16.30 – IL SERMONE PROFETICO III: GUERRE E RUMORI DI GUERRE (Matteo 24.4-8)

16.30 – Il sermone profetico 3: Guerre e voci di guerre (Matteo 24.4-8)

6E sentirete di guerre e di rumori di guerre. Guardate di non allarmarvi, perché deve avvenire, ma non è ancora la fine. 7Si solleverà infatti nazione contro nazione e regno contro regno; vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi: 8ma tutto questo è solo l’inizio dei dolori.

Incontriamo per la prima volta (v.6) la parola “fine” che per bocca di Gesù leggeremo per tre nel corso di questa prima parte che potremmo definire “l’inizio dei dolori”. Anche qui, per quanto la “fine” sia un chiaro riferimento alla domanda dei discepoli sulla “fine del mondo”, estenderei il concetto anche su quella di Gerusalemme nell’anno 70, dando prevalenza comunque a ciò che è “fine” secondo il greco “télos” cioè “compimento, termine”, ma anche “morte”, quindi qualcosa di definitivo dal quale è impossibile tornare indietro. Fine quindi del mondo che conosciamo con l’avvento di quello nuovo, e della città che tanto rappresentava per il popolo di Israele che però, avendo rifiutato l’Emanuele, il “Dio con noi”, non aveva più senso di esistere; per lo meno, godendo delle benedizioni di Dio che aveva avuto.

Veniamo al verso 6, “E sentirete di guerre e rumori di guerre”, che andrebbe tradotto con “Siete sul punto di sentire di guerre e voci di guerre”, quindi conflitti in atto o in fase di preparazione che minacciano di accadere. Per la doppia valenza che diamo alle parole contenute nel sermone profetico, vediamo brevemente il periodo degli anni precedenti il 70 d.C. in cui l’impero romano era in preda a grandi agitazioni: quattro imperatori, Nerone, Galba, Otone e Vitellio, muoiono di morte violenta nello spazio di un anno e mezzo. Nerone si suicida nel 68, gli altri vengono uccisi dai pretoriani (Galba), dai soldati di Vespasiano (Vitellio), un altro ancora si suicida (Otone), questi ultimi tre tutti nel 69. Giuseppe Flavio parla di molti conflitti causati dall’odio nazionale fra i Giudei di Persia e i loro vicini nei territori pagani, oltre a quelli tra gli abitanti di Cesarea e i Giudei. A Babilonia ne morirono uccisi 50mila ed altrettanti in varie città assire e “voci di guerre” giunsero alle orecchie dei Giudei quando gli imperatori Caligola, Claudio e Nerone minacciarono di spedire contro di loro i loro eserciti, cosa che poi non fecero. Caligola, addirittura, intendeva far porre una propria statua nel Tempio ed essere venerato come un Dio; ciò avvenne nel 40 ma, lui morendo nel 41, il progetto non ebbe seguito.

L’anno 66, poi, fu particolarmente significativo sia per una violenta repressione romana ad Alessandria d’Egitto a causa di conflitti fra Greci ed Ebrei in cui morirono altre 50mila persone, senza contare lo scoppiare di più rivolte a Gerusalemme che sfociarono in vere e proprie battaglie che causarono seimila morti.

Quanto alla trasposizione delle parole del verso 6 ai nostri tempi, credo che vi sia poco da rilevare salvo che l’esistenza di “guerre e voci di guerre” sia sempre esistita e gli ultimi due conflitti mondiali testimonino, a parte la follia dell’uomo, il fatto che non sia per forza il caso di gridare agli “ultimi tempi” non perché non li siano in senso letterale, ma in quanto la cristianità è in essi da sempre e questo stato di cose è uno degli innumerevoli messaggi contenuti nel Vangelo. I cristiani non si devono spaventare o pensare a una fine imminente che obbedisca ai loro orologi, ma meditare sul fatto che “deve avvenire (tutto questo), ma non è ancora la fine” che avverrà solamente quando “Questo Vangelo del Regno sarà annunciato in tutto il mondo, perché ne sia data testimonianza a tutti i popoli; e allora verrà la fine” (v. 14), che ritengo sia un altro indicatore importante.

Al momento in cui scrivo queste riflessioni, a parte la conosciuta guerra fra Russia e Ukraina, che sarebbe terminata da tempo se non ci fossero interferenze e aiuti interessati da Stati Uniti ed Europa, i conflitti in atto sono 59, per non parlare di quelli minacciati o taciuti.

Abbiamo letto che “deve avvenire (tutto questo)” – le parole tra parentesi non sono tradotte nel testo –, quindi si tratta di eventi inevitabili perché l’uomo senza Cristo non può che cercare di prevalere sul proprio simile, tramare ai suoi danni, depredarlo. La carne è sempre pronta a portare rovina ovunque e lo vediamo anche nella Chiesa che ha conosciuto e conosce da sempre periodi terribili in cui l’amore non è stato predicato né praticato. Spesso ho sentito dire, e mi sono trovato anche d’accordo, che Gesù Cristo ha vinto, ma il Cristianesimo – quello “ufficiale” – ha fallito e sotto certi aspetti è un’affermazione che non è possibile contestare. Ora anche questo rientra nel “tutto questo deve avvenire” perché lo spirito dell’uomo è inevitabile che si manifesti, in un modo o in un altro.

