16.43 – LA PARABOLA DEI TALENTI (Matteo 25.14,30)

16.43 – La parabola dei talenti (Matteo 25,14-30)

 

14Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. 15A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito 16colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. 17Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. 18Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. 19Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. 20Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: «Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque». 21«Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone». 22Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: «Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due». 23«Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone». 24Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. 25Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo». 26Il padrone gli rispose: «Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; 27avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. 28Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. 29Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. 30E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti».

 

Siamo così arrivati all’ultima parabola esposta da Gesù a suoi che, assieme alla precedente, costituisce quello che definisco “le istruzioni sulla consapevolezza”. I discepoli e quanti sarebbero venuti dopo di loro, infatti, in quanto tali e quindi salvati per grazia e messi in condizione di conoscere i princìpi basilari della fede e le modalità di conduzione della loro vita, dovevano sapere che non solo avrebbero potuto essere soggetti a stanchezza, dubbi e prove, ma si sarebbero dovuti comportare come quei servitori che vegliano aspettando il ritorno del loro signore che, partito dalla propria dimora, aveva dato un compito a ciascuno di loro, come abbiamo letto in alcune parabole.

Se la parabola delle dieci vergini insegna che il cristiano deve vegliare ed essere preparato nel tempo dell’attesa, quella dei talenti pone l’accento sulla necessità dell’attività e fedeltà nel servizio: da una semplice lettura del testo emerge che, nell’affidare ai propri servi i talenti, il signore non pone sulle loro spalle compito superiore alle forze che avevano ma, conoscendo profondamente le capacità di ciascuno, affida ad ognuno una somma che potevano gestire.

La prima osservazione possibile è sul verso 14, tradotta da tutte le Bibbie “partendo per un viaggio” (o similare) quando letteralmente sarebbe “andando all’estero”, quindi in un posto diverso da quello conosciuto dai suoi servi, anche qui chiaramente non quelli incaricati delle pulizie di casa, ma persone di sua fiducia, cioè degli amministratori dai quali dipendeva la prosperità di tutta la struttura.

Di servi, nelle parabole, ne abbiamo incontrati tanti, di ogni ordine e grado, fedeli e infedeli, buoni e malvagi, irresponsabili e prudenti, ma qui abbiamo persone che, prima della partenza, vengono convocati con lo scopo dell’affido non di una parte, ma di tutti i beni del padrone (“tutti” che in alcune traduzione non compare, ma non rileva perché “i suoi beni” sta ad indicare lo stesso concetto). Il termine impiegato, “doùloi”, indica gli schiavi comprati con denari, che appartenevano al loro signore ed erano da lui mantenuti, condizione identica a quella descritta in 1 Corinti 6.19,20: “Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio e che non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!”. Corpo che, ricordiamo, è stato salvato al pari dell’anima.

Ecco allora la prima connessione-estensione sulla parabola: quei servi erano persone sulle quali il padrone aveva investito, scegliendoli tra molti e se legalmente gli appartenevano al pari dei suoi beni, mobili o immobili, il fatto che li rivesta di autorità e libero potere decisionale indica che contava su di loro per lo sviluppo delle sue sostanze e possedimenti.

È anche interessante notare che Gesù non parla di un padrone, ma di “un uomo” lasciando ai suoi ascoltatori la facoltà di riconoscere in quel personaggio Lui stesso esattamente come fece nella parabola dei due figli    (Matteo 21.33), dei servitori vigilanti (Marco 13.34) dove anche lì abbiamo “un uomo partito per un lungo viaggio”, e delle dieci mine in cui leggiamo “Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano per ricevere il titolo di re e poi tornare” (Luca 19.12,13). Sta quindi alla persona che legge rispondere all’interrogativo su chi sia quell’ “uomo”, cioè limitarsi ad interpretarlo come un proprio simile, prendendo il racconto come una favola frutto di una fertile fantasia, oppure identificare in lui il Signore Gesù Cristo, prendendolo sul serio come l’ “Io sono”, ebraico Elohim, uno dei nomi impiegati per indicare Dio, che non ha un nome come noi per distinguersi da altri.

 

Veniamo ora al talento, corrispondente a 34 kg. d’argento cioè, al momento in cui scrivo queste note (26 settembe 2025) a 41.922 euro. Al primo servitore ne vengono consegnati cinque, quindi 209.610, al secondo due, 83844 e al terzo, come già citato, 41.922. Va da sé pensare che queste tre persone sono delle semplici allusioni simboliche, perché se fossero stati i soli il patrimonio di quell’ “uomo” sarebbe stata ben poca cosa, ammontando a, cifra che potrebbe corrispondere alla somma che una persona comune, fino a qualche tempo fa, sarebbe riuscita a mettere da parte, risparmiando, in una vita di lavoro. Ricordiamo però il premio ai servitori della parabola delle dieci mine, consistenti in “dieci” e “cinque città” (Luca 19.16-19).

I talenti consegnati, per la somma che rappresentano indipendentemente dal fatto che siano stati cinque o uno solo, costituiscono un valore che mai quei servi avrebbero potuto possedere: non sono un premio, ma un incarico, un attestato di fiducia, a modo suo una gratificazione, un riconoscimento di una capacità che forse quelle persone non pensavano di possedere, ma il loro signore sì. L’apostolo Paolo spiega così la distribuzione dei talenti-doni dello Spirito nella Chiesa: “Abbiamo doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi: chi ha un dono di profezia la eserciti secondo ciò che detta la fede – non la vanagloria personale o simili sentimenti –, chi ha un ministero attenda al ministero – senza cercare di sconfinare in ciò che invece è di altri –, chi insegna si dedichi all’insegnamento, chi esorta si dedichi all’esortazione – prima su se stesso per evitare l’errore della trave nell’occhio –. Chi dona, lo faccia con semplicità, chi presiede, presieda con diligenza, chi fa opere di misericordia, le compia con gioia” (Romani 12.6-8). Dalla pluralità dei doni possiamo estrarre un principio importante: non siamo, né Dio ci vuole, tutti uguali. Anzi, ogni credente è inimitabile e come tale va rispettato. La Chiesa è unita nello Spirito e non perché composta da elementi prodotti in serie, che dicono le stesse cose nell’identico modo, che si muovono compatti, fisicamente o mentalmente, come un esercito. Il modo per riconoscere i settari, infatti è guardarli nel loro agire e nello sguardo: ognuno è identico all’altro, compie le stesse azioni, si muove quasi sincrono, spesso usa lo stesso tipo di eloquio.

Dal verso soprariportato vediamo che Paolo stila un elenco ordinato che va dalla profezia alle opere di misericordia in una scala che da un lato può essere considerato di importanza per le dinamiche di crescita della Chiesa, ma dall’altro le pone sullo stesso piano con le parole “secondo la grazia data a ciascuno di noi” perché “ciascuno” è importante agli occhi di Dio che guarda non al risultato, ma alla proporzione dell’impegno indicando il modo corretto del suo adempimento, sottolineato con le parole “lo faccia con gioia”. Come ha detto un fratello per spiegare il concetto, “al Signore interessa più chi siamo di cosa facciamo”. Perché l’essere è il fare continuo, il tendere a, non la caduta che può sempre verificarsi perché siamo carne.

