria vita materiale, dando così un esempio a chiunque avrebbe letto il Vangelo. E non può non venire alla mente “il comandamento più grande” che abbiamo affrontato da poco. Amen.

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