16.48 – IL GIUDIZIO FINALE V: LE PAROLE ALLE PECORE III (Matteo 25.34-40)

16.48 – Il giudizio finale V: Le parole alle pecore III (Matteo 25,34-40)

34Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, 35perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, 36nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». 37Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? 38Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? 39Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». 40E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me».

Malato e mi avete visitato
Quinta condizione possibile in un essere umano, quella della malattia, o meglio dell’infermità, parole cui tendiamo a dare lo stesso significato, ma che in realtà indicano due posizioni differenti: la prima è riferita a una persona che non sta bene di salute, fisica o mentale che sia, mentre la seconda comporta una condizione di invalidità, totale o parziale.
La nostra pericope, insieme alle altre del brano che alludono a posizioni svantaggiate rispetto ad altri, ha fatto sì che la Chiesa di Roma istituisse la regola delle misericordie corporali (Visitare gli ammalati, i carcerati, seppellire i morti, dar da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, vestire gli ignudi, visitare gli infermi e alloggiare i pellegrini) e altre denominazioni ne fanno un punto di forza nel loro modo di vivere la fede. Ricordo però una volta, anche se è passato molto tempo, che fui “visitato” da alcuni fratelli quando mi trovavo ricoverato in ospedale che mi dissero, quasi compiaciuti, che erano venuti perché c’era scritto di visitare gli infermi e la cosa mi infastidì molto essendo chiaro che la loro presenza non era dettata da un condividere, un voler compatire nel senso attinente del termine, ma perché così era scritto. Per loro essere lì costituiva un adempimento a una prescrizione religiosa, ma non potevano essere più distanti da me; chi lo sa, forse così facendo si sentivano più buoni o credevano di aver fatto chissà cosa, ma in realtà la visita all’ammalato o all’infermo è semplicemente immedesimazione, volontà di partecipare se ciò è bene accetto, dare un aiuto spirituale anche solo con una muta presenza, che a volte dice molto più delle parole, minimo o rilevante non importa perché è questo che siamo chiamati a fare, donando liberamente.
La visita all’infermo non consiste nel cercare di rallegrarlo, tirarlo su di morale facendo battute o prospettandogli o augurargli la guarigione, ma di far sentire la propria vicinanza portando quell’aiuto che solo un credente radicato nella Scrittura può dare. Gli altri, al limite, si aspettano di sentire dall’ammalato degli sfoghi di tristezza o di quella contrarietà inutile che la persona può portarsi dentro. È invece necessario utilizzare quel discernimento spirituale che mancò del tutto negli amici di Giobbe, che vennero da lontano “per consolarlo” ma che in realtà si trasformarono ben presto nei suoi peggiori aguzzini portandogli princìpi morali e accuse totalmente avulse dalla situazione in cui versava. E questo, si badi, non perché erano di animo cattivo, ma in quanto convinti di fargli del bene e di aiutarlo a trovare un peccato che non aveva commesso.
Chi visita un infermo non compie tanto un’opera di carità, ma esercita il ruolo di pastore per il semplice fatto che non pensa a se stesso, ma agisce dopo essersi domandato di cosa ha bisogno in quel momento il fratello o la sorella che versa in una condizione limitante, che può essere temporanea (ad esempio una frattura) o peggiorare anche fino alla fine della propria vita. E deve avere le parole e il comportamento opportuno, sapersi raccordare alla situazione, se è in grado di farlo. Soprattutto, occorre avere l’intelligenza per discernere il tipo di persona, poiché esiste chi trova piacere nel venire visitato e chi preferisce restare solo. Ognuno di noi è diverso dall’altro.
Credo di avere già citato tempo fa Ezechiele 34.4, ma lo ripropongo per le riflessioni diverse che può suscitare: “Guai ai pastori di Israele, che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andate in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza. Per colpa del pastore si sono disperse e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate”.
Ecco, il pastore qui, a parte di riferimenti a quelli del popolo cui Dio si rivolge, è un compito che tutti i cristiani sono chiamati ad adempiere non per guidare una Chiesa o esercitare un dono specifico, ma nell’occuparsi del proprio fratello o sorella: non ci vuole chissà quale capacità di analisi psicologica per capire quando una pecora è debole, inferma, ferita o si è persa. In questo caso, se non si provvede, lo sbandamento è inevitabile. Invece sono molti coloro che, perché scandalizzati da comportamenti risultati da egoismi o sentimenti carnali in una Comunità, si allontanano da essa subendo poi pesanti penalizzazioni nella loro vita morale e spirituale. Il comportamento dei falsi pastori è visto nel godere unicamente del proprio lavoro svolto per un esclusivo tornaconto spirituale, nutrendosi di latte, rivestendosi di lana, ammazzando le pecore più grasse, ma non preoccupandosi della cosa più importante, vera garanzia perché il gregge prosperi, “ma non pascolate il gregge”. Perché la pecora ha bisogno di pascolo, cioè avere un nutrimento che ora è sostanzioso, ora meno, fatto di elementi anche minimi. E il lavoro dei pastori citati da Ezechiele era talmente infruttuoso da costringere Dio stesso ad occuparsi di quegli animali in futuro, “Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte, le pascerò con giustizia” (v.16).
Quanto osservato finora riguarda i malati e gli infermi spirituali, ma la cura del corpo non è meno importante di quella dell’anima nel senso che “non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio”. “Non di solo pane”, non è scritto che questo elemento non è necessario ed ecco perché siamo chiamati a curare il nostro corpo e badare anche alla nostra vita materiale, quindi pensare ad un sostentamento dignitoso della nostra persona che preveda armonia fra le nostre te componenti, corpo, anima e spirito. In altri termini la vita del cristiano deve essere improntata all’equilibrio perché altrimenti viene compromessa la sua testimonianza. Ecco perché è importante quello che pensano di noi “quelli di fuori”.

