17.02 – LI AMÒ FINO ALLA FINE (Giovanni 13.1)

17.02 – Li amò fino alla fine (Giovanni 13.1)

 

1 Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine.

 

Come possiamo considerare dal contesto di tutto il suo Vangelo, Giovanni non ha solo scritto un’opera basata sui dialoghi e la teologia nel senso più puro del termine, ma anche di prologhi, come quello monumentale sul “principio” che troviamo nel suo primo capitolo. Qui, in un solo verso, l’evangelista sceglie sotto lo Spirito Santo di introdurre in questo modo gli avvenimenti della Cena coi discepoli e da questa breve introduzione principiano tutti gli eventi che caratterizzarono le ultime condivisioni di Gesù con i Suoi, fondatori e guide della Sua Chiesa.

Credo che questo verso, se preso parola per parola, non sia così semplice, per quanto presenti indubbiamente l’amore di Gesù per i “suoi”; potremmo chiederci ad esempio cosa significhi “prima” cioè da quanto tempo “prima” di sdraiarsi a tavola: qualche minuto, un’ora, un giorno, una settimana, o cosa? Il raccordo è alla pericope “avendo amato i suoi che erano nel mondo” e quindi, umanamente e spiritualmente parlando, dal momento in cui li chiamò, ciascuno intento nelle proprie occupazioni, e attese la loro maturazione, giorno dopo giorno fino alla discesa dello Spirito Santo e a tutte le esperienze che ne seguirono. Però, se si consideriamo i “nomi scritti nel libro della vita”, questo sentire di Gesù risale a “prima della fondazione del mondo”, quando fu istituito quel libro che solo Lui può aprire. Si tratta di un verso quindi che ha tre possibilità di lettura, umana, spirituale e di progettualità divina.

L’avverbio “prima”, infatti, ci parla dell’eternità e della preesistenza di YHWH secondo Salmo 90.2: “Prima che nascessero i monti e la terra e il mondo fossero generati, da sempre e per sempre tu sei, o Dio”; al tempo stesso il libro dei Proverbi parla della Sapienza, figura del Figlio, con queste parole: “Il Signore mi ha creato come inizio prima di ogni sua opera, all’origine” (8.22). Ricordiamo anche il verso 25, “Prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata”. Naturale quini arrivare a Geremia 1.5, “Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto; prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni”. Punto di arrivo, infine, sono le stesse parole di Gesù quando disse ai Giudei “Prima che Abrahamo fosse, io sono” (Giovanni 8.58)

È anche possibile che Giovanni abbia voluto imprimere, con il “Prima della festa di Pasqua”, una collocazione temporale e al tempo stesso una divisione fra Lui, proteso sempre più verso il Suo Sacrificio, e la gente comune per la quale quella Pasqua era una delle tante, per quanto celebrata con tradizionale devozione, come leggiamo in 11.55-57, “Era vicina la Pasqua dei Giudei e molti dalla regione salirono a Gerusalemme prima della Pasqua per purificarsi. Essi cercavano Gesù e, stando nel tempio, dicevano fra loro: «Che ve ne pare? Non verrà alla festa?». Intanto i capi dei sacerdoti e i farisei avevano dato ordine che chiunque sapesse dove si trovava lo denunciasse, perché potessero arrestarlo”.

“Sapendo che era venuta la sua ora” certo si riferisce alla croce, ma possiamo estendere questo traguardo soprattutto all’essere dato in mano agli uomini perché facessero ciò che a loro era consentito, cioè maltrattarlo, torturarlo e umiliarlo fino alla morte. È questa l’ “ora” di cui parlò a sua madre alle nozze di Cana quando, avendogli chiesto un intervento, ebbe in risposta la frase “Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora” a significare che non poteva essere soggetto al volere degli esseri umani, che qualcuno gli dicesse cosa fare o lo costringesse a subire qualsiasi cosa. E infatti sappiamo che operò il miracolo dell’acqua trasformata in vino non per intercessione di lei, ma perché rimise ogni decisione a suo figlio: “Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela»” (Giovanni 2.4,5).

L’ “ora” di cui Gesù parla è quella sì della croce e della morte, ma ancor più di ciò che è al di là, vale a dire la risurrezione e il posto di eccellenza rappresentato dalla gloria come da 12.23, “È venuta l’ora che il figlio dell’uomo sia glorificato”.

Ancora, l’intenzione di Giovanni nello scrivere questo verso è quella di farci conoscere i pensieri di Gesù in quel momento, a differenza dei Sinottici che riportano avvenimenti e discorsi che il nostro evangelista omette scegliendo di riferirne altri.

L’ “ora” di Nostro Signore fu quella del Suo Sacrificio che comprende tutti quei momenti a partire dall’arresto nell’orto a quando, dopo le parole “È compiuto” (Giovanni 19.30), disse “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Luca 23.46). Fu l’ “ora” della sofferenza estrema preceduta dall’emopoiesi, il sudare sangue, tutti elementi che non vanno visti unicamente nel loro aspetto storico, ma devono anche essere ragionati sotto un’ottica umana, alla nostra portata: il Suo identificarsi con la creatura caduta, infatti, non si è limitata a vivere provando le nostre stesse sofferenze, ma è andata oltre all’inimmaginabile perché, come già detto altre volte, il fatto che un Dio eterno prenda una forma in tutto identica alla nostra e venga a morire (e in che modo e con quali sofferenze), va oltre qualsiasi comprensione se non quella di Giovanni 3.16 che ricordiamo, “Dio ha tanto – cioè a tal punto – amato il mondo, da dare il suo unigenito figlio affinché chi crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna”.