Altro passo indicativo è reperibile in 1 Corinti 4.1,2: “Ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, ciò che si richiede agli amministratori è che ognuno risulti fedele”. Mi sono chiesto cosa stia ad indicare la qualifica di “amministratori dei misteri di Dio” e credo si riferisca al fatto che è necessaria, nella gestione del dono, lo stesso procedere oculato richiesto ai servitori della parabola in esame. Che vengano affidati cinque, due talenti o uno solo, il principio del farli fruttare deve coinvolgere l’onestà della persona che deve avere l’umiltà di riconoscere i propri limiti rimandando ad altri la gestione dei “misteri di Dio” perché non a tutti è data la conoscenza (secondo lo Spirito) e soprattutto non in ugual modo. “Amministrare” significa proprio curare l’andamento di qualcosa in modo da garantirne l’efficienza e il rendimento, gestire situazioni. E, per il contesto esaminato, significa avere una parola appropriata per ogni circostanza, dovendo essere “sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pietro 3.15). Perché “Vi sono diversi doni, ma uno solo è lo Spirito, vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore. Vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti” (1 Corinti 12.7). Quindi riconoscere, non deprezzare.

 

Veniamo ora ai primi due servi, che andarono “a impiegarli”, esattamente come nella parabola già ricordata delle dieci mine, obbedendo all’ordine “fatele fruttare fino al mio ritorno” (Luca 19.13). Evidentemente quegli uomini conoscevano già le dinamiche per una corretta gestione delle somme loro affidate e, consci dell’importanza dell’incarico, operarono al meglio tant’è che il risultato fu un guadagno doppio rispetto a quanto ricevuto. Credo che in questo dobbiamo vedere non solo l’abilità tecnica dei due, ma l’immedesimazione totale nel padrone: agiscono come se quei talenti fossero i loro talché, al momento del rendiconto, la ricompensa sarà espressa con le parole “sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; entra nella gioia del tuo padrone”, cioè “diventa una cosa sola con me” nel senso di “quello che è mio, è anche tuo”. Quale altra definizione, infatti, potremmo dare di quest’espressione? In un verso che conosciamo, nella Prima lettera ai Tessalonicesi leggiamo “…quindi noi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo per sempre col Signore” (4.17). E il miglior raccordo lo troviamo nelle parole di Gesù “Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me perché dove sono io siate anche voi” (Giovanni 14.2).

Quanto al motore interno che animava questi due servi, credo possa essere rilevato in Atti 20.24 quando Paolo, parlando del proprio operato, disse “Non ritengo la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio”.

Teniamo sempre presente che i documenti a noi pervenuti che costituiscono il cosiddetto “Nuovo Testamento” presentano personaggi molto positivi o molto negativi, mai quanti hanno operato stando “nel mezzo” per cui potremmo essere portati a tendere a quella perfezione rappresentata da un dono che altri hanno avuto e noi no, per cui siamo chiamati a conoscere i nostri limiti e l’ambito nel quale dobbiamo operare. Infatti le parole del padrone ai due servi sono di un’essenzialità sorprendente: “Bene, buono e fedele servitore, sei stato fedele nel poco”. Non c’è un elogio particolare, ma solo due aggettivi, mancano i toni magniloquenti che il mondo usa quando deve portare ad esempio alcuni premiandoli con titoli o cariche onorifiche. “Sei stato fedele nel poco” esattamente come in Luca 17.10, “Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato richiesto, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.

 

Il terzo servitore, invece, è profondamente diverso dai precedenti, per psicologia e comportamento perché non fa nulla. Onorato al pari dei precedenti, per quanto con una somma più piccola, non pensa di aver ricevuto un incarico identico a quello dei colleghi, quindi di possedere una pari responsabilità; neppure gli interessa il fatto che i suoi consimili avrebbero faticato, si sarebbero preoccupati dei beni loro affidati come se fossero i loro, ma “andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone”, costume orientale cui abbiamo accennato considerando la parabola del tesoro nascosto in un campo. In tal modo quell’uomo vanificava il progetto del padrone, perché tanto avrebbe valso non dare nulla ai servi e tenere i suoi talenti rinchiusi da qualche parte. Affidando invece i talenti a suoi, quel signore vuole vedere chi di loro sarebbe stato degno di incarichi più prestigiosi una volta tornato, come nella parabola delle mine in Luca 19.12, “Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare”.

Così facendo il servitore nullafacente dimostra tutto il suo disprezzo nei confronti di una persona che aveva investito su di lui comprandolo e si ritiene a lui superiore, decidendo da sé ciò di cui il suo padrone aveva bisogno. Quel servo sceglie di non impegnarsi, ben sapendo che con poco sforzo avrebbe potuto guadagnare, se non il doppio, una piccola parte perché la parabola non dice che era stato stabilito un minimo accettabile perché quei suoi servi fossero ricompensati. Riconsegnando il talento, in realtà viene dato meno, contando la svalutazione.

L’interiorità del terzo servitore ha però alla sua radice qualcosa di più complesso: chiaramente disprezza chi gli ha dato l’incarico, ma così facendo si immedesima totalmente nel comportamento di chi dice “Chi è l’Onnipotente, perché dobbiamo servirlo? E che ci giova pregarlo?” (Giobbe 21.14). Ancora: “«Perché digiunare, se tu non lo vedi? Perché (dobbiamo) mortificarci, se tu non lo sai?». Ecco, nel giorno del vostro digiuno curate i vostri affari, angariate tutti i vostri operai” (Isaia 58.3,4). Ancora una volta fu il pensare autonomo che portò alla rovina di quest’uomo: il mio signore è partito, chissà se e quando tornerà, perché devo affaticarmi? Dovrebbe essere lui, che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso, a pensarci. Abbiamo quindi uno stravolgimento di tutti i principi che stavano alla base di un sistema che non poteva venire alterato senza conseguenze a cui il servo non pensa: sotterrando il talento crede di aver chiuso col problema del far fruttare il valore ricevuto, ma si troverà di fronte a qualcosa di enorme, irrisolvibile, più avanti, quando si troverà a rendere conto del proprio operato.

Sono poi le parole stesse di quel servo a tradire il suo vuoto: i primi due sono essenziali nel loro parlare; se proviamo a togliere un solo vocabolo dal loro discorso, questo rimane incompleto. Il terzo, invece, fa una lunga premessa con l’unico scopo di minimizzare la sua colpa che poi, tutto sommato secondo lui, non è tale perché “ecco ciò che è tuo”: abbiamo la distinzione tra “io” e “tu”, quindi una dichiarazione di estraneità. Il primo che vuole essere diviso dal suo padrone è proprio il servo che, mentre gli altri lavoravano, condivideva con loro i pasti e la dimora a spese del padrone senza fare nulla, apparentemente libero dalle preoccupazioni degli altri. La parabola dei talenti è quella dell’impegno, che certamente ebbe dei momenti di stanchezza, forse anche scoraggiamento, ma quel che conta è il risultato finale.

