16.47 – Il giudizio finale IV: Le parole alle pecore II (Matteo 25,34-40)
34Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, 35perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, 36nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». 37Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? 38Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? 39Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». 40E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me».
Ero straniero e mi avete accolto
Fra tutte le sei condizioni elencate da Nostro Signore, per il periodo storico in cui viviamo, è la più complessa da sviluppare anche perché l’argomento trova sostenitori a senso unico di tesi opposte ed entrambi citano la Scrittura a loro vantaggio. La parola “straniero” deriva dal latino “extraneum” che significa “esterno, estraneo”, con la particela “extra”, “fuori” dalla cultura, dall’essere e dalla genealogia di un popolo e quindi diverso, lontano, non partecipe, forestiero, sconosciuto, non pertinente. Negli scritti dell’Antico Patto le posizioni in proposito sono due, quella dello straniero inteso come popolo e come individuo. La prima è negativa, perché culture e soprattutto credenze estranee sono viste come fuorvianti dal vero Dio, mentre la seconda è volta al trattamento umano del singolo, o dei singoli.
Prendendo i passi più significativi sui popoli diversi da quello di Israele, per il quale Dio disse “Vi prenderò come mio popolo, e diventerò il vostro Dio. Saprete che io sono il Signore, il vostro Dio, che vi sottrae ai lavori forzati degli egiziani” (Esodo 6.7), , si possono citare Deuteronomio 7.3,4, “Non costituirai legami di parentela con loro – sette nazioni citate al verso precedente –, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, perché allontanerebbero la tua discendenza dal seguire me, per farli servire a dèi stranieri e l’ira del Signore si accenderebbe contro di voi e ben presto vi distruggerebbe” e 11.16, “State in guardia perché il vostro cuore non si lasci sedurre e voi vi allontaniate, servendo dèi stranieri e prostrandovi davanti a loro”.
Gli stranieri però, quando presenti in Israele, erano tutelati da Dt 24.27 “Non lederai il diritto dello straniero e dell’orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova”. Se in Esodo 12.43 nessuno di loro poteva partecipare al rito della Pasqua stante le modalità che la caratterizzarono (la liberazione del popolo dall’Egitto), più avanti colui che, pur non appartenendo alle dodici tribù, si convertiva e abbracciava l’ebraismo acquisiva gli stessi diritti degli israeliti anche “religiosamente” parlando: “Se uno straniero che dimora da voi, o chiunque abiterà in mezzo a voi, di generazione in generazione, offrirà un sacrificio consumato dal fuoco, profumo gradito al Signore, farà come fate voi” (Numeri 15.14). Poi al verso 16 “Ci sarà una stessa legge e una stessa regola per voi e per lo straniero che dimora presso di voi”.
Unica differenza fra chi era geneticamente appartenente al popolo di Dio e chi no, stava nel fatto che ai primi non poteva essere prestato ad interesse e che nessuno straniero avrebbe potuto diventare re (Dt 23.21; 17.15). Va da sé che la circoncisione era il primo punto da adempiere per essere ammesso alla Comunità della quale diventava parte integrante al punto che Ezechiele 44.9 scrive “Nella tribù in cui lo straniero è stabilito, là gli darete la sua parte di eredità. Oracolo del Signore Dio”. Al contrario in 44.9 “Così dice il Signore Dio: nessuno straniero, non circonciso di cuore, non circonciso di carne, entrerà nel mio santuario, nessuno di tutti gli stranieri che sono in mezzo ai figli di Israele”. Due erano quindi i requisiti, la circoncisione del cuore e quella della carne, entrambi qualificanti come appartenenti al popolo eletto coloro che vi si sottoponevano. Certo delle due la più impegnativa, per la rinuncia e la mentalità nuova che comportava, era la prima.
Da considerare la preghiera di Salomone quando si concluse la costruzione del primo tempio in 1 Re 8.41-43, che non solo contempla la partecipazione dei non appartamenti al Kaal, ma prelude al coinvolgimento di tutti i popoli al piano di Dio: “Anche lo straniero, che non è del tuo popolo Israele, se viene da una terra lontana a causa del tuo nome, perché si sentirà parlare del tuo grande nome, della tua mano potente e del tuo braccio teso, se egli viene a pregare in questo tempio, tu ascolta nel cielo, luogo della tua dimora, e fa tutto quello per cui ti avrà invocato lo straniero, perché tutti i popoli della terra conoscano il tuo nome, ti temano come il tuo popolo Israele e sappiano che il tuo nome è stato invocato su questo tempio che io ho costruito”.
Anche Geremia 7.5-7 annovera il trattamento umano dell’estraneo al popolo quale condizione per poter godere delle benedizioni: “Se davvero renderete buona la vostra condotta e le vostre azioni, se praticherete la giustizia gli uni verso gli altri, se non opprimerete lo straniero, l’orfano e la vedova, se non spargerete sangue innocente in questo luogo e non seguirete per vostra disgrazia dèi stranieri, io vi farò abitare in questo luogo, nella terra che diedi ai vostri padri da sempre e per sempre”.
La condizione per cui il non israelita potesse essere accolto diventando parte integrante della nazione era che abbracciasse le sue leggi morali e cerimoniali e così fu da sempre, fin dai tempi di Abrahamo: “Quando avrà otto giorni, sarà circonciso fra voi ogni maschio di generazione in generazione, sia quello nato in casa sia quello comprato con denaro da qualunque straniero che non sia della tua stirpe” (Genesi 17.12).
