16.37 – IL SERMONE PROFETICO 10: LA VENUTA DEL FIGLIO DELL’UOMO II (Matteo 24.29-31)

16.37 – Il sermone profetico 10: la venuta del figlio dell’uomo II (Matteo 24.29-31)

 

29Subito dopo la tribolazione di quei giorni, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce,
le stelle cadranno dal cielo e le potenze dei cieli saranno sconvolte.
30Allora comparirà in cielo il segno del Figlio dell’uomo e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo con grande potenza e gloria.31Egli manderà i suoi angeli, con una grande tromba, ed essi raduneranno i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all’altro dei cieli.

 

Credo che con questi versi ci troviamo di fronte al punto più complesso di tutto il sermone profetico di Gesù, che comunque dà delle importanti chiavi di lettura nei successivi, che devono essere necessariamente tenuti presenti. Il primo è già stato ricordato, il 34, “In verità io vi dico, non passerà questa generazione – ghenéa, non così tradotta da tutti – prima che tutto questo avvenga”. Il secondo è quello successivo, “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”, il terzo è il 36, “Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa: né gli angeli del cielo, né il Figlio, ma solo il Padre”.

Come leggere dunque il passo in esame, venendo spontaneo applicarlo al Ritorno che tutti i veri cristiani attendono da circa duemila anni? “Vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo con grande potenza e gloria”, non può forse essere collegato a 1 Tessalonicesi 4,17, “…quindi noi, che vivremo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro – i morti in Cristo – nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore”? È una domanda importante, che può trovare risposta solo nella purivalenza contenuta nelle parole di Gesù che hanno un substrato tanto di imminenza temporale, che di distanza dal punto di vista umano. Ed ecco perché non sono da tutti interpretate nello stesso modo.

 

Venendo ora al testo è naturale che la nostra attenzione si focalizzi sulle parole “Subito dopo” che suggeriscono un’immediata successione. L’avverbio “Euzéos” significa “subito, presto, subitaneamente” e lo troviamo come reazione pronta e immediata: così fu con Pietro quando rischiava di affogare nel lago di Gennezaret, dove leggiamo che “Subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?»” (14.31). Ancora, ricordiamo quando Simone e Andrea “…subito lasciarono le reti e lo seguirono” (Marco 1.18) o il paralitico di Capernaum che, guarito, “…si alzò e subito prese la sua barella e sotto gli occhi di tutti se ne andò” (2.12) e molti altri casi. Abbiamo però un “subito” in un certo senso più dilatato, come ad esempio nella parabola dei terreni in cui, relativamente al secondo, è detto che “Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra: germogliò subito, perché il terreno non era profondo” (Matteo 13.5); in quest’ultimo caso, abbiamo un processo non immediato, ma che si caratterizza comunque con velocità rispetto al germogliare degli altri semi.

Può allora rientrare quel “subito dopo” nell’ambito del concetto secondo il quale “davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni sono come un giorno”, come scrive l’apostolo Pietro nella sua seconda lettera citando il Salmo 90? Credo che la risposta possa essere affermativa e che qui Gesù parli allargando il concetto di tempo e non a caso i versi in esame hanno fatto sì che i commentatori si dividessero fra chi li legge in un futuro immediato, dopo la distruzione di Gerusalemme, e chi li pone agli ultimi tempi, quando si manifesterà pienamente quanto descritto. La stessa dilatazione temporale, concettualmente, la leggiamo in Malachia 3.1-3: “Ecco, io manderò un mio messaggero – Giovanni Battista – a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate, e l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire, dice il Signore degli eserciti”. Da qui, ecco un altro salto di oltre duemila anni: “Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai. Siederà per fondere e purificare l’argento”.