Riguardo ai malati e agli infermi i Vangeli sono pieni di interventi di Gesù verso di loro e sono talmente numerosi che sono rari i casi in cui compaiono per nome o vengono citati individualmente o in gruppo, come i dieci lebbrosi. Troviamo descritte moltitudini di malati, solo in Matteo per citare il primo ma sono ovunque anche negli altri, in 4.24, “…sanando ogni malattia e infermità fra il popolo”, 8.16; 14.35; 15.30; 19.2.
Più avanti, dopo la risurrezione quando operarono Pietro e Paolo, leggiamo “Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti impuri, e tutti venivano guariti” (da Pietro). Il verso 14 è ancora più forte: “Sempre di più, però, venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di uomini e donne – non bambini –, tanto che portavano gli ammalati persino nelle piazze, ponendoli su lettucci e barelle perché, quando Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro”. Per Paolo, invece, abbiamo 19.11,12, “Dio intanto operava prodigi non comuni per mano di Paolo, al punto che mettevano sopra i malati fazzoletti o grembiuli che erano stati a contatto con lui e le malattie cessavano e gli spiriti cattivi fuggivano”.
A parte la missione dei dodici o dei settantadue la guarigione dalla malattia o dall’infermità, nel primo periodo della vita cristiana, era strumento nelle mani degli uomini di Dio perché attraverso di esse gli uomini, la cui mentalità era profondamente diversa da quella di allora, potevano convertirsi effettuando le considerazioni più opportune fra la guarigione del corpo e quella dell’anima, ma non fu così per tutti, anche credenti, come Paolo stesso cui il Signore non tolse la “spina nella carne” per cui aveva pregato tre volte, o per “Trofimo”, credente citato nella seconda lettera a Timoteo di cui scrisse “che ho lasciato infermo a Mileto” (4.20).
Degno di nota quanto leggiamo in 1 Cor 11.27-31 che pone il cristiano in una responsabilità molto particolare nei riguardi della Santa cena, o memoriale: “Perciò chiunque mangia il pane o beve il calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore. Ciascuno dunque esamini se stesso e poi mangi del pane e beva del calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. È per questo che tra voi vi sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti. Se però ci esaminassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati; quando poi siamo giudicati dal Signore, siamo da lui ammoniti per non essere condannati insieme con il mondo”.
C’è poi una promessa interessante in Giacomo 5.14-16 riguardo alla gestione delle malattie e infermità nella Chiesa, qualora vi siano uomini preparati e santi nel senso della coerenza di fede: “Chi è malato, chiami presso di sé i presbiteri della Chiesa ed essi preghino su di lui, ungendolo con olio nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato. Il Signore lo solleverà e, se ha commesso peccati, gli saranno perdonati. Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti. Molto potente è la preghiera fervorosa del giusto”. Il Signore infatti scruta il cuore, la mente e la posizione spirituale della persona che si rivolge a Lui in preghiera, che non può ingannarlo in alcun modo, mentre può farlo nei confronti di se stesso.
In ogni caso la malattia non può lasciare indifferenti e ciascuno di noi è chiamato a prendersi cura, in un modo o nell’altro, di chi versa in condizioni penalizzanti. Sta a lui trovare il modo più opportuno per farlo perché dobbiamo essere, se non risolutivi, portatori di un aiuto che gli altri non possono dare. Perché comunque l’esperienza, provata o da provare, è quella di Davide nel suo Salmo 41.2-5, “Beato l’uomo che ha cura del debole: nel giorno della sventura il Signore lo libera. Il Signore veglierà su di lui, lo farà vivere beato sulla terra, non lo abbandonerò in preda ai nemici. Il Signore lo sosterrà sul letto del dolore; tu lo assisti quando giace ammalato”.
Concludendo, abbiamo già visto che nessuno dei sei casi elencati da Gesù lo lasciò indifferente quando era in vita; tanto più è impossibile che accada oggi, con il Suo sedere alla destra del Padre. Lo stesso si aspetta da noi. Amen.
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16.47 – IL GIUDIZIO FINALE IV: LE PAROLE ALLE PECORE II (Matteo 25.34-40)

16.47 – Il giudizio finale IV: Le parole alle pecore II (Matteo 25,34-40)

 

34Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, 35perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, 36nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». 37Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? 38Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? 39Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». 40E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me».

 

Ero straniero e mi avete accolto

Fra tutte le sei condizioni elencate da Nostro Signore, per il periodo storico in cui viviamo, è la più complessa da sviluppare anche perché l’argomento trova sostenitori a senso unico di tesi opposte ed entrambi citano la Scrittura a loro vantaggio. La parola “straniero” deriva dal latino “extraneum” che significa “esterno, estraneo”, con la particela “extra”, “fuori” dalla cultura, dall’essere e dalla genealogia di un popolo e quindi diverso, lontano, non partecipe, forestiero, sconosciuto, non pertinente. Negli scritti dell’Antico Patto le posizioni in proposito sono due, quella dello straniero inteso come popolo e come individuo. La prima è negativa, perché culture e soprattutto credenze estranee sono viste come fuorvianti dal vero Dio, mentre la seconda è volta al trattamento umano del singolo, o dei singoli.

Prendendo i passi più significativi sui popoli diversi da quello di Israele, per il quale Dio disse “Vi prenderò come mio popolo, e diventerò il vostro Dio. Saprete che io sono il Signore, il vostro Dio, che vi sottrae ai lavori forzati degli egiziani” (Esodo 6.7), , si possono citare Deuteronomio 7.3,4, “Non costituirai legami di parentela con loro – sette nazioni citate al verso precedente –, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, perché allontanerebbero la tua discendenza dal seguire me, per farli servire a dèi stranieri e  l’ira del Signore si accenderebbe contro di voi e ben presto vi distruggerebbe” e 11.16, “State in guardia perché il vostro cuore non si lasci sedurre e voi vi allontaniate, servendo dèi stranieri e prostrandovi davanti a loro”.

Gli stranieri però, quando presenti in Israele, erano tutelati da Dt 24.27 “Non lederai il diritto dello straniero e dell’orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova”. Se in Esodo 12.43 nessuno di loro poteva partecipare al rito della Pasqua stante le modalità che la caratterizzarono (la liberazione del popolo dall’Egitto), più avanti colui che, pur non appartenendo alle dodici tribù, si convertiva e abbracciava l’ebraismo acquisiva gli stessi diritti degli israeliti anche “religiosamente” parlando: “Se uno straniero che dimora da voi, o chiunque abiterà in mezzo a voi, di generazione in generazione, offrirà un sacrificio consumato dal fuoco, profumo gradito al Signore, farà come fate voi” (Numeri 15.14). Poi al verso 16 “Ci sarà una stessa legge e una stessa regola per voi e per lo straniero che dimora presso di voi”.

Unica differenza fra chi era geneticamente appartenente al popolo di Dio e chi no, stava nel fatto che ai primi non poteva essere prestato ad interesse e che nessuno straniero avrebbe potuto diventare re (Dt 23.21; 17.15). Va da sé che la circoncisione era il primo punto da adempiere per essere ammesso alla Comunità della quale diventava parte integrante al punto che Ezechiele 44.9 scrive “Nella tribù in cui lo straniero è stabilito, là gli darete la sua parte di eredità. Oracolo del Signore Dio”. Al contrario in 44.9 “Così dice il Signore Dio: nessuno straniero, non circonciso di cuore, non circonciso di carne, entrerà nel mio santuario, nessuno di tutti gli stranieri che sono in mezzo ai figli di Israele”. Due erano quindi i requisiti, la circoncisione del cuore e quella della carne, entrambi qualificanti come appartenenti al popolo eletto coloro che vi si sottoponevano. Certo delle due la più impegnativa, per la rinuncia e la mentalità nuova che comportava, era la prima.