L’ “ora” di Gesù, secondariamente, ci parla del fatto che, come noi, anche Lui ne ha avuta una, quella della morte, ed è qui ancora una volta che abbiamo una condivisione, questa volta rivoluzionaria, con la Sua creatura perché il Dio che muore è lo stesso che risorge e, così facendo, è in grado di far sì che tutti ne seguano la sorte, “…quanti fecero il bene – secondo Dio – per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna” (Giovanni 5.29) perché “…renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità, sdegno ed ira contro coloro che per ribellione resistono alla verità e obbediscono all’ingiustizia” (Romani 2.6-8).

Possiamo dire che l’ “ora” di Gesù abbia anche comportato il “capolavoro” dell’Avversario che finalmente ha potuto ricorrere a tutto quanto era in suo potere per “ferire al calcagno” la progenie della donna, ma la risurrezione ha costituito la naturale vittoria della potenza di Dio su di lui.

Altra considerazione: “sapendo che era giunta la sua ora” ci parla dell’enorme differenza fra Lui e l’essere umano, che ignora non solo il momento in cui dovrà lasciare questo mondo – alcuni lo possono intuire quando, ricoverati magari in un ospedale, viene loro comunicato –, ma anche il modo in cui questo avverrà. Ricordiamo le parole “L’uomo non conosce neppure la sua ora: simile ai pesci che sono presi dalla rete fatale e agli uccelli presi al laccio, l’uomo è sorpreso dalla sventura che improvvisa si abbatte su di lui” (Qoèlet 9.12).

Infine, l’ “ora” di Gesù si riferisce, come già detto in altri capitoli, ad un momento preciso, unico nel senso che prima di quella l’uomo a lui avverso non avrebbe mai potuto agire: ricordiamo Giovanni 7.30, “Cercavano di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettere le mani su di lui, perché non era ancora giunta la sua ora”, 8.20, “Gesù pronunciò queste parole nel luogo del tesoro, mentre insegnava nel tempio. E nessuno lo arrestò, perché non era ancora giunta la sua ora”.

 

“Avendo amato i suoi che erano nel mondo” ci presenta invece una realtà che testimonia l’elezione vista nel possessivo “suoi”: l’amore di Dio è verso tutti gli uomini, visti nella parola “mondo” di Giovanni 3.16, ma è nel momento in cui diventano “suoi” attraverso la nuova nascita che assumono valore direi unico perché Gli appartengono. Nel momento in cui ciò si verifica, si crea una profonda divisione perché essere “suoi” e vivere “nel mondo” crea una estrema dissonanza trattandosi di due realtà inconciliabili.

Vivere “nel mondo” non significa solo trovarsi in un territorio straniero e quindi provare disagio perché costantemente immersi in una realtà che non ci appartiene, ma subirne in un modo o in un altro le influenze perché a quel contesto anche noi appartenevamo un tempo. Vivere “nel mondo” equivale quindi ad essere sensibili, se non si indossa l’armatura di Efesi 6, ai richiami, alla mentalità che seduce vestendosi di “sani principi”, all’omologazione, ai tentativi di rendere positivo e normale ciò che non lo è.

Vivere “nel mondo” significa muoversi in un contesto globale di cui Satana è il principe che non si limita a gestire le persone, ma che prepara la sua opera più impegnativa, vale a dire quel regime totalitario che un giorno sottometterà a sé la quasi totalità delle persone e di cui vediamo l’embrione crescere ogni giorno di più. Ora essere amati da Gesù significa essere strappati da questo contesto con la consapevolezza di esserne salvati al momento opportuno.

Per quanto pronunciate in una situazione differente, valgono le parole di Giovanni 16.21-22, “La donna, quando partorisce, è nel dolore perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia”.

 

“Avendo amato” e “lì amò fino alla fine”, poi, ci parla certo di amore e fedeltà ininterrotta, ma va oltre perché il greco “èis télos” può tradursi anche con “in un grado estremo”, “a un punto altissimo”, quindi né lui né tantomeno nessun altro avrebbe mai potuto fare di più, andare oltre. E la frase “Tutto è compito” detta alla croce, detta dal Figlio di Dio, significa proprio questo. L’amore di Gesù toccò una vetta inarrivabile per chiunque altro ed ecco perché non esiste altro nome per il quale gli uomini possano essere salvati.

Ricordiamo anche le parole “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, che ci consentono di estendere questo amare “fino alla fine” anche a ciascuno di noi, perché siamo stati chiamati e presi da quello stesso amore. Amen.

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17.01 – I PREPARATIVI DELL’ULTIMA CENA (Luca 22.7-13)

17.01 – I preparativi dell’ultima cena (Luca 22.7-13)

 

7Venne il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva immolare la Pasqua. 8Gesù mandò Pietro e Giovanni dicendo: «Andate a preparare per noi, perché possiamo mangiare la Pasqua». 9Gli chiesero: «Dove vuoi che prepariamo?». 10Ed egli rispose loro: «Appena entrati in città, vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d’acqua; seguitelo nella casa in cui entrerà. 11Direte al padrone di casa: «Il Maestro ti dice: Dov’è la stanza in cui posso mangiare la Pasqua con i miei discepoli?». 12Egli vi mostrerà al piano superiore una sala, grande e arredata; lì preparate». 13Essi andarono e trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.

 

“Il primo giorno degli Azzimi” era il giovedì, 14 di Nisan, il giorno prima della crocifissione, quello in cui i Giudei iniziavano ad usare pane non lievitato ed era obbligatoria l’uccisione dell’agnello pasquale fra i due vespri, vale a dire fra le ore 15 e le 18. Su questo giorno torneremo perché pone importanti interrogativi alla luce di ipotizzate incongruenze fra la narrazione di Giovanni e dei Sinottici. È per me triste pensare che in quella circostanza, in cui tutto il lievito – con tutto quello che comporta simbolicamente questo elemento – veniva rimosso e bruciato, i capi religiosi del popolo erano pronti ad arrestare, processare e far condannare Gesù sulla croce.