Il nostro testo riporta “Dopo la tribolazione di quei giorni”: quali? Anche qui non c’è una risposta esatta perché non dobbiamo aspettarci fenomeni nel sole, nella luna e nelle stelle, (per lo meno non nell’immediato), ma la perdita di punti di riferimento, come già accennato in altre riflessioni. Ricordiamoci che Marco, nel suo parallelo, scrive “In quei giorni, dopo quella tribolazione”, cioè dopo “quei giorni abbreviati grazie agli eletti che si è scelto” (13.24) che riguardano sì la tribolazione di Gerusalemme, ma anche tutte quelle che verranno dopo. Ricordiamo le parole di Daniele 9.26, “…il popolo di un principe che verrà distruggerà la città e il santuario, la sua fine sarà un’inondazione e guerra e desolazioni sono decretate fino all’ultimo”, cioè dalla caduta della città a quella del mondo, che deve ancora verificarsi.

Riguardo al verso 29, il parallelo di Luca riporta: “Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose – cioè i primi segni – , risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina” (21.25-28).

Credo che la nostra attenzione debba, più che focalizzarsi sui cataclismi cosmici, tenere presente il linguaggio profetico, che ritengo un importante aiuto per la comprensione del discorso di Nostro Signore: ad esempio così Isaia profetizza la rovina di Babilonia in 13.10: “Ecco, il giorno del Signore arriva implacabile, con sdegno, ira e furore, per fare della terra un deserto, per sterminare i peccatori. Poiché le stelle del cielo e le loro costellazioni non daranno più la loro luce, il sole si oscurerà al suo sorgere e la luna non diffonderà più la sua luce. Io punirò nel mondo la malvagità e negli empi la loro iniquità. Farò cessare la superbia dei protervi e umilierò l’orgoglio dei tiranni”.

Ezechiele 32.7,8 così parla della distruzione dell’Egitto: “Quando cadrai estinto, coprirò il cielo e oscurerò le tue stelle, velerò il sole di nubi e la luna non brillerà. Oscurerò tutti gli astri del cielo su di te e stenderò sulla tua terra le tenebre”. Gioele 2.30,31 descrive la fine con queste parole: “Farò prodigi nei cieli e sulla terra: sangue, fuoco e colonne di fumo. Il sole sarà mutato in tenebre e la luna in sangue, prima che venga il grande e terribile giorno del Signore”. Credo siano passi da meditare, seguendo il loro significato letterale raccordandolo a quello spirituale e sforzandoci di assorbire il senso di gravità e di immanenza che trasuda da essi: in tal modo si potrebbe capire che quanto contenuto in questi versi non può essere spiegato con parole umane, ma va compreso e sigillato. Mai mi era capitato di trovarmi in difficoltà a spiegare un brano a parole come un questo caso e posso dire che, dopo essermi posto all’ascolto, ho sentito veramente “il suono di molte acque” nel senso che, al posto di una soluzione, ce ne sono migliaia, tutte su frequenze diverse, tutte ugualmente esatte.

E se è possibile descrivere un dolore, uno stato di angoscia di cui si conosce la localizzazione e la causa, così non si può fare – tanto per citare il primo che mi viene in mente – per un attacco di panico o, come nel caso dei passi profetici riportati, quando si ha la perdita totale dell’omeostasi, psichica e fisica. L’uomo può definirsi vivo non solo in presenza del battito cardiaco, ma quando è in grado di progettare, scegliere, spostarsi, fare qualsiasi azione anche banale, soprattutto porsi degli obiettivi da raggiungere, ma che lo caratterizza come essere autonomo, in grado di prendere decisioni, giuste e sbagliate che siano. E i versi citati escludono tutte queste cose. Credo che sia da qui che dobbiamo partire per capire le parole di Gesù; il resto sono ipotesi che potranno venire annullate, confermate e sviluppate col tempo. Credo che qui Gesù dimostri di tenere sempre presente il Suo ritorno, e infatti ben presto inizierà ad illustrare ai Suoi alcune parabole proprio sulla vigilanza, concetto ancora più importante della chiusura finale del tempo dato per vivere (o morire) alla Sua luce.