C’è però nelle parole giustificative di questa persona un particolare e cioè dice “io ebbi paura”: di cosa? Di non riuscire nell’impresa, di un compito troppo grande? Sono eventualità che vanno scartate perché è chiaro che la “paura” è solo un pretesto giustificativo perché, ammettendo che le capacità di quel servo fossero scarse, esistevano sempre i “banchieri” e, con minimo sforzo del servo, il padrone avrebbe potuto avere il suo guadagno, magari non un secondo talento, ma comunque più di quanto aveva consegnato.

Il terzo servo è allora figura di quelle persone che, nonostante la loro professione di fede, resi partecipi della comunione con la Chiesa, non solo non fanno nulla per cambiare e progredire, curare il proprio mondo interiore alla luce del Vangelo, ma si tengono distanti, costruendosi tutta un’idea del loro Signore lontana dalla realtà, curando i propri interessi senza far nulla per Lui. L’unica fatica che fanno, è scavare una buca per sotterrare il talento ricevuto, sottovalutando il loro Signore e peccando di estrema sufficienza nei Suoi confronti. Nascondendo così la luce sotto il moggio. E così sotterrando loro stessi. Amen.

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16.42 – IL SERMONE PROFETICO XV: LA PARABOLA DELLE DIECI VERGINI – seconda parte – (Matteo 25.1-13)

 

16.42 – Il sermone profetivo XV: La parabola della dieci vergini – seconda parte – (Matteo 25.1-13)

 

1 Allora il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. 2Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; 3le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; 4le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. 5Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. 6A mezzanotte si alzò un grido: «Ecco lo sposo! Andategli incontro!». 7Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. 8Le stolte dissero alle sagge: «Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono». 9Le sagge risposero: «No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene». 10Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. 11Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: «Signore, signore, aprici!». 12Ma egli rispose: «In verità io vi dico: non vi conosco». 13Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora.

 

Ciò a cui personalmente ho fatto caso leggendo la parabola è il contrasto fra la festosità del grido “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”, e la preoccupazione per la mancanza dell’olio da parte delle vergini stolte: solo allora si accorgono di non essere state previdenti, di aver trattato con estrema sufficienza ed approssimazione un invito così importante qual era quello di avere parte attiva alle nozze del figlio del re.

Il verso settimo ci dice che tutte e dieci, svegliatesi di soprassalto, “prepararono le loro lampade”, cioè le misero in condizione di funzionare, aggiungendo l’olio che andava così a ravvivare la fiamma. Cinque però si resero immediatamente conto che le loro lampade si spegnevano (o lo si sarebbero presto) a causa della mancanza di combustibile e subito lo chiesero alle altre.

È da questo punto in avanti che la parabola si fa difficile, ma solo se pretendiamo di dare un significato preciso e assoluto a quegli elementi che, come i venditori e l’andare a comprare l’olio, sono utilizzati da Gesù per dare realtà umana al racconto oltre ad avere un richiamo scritturale: infatti la parabola è tutta basata sul tempo, che può essere perso o guadagnato, ma sempre riferito al trascorso. La parabola delle dieci vergini, a differenza di altre, è sull’irrimediabile.

Ecco allora che il rendersi conto, da parte delle vergini stolte, che “le nostre lampade si spengono”, è la constatazione del loro fallimento perché alla gioia e soddisfazione dell’essere invitate a far parte del corteo non aveva corrisposto il procurarsi l’olio, che per molti commentatori è figura dello Spirito Santo, ma per me è anche quella del vissuto della persona, ciò che siamo e facciamo.

Vediamo prima la lampada che si spegne, di cui troviamo riferimenti nel libro di Giobbe: la cosiddetta “saggezza popolare” espressa da Bildad si esprime con le parole “Tale è la sorte di chi dimentica Dio, così svanisce la speranza dell’empio; la sua fiducia è come un filo e una tela di ragno la sua sicurezza: se si appoggia alla sua casa, essa non resiste; se vi si aggrappa, essa non regge” (8.13,14).

Ancora lui in 18.5-8: “Certamente la luce del malvagio si spegnerà e più non brillerà la fiamma del suo focolare. La luce si oscurerà nella sua tenda e la lucerna si estinguerà sopra di lui. Il suo energico passo si accorcerà e i suoi progetti lo faranno precipitare, perché coi suoi piedi incapperà in una rete e tra le maglie camminerà. Un laccio lo afferrerà per il calcagno, un nodo scorsoio lo stringerà”. Giobbe a Sofar: “Quante volte si spegne la lucerna degli empi, e la sventura piomba su di loro, e infligge loro castighi con ira?” (21.17). Infine, Proverbi 13.9 che prendiamo a coronamento di tutti i riferimenti, “La luce dei giusti porta gioia, la lampada dei malvagi si spegne”.

L’errore di fondo delle cinque vergini stolte è allora, come già sottolineato nella prima parte, a monte: hanno trattato in modo superficiale l’invito a partecipare attivamente alle nozze, senza considerare l’onore della chiamata che nient’altro richiedeva se non intelligenza nella sua gestione, come fecero le altre sagge e come fa – primo esempio che mi viene in mente – chi va in montagna d’estate portando sempre con sé indumenti idonei non potendo essere garantito che il sole non si tramuti in pioggia e il caldo in freddo.

Si potrebbe discutere molto sulla risposta delle altre cinque, “No, perché non venga a mancare a voi e a noi”, e sul concetto di aiuto alle persone, ma qui c’è dell’altro, e cioè che l’essere umano è assolutamente responsabile di tutto ciò che fa e di come lo fa, che vi sono errori ai quali possiamo porre rimedio e altri no, ma soprattutto abbiamo la verità lapidaria espressa in Salmo 49.8, “Certo, l’uomo non può riscattare se stesso né pagare a Dio il suo prezzo. Troppo caro sarebbe il riscatto di una vita: non sarà mai sufficiente per vivere senza fine e non vedere la fossa”.

La richiesta delle vergini stolte è dettata dalla paura di venire escluse dalla festa di nozze e, chiedendo alle previdenti l’olio, in realtà domandano loro una concessione che riguarda quel corretto operato cui non avevano minimamente pensato quando avrebbero avuto tutto il tempo per farlo. Più che il rifiuto delle savie, va messo in evidenza il fatto che queste si trovavano nell’impossibilità di aiutarle perché le azioni, nel bene e nel male, appartengono sempre e soltanto a chi le compie.