La festa degli Azzimi coincideva con la Pasqua, appunto il 15 del mese di Nisan, corrente fra il nostro marzo ed aprile, ma il 14 era dedicato alla preparazione per poter iniziare il giorno successivo in osservanza a Esodo 12.19, “Per sette giorni non si trovi lievito nelle vostre case, perché chiunque mangerà del lievitato dal giorno primo al giorno settimo, quella persona, sia forestiera sia nativa della terra, sarà eliminata dalla comunità d’Israele”, e 13.17, “Nei sette giorni si mangeranno azzimi e non compaia presso di te niente di lievitato; non ci sia presso di te lievito entro tutti i tuoi confini”.

I Giudei, quindi, proseguirono ad assumere cibo senza lievito nel giorno della crocifissione e per altri sei, nonostante la cortina del Tempio squarciata fosse un chiaro segno della fine della dispensazione della Legge e l’aver ucciso il Figlio di Dio. Cortina che era assolutamente impossibile si tagliasse da sola, come vedremo. Si può affermare che celebrando il rito pasquale mentre il corpo del Signore veniva ucciso, nel ricordare la liberazione del popolo d’Israele dall’Egitto con potenza, i Giudei rimarcavano la loro condanna perché disconoscevano l’apertura della salvezza loro proposta ininterrottamente per tre anni e mezzo circa.

Ricordiamo le parole dell’apostolo Paolo ai credenti di Corinto quando scrisse “Togliete via il lievito vecchio – quindi il primo elemento che genera il peccato –, per essere pasta nuova, poiché siete – la nuova condizione – azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!” (1a 5.7); da qui si evince che la liberazione dalla schiavitù del peccato, impossibile senza di Lui esattamente come il popolo d’Israele non avrebbe mai potuto essere strappato da quella d’Egitto senza l’intervento del Padre, deve essere accompagnata dalla volontà del singolo che, reso ed essendo azzimo, deve tenere lontano da sé il lievito, figura dell’impurità interiore, per non essere penalizzato nel suo rapporto con Lui. “Un po’ di lievito”, infatti, “fa fermentare tutta la pasta” (1 Corinti 5.6).

 

Il verso ottavo ci fornisce un particolare che gli altri evangelisti omettono, e cioè che, quando leggiamo “…i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: «Dove vuoi che prepariamo per te, perché tu possa mangiare la Pasqua?»” (Matteo 26.17; Marco 14.12), furono inviati Pietro e Giovanni, non Giuda Iscariotha che, essendo il tesoriere del gruppo, sarebbe stato il più idoneo almeno per la carica che ricopriva. In passato, proprio per questa mansione, Giuda era incaricato di comprare e provvedere a quanto abbisognava al gruppo appropriandosi di nascosto di piccole somme, ma qui fu estromesso proprio perché aveva già concordato all’insaputa di tutti, ma non di Gesù, la consegna del Maestro concordando un segnale inconfondibile a quanti sarebbero venuti per arrestarlo: “Quello che bacerò è lui; arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta” (Marco 14.44).

Al riguardo c’è chi si è chiesto quale senso avesse il bacio se Gesù era conosciuto da tutti, ma questo avvenne per due ragioni: primo, non potevano esservi fraintendimenti di sorta nel senso che il riconoscimento doveva essere ufficiale, legale, e poi andava escluso completamente un errore dovuto ad eventuali somiglianze. Altro elemento, Giuda doveva assumersi con quel gesto inequivocabile la paternità del tradimento, con un bacio, da sempre segno d’amore e di affetto. Non a caso, nella Scrittura, da allora in poi verrà specificato che il bacio come sintomo di comunione dev’essere “santo”, cioè privo di secondi fini, puro (Romani 16.16; 1 Corinti 16.20; 2 Corinti 13.12; 1 Tessalonicesi 5.26) o, come in 1 Pietro 5.14, “Salutatevi l’un l’altro con un bacio d’amore fraterno”. E pare che questo bacio fosse sulla bocca, a significare la condivisione dell’amore fraterno e dello spirito. Il “bacio santo” esclude allora un secondo fine, la formalità, l’indifferenza, la tradizione.

Giuda, poi, con la scelta che aveva già fatto, non era solo un “diavolo” nel senso che abbiamo sviluppato, ma era diventato un corpo che ospitava l’Avversario, un immondo, per cui non era possibile che si occupasse dei preparativi per la Pasqua, santa perché ne fu mutato il significato e il soggetto sacrificale vale a dire non più un agnello, ma il Figlio di Dio che ne avrebbe assunto il ruolo.

 

Arriviamo così alla seconda parte del nostro testo, con Gesù che predice chi Pietro e Giovanni avrebbero incontrato “appena entrati in città”, cioè Gerusalemme: “un uomo che porta una brocca d’acqua”, compito che ordinariamente spettava alle donne che la andavano ad attingere a un pozzo ma, secondo la tradizione giudaica nel caso della preparazione della Pasqua, era il padre di famiglia a prendere e portare l’acqua che sarebbe servita alla preparazione dell’impasto per il pane azzimo. La persona che i due discepoli avrebbero incontrato sarebbe stata un conoscente, o amico o discepolo di Gesù (o tutte e tre le cose il testo non lo dice). In realtà si è molto pensato sull’identità di questo anonimo e non è da disprezzare l’opinione che l’uomo della brocca fosse l’evangelista Marco (cugino di Barnaba) e il padrone di casa suo padre o uno stretto parente la cui dimora, dopo la morte del corpo di Gesù, divenne luogo di riunione per i credenti di Gerusalemme. Ed era comune usanza tra gli abitanti di quella città dare ospitalità ai pellegrini che salivano per le feste mettendo a loro disposizione un cenacolo.