Da considerare la preghiera di Salomone quando si concluse la costruzione del primo tempio in 1 Re 8.41-43, che non solo contempla la partecipazione dei non appartamenti al Kaal, ma prelude al coinvolgimento di tutti i popoli al piano di Dio: “Anche lo straniero, che non è del tuo popolo Israele, se viene da una terra lontana a causa del tuo nome, perché si sentirà parlare del tuo grande nome, della tua mano potente e del tuo braccio teso, se egli viene a pregare in questo tempio, tu ascolta nel cielo, luogo della tua dimora, e fa tutto quello per cui ti avrà invocato lo straniero, perché tutti i popoli della terra conoscano il tuo nome, ti temano come il tuo popolo Israele e sappiano che il tuo nome è stato invocato su questo tempio che io ho costruito”.

Anche Geremia 7.5-7 annovera il trattamento umano dell’estraneo al popolo quale condizione per poter godere delle benedizioni: “Se davvero renderete buona la vostra condotta e le vostre azioni, se praticherete la giustizia gli  uni verso gli altri, se non opprimerete lo straniero, l’orfano e la vedova, se non spargerete sangue innocente in questo luogo e non seguirete per vostra disgrazia dèi stranieri, io vi farò abitare in questo luogo, nella terra che diedi ai vostri padri da sempre e per sempre”.

La condizione per cui il non israelita potesse essere accolto diventando parte integrante della nazione era che abbracciasse le sue leggi morali e cerimoniali e così fu da sempre, fin dai tempi di Abrahamo: “Quando avrà otto giorni, sarà circonciso fra voi ogni maschio di generazione in generazione, sia quello nato in casa sia quello comprato con denaro da qualunque straniero che non sia della tua stirpe” (Genesi 17.12).

Gesù usa il termine “straniero” proprio perché al suo tempo era sinonimo di pagano, con tutto il disprezzo che questo comportava (ricordiamo lo scrollarsi la polvere dai piedi quando si entrava nel territorio di Israele da uno pagano). “Ero straniero e mi avete accolto” significa non consentire al pregiudizio o al razzismo di prevalere e fare discriminazioni, fermo restando che l’accoglienza si dà a chi si integra esattamente come ai tempi della Legge.

Chi viene da un territorio diverso da quello del Paese ospitante incontra più difficoltà di coloro che sono ordinariamente residenti: linguistiche, deve affrontare una mentalità più o meno differente a seconda della ragione da cui proviene, ma in ogni caso è la singola posizione che andrebbe valutata anche dagli Stati che, loro malgrado o meno, accolgono. E qui, se si volesse parlare dei criminali, degli sbandati, di tutti coloro che arrivano esperti di espedienti dai territori più disparati, non si finirebbe mai.

Il riferimento di Gesù, comunque, è rivolto allo straniero cristiano o che comunque lo vuole diventare, non certo alle moltitudini che si riversano sui suoli europei occupandoli e pretendendo di imporre le loro tradizioni e il loro credo come accade oggi. La frase in esame trova il suo riferimento in numerosi passi del libro degli Atti e la storia soprattutto del primo secolo del cristianesimo è ricchi di divisioni e diffidenze di trattamento da parte dei cristiani ebrei rispetto a quelli pagani. Troviamo un riferimento interessante in 3 Giovanni 5, “Tu – Gaio, destinatario della lettera – ti comporti fedelmente in tutto ciò che fai in favore dei fratelli, benché stranieri”: “Benché” cioè “Nonostante”, in opposizione alla mentalità che li vedeva subordinati a chi non era ebreo. Ricordiamo che il testo di Matteo 25 su cui stiamo lavorando parla del fatto che “tutti i popoli saranno riuniti davanti a Lui” e che la separazione fra pecore e capri verrà operata allo stesso modo indipendentemente dall’etnia di appartenenza. Il verso più emblematico in proposito lo reperiamo in Romani 10.12, “Non c’è distinzione fra Giudei e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti coloro che lo invocano” e Galati 3.28, “Non c’è Giudeo né Greco, non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”.

Più avanti leggiamo nel nostro testo “quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me”: “più piccoli” è tradotto anche “minimi” quindi il riferimento è alle persone più umili nel senso di capacità e posizione davanti a Dio, comunque importanti perché lo hanno accolto dentro di loro e importanti al pari di quelli che magari hanno doni dello Spirito e li esercitano, ma superiori comunque a tutti coloro che magari professano una fede che non hanno. La possibilità di barare, certo temporaneamente, certo non davanti a Dio, esiste sempre. Così infatti scrive l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera: “Se alcuno dice: «Io amo Iddio» e odio il suo fratello, è bugiardo poiché, chi non ama il suo fratello, che ha visto, come può amare Dio, che non ha visto?” (2.20).

Ricordiamoci sempre che è il cristianesimo formale, nominale, che fa differenze fra persona e persona, quindi fra chi è indigeno o alogeno: “Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali. Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con il vestito logoro. Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: «Tu siediti qui, comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti là, in piedi», oppure: «Siediti qui, ai piedi del mio sgabello», non fate forse discriminazioni e non siete dai giudizi perversi?” (Giacomo 2.1-4).

 

“Ero straniero e mi accoglieste” significa dare dignità e aiuto a chi non lo trova ponendolo nelle condizioni di poter gestire la sua vita spirituale e materiale senza discriminazioni di sorta. Gesù, con queste frase, la terza delle difficoltà in cui può versare una persona, aggiunge un dato importante sulla gestione della carità perché, se è vero che sarà la fede a dare la nostra giustificazione, le opere saranno quelle per le quali saremo giudicati.

 

Nudo e mi avete vestito

Quarta condizione e, se ci pensiamo, tutte le sei sono le stesse in cui versavamo noi prima dell’incontro con il nostro Salvatore: ci ha sfamato e dissetato, ci ha accolto nonostante fossimo stranieri, ci ha vestito esattamente come il Padre dopo la trasgressione dei nostri progenitori, è andato “…a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano rifiutato di credere quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua” (1 Pietro 3.19,20). Eravamo malati, soffrendo perché non riuscivamo a risolvere il problema finale della nostra esistenza e lo abbiamo lasciato agire per essere guariti. Non a caso il Suo Ministero fu dedicato per una parte importante alle persone affette dalle malattie più disparate.

La nudità è di due tipi, spirituale e materiale, lo sappiamo bene perché è la prima conseguenza del peccato; se occuparsi di quella del primo tipo è di competenza del Signore Gesù, il credente non può esimersi dal non provvedere alla seconda. Ricordiamo infatti il passo di Giacomo 2.15,16 che ogni tanto viene citato contro l’ipocrisia religiosa: Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve?”.

