16.43 – LA PARABOLA DEI TALENTI (Matteo 25.14,30)

16.43 – La parabola dei talenti (Matteo 25,14-30)

 

14Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. 15A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito 16colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. 17Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. 18Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. 19Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. 20Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: «Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque». 21«Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone». 22Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: «Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due». 23«Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone». 24Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. 25Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo». 26Il padrone gli rispose: «Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; 27avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. 28Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. 29Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. 30E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti».

 

Siamo così arrivati all’ultima parabola esposta da Gesù a suoi che, assieme alla precedente, costituisce quello che definisco “le istruzioni sulla consapevolezza”. I discepoli e quanti sarebbero venuti dopo di loro, infatti, in quanto tali e quindi salvati per grazia e messi in condizione di conoscere i princìpi basilari della fede e le modalità di conduzione della loro vita, dovevano sapere che non solo avrebbero potuto essere soggetti a stanchezza, dubbi e prove, ma si sarebbero dovuti comportare come quei servitori che vegliano aspettando il ritorno del loro signore che, partito dalla propria dimora, aveva dato un compito a ciascuno di loro, come abbiamo letto in alcune parabole.

Se la parabola delle dieci vergini insegna che il cristiano deve vegliare ed essere preparato nel tempo dell’attesa, quella dei talenti pone l’accento sulla necessità dell’attività e fedeltà nel servizio: da una semplice lettura del testo emerge che, nell’affidare ai propri servi i talenti, il signore non pone sulle loro spalle compito superiore alle forze che avevano ma, conoscendo profondamente le capacità di ciascuno, affida ad ognuno una somma che potevano gestire.

La prima osservazione possibile è sul verso 14, tradotta da tutte le Bibbie “partendo per un viaggio” (o similare) quando letteralmente sarebbe “andando all’estero”, quindi in un posto diverso da quello conosciuto dai suoi servi, anche qui chiaramente non quelli incaricati delle pulizie di casa, ma persone di sua fiducia, cioè degli amministratori dai quali dipendeva la prosperità di tutta la struttura.

Di servi, nelle parabole, ne abbiamo incontrati tanti, di ogni ordine e grado, fedeli e infedeli, buoni e malvagi, irresponsabili e prudenti, ma qui abbiamo persone che, prima della partenza, vengono convocati con lo scopo dell’affido non di una parte, ma di tutti i beni del padrone (“tutti” che in alcune traduzione non compare, ma non rileva perché “i suoi beni” sta ad indicare lo stesso concetto). Il termine impiegato, “doùloi”, indica gli schiavi comprati con denari, che appartenevano al loro signore ed erano da lui mantenuti, condizione identica a quella descritta in 1 Corinti 6.19,20: “Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio e che non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!”. Corpo che, ricordiamo, è stato salvato al pari dell’anima.

Ecco allora la prima connessione-estensione sulla parabola: quei servi erano persone sulle quali il padrone aveva investito, scegliendoli tra molti e se legalmente gli appartenevano al pari dei suoi beni, mobili o immobili, il fatto che li rivesta di autorità e libero potere decisionale indica che contava su di loro per lo sviluppo delle sue sostanze e possedimenti.

È anche interessante notare che Gesù non parla di un padrone, ma di “un uomo” lasciando ai suoi ascoltatori la facoltà di riconoscere in quel personaggio Lui stesso esattamente come fece nella parabola dei due figli    (Matteo 21.33), dei servitori vigilanti (Marco 13.34) dove anche lì abbiamo “un uomo partito per un lungo viaggio”, e delle dieci mine in cui leggiamo “Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano per ricevere il titolo di re e poi tornare” (Luca 19.12,13). Sta quindi alla persona che legge rispondere all’interrogativo su chi sia quell’ “uomo”, cioè limitarsi ad interpretarlo come un proprio simile, prendendo il racconto come una favola frutto di una fertile fantasia, oppure identificare in lui il Signore Gesù Cristo, prendendolo sul serio come l’ “Io sono”, ebraico Elohim, uno dei nomi impiegati per indicare Dio, che non ha un nome come noi per distinguersi da altri.