Abbiamo qui anche la terza ragione per la quale Giuda fu estromesso dal compito di provvedere a un luogo per la cena: se avesse saputo in anticipo quale fosse, avrebbe potuto far sì che l’arresto di Gesù si verificasse interrompendola, non consentendo lo svolgersi di alcuni avvenimenti fondamentali per gli apostoli, come il lavacro dei piedi, l’istituzione del Memoriale e soprattutto la preghiera sacerdotale ricca di significati totali per loro e per tutti i cristiani.

Dobbiamo chiederci cosa significhi comunque questo episodio, in cui Nostro Signore predice esattamente ciò che Pietro e Giovanni avrebbero trovato e come avrebbero agito; il fatto che avrebbero incontrato l’uomo con la brocca d’acqua si raccorda a quando, prima dell’ingresso trionfale in Gerusalemme, disse a due discepoli “Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è salito. Slegatelo e portatelo qui.” (Marco 11.2): è la perfetta visione di Gesù non solo del tempo, ma soprattutto di ogni evento che si sarebbe verificato da lì a poco, in ogni epoca e per ogni vivente. Da questi due episodi possiamo dedurre che non solo Gesù sapeva esattamente tutto ciò che gli sarebbe accaduto, ma anche di ogni persona che avrebbe incontrato, per quanto riguarda il Suo Ministero terreno da Giovanni Battista all’ignoto ladro pentito sulla croce e, per relazione, ciascuno di coloro “i cui nomi sono scritti nel libro della vita”.

Ecco il perché del totale canto d’amore di Davide nel Salmo 139 che riporto per buona parte: “Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano i miei pensieri, osservi il mio cammino e il mio riposo, ti sono note tutte le mie vie. La mia parola non è ancora sulla lingua ed ecco, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano. Meravigliosa per me la tua conoscenza, troppo alta, per me inaccessibile. Dove andare lontano dal tuo spirito? Dove fuggire la tua presenza? Se salgo in cielo, là tu sei; se scendo negli inferi, eccoti. Se prendo le ali dell’aurora per abitare alle estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra. Se dico: «Almeno le tenebre mi avvolgano e la luce intorno a me sia notte», nemmeno le tenebre per te sono tenebre e la notte è luminosa come il giorno; per te le tenebre sono come la luce. Sei tu che hai formato i miei reni e mi hai tessuto nel grembo di mia madre. Io ti rendo grazie: hai fatto di me una meraviglia stupenda; meravigliose sono le tue opere, le riconosce pienamente l’anima mia. Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, ricamato nelle profondità della terra. Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi; erano tutti scritti nel tuo libro i giorni che furono fissati quando ancora non ne esisteva uno. Quanto sono profondi per me i tuoi pensieri, quanto grande il loro numero, o Dio! Se volessi contarli, sono più della sabbia. Mi risveglio e sono ancora con te”.

 

Quindi “incontrerete un uomo” che simbolicamente possiamo identificare, al di là della sua funzione specifica che era quella di guidare Pietro e Giovanni alla casa di cui avrebbero incontrato il proprietario, in ciascuno di noi. Quando Gesù incontra una persona sa tutto di lei, non solo il suo vissuto, ma anche quello della sua famiglia, delle ragioni che hanno portato al suo concepimento, ciò che è stato e ciò che sarà per liberarlo e condurlo per mano. Sono convinto che, se fossimo consapevoli di questo sempre e non solo ogni tanto, spesso non per colpa nostra, ma perché la vita in questo mondo sfianca, molti errori non li faremmo, non prenderemmo strade che portano a deserti più o meno vasti, non ci perderemmo in problemi a volte piccoli a volte grandi, non avremmo bisogno di Gesù come pastore che lascia le novantanove pecore per prenderci sulle spalle. Ora non si tratta di coltivare sensi di colpa, ma di costruire affinché gli errori del passato non tornino e l’unico modo è pensare molto seriamente al ruolo che abbiamo nel Corpo di Cristo che è la Chiesa e nella società a lei estranea che, se col nostro comportamento genera interrogativi e contraddizioni, è pronta a giudicare. Si tratta della famosa “buona testimonianza” che ciascuno di noi è tenuto a dare non a parole, ma con fatti precisi.

 

Tornando al nostro testo, il padrone di casa avrebbe mostrato ai due discepoli “al piano superiore una sala, grande – originale “alta”e arredata – letteralmente “distesa”, cioè con tavoli e lettini –. Lì preparate”: quindi, Pietro e Giovanni trovarono l’ambiente pronto per quanto riguardava gli arredi, ma dovettero approntare l’agnello, il pane, il vino e le erbe amare prima dell’arrivo di Gesù e degli altri. Solo allora Giuda avrebbe saputo dov’era il luogo della celebrazione della Pasqua e, non potendo andar via immediatamente per non insospettire, secondo il suo punto di vista, nessuno, si fermò fino al momento a lui concesso.

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16.50 – LA CONGIURA CONTRO GESÙ (Matteo 26.1-3; 14-16)

16.50 – La congiura contro Gesù (Matteo 26.1-3; 14-16)

 

1Terminati tutti questi discorsi, Gesù disse ai suoi discepoli: 2«Voi sapete che fra due giorni è la Pasqua e il Figlio dell’uomo sarà consegnato per essere crocifisso».3Allora i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo si riunirono nel palazzo del sommo sacerdote, che si chiamava Caifa, 4e tennero consiglio per catturare Gesù con un inganno e farlo morire. 5Dicevano però: «Non durante la festa, perché non avvenga una rivolta fra il popolo».

(…)

14Allora uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai capi dei sacerdoti 15e disse: «Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?». E quelli gli fissarono trenta monete d’argento. 16Da quel momento cercava l’occasione propizia per consegnarlo.