Anche l’apostolo Paolo, parlando della dimora finale del credente, pone l’essere vestiti come condizione per accedervi: “Sappiamo infatti che, quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli. Perciò, in questa condizione, noi gemiamo e desideriamo rivestirci della nostra abitazione celeste purché siamo trovati vestiti, non nudi” (1 Corinti 5.1-3).

“Nudo e mi avete vestito” significa allora, a parte il soccorso immediato da un punto di vista stretto per rimediare alla mancanza di che coprirsi, fare il possibile per dare dignità a quel fratello o sorella che si trova nell’impossibilità di gestirla. Ed è impossibile, in questo, non vedere Gesù perché si tratta di una persona che gli appartiene. Amen.

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16.46 – IL GIUDIZIO FINALE III: LE PAROLE ALLE PECORE I (Matteo 25.34-40)

16.46 – Il giudizio finale III: le parole alle pecore I (Matteo 25,34-40)

 

34Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, 35perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, 36nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». 37Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? 38Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? 39Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». 40E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me».

 

Ci sono due parole cui non si presta molta attenzione, perché le si danno per scontate, nel verso 34: “Allora” e “re”. La prima significa “in quel momento, a quel tempo” e descrive un radicale cambio di una situazione. Abbiamo così descritto il terzo (se si considera il Nuovo Testamento) stato del Figlio di Dio, che dall’eternità della Sua dimora si fece uomo “prendendo forma di servo”, diede sé stesso in sacrificio per molti e risorse, guidò la sua Chiesa come un pastore e quindi si manifesterà come Re.

Il sostantivo “Re”, poi, qui è fondamentale perché, a parte la parabola delle nozze in cui il riferimento è velato, Gesù si attribuisce questo titolo da solo. Come “Re dei Giudei”  fu cercato dai Magi (Matteo 2.2) e fu inconsciamente (ma profeticamente) indicato da Pilato quando fece fare l’iscrizione sulla croce (Matteo 27.37; Marco 15.26; Luca 23.38; Giovanni 19.19) che i capi religiosi del popolo contestarono: “Non scrivere «Il re dei Giudei», ma «Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei». Rispose Pilato: «Quel che ho scritto, ho scritto»”.

“Il Re” del nostro verso, allora, ci parla da un lato di un dato di fatto, assoluto, e dall’altra che ci sarà chi lo riconoscerà come tale e chi no, ma ciò non toglie che lo sia veramente e che le parole “Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per vi fin dalla creazione del mondo” non potranno incontrare alcuna opposizione. La parola di un sovrano è legge e, quando pronunciata pubblicamente, non può essere ritirata, abrogata, annullata, come avvenne quando Erode Antipa fece quella promessa atroce alla figlia di Erodiade di cui si pentì, ma che non poteva in alcun modo annullare. Il “Re” del verso 34 è poi un re che giudica, ordina che i Suoi siano non accolti nel proprio regno, ma che lo ricevano “in eredità”, quindi abbiamo il compimento di molti passi che per secoli hanno costituito la speranza e la base della vita dei veri cristiani; ricordiamo fra i tanti Romani 8.17, “Se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria”, Galati 3.29, “Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa”, Tito 3.7, “…affinché, giustificati per la sua grazia, diventassimo, nella speranza, eredi della vita eterna” e infine Efesi 2.19: “Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio”.

L’eredità non è un miraggio, ma una realtà che diventerà concreta in un preciso momento ed è una delle basi su cui si fonda la Chiesa perché Gesù disse “Non temere, piccolo gregge – in contrapposizione a quelle grande dell’Avversario –, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il regno” (Luca 13.32).

“Il Re dirà” cioè la Parola parlerà in un momento assolutamente solenne perché rappresenterà la fine di un’attesa che dura da sempre: Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, in vista della salvezza che sta per essere rivelata nell’ultimo tempo.” (1 Pietro 1.3-5) senza dimenticare Apocalisse 21.6,7 che descrive il momento dell’apertura dell’eternità ai credenti: “Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la fine. A colui che ha sete io darò gratuitamente da bere alla fonte dell’acqua della vita. Chi sarà vincitore erediterà questi beni; io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio”.

 

Veniamo ora al regno “preparato per voi dalla creazione – altri preferiscono “fondazione”del mondo”: già ho osservato che il processo della creazione non fu più complesso, certo da un punto di vista umano, della costruzione del piano e delle modalità per la nostra salvezza, ma è bello per me pensare che la venuta di Gesù sulla terra è stata illuminante non solo per la possibilità che è stata data alla creatura di conoscerlo, ma per la rivelazione di elementi che altrimenti sarebbero rimasti occulti: “Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo” (Matteo 13.35). E questa preparazione non solo ha contemplato la venuta del Figlio, il Suo Ministero, Morte e Resurrezione, ma l’assegnazione di un posto preciso nel Regno, che troverà nel momento descritto da Gesù nei passi in esame la sua apertura; ricordiamo la risposta che ottennero Giacomo, Giovanni e la loro madre alla richiesta in Matteo 20, “Sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo, ma è per coloro ai quali è stato preparato” (v.23, ma anche Marco 10.40).

Gesù è Colui che “fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi” (1 Pietro 1.20), garanzia per i credenti di non cadere nella rete dell’Avversario come gli altri uomini per essere suoi perché, se possiamo sempre peccare, cadere e venire penalizzati, siamo comunque nell’impossibilità di essere strappati dalla Sua mano: saranno coloro che non gli apparterranno a cadere nel più grande inganno della storia, quello della Bestia e del Falso Profeta, quando “La adoreranno tutti gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto nel libro della vita dell’Agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo” (Apocalisse 3.18) o 17.8 “…e gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto nel libro della vita fino dalla fondazione del mondo, stupiranno al vedere che la bestia era, e non è più, ma riapparirà” (cioè l’impero).

 

Il verso 35 contiene la motivazione dell’ingresso nel Regno, “perché”, ma vediamo che manca quella che dovrebbe essere la più ovvia, cioè “avete creduto in me”. Sappiamo che il semplice credere non risolve nulla, ma è qualcosa che va dimostrato attivamente. Non posso dire di amare una persona se non faccio nulla per lei e ricordiamo che “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio unigenito affinché chiunque creda in lui non vada perduto, ma abbia vita eterna” (Giovanni 3.16). Non troviamo scritto “Perché avete creduto in me” perché la separazione fra pecore e capri è già avvenuta e con questa Gesù avrà già operato quella divisione fra credenti falsi e veri. Chi verrà posto alla Sua destra, quindi, saranno coloro che avranno messo in pratica il Vangelo nei confronti dei propri simili visti nelle sei condizioni elencate, cioè verso chi avrà avuto fame, sete, sarà stato straniero, nudo, malato e in carcere, sei condizioni perché questo è il numero dell’imperfezione e che quindi contiene la totalità di essa che può essere vista in una condizione di difficoltà. È su queste che è necessario soffermarsi perché, per il tempo in cui viviamo, anche i cristiani possono essere soggetti a fraintenderle.