Certo il Salmo citato poco prima va oltre: non possiamo riscattarci da noi stessi e nemmeno pagare a Dio il nostro prezzo, cioè per quanto possiamo escogitare, rinchiuderci in clausura, praticare le penitenze più severe, non per questo il peccato inteso come separazione da Dio potrà abbandonarci (ecco perché Gesù ha dato se stesso per noi). E nel “Troppo caro sarebbe il riscatto di una vita” individuiamo la remissione del debito di diecimila talenti al servo infedele di Matteo 18.24. Quindi non esiste un “purgatorio” dove soffrire per essere ammessi in un “paradiso” nel quale, senza il perdóno gratuito di Dio, non si entra,

Potremmo dire che le vergini stolte comprendono di avere sbagliato quando si accorgono di non avere olio? No, perché chiedono subito aiuto alle previdenti, a loro interessa una soluzione rapida del problema e non il fatto che, con la loro richiesta, le avrebbero danneggiate; il loro è un istinto di sopravvivenza dettato ancora una volta dall’approssimazione e dall’istinto. In realtà l’acquisizione del principio dell’errore accadrà solo alla fine, con il chiudersi della porta; piuttosto considerano le altre come loro compagne, colleghe in base al principio del “siamo tutti sulla stessa barca”(che così non era) che per questo dovevano aiutarle: come già anticipato, la consapevolezza di non avere olio genera una forte preoccupazione cui porre immediatamente rimedio, senza considerare che il loro comportamento irresponsabile avrebbe finito per danneggiare anche chi, al contrario, era stato previdente.

Ecco allora che il rimando ai “venditori” era l’unica cosa che le sagge potevano fare: a quel tempo chi aveva una bottega dormiva al piano di sopra e il vendere o meno al di fuori dell’orario di apertura era a sua discrezione. E tutti conosciamo l’invito di Dio “O voi tutti che siete assetati, venite alle acque. E voi che non avete denaro venite, comprate e mangiate, senza danaro, senza pagare, vino e latte” (Isaia 55.1). Il consiglio di andare ai venditori viene dato come ultima, remota speranza perché il tempo che restava era davvero poco e le vergini sagge non potevano garantire alle altre che sarebbero riuscite ad arrivare in tempo. Ecco allora che nella frase “mentre quelle andavano a comprare l’olio” personalmente leggo disordine, affanno, angoscia, comprensione del principio secondo il quale, se si fossero comportate in modo opportuno, tutta quell’emergenza e fretta non vi sarebbe mai stata.

C’è poi, a proposito del comprare, una frase che non a caso troviamo nella lettera alla Chiesa di Laodicea, l’ultima: “Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, e abiti bianchi per vestirti e perché non appaia la tua vergognosa nudità, e collirio per ungerti gli occhi e recuperare la vista” (Apocalisse 3.18). Perché, questo è il punto, non c’è tempo e, anche se ve ne fosse, dobbiamo comportarci come se non l’avessimo.

Il verso 30 dà la cronologia degli avvenimenti che scorrono indipendentemente dalla volontà delle stolte: le cinque savie entrano con lui alle nozze, “e la porta fu chiusa”. Dopo millenni in cui l’uomo ha fatto ciò che ha voluto, senza preoccuparsi d’altro se non di se stesso, l’accesso a Dio diventa impossibile e la Sua bontà, intesa come misericordia e comprensione, cessa. Per capire l’essere umano e riscattarlo ha mandato il Suo Figlio Unigenito permettendo che venisse immolato innocente e ha tenuto le porte della Sua Grazia aperte fino all’ultimo; sappiamo però che “Quando egli apre nessuno chiude e quando chiude nessuno apre” (Apocalisse 3.7). E la porta chiusa ci parla della felicità di coloro che si troveranno all’interno del perimetro del palazzo del re e dell’impossibilità ad entrarvi di quanti resteranno fuori. La chiusura della porta ci parla anche del fatto che costituisce anche un premio per coloro che si trovano all’interno perché sanno che nulla di estraneo potrà entrare e saranno finalmente e per sempre protetti.

Giunti a questo punto, credo resti da considerare il significato dell’olio necessario alle lampade: come già detto e aggiornandone il significato, individuarlo nello Spirito Santo è certamente corretto, ma riduttivo perché è un riferimento prima di tutto alla fede, senza la quale “è impossibile essergli graditi” (Ebrei 11.6); infatti, commendando i quarant’anni passati da Israele nel deserto, leggiamo “E chi furono coloro di cui – Dio – si è disgustato per quarant’anni? Non furono quelli che avevano peccato e poi caddero cadaveri nel deserto? E a chi giurò che non sarebbero entrati nel suo riposo, se non a quelli che non avevano creduto? E noi vediamo che non poterono entrarvi a causa della loro mancanza di fede” (Ebrei 3.17-19).

La fede ci permette di fare cose che senza di essa non faremmo mai. È un motore che ci fa agire in modo strano (per chi non ce l’ha e non la conosce), a volte incomprensibile. Come lo Spirito Santo in noi, può affievolirsi, ma se apparteniamo veramente a Gesù, non si spegnerà mai. Al limite, potrà ridursi a un “lucignolo fumante”, ma mai seccare fino in fondo. Può essere più o meno forte, ma illumina sempre, anzi, credo che tutti noi sappiamo che, in certi casi, è più utile una lampadina da 25W che non una da 100.

C’è poi una terza versione su cosa simboleggi l’olio e questa è il vissuto della persona, se conforme al Vangelo oppure no, perché quando compariremo davanti a Gesù ci ritroveremo a che fare con gli “occhi di fuoco” (Apocalisse 21.4) che ci parlano del vaglio di ciò che saremo stati e avremo fatto. Avremo quindi bisogno della salvezza per poter entrare, ma anche del risultato del nostro lavoro di servi per far fruttare i talenti come vedremo nella prossima, ultima parabola.

È il modo in cui viviamo a testimoniare la nostra fede, sono i discorsi che facciamo a rivelare ciò che dimora realmente nel nostro cuore, le scelte che operiamo rivelano il nostro attaccamento a Lui, le persone con cui ci accompagniamo le nostre affinità, insomma tutto il nostro essere rivela da chi e come siamo abitati.

E torniamo un’ultima volta alle cinque vergini stolte: devono essersi impegnate al limite delle loro possibilità tanto nel cercare un venditore quanto nel convincerlo ad aprir loro bottega, senza contare l’affanno della corsa fino al palazzo, che però trovano chiuso. Quelle persone avevano l’olio, ma era troppo tardi per il semplice fatto che non serviva più in quanto le lampade dovevano essere utilizzate per illuminare il cammino dello sposo fino a palazzo, dopo di che altre luci sarebbero intervenute a rischiarare il convito. E un protocollo è e rimane un protocollo, è qualcosa di stabilito al quale tutti devono attenersi; se qualcuno lo infrange, lo fa a suo rischio e pericolo. Quelle cinque non sarebbero servite più a nulla e vengono respinte non solo per una questione di giustizia, ma perché con il loro comportamento anomalo si erano rese sconosciute al padrone di casa.

Anche qui non abbiamo nulla di nuovo perché il fatto che ci sia una scadenza era cosa già nota nell’Antico Patto e possiamo citare un verso molto conosciuto, “Cercate il Signore mentre si fa trovare, invocatelo mentre è vicino. L’empio abbandoni la sua vita e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona” (Isaia 55.6,7). Ed è bello quel “ritorni”, che penso riferito a quando, nell’età dell’innocenza, ancora non si era manifestato coi termini negativi col quale è descritto. Nell’invito a tornare non esiste alcuna preclusione, ma solo quel “finché” contenente appunto la fine di un tempo concesso. Perché senza olio, nelle tre interpretazioni che abbiamo brevemente esaminato, non potremo sussistere ed ancor più entrare nel regno di Dio. Amen.