Il verso 7 va invece diviso in due parti, la cui prima solo apparentemente è un richiamo alle guerre, perché “si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno” suggerisce più l’idea di un complottare generale di un popolo a danno dell’altro quasi in momenti di isteria collettiva, cosa che a mio parere può essere vista nelle coalizioni degli Stati, e penso alla NATO, all’UE, in cui solo apparentemente esiste unità d’intenti, ma covano sotto traccia tutta una serie di risentimenti e rivendicazioni che, per ora, non sfociano in conflitti aperti solo perché ci sono interessi più grandi da difendere. Il sollevarsi di “una gente contro l’altra ed un regno contro l’altro” (secondo una traduzione diversa) è una frase che testimonia ancora una volta l’impossibilità di avere pace duratura al di fuori dell’amore di Dio. Anzi, tanto più l’uomo si allontana da Lui, tanto più si avvicina alla rovina.

Seguono a questo punto due “flagelli” visti nelle “carestie e terremoti in vari luoghi”, tre secondo altri che traducono “pestilenze, fami e terremoti”, questo sia come conseguenza delle guerre (le carestie e la fame) che come fatti autonomi.

Anche qui abbiamo un riferimento all’antichità: Tacito, Svetonio, Eusebio e Flavio parlano del fatto che una grande carestia afflisse Roma, l’Egitto, la Grecia e la Palestina sotto il regno di Claudio nel 48 circa, tra l’altro profetizzata da Agabo in Atti 11.28: “In quei giorni alcuni profeti scesero da Gerusalemme ad Antiochia. Uno di loro, di nome Agabo, si alzò in piedi e annunciò, per impulso dello Spirito, che sarebbe scoppiata una grande carestia su tutta la terra”. Tacito narra che, nell’anno 65, a Roma morirono 30mila persone di peste e, riguardo ai terremoti, abbiamo quello di Creti (Toscana) nel 46, a Roma nel 51, in Apamea (Siria) nel 53, in Campania nel 58, poi a Laodicea nel 60 e l’ultimo in Palestina nel 67.