 

Il sermone profetico si è appena concluso e Gesù torna al tempo presente dando il quarto annuncio della sua passione e morte. Ricordandoli, abbiamo il primo in Matteo 16.21: “Da allora – dal riconoscimento di Gesù come “il Cristo” da parte di Pietro – Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno”; il secondo in 17.22,23: “Il figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno, ma il terzo giorno risorgerà” e il terzo in 20.17-19 “Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché venga deriso e flagellato e crocifisso, e il terzo giorno risorgerà”. Nel nostro passo, invece, abbiamo letto “Voi sapete” con un riferimento alla morte nel giorno di Pasqua, mai fatto fino ad ora, e la scomparsa della dichiarazione di risurrezione, presente nelle atre occasioni. Abbiamo allora una progressione che ci parla, fra l’altro, di un Dio che ha voluto farsi uomo ed essere soggetto, tra le molte cose, al tempo: passata l’infanzia, l’adolescenza, il periodo in cui lavorare, veniamo al Ministero così perfetto e assoluto di un Dio che opera ma sente la fatica, che ha bisogno di mangiare e di bere, di riposare e, come tutti, non può sfuggire alla propria morte, nel Suo caso violenta e infamante, di croce.

Inoltre abbiamo l’aggiornamento del vero significato della Pasqua: certo i discepoli sapevano che questa sarebbe avvenuta fra due giorni, ma da allora in poi sarebbe stato Lui il vero Agnello immolato perché “Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato” (1 Corinti 5.7).

Anche per i discepoli essere soggetti al tempo significa fare i conti con ciò che li attende, cioè non solo il distacco violento dal loro Maestro, ma tutto il disorientamento e il dolore che si impossesserà di loro fino a quando non avverrà la risurrezione, con la discesa dello Spirito Santo che si sarebbe verificata.

Ogni essere umano, quindi, ha un appuntamento con uno o più eventi che lo riguardano e ai quali non può giungere impreparato perché, per quanto faccia o voglia, è impossibile sfuggir loro essendo lì, pronti ad attenderlo da anni: sono le prove che ognuno di noi dovrà affrontare, indipendentemente dalla loro portata. Naturale per me pensare a Pietro e ai tanti altri menzionati nel libro degli Atti (pensiamo ai primi, Stefano e l’apostolo Giacomo), e alle sofferenze che tutti dovettero affrontare per il Vangelo.

Altra particolarità del verso 1 è che la forma verbale utilizzata non è “sarà consegnato”, ma “è consegnato”, rendendo molto drammatica l’idea del Figlio di Dio innocente che non ha più tempo: non può più difendersi, non sarà più possibile agli evangelisti scrivere “passò in mezzo a loro e se ne andò”, o ancora “si nascose da loro”. Gesù “è dato”, consegnato agli uomini non perché facciano di lui quello che vorranno, ma solo per quanto sarà concesso loro e le parole, “è dato agli uomini perché sia crocifisso” danno piena drammaticità all’ “allora” del verso tre: la riunione del sinedrio, con i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo nel palazzo di Caiafa, sommo sacerdote.

“Allora”, che significa “in quel momento”, “dopo di che”, quasi che sia lo stesso Gesù, Signore anche del Tempo e della Storia, ad autorizzare l’inizio del periodo che lo porterà all’arresto e al processo. A differenza di tutte le altre volte in cui scribi, farisei e gli altri gruppi cospirarono inutilmente contro di Lui, qui riusciranno apparentemente nel loro intento, “catturare Gesù con l’inganno e farlo morire” (v.4).

Evidente il collegamento con il Salmo 2 sul quale è necessario soffermarsi brevemente perché ci dà le dimensioni, la portata effettiva di quanto stava avvenendo:

 

“Perché le genti sono in tumulto e i popoli cospirano invano? Insorgono i re della terra e i principi congiurano insieme contro il Signore e il suo consacrato «Spezziamo le loro catene, gettiamo via da noi il loro giogo!».

 

È la prima parte del Salmo, che descrive le nazioni che si oppongono a Dio, che possiamo identificare, opponendosi al “Signore e al suo Consacrato”, nel sinedrio quale antesignano di tutti coloro che verranno dopo. Questa cospirazione, però avviene “invano” nel senso che non produrrà il risultato sperato. Si noti che tutto accade con un fine preciso, “spezziamo le loro catene, gettiamo via da noi il loro giogo”, quello “leggero” di cui parlò Gesù, una volontà distruttiva che ricadrà su di loro.

Infatti

 

“Ride colui che sta nei cieli, il Signore si fa beffe di loro. Egli parla nella sua ira, li spaventa con la sua collera: «Io stesso ho stabilito il mio sovrano sul Sion, mia santa montagna».

 

Il “ridere” di Dio, qui da intendersi nel senso che nulla di quanto può progettare l’uomo a Lui ostile può ferirlo o scalfirne anche infinitesimamente la potenza, trova come conseguenza il “parla nella sua ira” con un decreto di stabilità del “suo sovrano” cioè un re che gli appartiene, da lui costituito, che non può essere altri che il Figlio il quale regnerà su tutto il mondo proprio a partire da Gerusalemme.

Ma quanto durò la speranza, da parte del Sinedrio, di aver risolto una volta per tutte il problema di Gesù? Non è facile rispondere perché Dio parlò già a crocifissione in atto, quando leggiamo che “a mezzogiorno si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio” e poi, dopo che spirò, “il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, la terra tremò, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi, che erano morti, risuscitarono. (…) Il centurione, e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, alla vista del terremoto e di quello che succedeva, furono presi da grande timore e dicevano: «Davvero costui era figlio di Dio» (Matteo 27.45-54). Luca scrive che “Tutta la folla che era venuta a vedere questo spettacolo, ripensando a quanto era avvenuto, se ne tornava battendosi il petto” (23.48).

Altro “parlare” di Dio avverrà poi con la risurrezione del Figlio, cui seguirà il complotto per mettere a tacere l’episodio, e ancora l’inutilità del proibire, da parte dei Giudei, la diffusione del cristianesimo.