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16.41 – IL SERMONE PROFETICO XIV: LA PARABOLA DELLE DIECI VERGINI – prima parte – (Matteo 25.1-13)

16.41 – Il sermone profetico XIV: La parabola delle dieci vergini I (Matteo 25,1-13)

 

1 Allora il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. 2Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; 3le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; 4le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. 5Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. 6A mezzanotte si alzò un grido: «Ecco lo sposo! Andategli incontro!». 7Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. 8Le stolte dissero alle sagge: «Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono». 9Le sagge risposero: «No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene». 10Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. 11Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: «Signore, signore, aprici!». 12Ma egli rispose: «In verità io vi dico: non vi conosco». 13Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora.

 

Le parabole che stiamo affrontando sono le ultime esposte da Gesù e sono tutte connesse fra loro pur presentando soggetti con differenti responsabilità e compiti nella Chiesa. Finora ci siamo occupati di persone con vari ruoli (ricordiamo il “padrone di casa” o “padre di famiglia” e l’ “economo”) e qui, con le “dieci vergini” tutti coloro che fanno parte della Comunità Cristiana.

Prima di addentrarci nel testo, vediamo qual era l’uso orientale per la celebrazione dei matrimoni, che potevano seguire il protocollo in modo più o meno sfarzoso a seconda della condizione economica degli sposi. La festa di matrimonio avveniva di sera: lo sposo, con gli amici, andava a prendere la sposa a casa di lei per portarla alla propria e si formava così un corteo festante di amici e amiche (di entrambi), tutti portanti lampade accese ed era a casa del futuro marito che si tenevano i festeggiamenti. Le persone per così dire intime partecipavano alla festa fin dalle sue prime fasi, altri però si aggiungevano lungo il percorso, come nel caso di queste dieci persone e penso sia facile individuare negli amici dello sposo presenti i discepoli di Gesù di allora e nelle vergini, chiamate ad aggregarsi lungo la strada, coloro che si sarebbero uniti alla Chiesa nel corso dei secoli. È una prima lettura, perché c’è un tempo collettivo, di tutta l’umanità che ha vissuto dall’apertura della dispensazione della Grazia a quello della Fine, e uno individuale fatto di operosità e di attesa.

Prima osservazione è che l’ambiente descritto da Gesù in modo così sobrio è riferito a un matrimonio che va oltre alla realtà delle semplici persone, avendo un riferimento a Salmo 45.14,15 che è un canto nuziale che Lo riguarda. Ricordiamo ad esempio il verso 3, “Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia, perciò Dio ti ha benedetto per sempre”; ora nel passaggio citato abbiamo “Entra la figlia del re: è tutta uno splendore, tessuto d’oro è il suo vestito. È condotta al re in broccati preziosi; dietro a lei, le vergini, sue compagne, a te sono presentate; condotte in gioia ed esultanza, sono presentate nel palazzo del re”. Qui, raccordandoci alla parabola, abbiamo l’onore dato a quelle vergini, cui viene concesso di essere “presentate al palazzo del re”, quindi partecipare, essere coinvolte, comprese, formare un tutt’uno con un ambiente riservato, in cui nulla di estraneo può intervenire.

È per me bello pensare che Gesù, nelle Sue parabole, a volte dà dei riferimenti assolutamente precisi dove, in alcune, ciascun elemento è un simbolo ben identificabile e in altre quello che conta è l’impressione generale che si ricava; in altri termini qui il valore risiede nell’invito e nell’appartenenza più che nella distinzione fra la sposa e le sue amiche. La festa in un palazzo regale non può essere paragonata a quella, concettualmente analoga, che si faceva anche nelle famiglie povere di un umile villaggio.

Cerchiamo di capire il concetto di verginità: il termine è solitamente applicato a una persona che non ha mai avuto un rapporto sessuale completo, ma anche per estensione a tutto ciò che è rimasto naturale, intatto, cioè senza interventi o modificazioni esterne. Vergine è sinonimo quindi di purezza, incontaminazione, è un concetto che richiede sensibilità per essere compreso ed apprezzato e mi fa pensare subito a Maria, madre del corpo di Gesù, che non avrebbe mai potuto essere scelta da Dio se non fosse stata vergine, senza cioè l’intervento di un uomo a segnare il suo corpo prima della sua gravidanza. Ricordiamo le parole “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra” (Luca 1.39).

Sul tema possiamo ricordare la distinzione che fa l’apostolo Paolo tra chi è sposato e chi no, favorendo i secondi, ma specificando che la verginità è un dono e non di qualcosa che può essere imposto pena sofferenze psichiche non comuni, o considerare il testo di Apocalisse 14.3-5 riguardo ai centoquarantaquattromila: “…e nessuno poteva comprendere quel canto se non i centoquarantaquattromila, i redenti della terra. Sono coloro che non si sono contaminati con donne; sono vergini, infatti, e seguono l’Agnello dovunque vada. Questi sono stati redenti – originale “comprati” – tra gli uomini come primizie per Dio e per l’Agnello. Non fu trovata menzogna sulla loro bocca: sono senza macchia”.

C’è in questo verso una parola importante, “contaminati con donne”, contrapposta a “vergini”: la questione non credo sia da porsi in senso esclusivamente letterale, ma debba essere rivolta, pur tenendo conto della prima, alla non fornicazione spirituale che è l’idolatria. Ci sono infatti peccati contro il corpo ed altri contro lo Spirito, anche se i primi comportano sempre i secondi.

 

Le protagoniste della nostra parabola sono dieci vergini, potremmo dire abilitate, in quanto tali, a partecipare alla festa nuziale aggregandosi al corteo come abbiamo visto. Una volta giunte a destinazione, avrebbero avuto un ruolo nella celebrazione della festa e sarebbero state parte integrante di essa. Questa era la loro prospettiva e tutte e dieci le vediamo rispondere prontamente all’invito, “presero le loro lampade ed uscirono incontro allo sposo”, frase che esprime la finalità dell’uscire di casa anche se sappiamo che poi l’entusiasmo derivante dall’idea di partecipare alla festa, essendo l’attesa stancante per tutte, lasciò posto al torpore.

Ora soffermiamoci un poco sulle “lampade” prese da queste persone: non potevano avere in mano qualcosa di diverso perché festa e corteo si tenevano di notte e a questo punto il collegamento è con Matteo 5.15,16, “Non può restare nascosta una città sopra un monte, né si accende una lampada per tenerla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti coloro che sono nella casa”. L’applicazione spirituale però è posta al verso successivo, “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli”.

Paolo scriverà ai Filippesi queste parole: “Fate tutto senza mormorare e senza esitare, per essere irreprensibili e puri, figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa. In mezzo a loro voi risplendete come astri nel mondo, tenendo salda la parola di vita” (2.15,16).