 

Veniamo ora al talento, corrispondente a 34 kg. d’argento cioè, al momento in cui scrivo queste note (26 settembe 2025) a 41.922 euro. Al primo servitore ne vengono consegnati cinque, quindi 209.610, al secondo due, 83844 e al terzo, come già citato, 41.922. Va da sé pensare che queste tre persone sono delle semplici allusioni simboliche, perché se fossero stati i soli il patrimonio di quell’ “uomo” sarebbe stata ben poca cosa, ammontando a, cifra che potrebbe corrispondere alla somma che una persona comune, fino a qualche tempo fa, sarebbe riuscita a mettere da parte, risparmiando, in una vita di lavoro. Ricordiamo però il premio ai servitori della parabola delle dieci mine, consistenti in “dieci” e “cinque città” (Luca 19.16-19).

I talenti consegnati, per la somma che rappresentano indipendentemente dal fatto che siano stati cinque o uno solo, costituiscono un valore che mai quei servi avrebbero potuto possedere: non sono un premio, ma un incarico, un attestato di fiducia, a modo suo una gratificazione, un riconoscimento di una capacità che forse quelle persone non pensavano di possedere, ma il loro signore sì. L’apostolo Paolo spiega così la distribuzione dei talenti-doni dello Spirito nella Chiesa: “Abbiamo doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi: chi ha un dono di profezia la eserciti secondo ciò che detta la fede – non la vanagloria personale o simili sentimenti –, chi ha un ministero attenda al ministero – senza cercare di sconfinare in ciò che invece è di altri –, chi insegna si dedichi all’insegnamento, chi esorta si dedichi all’esortazione – prima su se stesso per evitare l’errore della trave nell’occhio –. Chi dona, lo faccia con semplicità, chi presiede, presieda con diligenza, chi fa opere di misericordia, le compia con gioia” (Romani 12.6-8). Dalla pluralità dei doni possiamo estrarre un principio importante: non siamo, né Dio ci vuole, tutti uguali. Anzi, ogni credente è inimitabile e come tale va rispettato. La Chiesa è unita nello Spirito e non perché composta da elementi prodotti in serie, che dicono le stesse cose nell’identico modo, che si muovono compatti, fisicamente o mentalmente, come un esercito. Il modo per riconoscere i settari, infatti è guardarli nel loro agire e nello sguardo: ognuno è identico all’altro, compie le stesse azioni, si muove quasi sincrono, spesso usa lo stesso tipo di eloquio.

Dal verso soprariportato vediamo che Paolo stila un elenco ordinato che va dalla profezia alle opere di misericordia in una scala che da un lato può essere considerato di importanza per le dinamiche di crescita della Chiesa, ma dall’altro le pone sullo stesso piano con le parole “secondo la grazia data a ciascuno di noi” perché “ciascuno” è importante agli occhi di Dio che guarda non al risultato, ma alla proporzione dell’impegno indicando il modo corretto del suo adempimento, sottolineato con le parole “lo faccia con gioia”. Come ha detto un fratello per spiegare il concetto, “al Signore interessa più chi siamo di cosa facciamo”. Perché l’essere è il fare continuo, il tendere a, non la caduta che può sempre verificarsi perché siamo carne.