Il nostro Salmo prosegue con l’annuncio del decreto:

 

“Voglio annunciare il decreto del Signore. Egli mi ha detto: «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato. Chiedimi e ti darò in eredità le genti e in tuo dominio le terre più lontane. Le spezzerai con scettro di ferro, le frantumerai come vaso di argilla»”.

 

Gesù qui si presenta con credenziali inoppugnabili: quell’”oggi ti ho generato” non sta a significare che c’è stato un momento in cui è avvenuto il suo concepimento, ma quell’“oggi” è per gli uomini, che lo conoscono e per i quali è generato nel momento stesso in cui ne apprendono l’esistenza e l’opera. L’”oggi” vale per il momento in cui Gesù si fa conoscere da chiunque lo accoglie per cui avrà in eredità le genti, coloro che lo hanno conosciuto e gli appartengono. Segue poi il giudizio con “uno scettro di ferro” che in quanto tale frantuma e annienta le nazioni.

Quarta e ultima parte del Salmo è un’esortazione agli uomini:

 

“E ora siate saggi, o sovrani; lasciatevi correggere, o giudici della terra; servite il Signore con timore e rallegratevi con tremore. Imparate la disciplina, perché non si adiri e voi perdiate la via: in un attimo divampa la sua ira. Beato colui che in lui si rifugia”.

 

È la beatitudine di chi è al sicuro, esatto opposto di quanti cospirano nella corte di Caiafa.

I problemi che i convenuti presso l’abitazione del sommo sacerdote dovettero affrontare erano quindi due: trovare un pretesto per arrestare e condannare Gesù e farlo senza provocare disordini perché, nell’occasione delle feste giudaiche più importanti, c’era sempre una coorte romana che si schierava lungo il portico del Tempio, “armati affinché la folla radunata non facesse sedizioni” (Ant. Giud., 224). La frase “Non durante la festa”, allora, rivela tutta l’urgenza del caso: se l’arresto si fosse verificato durante la Pasqua, molti pellegrini o Galilei favorevoli a Gesù avrebbero potuto insorgere a Sua protezione e, se fosse stato preso dopo, avrebbe potuto allontanarsi dalla città con i pellegrini che facevano ritorno alle proprie regioni di provenienza. Alla festa, però, mancavano solo due giorni (Marco 14.1, “Mancavano due giorni alla Pasqua”), ed ecco allora apparire la strategia dell’Avversario che si serve di Giuda perché ciò avvenisse.

È l’apostolo Giovanni a darci un quadro preciso degli avvenimenti che fecero da contorno a tutta quella cospirazione: “Era vicina la Pasqua dei Giudei e molti dalla regione salirono a Gerusalemme prima della Pasqua per purificarsi. Essi cercavano Gesù e, stando nel tempio, dicevano tra loro: «Che ve ne pare? Non verrà alla festa?». Intanto i capi dei sacerdoti e i farisei avevano dato ordine che chiunque sapesse dove si trovava lo denunciasse, perché potessero arrestarlo” (11.55-57).

Nel trascrivere il testo di Matteo 26 all’inizio, sono stati tralasciati i versi da 6 a 13 che riferiscono l’episodio di Maria, sorella di Lazzaro, che unse il capo di Gesù con il profumo prezioso già commentato in precedenza. Sappiamo che fu questo dono che scandalizzò i discepoli che, conoscendone il valore, lo ritennero uno spreco. Loro si limitarono a questo, ma Giuda, che era avido, lo ritenne un affronto alla sua logica (ricordiamo che, monetizzato, quel profumo era valutato la paga annua di un operaio). A questo punto, occorre entrare nelle dinamiche che portarono quest’uomo a tradire il suo Maestro, cosa estremamente complessa in quanto non esaminabile secondo i canoni della psicologia umana. Se possiamo comprendere da questo punto di vista gli apostoli, alcuni dei quali ritratti in tal senso, dobbiamo tener presente che di Giuda, dal punto in cui prese il boccone di pane intinto nel vino, è scritto che “Satana entrò in lui” (Giovanni 13.27) per cui divenne sua proprietà, da lui governato e diretto.

Qui si aprono discussioni infinite: ci si potrebbe chiedere in quale misura fosse responsabilità di questo apostolo tutto ciò che avrebbe fatto da lì in poi, se il suo riportare i trenta sicli d’argento ai capi dei sacerdoti agli anziani “preso dal rimorso” e la sua frase “Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente” (Matteo 27.3,4) non rivelino un pentimento disperato preludio al perdóno, ma ci porremmo su un piano valutativo non corretto, su premesse inopportune destinatarie di conclusioni errate: come vedremo, infatti, Giuda si pose sempre su un piano di opposizione verso il suo Maestro, a tal punto che, in tempi “non sospetti”, disse “Non sono forse io che ho scelto voi, i dodici? Eppure uno di voi è un diavolo” (Giovanni 6.70) nel senso originario del termine, quindi colui che calunnia, si oppone, contraddice, non uno spirito del male, quanto piuttosto colui che lo porta dentro di sé.

Possiamo quindi concludere che il verso 14 di Matteo, “Allora uno dei dodici…”, si riferisca al momento in cui in Giuda sorse l’idea definitiva del tradimento, che metterà in pratica subito dopo aver partecipato all’ultima cena quando Gesù gli disse “Quello che vuoi fare, fallo presto” (Giovanni 13.27). E viene spontaneo pensare che quello fu l’unico ordine che ascoltò e mise in pratica.