Le lampade, a parte queste applicazioni spirituali, erano indispensabili per partecipare al corteo verso la casa dello sposo; senza di esse nessuno poteva aggregarvisi. Erano delle aste con alla sommità un piatto di rame che conteneva stracci di lino imbevuti di olio e pece che, col passare del tempo, andavano alimentati per evitare che la fiamma si affievolisse fino a spegnersi. Da notare il numero dieci, che esprime da sempre la perfezione vista nelle aspettative di Dio. Le dieci vergini rappresentano quindi l’ottimale, la totalità degli invitati alle nozze, persone conosciute da chi li ha chiamati, che mai avrebbero potuto avere accesso alla festa, cui era stato richiesto come unico requisito quello di portare con sé il necessario per alimentare il fuoco della lampada.

L’uscire “incontro allo sposo” è certamente il fine, ma non va dimenticato il mezzo e ciò che dev’essere il vissuto in quello spazio temporale che intercorre fra l’uscita e il congiungimento col resto del corteo, che troviamo ad esempio in Tito 2.13,14 “È apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo”. E credo che in questi versi abbiamo tanto la descrizione del tempo che passa quanto dell’olio che deve essere aggiunto alla lampada.

Molti commentatori spiegano l’olio con il riferimento allo Spirito Santo ed è vero, ma se c’è lo Spirito c’è anche la luce vista nel risultato del suo ardere che si concreta necessariamente con le opere che il verso citato identifica nel rinnegare l’empietà e nel vivere in questo mondo in modo appropriato, consono alla nostra fede. È qualcosa che impegna, è una rinuncia, è un evitare, starne lontani adottando in compenso quegli atteggiamenti da utilizzare nell’attesa, parola questa che di per sé non piace a molti.

Ora sappiamo che, delle dieci vergini, metà di loro era saggia e l’altra no; Matteo usa il termine “stolte” che allude, più che ad un problema mentale, di metodo, di impostazione, direi strutturale e, alla fin fine, di scelta come in Geremia 17.5-6, “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo e pone nella carne il suo sostegno – cosa che vediamo più che mai nel tempo che viviamo –, allontanando il suo cuore dal Signore. Sarà come un tamerisco nella steppa; non vedrà il bene, dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra i salsedine, dove nessuno può vivere”. E il tamerisco, appunto, ha una vita del genere.

Al contrario, i versi da 7 a 9: “Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia. È come un albero piantato lungo un corso d’acqua, verso la corrente stende le sue radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi, nell’anno della siccità non si dà pena, non smette di produrre frutti”. Si noti la simmetria direi musicale fra i due passi che sono l’uno il contrario dell’altro, ma con in comune due piante, esattamente come l’essere umano può essere stolto o savio, come nella nostra parabola.

Nello specifico, cosa qualifica le vergini le une dalle altre? Non la bontà d’animo, non la gioia della convocazione alla festa, ma la prudenza, la previsione, il pensiero costruttivo, l’accortezza. Che l’arrivo di un corteo nuziale non poteva essere previsto, era cosa nota. Che si sarebbe dovuto attendere anche molto, pure. E ciononostante, cinque su dieci prendono le lampade senza preoccuparsi di avere con sé l’olio, che le altre prendono con sé “in piccoli vasi”. Quello che le cinque stolte fanno, anche se non sembra e quindi anche se non lo hanno pensato (ma le nostre azioni parlano molto più delle parole), è un atto di violenza e di offesa prima di tutto verso loro stesse e quindi verso lo sposo. Ricordiamo infatti che queste persone erano invitate non a uno dei tanti matrimoni che si celebravano nei paesi o nelle città, ma a una festa regale, quindi era impensabile non dotarsi del necessario. Se poi non poteva essere previsto il passaggio del corteo anche nel più normale dei matrimoni, figurarsi in uno come quello per cui dovevano aggregarsi.

Tra l’altro il motivo dell’olio risiedeva non solo nel fatto che avrebbero dovuto illuminare il cammino dello sposo, ma anche il loro sostare nell’attesa perché a quel tempo le notti erano davvero buie e l’illuminazione pubblica non esisteva. Le lampade, quindi, sarebbero dovute restare accese per un tempo indefinibile e di qui il motivo dei “piccoli vasi” che certamente le cinque sagge presero più di uno a testa. Nell’atteggiamento delle stolte c’è un senso di sufficienza a dir poco disarmante, ma ancor più una superficialità che domina su tutto: vanno incontro allo sposo senza preoccuparsi di essere presentabili con l’unica cosa che era loro richiesta, cioè avere delle lampade che avrebbero dovuto restare accese, altrimenti la loro presenza sarebbe stata senza scopo.

Ad accomunare le une e le altre è il sonno; abbiamo letto “si assopirono tutte e si addormentarono”, e ciò che è tradotto con “assopirono” è in realtà “iniziarono a dondolare il capo” che rende più l’idea della progressione, così come “si addormentarono” è più “si sdraiarono per dormire”.

A questo punto non si può non sottolineare il fatto che questa è l’unica parabola in cui ad avere un comportamento “negativo” non ci sono solo persone indolenti o poco avvedute, ma tutti i personaggi, a conferma del fatto che anche se si sa della venuta di Gesù e il perfetto compiersi delle Sue promesse, non essendo immediata, possa generare sonnolenza spirituale. Ogni giorno, salvo eventi particolari, è al tempo stesso profondamente diverso e uguale all’altro. Sarebbe bellissimo se fossimo realmente sempre vigili, ma purtroppo così non è e chi ha provato a stare sveglio la notte anche per lavoro sa che vi sono dei momenti in cui la veglia è difficile, il sonno arriva a ondate ogni due o quattro ore e resistergli senza ricorrere da elementi come caffè, cioccolato o succhi di frutta è un’impresa ardua. In molti casi, per affrontare la notte, chi riesce dorme il pomeriggio prima anche se non si dovrebbero superare i 45 minuti.

Così anche il cristiano, che nell’attesa deve pur sempre occuparsi anche delle cose di questa vita, può rimanere invischiato in faccende che riguardano la sua semplice esistenza e trascurare i suoi impegni spirituali. E anche tutto questo arriva a ondate che, se non usiamo tutta la nostra coscienza, rischia di travolgerci, fino a quando non si sente il grido, nella parabola degli spettatori al passaggio del corteo, “Ecco lo sposo, andategli incontro!” che sveglia tutte le vergini di soprassalto.

L’arrivo è improvviso, non c’è tempo di fare altro se non di alzarsi, mettere ancora dell’olio sul piatto, e andare. Ancora una volta Gesù sorprende, arriva quando meno ce lo aspettiamo e non si tratta di una frase fatta perché nella vita di ogni credente il Signore ha sempre fatto così, ci ha chiamati quando non ce lo aspettavamo, ha sempre risposto quando non ce lo aspettavamo, ci chiamerà e tornerà allo stesso modo perché non sta a noi dirgli cosa, come e quando deve agire, altrimenti non sarebbe Dio. E concludo questa prima parte con la citazione di un cartello che un amico medico ha messo nel proprio studio in modo che tutti i suoi pazienti lo vedessero: “Rilassati. Dio c’è e non sei tu”. Un messaggio chiaro che inquadra il rapporto di subordinazione fra l’uomo e il suo Creatore. Proprio per questo chi appartiene alla categoria delle vergini stolte non lo comprenderà mai. Amen.