Uno degli errori che possiamo commettere leggendo la Scrittura è quello di pensare che quanto troviamo debba essere sempre e comunque interpretato come assoluto e immutabile, ma così facendo è facile cadere nell’approssimazione, nell’aggiungere e togliere o nel costruirsi false aspettative. Se ho il mal di denti, pregando, l’eventuale carie da sola non si rimuove. Se il cuore non funziona a dovere, devo andare dal cardiologo. Se sono in depressione o soffro di attacchi di panico, mi serve un terapeuta e non posso pretendere, pregando, di guarire degli ammalati come gli apostoli quando furono inviati in missione da Gesù; se mai, posso cercare di fare un inventario di ciò che mi ha portato in quella situazione. La Scrittura contiene passi che sono validi in ogni tempo, altri che per essere compresi richiedono una buona conoscenza della storia, altri che comportano un serio collegamento alla realtà dell’epoca cui si riferiscono.

Se i 120 di Gerusalemme parlarono lingue che non conoscevano, oggi le devo studiare ed ecco perché Gesù disse che sarebbero stati beati coloro che avrebbero creduto senza vedere. Non abbiamo più guarigioni miracolose (che possono comunque sempre accadere), ma fratelli e sorelle infermi che con la loro vita testimoniano la loro fede indipendentemente dalle condizioni in cui si trovano. E, tornando alle sei categorie, a parte l’affamato, l’assetato e il malato, oggi sono diverse da quelle di allora.

 

Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere

Chi si trova in queste condizioni non ha la possibilità di soddisfare un bisogno primario per la sua sopravvivenza e credo siano comprese, in questa pericope, anche la fame e la sete spirituale. L’affamato e l’assetato sono situazioni chiare, non occorre essere degli empatici o grandi conoscitori della psiche umana per individuarli, ma sono sotto gli occhi di chiunque; vi è chi, per ragioni dovute a una profonda dignità, le nasconde e chi chiede apertamente, ma in ogni caso non possono lasciare indifferenti anche se, come insegna la parabola del buon samaritano, vi è chi si ritiene a posto con la propria coscienza, chi ritiene di avere “già dato”, e per questo passa oltre.

Aiuta la comprensione di questo passo, già di per sé chiaro, l’esempio di Giobbe, “il più grande fra tutti i figli d’oriente” che in 29.12,13 afferma “…soccorrevo il povero che chiedeva aiuto e l’orfano che ne era privo. La benedizione del disperato scendeva su di me e al cuore della vedova infondevo la gioia”. Giobbe, uomo dalle enormi ricchezze, non teneva per sé ed esercitava la pietà conscio del fatto che quanto aveva non era una sua esclusiva, ma frutto della benedizione di Dio e per questo la amministrava in quel modo. Non si trattava di dare il superfluo, ma di immedesimarsi nelle condizioni di coloro di cui sapeva, o vedeva personalmente. Giobbe non sperperava né si privava del suo, ma rifiutava il concetto che invece fece proprio il ricco stolto della nota parabola.

Isaia 58.7 è un passo che già conosciamo e parla di un tema già affrontato (per quanto a grandi linee), quello del digiuno che veniva esercitato come atto formale, religioso, avulso da una vita praticata caritatevolmente: “Non consiste forse – il digiuno che Dio approva – nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti?”. Si noti l’ultima parte, che esclude quel cieco entusiasmo che alcuni hanno ancora oggi, dove si impegnano strenuamente all’aiuto degli altri trascurando però i propri familiari ed è per questo che l’apostolo Paolo fu costretto a scrivere che “Se poi qualcuno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto di quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggio di un infedele” (1 Timoteo 5.8). Nel provvedere al prossimo, quindi, c’è una scala di priorità.

La carità, che non consiste nel dare del denaro come oggi comunemente inteso, è immedesimazione, appropriazione del caso di un altro, correttezza, cooperazione per il bene comune talché Ezechiele scriverà “…se non opprime alcuno, restituisce il pegno al debitore, non commette rapina, divide il pane con l’affamato e copre di vesti chi è nudo (…) se segue le mie leggi e osserva le mie norme agendo con fedeltà, egli è giusto ed egli vivrà, oracolo del Signore Dio.” (18.7). Giacomo poi, nella sua lettera in cui spiega i due fondamenti di Legge e Grazia, afferma “Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo”: non c’è l’una senza l’altro perché uno può vivere ritirandosi dai propri simili rinchiudendosi in un beato isolamento, evidentemente compatibile col proprio carattere, trascurando però l’elementarità della condivisione e dell’aiuto.

Illuminante poi è quanto leggiamo in Atti 2.44,45, “Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno comune”: quello che Luca descrive non è un modo di stare insieme in cui i fratelli più abbienti si privavano delle loro proprietà per darle ai poveri, ma un’operazione di aiuto e soccorso per rimediare a quanto avveniva: siccome “un gran numero di sacerdoti aderiva alla fede” (6.7) e la Chiesa cresceva in modo esponenziale, andavano aiutate tutte quelle persone che, divenendo cristiane, perdevano automaticamente ogni diritto nella società israelitica di allora. I sacerdoti, poi, rimanevano davvero privi di quel sostentamento che era affidato alle offerte del popolo e a una parte della carne degli animali che sacrificavano.

Credo di aver fornito diversi spunti per ulteriori riflessioni e ampliamenti personali, per cui mi fermo, lasciando ad un prossimo capitolo l’esame degli elementi restanti.

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16.45 – IL GIUDIZIO FINALE II (Matteo 25.32)

16.45 – Il giudizio finale II: Pecore e Capri (Matteo 25,32)

32E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, 33e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra.

“Saranno riunite”, non “Si riuniranno”, ci parla di un avvenimento forzato per tutti, nessuno escluso, cioè senza possibilità di scuse; non ci sarà più chi, come nella parabola del grande banchetto, potrà dire “Ho comprato un campo e devo andare a venderlo, ti prego di scusarmi”, “Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli”, o “Mi sono appena sposato e perciò non posso venire” (Luca 14.16-24). “Tutte le genti”, poi, o “popoli” come in altre versioni, è tradotto dal greco “éthnos”, dal quale proviene il nostro “etnie”, quindi l’umanità nel senso più totale del termine. Questo ci rimanda alla visione dell’apostolo Giovanni nel libro dell’Apocalisse, “E vidi i morti, grandi e piccoli, in piedi davanti al trono. E i libri furono aperti. E fu aperto anche un altro libro, quello della vita. I morti vennero giudicati secondo le loro opere, in base a ciò che era scritto in quei libri” (20.12). Quel “tutti i popoli”, allora, non ci parla solo di quanto abbiamo evidenziato, ma anche di tutte le condizioni sociali viste nei “grandi e piccoli”, non adulti e bambini.