In realtà, dopo l’ultima cena Giuda uscì dalla sala per andare dagli avversari di Gesù per consegnarglielo ufficialmente, quando aveva già stabilito con loro la Sua consegna. A parte il testo di Matteo, così leggiamo in Marco 14.10: “Allora Giuda Iscariota, uno dei dodici, si recò dai capi dei sacerdoti per consegnare loro Gesù. Quelli, all’udirlo, si rallegrarono e promisero di dargli del denaro. Egli cercava di consegnarlo al momento opportuno – dopo la cena –“. Luca: “Allora Satana entrò in Giuda, detto Iscariota – cioè “l’uomo di Kerioth” –, che era uno dei dodici. Egli andò a trattare con i capi dei sacerdoti e i capi delle guardie sul modo di consegnarlo a loro. Essi si rallegrarono e concordarono di dargli del denaro. Egli fu d’accordo e cercava l’occasione propizia per consegnarlo a loro, di nascosto dalla folla” (22.6). E infatti questo avvenne di notte.

Ultima considerazione l’abbiamo sul prezzo fissato, trenta sicli, il prezzo di uno schiavo (Esodo 21.32). Questa fu la valutazione del sinedrio, che Giuda ritenne equa. Non sono la cifra è indicativa sulla considerazione in cui entrambe le entità valutarono la persona di Gesù ma Matteo, che è l’unico a riferirla, fa così per metterla in relazione a Zaccaria 11.12: “Poi dissi loro: «Se vi pare giusto, datemi la mia paga; se no, lasciate stare». Essi allora pesarono trenta sicli d’argento come mia paga”.

Va sottolineato che si parla di “sicli” e non di “denari” come opinione comune; 30 sicli infatti corrispondevano a 120 denari, valendone il siclo quattro.

Tre quindi sono i drammi che stanno per compiersi: l’arresto e la Passione i Gesù, il suicidio di Giuda e la distruzione di Gerusalemme (e non solo), questi ultimi due che si possono intravedere in Geremia 18.11,12: “Dice il Signore: Ecco, sto preparando contro di voi una calamità, sto preparando un progetto contro di voi. Su, abbandonate la vostra condotta perversa, migliorate le vostre abitudini e le vostre azioni. Ma essi diranno: «È inutile, noi vogliamo seguire i nostri progetti, ognuno di noi caparbiamente secondo il suo cuore malvagio”.

Così infatti pensano un cuore e una mente lontani da Dio. Amen.

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16.49 – IL GIUDIZIO FINALE VI: LE PAROLE ALLE PECORE IV (Matteo 23.34-40)

16.49 – Il giudizio finale VI: Le parole alle pecore IV (Matteo 25,34-40)

 

34Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, 35perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, 36nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». 37Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? 38Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? 39Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». 40E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me».

 

Ero in carcere e siete venuti a trovarmi

Credo che il verso di riferimento da tener presente come base per sviluppare riflessioni appropriate si trovi in Matteo 5.10-12, “Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi, quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti prima di voi”.

“Perseguitati per la giustizia” quindi non degli uomini, ma di Dio, quella che viene dalla fede. Per questo l’autore della lettera agli Ebrei 11.35-39 scrive “…altri, poi, furono torturati, non accettando la liberazione loro offerta, per ottenere una migliore risurrezione – cioè un premio maggiore –. Altri, infine, subirono insulti e flagelli, catene e prigionia. Furono lapidati, torturati, tagliati in due, furono uccisi di spada, andarono in giro coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, tribolati, maltrattati – di loro il mondo non era degno! -, vaganti per i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra” e in 13.3 “Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere, e di quelli che sono maltrattati, perché anche voi avete un corpo”.

Al di fuori del patimento per la “giustizia”, cioè quando una persona viene imprigionata per la fede che professa, il carcere rimane quello che è, un luogo di pena, giusto o ingiusto non è questa la sede per discuterne, per cui l’uomo che vi è imprigionato patisce il più delle volte gli effetti della propria condanna ed è destinatario al pari di quelli che sono fuori del messaggio del Vangelo che, come gli altri, può accogliere o rifiutare. Così, anche fra i carcerati vi sono persone che si convertono perché danno luogo all’amore della verità per essere salvati.

 

Le prime notizie sull’istituzione carceraria le troviamo in Genesi 39.20 quando Giuseppe, falsamente accusato dalla moglie di Potifarre di aver cercato di usarle violenza, fu messo “nella prigione dove erano detenuti i carcerati del re. Così egli rimase là in prigione. Ma il Signore fu con Giuseppe, gli accordò benevolenza e gli fece trovare grazia agli occhi del comandante della prigione”. Il profeta Geremia, invece, fu rinchiuso prima nella casa di Gionata in una cisterna, poi nell’atrio della prigione e quindi, con delle corde, fu calato in un’altra cisterna piena di fango. “Carcere”, se lo si intende con etimologia ebraica, carcar, significa “tumulare, sotterrare”, mentre se si considera il latino abbiamo coercere, o arcere, “rinchiudere, restringere, castigare, punire”. Ricordiamo che a parte i due esempi scritturali su tanti, prima ancora Giuseppe figlio di Giacobbe fu messo in una cisterna dai fratelli prima di essere venduto, per venti sicli d’argento, a dei mercanti madianiti.

Nell’antica Roma il concetto di carcere come luogo di pena era sconosciuto, ma serviva unicamente per trattenere detenuti in attesa di giudizio che si risolveva con pene in denaro – ricordiamo le parole “di là non uscirai finché non avrai pagato l’ultimo quattrino” –, l’esilio, pene corporali, la mutilazione o nei casi più gravi la morte. A Roma erano attive anche prigioni appositamente costruite dove si trovavano rinchiusi promiscuamente uomini e donne, vecchi e bambini, accusati e condannati, prigionieri di guerra e delinquenti comuni, con due ambienti: in uno si potevano ricevere visite e prendere aria, mentre l’altro era buio, privo di luce, destinato alla custodia dei destinati alla pena capitale e lì si trovavano le celle. La detenzione si svolgeva con modalità diverse a seconda della gravità del reato: il carcer, carcer pubblicus et vincula, cioè la semplice detenzione o aggravata dai ceppi che impedivano al condannato ogni movimento, la pubblica custodia, o custodia carceris per la semplice custodia, oppure la “custodia vinculorum” che era aggravata dai ferri, solitamente posti al collo, ai polsi o alle caviglie.