Altro passo indicativo è reperibile in 1 Corinti 4.1,2: “Ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, ciò che si richiede agli amministratori è che ognuno risulti fedele”. Mi sono chiesto cosa stia ad indicare la qualifica di “amministratori dei misteri di Dio” e credo si riferisca al fatto che è necessaria, nella gestione del dono, lo stesso procedere oculato richiesto ai servitori della parabola in esame. Che vengano affidati cinque, due talenti o uno solo, il principio del farli fruttare deve coinvolgere l’onestà della persona che deve avere l’umiltà di riconoscere i propri limiti rimandando ad altri la gestione dei “misteri di Dio” perché non a tutti è data la conoscenza (secondo lo Spirito) e soprattutto non in ugual modo. “Amministrare” significa proprio curare l’andamento di qualcosa in modo da garantirne l’efficienza e il rendimento, gestire situazioni. E, per il contesto esaminato, significa avere una parola appropriata per ogni circostanza, dovendo essere “sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pietro 3.15). Perché “Vi sono diversi doni, ma uno solo è lo Spirito, vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore. Vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti” (1 Corinti 12.7). Quindi riconoscere, non deprezzare.

 

Veniamo ora ai primi due servi, che andarono “a impiegarli”, esattamente come nella parabola già ricordata delle dieci mine, obbedendo all’ordine “fatele fruttare fino al mio ritorno” (Luca 19.13). Evidentemente quegli uomini conoscevano già le dinamiche per una corretta gestione delle somme loro affidate e, consci dell’importanza dell’incarico, operarono al meglio tant’è che il risultato fu un guadagno doppio rispetto a quanto ricevuto. Credo che in questo dobbiamo vedere non solo l’abilità tecnica dei due, ma l’immedesimazione totale nel padrone: agiscono come se quei talenti fossero i loro talché, al momento del rendiconto, la ricompensa sarà espressa con le parole “sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; entra nella gioia del tuo padrone”, cioè “diventa una cosa sola con me” nel senso di “quello che è mio, è anche tuo”. Quale altra definizione, infatti, potremmo dare di quest’espressione? In un verso che conosciamo, nella Prima lettera ai Tessalonicesi leggiamo “…quindi noi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo per sempre col Signore” (4.17). E il miglior raccordo lo troviamo nelle parole di Gesù “Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me perché dove sono io siate anche voi” (Giovanni 14.2).

Quanto al motore interno che animava questi due servi, credo possa essere rilevato in Atti 20.24 quando Paolo, parlando del proprio operato, disse “Non ritengo la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio”.

Teniamo sempre presente che i documenti a noi pervenuti che costituiscono il cosiddetto “Nuovo Testamento” presentano personaggi molto positivi o molto negativi, mai quanti hanno operato stando “nel mezzo” per cui potremmo essere portati a tendere a quella perfezione rappresentata da un dono che altri hanno avuto e noi no, per cui siamo chiamati a conoscere i nostri limiti e l’ambito nel quale dobbiamo operare. Infatti le parole del padrone ai due servi sono di un’essenzialità sorprendente: “Bene, buono e fedele servitore, sei stato fedele nel poco”. Non c’è un elogio particolare, ma solo due aggettivi, mancano i toni magniloquenti che il mondo usa quando deve portare ad esempio alcuni premiandoli con titoli o cariche onorifiche. “Sei stato fedele nel poco” esattamente come in Luca 17.10, “Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato richiesto, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.

 

Il terzo servitore, invece, è profondamente diverso dai precedenti, per psicologia e comportamento perché non fa nulla. Onorato al pari dei precedenti, per quanto con una somma più piccola, non pensa di aver ricevuto un incarico identico a quello dei colleghi, quindi di possedere una pari responsabilità; neppure gli interessa il fatto che i suoi consimili avrebbero faticato, si sarebbero preoccupati dei beni loro affidati come se fossero i loro, ma “andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone”, costume orientale cui abbiamo accennato considerando la parabola del tesoro nascosto in un campo. In tal modo quell’uomo vanificava il progetto del padrone, perché tanto avrebbe valso non dare nulla ai servi e tenere i suoi talenti rinchiusi da qualche parte. Affidando invece i talenti a suoi, quel signore vuole vedere chi di loro sarebbe stato degno di incarichi più prestigiosi una volta tornato, come nella parabola delle mine in Luca 19.12, “Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare”.