Anche questo riunire è stato descritto da Gesù in un’altra parabola, quella delle zizzanie, “Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino al momento della mietitura, e al momento della mietitura dirò ai mietitori: «Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio” (Matteo 13.20). In quest’ultimo verso, personalmente, quello che mi stupisce sono due pericopi, “crescano insieme”, quindi parafrasando “facciano il loro percorso” e “fino alla mietitura”: entrambe le piantine avrebbero dovuto svilupparsi, secondo le loro inclinazioni e, riferito agli uomini, avere un tempo per scegliere che vita fare, quindi opzioni, errori, azioni più o meno onorevoli compiere, vivere insomma liberi, ma “fino a” quando non avrebbero incontrato una scadenza visto nella chiamata di Dio attraverso la morte del corpo e/o al giudizio. Nella crescita della zizzania e del grano vedo un passaggio attraverso il tempo, illuminato dal sole o bagnato dalla pioggia, quindi di tutti quegli eventi che caratterizzano la vita dell’uomo, che conosce la gioia e il dolore, il riposo e la fatica, le emozioni positive e negative, anche qui “fino a”, quando sarà il Signore Dio a decidere che è giunto il tempo della mietitura, quando grano e zizzania saranno riconoscibili.

Si tratta di un concetto già annunciato negli scritti dell’Antico Patto in cui Davide usa il presente: Dite tra le genti: «Il Signore regna!». È stabile il mondo, non potrà vacillare! Egli giudica i popoli con rettitudine. Gioiscano i cieli, esulti la terra, risuoni il mare e quanto racchiude; sia in festa la campagna e quanto contiene, acclamino tutti gli alberi della foresta davanti al Signore che viene; sì, egli viene a giudicare la terra; giudicherà il mondo con giustizia e nella sua fedeltà i popoli” (Salmo 96.10-13), o 98.9 “…giudicherà il mondo con giustizia e i popoli con rettitudine” (98.9).

 

Quanto al “riunite davanti a lui tutte le genti”, saranno gli angeli a farlo, cioè i “mietitori” (Matteo 13.39), come vediamo anche in altri passi: “Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità. Allora i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre mio” (41,42), “Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni” (49), Egli manderà i suoi angeli, con una grande tromba – cioè la chiamata di Dio – ed essi raduneranno i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all’altro del cielo” (24.31).

Gesù, il risorto, sarà lui a giudicare, come abbiamo letto nella parabola che cercheremo di sviluppare assieme: Ora Iddio, passando sopra ai tempi dell’ignoranza, ordina agli uomini che tutti si convertano, perché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare il mondo con giustizia, per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti.” (Atti 17.30,31).

Il verso 32 contiene un particolare interessante e cioè che presenta un concetto, “separerà gli uni dagli altri” e un paragone, “COME il pastore separa le pecore dai capri” per far capire che da un lato ci saranno gli angeli a riunire i popoli e a fare una prima scrematura, ma poi sarà il “Figlio dell’uomo” a provvedere personalmente alla divisione tra le uniche categorie presenti, quelli che avranno creduto e operato secondo le loro possibilità (come nella parabola dei talenti che precede queste parole) e chi invece avrà voluto vivere seguendo unicamente se stesso. Tutti sono paragonati a degli animali, “pecore” o “capri”, non ve ne sono altri oltre al “pastore” che già, quando era in vita come uomo, aveva dimostrato di conoscere quale fosse la realtà interiore dei suoi avversari quando disse “Voi non credete perché non fate parte delle mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce ed esse mi seguono” (Giovanni 10.26-27) e ancora prima, quando il giudizio fu ancora più netto: “Chi è da Dio ascolta le parole di Dio. Per questo voi non ascoltate: perché non siete da Dio”.

Ciò che personalmente mi consola (e credo sia lo stesso anche per molti) è il fatto che solo al “Figlio dell’uomo”, per quanto “seduto sul trono della sua gloria”, spetta il compito di “separare gli uni dagli altri” perché non si tratterà soltanto di un’azione fatta sulla base o meno di una professione di fede, ma dell’interiorità delle singole persone. Il giudizio di Gesù glorificato sarà totalmente diverso, come ampiamente rilevabile anche dai Vangeli, da quello dell’uomo che spesso giudica dall’alto del suo perbenismo, ma andrà nelle profondità più intime del cuore. E Romani 2.14,15 ci presenta un’interessante dinamica: Quando i pagani, che non hanno la Legge, per natura agiscono secondo la Legge, essi, pur non avendo Legge, sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono. Così avverrà nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini, secondo il mio Vangelo, per mezzo di Cristo Gesù”. Ciò che l’apostolo Paolo vuol dire è che l’essere salvati significa scampare al giudizio di Dio e questo avverrà in base alla presenza di una corretta linea di comportamento oltre alla fede operante, altrimenti il giudicare “i segreti degli uomini”, quindi le motivazioni profonde delle loro scelte e dell’apparire al prossimo in un modo o in un altro, non avrebbe senso. Ecco perché agli angeli è affidato il “riunire tutte le genti” e a Gesù la separazione degli uni dagli altri. Così in 1 Corinti 4.5: Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, fino a quando il Signore verrà. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora – non prima – ciascuno riceverà da Dio la lode”.

 

Impostata la base delle riflessioni, veniamo ai capri, tralasciando le pecore perché già oggetto di lunghe considerazioni in capitoli precedenti. Gesù, evidentemente, qui parla di un “pastore” fuori dall’ordinario nel senso che non può essere paragonato ai molti di allora, che magari vivevano con pochi animali; qui un paragone, unicamente per renderne l’idea, dal punto di vista del bestiame può essere fatto con Isacco, di cui è scritto che “…divenne ricco e crebbe tanto in ricchezze fino a divenire ricchissimo: possedeva greggi e armenti e numerosi schiavi” (Genesi 26.13). Sappiamo comunque che la pastorizia comportava la gestione sia di pecore che di capre, come dalle parole di Giacobbe a Labano: “Vent’anni ho passato con te: le tue pecore e le tue capre non hanno abortito e non ho mai mangiato i montoni del tuo gregge” (31.38); Giacobbe, poi, leggiamo che diede in dono al fratello Esaù “…duecento capre e venti capri, duecento pecore e venti montoni” (32.15) oltre ad altri animali utili e preziosi per la vita di allora.