Se poi andiamo a Luca 21.11 abbiamo altri riferimenti, cioè “vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo”, altro riferimento che richiede due distinte collocazioni, la prima delle quali, come sempre, nell’epoca anteriore alla presa di Gerusalemme: leggiamo Giuseppe Flavio che, mentre descrive quanto avvenuto in città a quel tempo, descrive dei fenomeni molto particolari: “A causare la loro morte (di molti ebrei radunatisi al piazzale esterno del Tempio) fu un falso profeta che in quel giorno aveva proclamato agli abitanti della città che il Dio comandava loro di salire al Tempio per ricevere i segni della salvezza. E in verità allora, istigati dai capi ribelli, si aggiravano tra il popolo numerosi profeti che andavano predicando di aspettare l’aiuto del Dio, e ciò per distogliere la gente dalla diserzione e per far coraggio a chi non aveva nulla da temere da loro e sfuggiva al loro controllo. Nella disgrazia l’uomo è pronto a credere, e quando l’ingannatore fa intravedere la fine dei mali incombenti, allora il misero s’abbandona tutto alla speranza. Così il popolo fu allora abbindolato da ciarlatani e da falsi profeti, senza più badare né prestar fede ai segni manifesti che preannunziavano l’imminente rovina. Quasi fossero stati frastornati dal tuono e accecati negli occhi e nella mente, non compresero gli ammonimenti di Dio. Come quando sulla città apparvero un astro a forma di spada e una cometa che durò un anno. O come quando, prima che scoppiassero la ribellione o la guerra, essendosi il popolo radunato per la festa degli Azzimi nell’ottavo giorno del mese di Xanthico, all’ora nona della notte l’altare e il Tempio furono circonfusi d’un tale splendore, che sembrava di essere in pieno giorno, e il fenomeno durò mezzora: agli inesperti sembrò di buon augurio, ma dai sacri scribi fu subito interpretato in conformità di ciò che accadde dopo. Durante la stessa festa, una vacca che un tale menava al sacrificio partorì un agnello in mezzo al sacro recinto; inoltre, la porta orientale del Tempio, quella che era di bronzo e assai massiccia, sì che la sera a fatica venti uomini riuscivano a chiuderla, e veniva sprangata con sbarre legate in ferro e aveva dei paletti che si conficcavano assai profondamente nella soglia costituita da un blocco tutto d’un pezzo, all’ora sesta della notte fu vista aprirsi da sola. Le guardie del santuario corsero a informare il comandante, che salì al Tempio e a stento riuscì a farla richiudere. Ancora una volta questo parve agli ignari un sicurissimo segno di buon augurio, come se il Dio avesse spalancato a loro la porta delle sue grazie; ma gli intenditori compresero che la sicurezza del santuario era finita di per sé e che l’aprirsi della porta rappresentava un dono per i nemici, e pertanto interpretarono in cuor loro il prodigio come preannunzio di rovina. Non molti giorni dopo la festa, il ventuno del mese di Artemisio, apparve una visione miracolosa cui si stenterebbe a prestar fede; e in realtà, io credo che ciò che sto per raccontare potrebbe apparire una favola, se non avesse da una parte il sostegno dei testimoni oculari, dall’altra la conferma delle sventure che seguirono. Prima che il sole tramontasse, si videro in cielo su tutta la regione carri da guerra e schiere di armati che sbucavano dalle nuvole e circondavano le città. Inoltre, alla festa che si chiama la Pentecoste, i sacerdoti che erano entrati di notte nel tempio interno per celebrarvi i soliti riti riferirono di aver prima sentito una scossa e un colpo, e poi un insieme di voci che dicevano: «Da questo luogo noi ce ne andiamo». Ma ancora più tremendo fu quest’altro prodigio. Quattro anni prima che scoppiasse la guerra, quando la città era al culmine della pace e della prosperità, un tale Gesù figlio di Anania, un rozzo contadino, si recò alla festa in cui è uso che tutti costruiscano tabernacoli per il Dio e all’improvviso cominciò a gridare nel tempio: «Una voce da oriente, una voce da occidente, una voce dai quattro venti, una voce contro Gerusalemme e il tempio, una voce contro sposi e spose, una voce contro il popolo intero». Giorno e notte si aggirava per tutti i vicoli gridando queste parole, e alla fine alcuni dei capi della cittadinanza, tediati di quel malaugurio, lo fecero prendere e gli inflissero molte battiture. Ma quello, senza né aprir bocca in sua difesa né muovere una specifica accusa contro chi lo aveva flagellato, continuò a ripetere il suo ritornello. Allora i capi, ritenendo – com’era in realtà – che quell’uomo agisse per effetto di una forza sovrumana, lo trascinarono dinanzi al governatore romano. Quivi, sebbene fosse flagellato fino a mettere allo scoperto le ossa, non ebbe un’implorazione né un gemito, ma dando alla sua voce il tono più lugubre che poteva, a ogni battitura rispondeva: «Povera Gerusalemme!». Quando Albino, che era il governatore, gli fece domandare chi fosse, donde provenisse e perché lanciasse quella lamentazione, egli non rispose, ma continuò a compiangere il destino della città finché Albino sentenziò che si trattava di pazzia e lo lasciò andare. Fino allo scoppio della guerra egli non si avvicinò ad alcun cittadino né fu visto parlare con alcuno, ma ogni giorno, come uno che si esercitasse a pregare, ripeteva il suo lugubre ritornello: «Povera Gerusalemme!». Né imprecava contro quelli che, un giorno l’uno un giorno l’altro, lo percuotevano, né benediceva chi gli dava qualcosa da mangiare; l’unica risposta per tutti era quel grido di malaugurio, che egli lanciava soprattutto nelle feste. Per sette anni e cinque mesi lo andò ripetendo senza che la sua voce si affievolisse e senza provar stanchezza, e smise solo all’inizio dell’assedio, quando ormai vedeva avverarsi il suo triste presagio. Infatti un giorno che andava in giro sulle mura gridando a piena gola: «Ancora una volta, povera la città, e povero il popolo, e povero il tempio!», come alla fine aggiunse: «E poveretto anche me!», una pietra scagliata da un lanciamissili lo colpì uccidendolo all’istante, ed egli spirò ripetendo ancora quelle parole” (Guerra Giudaica, Libro VI, 298-309).

La storiografia moderna, alla luce di alcuni dati raccolti, tende a sminuire le cronache di Giuseppe Flavio, indubbiamente esagerate quando parla del numero dei morti soprattutto nell’assedio e presa di Gerusalemme del 70, per cui anche il racconto che abbiamo letto non è escluso possa essere arricchito di particolari suggestivi, ma certo è che soprattutto la presenza dei falsi profeti e dei fenomeni nel cielo sono indizi particolarmente importanti.

Concludendo, anche questo verso ci parla della visione storica perfetta di Gesù e di quanto sia limitata la nostra: non siamo in grado di tener conto del passato per farne tesoro, ma vogliamo sempre vivere il presente, con la presunzione (o sperando) che il futuro sia uguale a lui. L’uomo, più o meno consciamente, ragiona così, fa così. Ma si troverà a fare i conti con l’orologio di Dio, che dalla Sua perfetta eternità vuole liberare chi crede nel Suo amato Figlio. Amen.

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