Un fratello ha osservato che “il sole, la luna etc. sono i simboli del Sommo Sacerdote, del Sinedrio, degli Anziani; in una parola, di tutti i rettori della nazione giudaica, ed il loro oscuramento indica la distruzione del sistema di cui erano i custodi e rappresentanti, e la finale dispersione della nazione. È possibile che questa predizione si riferisca anche alla rovina dei dieci re di cui parla l’Apocalisse, la quale succederà prima del Millennio, e che essa debba avere un terzo adempimento nella distruzione finale del mondo”.

Infatti: “Le dieci corna che hai visto sono dieci re, i quali non hanno ancora ricevuto un regno, ma riceveranno potere regale per un’ora soltanto, insieme con la bestia. Questi hanno un unico intento: consegnare la loro forza e il loro potere alla bestia. Essi combatteranno contro l’Agnello, ma l’Agnello li vincerà, perché è il Signore dei signori e il Re dei re. Quelli che stanno con lui sono i chiamati, gli eletti e i fedeli” (17.12-14). Notare il tempo concesso, un’ora, cioè quanto basta per fare, ma molto poco, a fronte della presunzione di durata e potenza della quale si saranno nutriti. Se la vita di un uomo, che possiamo stimare oggi attorno agli 80 anni, è vista come un soffio, cos’è un’ora? Un minuto vissuto sessanta volte, non si fa comunque tempo a iniziare che il tempo a disposizione è scaduto. L’ora è così come qualcosa di profondamente umiliante se confrontata con le aspettative di quei re, dieci, asserviti alla divinità asportata del numero.

“Allora comparirà in cielo il segno del Figlio dell’uomo”, cioè Lui stesso, “segno” fin dall’inizio secondo Isaia 7.14 e per come fu visto dai profeti, ad esempio in Daniele 7.13: “Io guardavo, nelle visioni notturne, ed ecco venire sulle nuvole del cielo uno simile a un figlio d’uomo…”. La dinamica, per come è rappresentata da Matteo, indica il ritorno dei Figlio in giudizio più che per il rapimento della Sua Chiesa, che comunque darà inizio a una storia umana completamente diversa; il “battere il petto di tutte le tribù – nazioni – della terra” indica un’autoaccusa, l’acquisizione del fatto secondo cui la condanna è inevitabile e soprattutto avverrà unicamente per colpa di tutti coloro che non avranno voluto approfittare del tempo di Grazia loro concesso prima dell’alt di Dio alla loro tanto cercata indipendenza da Lui.

Il battersi il petto sarà l’unico modo che avranno i popoli che non si saranno convertiti per esprimere il proprio dolore perché vedranno dal vero, in tempo reale, Colui di cui avranno negato o disprezzato opere, esistenza, morte e risurrezione per cui comprenderanno la loro impossibilità a sussisterGli davanti.

Infine, l’ultimo verso credo sia particolarmente caro a tutti i cristiani perché parla di raccolta: “Ecco, io vi annuncio un mistero: noi tutti non moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba – ultima perché definitiva –. Essa infatti suonerà e i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati” (1 Corinti 15.51-52).

Anche qui credo che vi sia comprensione dei periodi relativi al rapimento e dell’ultimo tempo, quello del giudizio finale, perché vi sarà da raccogliere tutti coloro che avranno creduto nella Gran Tribolazione, quando “Il mare restituì i morti che esso custodiva e la morte e gli inferi resero i morti da loro custoditi e ciascuno venne giudicato secondo le loro opere. Poi la morte e gli inferi furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la seconda morte, lo stagno di fuoco” (Apocalisse 20.13-14).

In conclusione, la “lunga” storia umana troverà lì contemporaneamente la propria fine e il proprio oblio, a differenza dei salvati che vedranno così adempiute le parole di Gesù ai mietitori a conclusione della parabola della zizzania in Matteo 13.39: “Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano, invece, riponetelo nel mio granaio”. Amen.

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