La capra è un animale testardo e territoriale, che in gregge vive bene purché tutti rispettino i loro spazi e le gerarchie che si creano all’interno del gruppo. Fu il primo o comunque fra i primi ad essere addomesticato dall’uomo, sa adattarsi a terreni anche aridi; curioso, dal forte temperamento, ama esplorare l’ambiente che lo circonda anche perché, a differenza della pecora, possiede il senso dell’orientamento. Assieme al cane e all’asino, è tra gli animali che possono relazionarsi più facilmente con l’uomo.

Nostro Signore però non parla di capre, ma di capri (capretti secondo altre traduzioni), quindi di maschi, animali che nell’AT sono destinati al sacrificio per i peccati a partire da quello di inavvertenza per un capo del popolo (Levitico 4.23) a quello destinato a vagare nel deserto per l’espiazione dei peccati della comunità. Rientrando le parole di Gesù in un linguaggio figurato immediato, quello che conta è la selezione che farà sull’umanità riunita, già annunciata e spiegata in Ezechiele 34.17-22: A te, mio gregge, così dice il Signore Dio: Ecco, io giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri. Non vi basta pascolare in buone pasture, volete calpestare con i piedi il resto della vostra pastura; non vi basta bere acqua chiara, volete intorbidire con i piedi quella che resta. Le mie pecore devono brucare ciò che i vostri piedi hanno calpestato e bere ciò che i vostri piedi hanno intorbidito. Perciò così dice il Signore Dio a loro riguardo: Ecco, io giudicherò fra pecora grassa e pecora magra. Poiché voi avete urtato con il fianco e con le spalle e cozzato con le corna contro le più deboli fino a cacciarle e disperderle, io salverò le mie pecore e non saranno più oggetto di preda: farò giustizia fra pecora e pecora”.

Così Salmo 79.13 descrive il risultato della selezione: “E noi, tuo popolo e gregge del tuo pascolo, ti renderemo grazie per sempre, di generazione in generazione narreremo la tua lode”, per arrivare ad Apocalisse 7.16, 17, “Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi”.

Il nostro passo si conclude col porre le pecore alla Sua destra, al posto d’onore, e i capri alla sinistra, che alcuni hanno ritenuto identificare con quello del disonore, che a parer mio costituisce una definizione eccessiva perché altrimenti l’apostolo Giovanni, che all’ultima cena era probabilmente alla sinistra di Gesù, sarebbe stato svalutato. Piuttosto, la destra è simbolo di un privilegio, di una preferenza rispetto all’altra. In altri termini, le pecore da una parte e i capri a quella opposta occupano qui una posizione differente, sono due gruppi ben distinti fra loro perché frutto di una selezione. In questo passo, destra e sinistra sono il risultato lampante delle azioni e dei pensieri degli uomini, come da Ecclesiaste 10.2, “Il cuore del sapiente va alla sua destra, il cuore dello stolto alla sua sinistra”.

La destra, allora ci parla di futuro e della realizzazione della promessa del “posto” che Gesù ha preparato per i Suoi e di una catena che, se Lo vede seduto alla destra del Padre, vedrà i credenti a loro volta a quella del loro Signore. Amen.

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16.44 – IL GIUDIZIO FINALE (I) (Matteo 25.31)

16.44 – Il giudizio finale I (Matteo 25,31)

 

31Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. 

 

Strutturalmente, guardando all’impianto del sermone profetico, non poteva esservi conclusione migliore: i discepoli chiedono al loro Maestro “Di’ a noi quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo” (24.2); Lui risponde a tutto, dall’imminente distruzione della città al Suo ritorno, per poi finire con una sintetica descrizione del giudizio finale. Nel sermone profetico c’è tutta la storia, antica, moderna e futura, quella che è già scritta, decisa, cui nessun essere umano potrà sottrarsi. E penso a quanto è penalizzante vivere in un mondo sottoposto al “principe di questo mondo” che illude miliardi di persone con distorte prospettive di una vita che in realtà è a termine, illudendo l’uomo che le vittorie riportate sui suoi simili, spesso con furberie e raggiri, possano garantirgli la sopravvivenza. Si collezionano i risultati ottenuti come trofei, si ignorano volutamente quei segnali che la vita dà quando un simile si ammala, soffre e muore, ci si sforza di convincersi che il decesso sia come, dopo tutto, entrare in una grande anestesia, ma lo si teme. Un mio conoscente ateo un giorno mi disse di aver sognato che era morto, confessando di aver provato un’enorme paura, ma non per questo si era fermato a riflettere se non fosse il caso di cercare delle risposte a questo suo violento disagio, che non si sarebbe verificato se vi fosse stata una reale convinzione che la morte fosse la fine di tutto, quindi anche e soprattutto dell’essere.

 

Con quest’ultima parte del sermone Gesù dà un importante avvertimento all’uomo, come sempre libero di accoglierlo o rifiutarlo: “Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria”. Nelle precedenti parabole ha già descritto il Ritorno ponendo l’accento sul fatto che alcuni (anche considerati credenti) saranno preparati ad esso nonostante il sonno che li aveva colti, ma qui dà un quadro diverso, “Quando verrà”, cioè si tratta di un avvenimento certo di cui la Sapienza di Dio ha ritenuto di darci riferimenti ben precisi, non solo perché pronunciati dal Figlio.

Le parole di Gesù si raccordano a Matteo 13.41-43, quando alla fine della parabola della zizzania disse “Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!”, 16.27, “Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni”, Marco 16.42, “E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo”.

            Questi versi si riferiscono al vero, ultimo atto con il quale si concluderanno i millenni della storia umana che troveranno negli avvenimenti descritti la sua conclusione definitiva: Gesù, glorificato, chiuderà quel per noi lunghissimo ciclo di generazioni tutte uguali nella loro essenza per dare inizio all’eternità, di gioia o di pena a seconda di come la Sua creatura avrà agito.

Saulo di Tarso, nella seconda lettera ai Corinti, così scrisse di sé: “Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa (se con il corpo o fuori dal corpo non lo so, lo sa Dio), fu rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo (se con il corpo o fuori dal corpo non lo so, lo sa Dio) udì parole ineffabili che non è lecito al alcuno pronunziare” (12.2,3). Ora queste “parole” possiamo affermare con certezza fossero inerenti a tutta la dottrina che poi riverserà nei suoi insegnamenti, adattate alla mente umana, quindi abbiamo il complessissimo linguaggio di Dio filtrato in modo di essere alla portata dell’uomo comune. Così l’apostolo si espresse attorno alle parole di Gesù che stiamo esaminando: È proprio della giustizia di Dio ricambiare con afflizioni coloro che vi affliggono e a voi, che siete afflitti, dare sollievo insieme a noi, quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo, insieme agli angeli della sua potenza, con fuoco ardente, per punire quelli che non riconoscono Dio e quelli che non obbediscono al vangelo del Signore nostro Gesù. Essi saranno castigati con una rovina eterna, lontano dal volto del Signore e dalla sua gloriosa potenza. In quel giorno, egli verrà per essere glorificato nei suoi santi ed essere riconosciuto mirabile da tutti quelli che avranno creduto, perché è stata accolta la nostra testimonianza in mezzo a voi” (2 Tessalonicesi 1.6-10).