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16.40 – IL SERMONE PROFETICO XIII: I DUE SERVI (Matteo 24.45-51)

16.40 – Il sermone profetico 13: I due servi (Matteo 24.45-51)

 

45Chi è dunque il servo fidato e prudente, che il padrone ha messo a capo dei suoi domestici per dare loro il cibo a tempo debito? 46Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così! 47Davvero io vi dico: lo metterà a capo di tutti i suoi beni. 48Ma se quel servo malvagio dicesse in cuor suo: «Il mio padrone tarda», 49e cominciasse a percuotere i suoi compagni e a mangiare e a bere con gli ubriaconi, 50il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, 51lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli ipocriti: là sarà pianto e stridore di denti.

 

Anche questo passo è stato affrontato in una precedente riflessione (15.3), ma per la pluralità dei significati lo riesamineremo, con altre considerazioni, anche perché si tratta di parole che Gesù ripropose ai suoi discepoli. Se con la prima parabola del padrone di casa, o padre di famiglia, il tema era quello del credente responsabile e maturo, cui sono state affidate delle anime a prescindere dalla sua funzione nella Chiesa (era stato accennato al tema della condotta spirituale che ognuno ha verso gli altri), qui Nostro Signore parla di chi ha ricevuto un doppio onore: prima abbiamo la stima che “il padrone” gli ha attribuito, vista negli aggettivi “fidato e prudente” (o “leale e avveduto” secondo un’altra versione), poi il riconoscimento e la fiducia che ha riposto in lui, mettendolo “a capo dei suoi domestici per dare loro il cibo a tempo debito”. C’è anche un altro servo, definito “malvagio”, che ha riferimento con un’interiorità profonda che emerge solo quando il compito lui affidato, col trascorrere del tempo, viene sottovalutato e, progressivamente, deliberatamente ignorato.

Il protagonista della parabola è indicato nel testo col termine “economo”, compito che anticamente veniva svolto da un dipendente ritenuto particolarmente affidabile, cui spettava la direzione della casa e aveva la responsabilità del buon comportamento del personale di servizio. Era un amministratore: a lui quindi spettava la gestione delle spese, doveva tenere conto delle capacità dei singoli per affidare i compiti più confacenti alle attitudini di ciascuno, prendere se necessario gli opportuni provvedimenti disciplinari, anche se nel nostro caso Gesù pone l’accento sul fatto che questo servitore avesse avuto il compito di occuparsi di nutrire quanti gli erano stati sottoposti.

Sono qui presentati due comportamenti opposti fra loro. Nel primo abbiamo un “servo” coscienzioso, che ha ben presente l’importanza dell’incarico, che persevera nel compito avuto senza dimenticare le responsabilità con le quali è stato rivestito. Queste occupazioni lo impegnano a tal punto da non avvertire lo scorrere del tempo, cioè l’assenza del padrone, come qualcosa di pesante: non si chiede mai quando torni il signore della casa, non pensa che faccia ritardo, sa solo che ha ricevuto una responsabilità e quella pensa, giorno dopo giorno. Sappiamo anche che il “cibo a tempo debito” è la Parola di Dio, che va presentata e spiegata in modo appropriato perché costituisce nutrimento indispensabile per i credenti non solo per un orientamento spirituale, ma anche per gestire la vita correttamente in vista della testimonianza che ciascuno inevitabilmente rende nel momento in cui si qualifica agli altri come cristiano.

È interessante notare la connessione fra il nostro verso 45 e Salmo 104.27-29, chiamato “Inno a Dio creatore”, in cui l’autore parla delle Sue azioni nei confronti degli animali che popolano la Terra. Scrive “Tutti da te aspettano che tu dia loro cibo a tempo opportuno. Tu lo provvedi, essi lo raccolgono; apri la tua mano, si saziano di beni. Nascondi il tuo volto, li assale il terrore; togli loro il respiro, muoiono e ritornano nella loro polvere”.

“Tempo opportuno”, quindi, è da intendersi come “quando ne hanno bisogno”, quando è necessario, qualcosa che va oltre l’abitudinarietà dei tre pasti giornalieri che vengono solitamente assunti nella vita quotidiana. Andando oltre il letterale, quel “servo fidato e prudente”, pare essere chiamato ad assicurarsi della salute dei suoi sottoposti e scegliere quale alimento possa essere più utile a farlo star bene. Questo sempre facendo riferimento al campo spirituale.

È utile citare i punti salienti del discorso dell’apostolo Paolo agli anziani della Chiesa di Mileto, dove emerge il principio del “dare loro cibo a tempo debito”: “Voi sapete come mi sono comportato con voi per tutto questo tempo, fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia: ho servito il Signore con tutta umiltà, (…); non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi, in pubblico e nelle case, testimoniando ai Giudei e ai Greci la conversione a Dio e la fede nel Signore nostro Gesù. (…) non mi sono sottratto al dovere di annunciare a voi tutta la volontà di Dio” (Atti 20.16 e segg.).

Credo che in queste parole sia riassunto quanto Nostro Signore vuol dire ai Suoi: come primo elemento Paolo non presenta la sua predicazione e insegnamento, ma pone l’accento sul proprio modo di agire come premessa di tutto quanto farà in seguito. È infatti il nostro comportamento che ci qualifica di fronte agli altri, che prenderanno inevitabilmente atto della nostra correttezza ed equilibrio (se presenti) perché sono le azioni che uno fa a suscitare rispetto o il suo esatto contrario. È importante l’opinione che la gente ha di un cristiano come persona, perché se difettiamo nell’onorare la parola data, frequentiamo le persone sbagliate, non rispettiamo gli impegni, se esiste discordanza fra ciò in cui diciamo di credere e quanto mettiamo in pratica, abbiamo perso in partenza: ciò che diremo, compreso parlare del Vangelo, non verrà preso sul serio. Il “come mi sono comportato” di Paolo è al tempo stesso un attestato, un biglietto da visita, una garanzia del fatto che ciò che poi presenterà, la Parola di Dio, potrà venire presa sul serio.

Servire il Signore “con tutta umiltà” è stato il secondo passo, venuto dopo il suo comportamento irreprensibile, che stride totalmente con il “suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade” (Matteo 6.2), cui poi ha fatto seguito un’azione instancabile e credibile vista nel non sottrarsi mai al dovere “di annunciare tutta – cioè quella che serviva – la volontà di Dio”. Tutto questo si riassume in un concetto molto semplice che troviamo in 1 Corinti 4.1,2: “Ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, ciò che si richiede agli amministratori, è che ognuno risulti fedele”.