Gesù usa il termine “straniero” proprio perché al suo tempo era sinonimo di pagano, con tutto il disprezzo che questo comportava (ricordiamo lo scrollarsi la polvere dai piedi quando si entrava nel territorio di Israele da uno pagano). “Ero straniero e mi avete accolto” significa non consentire al pregiudizio o al razzismo di prevalere e fare discriminazioni, fermo restando che l’accoglienza si dà a chi si integra esattamente come ai tempi della Legge.
Chi viene da un territorio diverso da quello del Paese ospitante incontra più difficoltà di coloro che sono ordinariamente residenti: linguistiche, deve affrontare una mentalità più o meno differente a seconda della ragione da cui proviene, ma in ogni caso è la singola posizione che andrebbe valutata anche dagli Stati che, loro malgrado o meno, accolgono. E qui, se si volesse parlare dei criminali, degli sbandati, di tutti coloro che arrivano esperti di espedienti dai territori più disparati, non si finirebbe mai.
Il riferimento di Gesù, comunque, è rivolto allo straniero cristiano o che comunque lo vuole diventare, non certo alle moltitudini che si riversano sui suoli europei occupandoli e pretendendo di imporre le loro tradizioni e il loro credo come accade oggi. La frase in esame trova il suo riferimento in numerosi passi del libro degli Atti e la storia soprattutto del primo secolo del cristianesimo è ricchi di divisioni e diffidenze di trattamento da parte dei cristiani ebrei rispetto a quelli pagani. Troviamo un riferimento interessante in 3 Giovanni 5, “Tu – Gaio, destinatario della lettera – ti comporti fedelmente in tutto ciò che fai in favore dei fratelli, benché stranieri”: “Benché” cioè “Nonostante”, in opposizione alla mentalità che li vedeva subordinati a chi non era ebreo. Ricordiamo che il testo di Matteo 25 su cui stiamo lavorando parla del fatto che “tutti i popoli saranno riuniti davanti a Lui” e che la separazione fra pecore e capri verrà operata allo stesso modo indipendentemente dall’etnia di appartenenza. Il verso più emblematico in proposito lo reperiamo in Romani 10.12, “Non c’è distinzione fra Giudei e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti coloro che lo invocano” e Galati 3.28, “Non c’è Giudeo né Greco, non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”.
Più avanti leggiamo nel nostro testo “quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me”: “più piccoli” è tradotto anche “minimi” quindi il riferimento è alle persone più umili nel senso di capacità e posizione davanti a Dio, comunque importanti perché lo hanno accolto dentro di loro e importanti al pari di quelli che magari hanno doni dello Spirito e li esercitano, ma superiori comunque a tutti coloro che magari professano una fede che non hanno. La possibilità di barare, certo temporaneamente, certo non davanti a Dio, esiste sempre. Così infatti scrive l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera: “Se alcuno dice: «Io amo Iddio» e odio il suo fratello, è bugiardo poiché, chi non ama il suo fratello, che ha visto, come può amare Dio, che non ha visto?” (2.20).
Ricordiamoci sempre che è il cristianesimo formale, nominale, che fa differenze fra persona e persona, quindi fra chi è indigeno o alogeno: “Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali. Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con il vestito logoro. Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: «Tu siediti qui, comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti là, in piedi», oppure: «Siediti qui, ai piedi del mio sgabello», non fate forse discriminazioni e non siete dai giudizi perversi?” (Giacomo 2.1-4).
“Ero straniero e mi accoglieste” significa dare dignità e aiuto a chi non lo trova ponendolo nelle condizioni di poter gestire la sua vita spirituale e materiale senza discriminazioni di sorta. Gesù, con queste frase, la terza delle difficoltà in cui può versare una persona, aggiunge un dato importante sulla gestione della carità perché, se è vero che sarà la fede a dare la nostra giustificazione, le opere saranno quelle per le quali saremo giudicati.
Nudo e mi avete vestito
Quarta condizione e, se ci pensiamo, tutte le sei sono le stesse in cui versavamo noi prima dell’incontro con il nostro Salvatore: ci ha sfamato e dissetato, ci ha accolto nonostante fossimo stranieri, ci ha vestito esattamente come il Padre dopo la trasgressione dei nostri progenitori, è andato “…a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano rifiutato di credere quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua” (1 Pietro 3.19,20). Eravamo malati, soffrendo perché non riuscivamo a risolvere il problema finale della nostra esistenza e lo abbiamo lasciato agire per essere guariti. Non a caso il Suo Ministero fu dedicato per una parte importante alle persone affette dalle malattie più disparate.
La nudità è di due tipi, spirituale e materiale, lo sappiamo bene perché è la prima conseguenza del peccato; se occuparsi di quella del primo tipo è di competenza del Signore Gesù, il credente non può esimersi dal non provvedere alla seconda. Ricordiamo infatti il passo di Giacomo 2.15,16 che ogni tanto viene citato contro l’ipocrisia religiosa: “Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve?”.
Anche l’apostolo Paolo, parlando della dimora finale del credente, pone l’essere vestiti come condizione per accedervi: “Sappiamo infatti che, quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli. Perciò, in questa condizione, noi gemiamo e desideriamo rivestirci della nostra abitazione celeste purché siamo trovati vestiti, non nudi” (1 Corinti 5.1-3).
“Nudo e mi avete vestito” significa allora, a parte il soccorso immediato da un punto di vista stretto per rimediare alla mancanza di che coprirsi, fare il possibile per dare dignità a quel fratello o sorella che si trova nell’impossibilità di gestirla. Ed è impossibile, in questo, non vedere Gesù perché si tratta di una persona che gli appartiene. Amen.
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