Infine Giuda 14,16: “Profetò anche per loro Enoc – primo ad essere rapito al cielo, che sarà uno dei due Testimoni del libro dell’Apocalisse – settimo dopo Adamo, dicendo: «Ecco, il Signore è venuto con migliaia e migliaia dei suoi angeli per sottoporre tutti a giudizio, e per dimostrare la colpa di tutti riguardo a tutte le opere malvagie che hanno commesso e a tutti gli insulti che, da empi peccatori, hanno lanciato contro di lui». Sono sobillatori pieni di acredine, che agiscono secondo le loro passioni; la loro bocca proferisce parole orgogliose e, per interesse, circondano le persone di adulazione”.

Si tratta di un avvenimento visto anche dal profeta Daniele che ebbe una visione dettagliata, per quanto estensibile nella storia per la panoramica che ci dona, in 7. 9-10: “Io continuavo a guardare, quand’ecco furono collocati troni e un vegliardo – tradotto da altri “l’Antico dei giorni”si assise. La sua veste era candida come la neve e i capelli del suo capo erano candidi come la lana; il suo trono era come una vampa di fuoco con le ruote come fuoco ardente. Un fiume di fuoco scorreva e usciva dinnanzi a lui; mille migliaia lo servivano e diecimila miriadi lo assistevano. La corte sedette e i libri furono aperti”. Poi, poco dopo, “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano, il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto” (13,14).

 

Torniamo però al nostro verso 31: il “Figlio dell’uomo” non arriva da solo, ma “coi suoi angeli”, cioè i messaggeri, definiti da un fratello “i perfetti esecutori dei voleri di Dio”, che tanto nella letteratura vetero che neotestamentaria così sono descritti, da Gabriele “che sto davanti a Dio” a tutti quelli che eseguiranno i Suoi giudizi descritti nel libro dell’Apocalisse. Gli angeli, tra i molti episodi passibili di citazione, furono anche quelli che “lo servivano” al termine dei quaranta giorni di tentazione nel deserto, uno di loro fu inviato a “confortarlo” al monte degli Ulivi nei momenti precedenti al Suo arresto (Luca 22.43). Angeli parlarono a Zaccaria, ad Elisabetta sua moglie, a Maria madre del corpo di Gesù, a Giuseppe suo padre putativo in sogno, alle donne una volta risorto, ai discepoli che guardavano il cielo quando Gesù scomparve ai loro occhi all’ascensione. Sarà a seguito di “…un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio” che il Signore “discenderà dal cielo” (1 Tessalonicesi 4.16). che “si manifesterà con gli angeli della sua potenza” (2°, 1.8). Possiamo affermare che l’angelo è la personificazione, la visibilità di ciò che di Dio è ancora occulto; sono gli esseri che lo circondano, che furono creati nel mondo invisibile al pari delle stelle, quelle “luci nel firmamento del cielo per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni e servano da luci nel firmamento nel cielo per illuminare la terra” (Genesi 1.14). La loro opera, infatti, sarà determinante per l’apertura di ogni nuova dispensazione, per orientare il cammino di uomini come ad esempio Abramo e così via.

 

Abbiamo poi il terzo elemento del verso 31, “siederà sul trono della sua gloria”, ciò che vide anche Davide nel suo Salmo ottavo: “Ma il Signore sta assiso in eterno; erige per il giudizio il suo trono: giudicherà il mondo con giustizia, con rettitudine giudicherà le cause del popoli” (vv.8,9). Sottolineiamo le parole “erige per il giudizio il suo trono”, che possiamo connettere a quelle di Gesù ricordate recentemente, “vado a prepararvi un posto”: è l’uomo e il tempo che danno a Dio la possibilità di realizzare le Sue promesse nel senso che sono gli uomini, con le loro azioni e la loro storia, che inconsciamente preparano tutti i materiali perché il trono venga eretto e il Figlio ritorni. È una questione di scadenze e Dio non ha un orologio o una sveglia, ma la sua creatura non può che essere costretta a fare ciò che deve, nel bene e nel male. Quando “giudicherà il mondo con giustizia” sarà sì perché la Sua pazienza sarà finita, ma soprattutto perché il numero di coloro che sono scritti nel “libro della vita” sarà completo e prolungare il numero delle anime a perdere sarà inutile, non so se ho reso l’idea.

Ora veniamo al trono. Non è il luogo abituale sul quale un regnante siede, sul quale si pone quando esercita le sue funzioni: dal momento in cui il trono viene occupato, tutto quanto il re ordina e decide assume un valore assoluto. Anche nei nostri tribunali il processo inizia non nel momento in cui un giudice o la corte entra in aula, ma da quanto questi si mettono a sedere. E ricordiamo che in Daniele 7 abbiamo letto che “L’antico dei giorni si assise” in quanto il Figlio non si era ancora rivelato e perché le circostanze erano diverse così come il giudizio.

Gesù si siede “sul trono della sua gloria” perché è a Lui che spetta: se tutti gli uomini muoiono (e mi chiedo quale sia il numero totale di quelli che hanno vissuto dall’uscita da Eden ad oggi, o quale sarà quello di coloro al tempo della fine), uno solo è risorto. Se “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio”, uno solo non ha commesso infrazioni alle Sue leggi. Se ogni uomo e donna nasce, ma non sempre, per un atto di amore e viene al mondo senza averlo chiesto, uno solo ha voluto uscire dall’eternità per essere soggetto al tempo e ritornarvi. Se ogni uomo può vincere almeno un nemico nella propria vita, ma non certo il “Principe delle potestà dell’aria” (o “di questo mondo”), uno solo lo ha vinto ottenendo, come abbiamo letto, “potere, gloria e regno”. E lo ha fatto per noi.

Concludendo, possiamo citare le parole dell’apostolo Giovanni che in Apocalisse 20.11,12 scrive E vidi un grande trono bianco e Colui che vi sedeva. Scomparvero dalla sua presenza la terra e il cielo senza lasciare traccia di sé. E vidi i morti, grandi e piccoli, in piedi davanti al trono. E i libri furono aperti. Fu aperto anche un altro libro, quello della vita. I morti vennero giudicati secondo le loro opere, in base a ciò che era scritto in quei libri”.

Quella descritta da Nostro Signore è una realtà che abbaglia, fuori dal nostro vivere così comunque ordinario, ma che tutti gli uomini vedranno e vivranno. E ne saranno arsi o si illumineranno. E proveranno una gioia incontenibile, o una pena che andrà oltre ogni portata. Amen.

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