 

Ora è chiaro, tornando al nostro testo, che fra il conferimento dell’ufficio di economo e il suo essere trovato “ad agire così” passa del tempo, che sappiamo verrà considerato eccessivo dal servitore malvagio: le parole “il mio padrone tarda”, infatti, equivalgono a dire “ormai non torna più, non ha senso che io mi comporti bene, tanto vale approfittare della mia posizione”. La differenza fra i due servi è evidente: uno si attiene agli ordini ricevuti e persevera, l’altro è (quantomeno) superficiale e non stima la parola del suo padrone e finisce per sostituirsi a lui.

Ancora una volta possiamo citare in proposito le parole di Paolo nella sua seconda lettera a Timoteo: “…è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora, mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione”. Abbiamo allora le tre azioni che hanno caratterizzato la vita dell’apostolo che non elenca i risultati conseguiti, ma semplicemente li riassume col “buon combattimento”, quello della fede che porta a essere “senza macchia ed irreprensibile fino all’apparizione del Signor nostro Gesù Cristo” (1 Timoteo 6.12-14). La “corsa”, quella cui fece riferimento a proposito del conquistare il premio (1 Corinti 9.16), Paolo sa che sta per concludersi; coscio di “aver conservato la fede” nonostante le diremmo infinite difficoltà e sofferenze incontrate, sa che lo aspetta la “corona di giustizia” che, come a tanti altri, gli verrà consegnata.

 

C’è un aspetto che credo vada sottolineato e cioè che mentre per il servo fedele l’arrivo del padrone viene descritto nel modo più naturale possibile (il padrone, torna e lo trova “ad agire così”), non lo stesso avviene per l’altro e al tema del ritorno vengono dedicati due versi. Cerchiamo però di capire il processo mentale del secondo personaggio, definito “malvagio”, quindi già con un contrassegno negativo, interno, di partenza. Inizialmente si comporta come gli viene ordinato, ma poi la sua vera natura prevale e la conclusione “il mio padrone tarda” è chiaramente sintomo del fatto che un comportamento rispettoso dell’incarico inizia a pesare, cosa che non si verifica nel primo servo.

Queste due persone vivono la dimensione del tempo in modo diverso: per la prima ogni giorno costituisce una nuova base sulla quale costruire la propria esistenza, per la seconda è un vivere monotono, sempre uguale, vorrebbe fare dell’altro, che poi si concreta nel seguire i propri istinti e nell’altrui disprezzo. In Qoèlet 8.11 leggiamo che “Poiché non si pronuncia una sentenza immediata contro una cattiva azione, per questo il cuore degli uomini è pieno di voglia di fare il male”, cioè dovranno rendere conto non solo di ciò che hanno fatto, ma anche del tempo loro dato per porre rimedio alla loro condizione che non avranno usato.

Il servo “malvagio” si crede talmente al centro dell’universo da considerarsi unico, detentore di tutti i diritti senza alcun dovere; lui, comunque giuridicamente schiavo, dipendente da un padrone che conosce, senza la sua presenza si trasforma in persecutore dei propri sottoposti, proprio come quell’alto funzionario cui era stato rimesso un debito enorme dal re e che poi, dimentico della compassione usata verso di lui, andò ad esigere dagli altri con cattiveria le somme che gli erano a sua volta dovute (Matteo 18.21-35).

Ciò che la nostra parabola vuole però sottolineare con le parole “il mio padrone tarda” è che questa persona esprime un giudizio sul proprio signore, quasi che spettasse a lui stabilire i tempi e i modi del ritorno. È lo stesso comportamento che molti avranno secondo 2 Pietro 3.3,4: “Questo anzitutto dovete sapere: negli ultimi giorni si farà avanti gente che si inganna e inganna gli altri e che si lascia dominare dalle proprie passioni – come il servo della parabola –. Diranno; «Dov’è la sua venuta, che egli ha promesso? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi, tutto rimane come al principio della creazione»”. Un conto è considerare la creazione che è, un altro è intenderla come qualcosa che attende in suo termine. E l’incapacità di contare i giorni con la prospettiva della fine la descrisse Salomone in Ecclesiaste 1.4, “Una generazione se ne va e un’altra arriva, ma la terra resta sempre la stessa”.

Ecco, le parole di Pietro denunciano l’atteggiamento giudicante dell’uomo inutile sull’ “Amen” di Dio. Una promessa è una promessa, non sta a chi la riceve metterla in dubbio se è Dio a farla. Se c’è la fede, che abbiamo letto da Paolo va conservata, il dubbio del ritardo non viene neppure in mente perché il fatto che il Signore torni è una certezza al pari del fatto che il sole scaldi o che l’acqua disseti, non ha senso metterla in discussione. E tra l’altro il ritorno tardivo del padrone è un pretesto che una coscienza corrotta escogita per giustificare azioni in contrasto con gli incarichi ricevuti. Non a caso Pietro parla di “gente che si inganna e inganna gli altri” e Paolo commenta “La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra” (Filippesi 3.19).

Se per il primo servo il ritorno del proprio padrone non rappresenta altro che un evento naturale, per il secondo costituisce qualcosa di devastante e quel “non se lo aspetta”, “all’ora che non sa”, la punizione severa, l’infliggere, il “pianto e stridore di denti” sono gli elementi che concludono l’esistenza di questa persona, mentre per il servo fedele abbiamo la promozione “a capo di tutti i suoi beni”. Va specificato che ciò che è tradotto con “lo punirà severamente” è in realtà “lo taglierà in due”, un antico, atroce supplizio che consisteva nel legare una persona per i quattro arti ponendola a testa in giù per poi segarla. La morte sopraggiungeva dopo molto tempo, quando la recisione dell’arteria mesenterica superiore provocava dissanguamento quasi istantaneo. Tradurre con “punirà severamente” non spiega nulla perché lascia intuire una pena che abbia un termine, mentre qui si parla di una morte orrenda dalla cui lettura la persona è avvertita, cui seguono le istruzioni per evitarla.

Al di là della retribuzione, in bene o in male, del fatto che Gesù avvisi i suoi discepoli che il suo ritorno avverrà prima che sia passata “questa generazione” (con tutto ciò che comporta il termine che abbiamo sviluppato recentemente) e che alcuni lo crederanno in ritardo, cosa ci insegna questo episodio? Che ogni nostra azione è il risultato di ciò che ci abita realmente e, attraverso la sua lettura, è possibile ripercorrere tutti i processi che l’hanno prodotta. Il primo servo ha agito anteponendo la volontà del suo signore alla propria come un fatto naturale, traendo diletto nel proprio lavoro; il secondo ha operato controvoglia fin dall’inizio, potremmo dire per interesse come Giuda Iscariotha, fino a quando non ha più sopportato di fare sempre le stesse cose e non ha individuato in ciò che faceva una monotonia assoluta. La sua persona esigeva altro. Così è per chi si professa credente, ma alla infinita creatività dell’essere in ascolto dello Spirito sceglie di scendere nelle monotonie della carne.

Entrambi i servi vivono in un loro mondo in cui al centro c’è qualcuno, o il suo Signore, o il proprio “gemello” con le sue miserie. Ed è ciò che amano veramente a determinare il loro destino. Amen.

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