Così facendo il servitore nullafacente dimostra tutto il suo disprezzo nei confronti di una persona che aveva investito su di lui comprandolo e si ritiene a lui superiore, decidendo da sé ciò di cui il suo padrone aveva bisogno. Quel servo sceglie di non impegnarsi, ben sapendo che con poco sforzo avrebbe potuto guadagnare, se non il doppio, una piccola parte perché la parabola non dice che era stato stabilito un minimo accettabile perché quei suoi servi fossero ricompensati. Riconsegnando il talento, in realtà viene dato meno, contando la svalutazione.

L’interiorità del terzo servitore ha però alla sua radice qualcosa di più complesso: chiaramente disprezza chi gli ha dato l’incarico, ma così facendo si immedesima totalmente nel comportamento di chi dice “Chi è l’Onnipotente, perché dobbiamo servirlo? E che ci giova pregarlo?” (Giobbe 21.14). Ancora: “«Perché digiunare, se tu non lo vedi? Perché (dobbiamo) mortificarci, se tu non lo sai?». Ecco, nel giorno del vostro digiuno curate i vostri affari, angariate tutti i vostri operai” (Isaia 58.3,4). Ancora una volta fu il pensare autonomo che portò alla rovina di quest’uomo: il mio signore è partito, chissà se e quando tornerà, perché devo affaticarmi? Dovrebbe essere lui, che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso, a pensarci. Abbiamo quindi uno stravolgimento di tutti i principi che stavano alla base di un sistema che non poteva venire alterato senza conseguenze a cui il servo non pensa: sotterrando il talento crede di aver chiuso col problema del far fruttare il valore ricevuto, ma si troverà di fronte a qualcosa di enorme, irrisolvibile, più avanti, quando si troverà a rendere conto del proprio operato.

Sono poi le parole stesse di quel servo a tradire il suo vuoto: i primi due sono essenziali nel loro parlare; se proviamo a togliere un solo vocabolo dal loro discorso, questo rimane incompleto. Il terzo, invece, fa una lunga premessa con l’unico scopo di minimizzare la sua colpa che poi, tutto sommato secondo lui, non è tale perché “ecco ciò che è tuo”: abbiamo la distinzione tra “io” e “tu”, quindi una dichiarazione di estraneità. Il primo che vuole essere diviso dal suo padrone è proprio il servo che, mentre gli altri lavoravano, condivideva con loro i pasti e la dimora a spese del padrone senza fare nulla, apparentemente libero dalle preoccupazioni degli altri. La parabola dei talenti è quella dell’impegno, che certamente ebbe dei momenti di stanchezza, forse anche scoraggiamento, ma quel che conta è il risultato finale.

C’è però nelle parole giustificative di questa persona un particolare e cioè dice “io ebbi paura”: di cosa? Di non riuscire nell’impresa, di un compito troppo grande? Sono eventualità che vanno scartate perché è chiaro che la “paura” è solo un pretesto giustificativo perché, ammettendo che le capacità di quel servo fossero scarse, esistevano sempre i “banchieri” e, con minimo sforzo del servo, il padrone avrebbe potuto avere il suo guadagno, magari non un secondo talento, ma comunque più di quanto aveva consegnato.

Il terzo servo è allora figura di quelle persone che, nonostante la loro professione di fede, resi partecipi della comunione con la Chiesa, non solo non fanno nulla per cambiare e progredire, curare il proprio mondo interiore alla luce del Vangelo, ma si tengono distanti, costruendosi tutta un’idea del loro Signore lontana dalla realtà, curando i propri interessi senza far nulla per Lui. L’unica fatica che fanno, è scavare una buca per sotterrare il talento ricevuto, sottovalutando il loro Signore e peccando di estrema sufficienza nei Suoi confronti. Nascondendo così la luce sotto il moggio. E così sotterrando loro stessi. Amen.

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