C’era poi la “libera custodia”, quella cui fu condannato Paolo a Roma, oggi diremmo gli arresti domiciliari, per cui chi ne era condannato era sottoposto al controllo di un magistrato o suo delegato e poteva godere di una certa libertà o rimanere chiuso in casa.

 

Forniti questi dati, pochi ma comunque importanti per capire meglio alcuni passi della Scrittura, troviamo diversi riferimenti nel libro degli Atti, dal processo per direttissima agli apostoli davanti al Sinedrio, che si concluse con la loro flagellazione (5.40), i credenti che Saulo riusciva a trovare (“Saulo intanto cercava di distruggere la Chiesa: entrava nelle case, prendeva uomini e donne e li faceva mettere in carcere”, 8.3; Pietro, incatenato in quel luogo, fu liberato da un angelo e i fratelli pregavano per lui (12); Paolo e Sila a Filippi furono lì gettati dopo essere stati bastonati e i loro piedi furono “assicurati ai ceppi” e poi seguì la loro liberazione miracolosa (16.23 e segg.) ed infine tutta la vicenda, ancora di Paolo, dal Sinedrio a Cesarea e quindi il suo imprigionamento presso le carceri di Erode ( capp.21 e segg.).

Abbiamo la citazione di Onesiforo, “…perché egli mi ha più volte confortato e non si è vergognato delle mie catene; anzi è venuto a Roma, mi ha cercato con premura, finché non mi ha trovato”.

Tornando ora alla nostra pericope, è la più particolare delle sei perché non risulta che Nostro Signore sia mai andato a trovare qualcuno prigioniero, almeno nel Suo Ministero terreno. Non andò da Giovanni Battista, cosa che fecero coloro che ancora lo seguivano, perché altrimenti sarebbe stato arrestato, né risulta dagli esempi del libro degli Atti proposti che qualcuno abbia fatto lo stesso con gli apostoli, a parte il citato Onesiforo in 2 Timoteo 1.16. Non resta allora che concludere che le parole di Gesù siano le uniche proiettate al futuro della cristianità e alle persecuzioni che questa avrebbe subìto, fermo restando che anche quelle precedenti non furono certo poca cosa per coloro che le dovettero affrontare.

La visita a coloro che sono in carcere, quindi, assieme agli altri cinque casi, rientra nella cura alla persona che, senza un sostegno con la manifestazione attiva della vicinanza, si troverebbe priva di aiuto. È singolare che il passo di Ebrei 13.3 citato all’inizio, sia preceduto dalle parole “Non dimenticatevi dell’ospitalità. Alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli”, chiaro riferimento ad Abrahamo in Genesi 18.1-5: Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo»”.

I sei punti esposti da Nostro Signore, allora, possiamo concludere che siano l’esatto contrario dell’indifferenza verso il prossimo, condizione terribile che può ucciderlo fisicamente e moralmente comprendendo entrambe le condizioni: la fame e la sete interiore non danno meno sofferenza di quelle del corpo, il trovarsi estranei in un mondo potenzialmente ostile disorienta e fa soffrire non meno del ritrovarsi con enormi difficoltà a comprendere e farsi capire da chi parla un linguaggio diverso, e così via.

 

A questo punto abbiamo la reazione dei “giusti” che chiedono a Gesù quando abbiano usato carità nei Suoi confronti, non avendolo mai visto. La risposta del Re a questo punto è illuminante, ma non nuova perché risale all’Antico Patto, per quanto la estenda e la aggiorni alla vera dimensione-realtà della Grazia: se Proverbi 17.5 afferma “Chi deride il povero offende il suo creatore, chi gioisce per colui che va in rovina non resterà impunito” (per non citare tutti i passi in un modo o in un altro connessi al tema), ricordiamo le parole di Gesù a Saulo sulla via per Damasco quando, alla sua domanda “Chi sei, Signore?” gli rispose “Sono Gesù, che tu perseguiti”. A tal punto arriva l’identificazione del Signore con quelli che credono in lui. E attenzione, perché qui non si tratta solo dei cristiani cosiddetti “grandi”, quelli che hanno portato moltitudini di anime a Cristo, hanno evangelizzato regioni, nazioni, hanno subìto ogni genere di patimenti per il Vangelo, ma di tutti, quindi i cosiddetti “minimi”, o “più piccoli”, coloro cui poco è stato dato, quelli che si sono ritrovati in mano un solo talento e magari non l’hanno utilizzato al meglio, ma certo non l’hanno sotterrato.

“Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi fratelli più piccoli, lo avete fatto a me”: gli elementi da sottolineare sono “uno solo”, “fratelli più piccoli” e “me”. Se così non fosse, avremmo una disparità di trattamento, delle differenze, favoritismi, due pesi e due misure; invece, è evidente che grandi e piccoli beneficiano entrambi dell’identificazione di Gesù con loro.

Cito le parole conclusive dell’episodio: “Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato». Anch’essi allora risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?». Allora egli risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me». E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna»”.

Ciò che più mi stupisce di queste parole è che ci troviamo davanti, per quanto non mi piaccia la definizione, a un “peccato di omissione” nel senso che quelli alla sinistra del Re non vengono condannati per un’azione, ma per ciò che non hanno fatto. Come già sottolineato, è il vero peccato di Sodoma, l’indifferenza rappresentata dal “non” ripetuto per sette volte per cui abbiamo la totalità del nulla.

Azione e non azione, quindi comportano due diverse destinazioni, entrambe eterne: “E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna” (v. 46). Amen.

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