17.06 – GESÙ LAVA I PIEDI AI DISCEPOLI II/II (Giovanni 13.2-10)

17.06 – Gesù lava i piedi ai discepoli II/II(Giovanni 13.2-10)

 

2Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, 3Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, 4si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. 5Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto. 6Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». 7Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». 8Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». 9Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». 10Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti». 11Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri».

 

Nello scorso capitolo abbiamo affrontato l’episodio tenendo presente l’aspetto di Gesù in mezzo ai suoi “come colui che serve” e credo che, se l’Apostolo Giovanni non avesse inserito nel testo il breve dialogo con Pietro, non avremmo altri elementi di riflessione.

Le parole dell’Apostolo, “Signore, tu lavi i piedi a me?” e “Tu non mi laverai i piedi in eterno!”, dove il pronome è indicativo perché diretto esclusivamente a Lui, ci rivelano molto di ciò che Pietro pensava: voleva impedire che il Suo Maestro gli lavasse i piedi non reputandosi degno di un simile interessamento per il compito profondamente servile che Gesù aveva scelto, di competenza dei più umili degli schiavi. Ricordiamo infatti le parole di Abigail a Davide: “Ecco, la tua schiava diventerà una serva per lavare i piedi ai servi del mio signore”. Teniamo presente che l’apostolo già aveva dimostrato di avvertire la profonda distanza che intercorreva tra loro quando, nell’episodio della pesca sulle rive del Lago di Galilea, gli disse “Signore, allontanati da me, poiché sono un peccatore” (Luca 5.8).

Quelle parole furono precedute dal suo prostrarsi, in segno di profonda deferenza e conscio della distanza che lo separava da Lui. Pietro, a quel tempo, non aveva ancora contezza di essere stato scelto da Dio per il Suo Progetto così come lì, alla cena, ignorava ciò che stava avvenendo davvero, non andando oltre al semplice lavaggio dei piedi; infatti gli viene detto “Quello che io faccio, lo capirai dopo”, cioè in un secondo momento, quando ogni cosa, compresi i dubbi e le incertezze, verranno chiariti, scomparendo. Teniamo sempre presente che gli Undici ebbero sempre, prima della discesa dello Spirito Santo, una visione parziale di quanto accadeva loro, che un grande conforto alla loro fede imperfetta venne quando videro il loro Signore risorto che pose fine alla loro delusione espressa con le parole “Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute” (Luca 24.1). Il fatto che Pietro, e gli altri con lui, avrebbero capito “dopo” quanto accadeva, testimonia il fatto che la nuova vita nello Spirito sarebbe stata diversa, mettendoli in condizione di comprendere le Sue parole e azioni per collocarle nella giusta dimensione, cosa che avviene per ogni essere umano che, una volta salvato e messosi in cammino nella Grazia, arriva a comprendere il senso e il significato della propria vita, del suo percorso passato e presente.

C’è, nel dialogo con Pietro, una testimonianza molto bella e altrettanto intensa dell’amore che provava per il suo Maestro perché quando si sentì dire che, se non gli fossero stati lavati i piedi, non avrebbe avuto parte alcuna con Lui (cioè sarebbe stato tagliato fuori da ogni comunione e partecipazione alle Sue opere e gloria), si dichiarerà disposto ad accettare di venire lavato anche completamente, se Lui lo avesse voluto: “Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!”.

 

Soffermiamoci ora sulle usanze del tempo e sulle parole “Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro”: tralasciando le abluzioni rituali, Gesù fa qui riferimento al bagno che si faceva immergendosi completamente in una vasca anche pubblica – ricordiamo la piscina di Siloe e di Betesda –; chi si lavava in quel modo era pulito e lo restava per tutto il giorno, ma così non i piedi perché la calzature di allora erano dei saldali fissati alle caviglie con legacci che lasciavano gli arti inferiori alla polvere o al fango a seconda delle condizioni delle strade, in terra battuta. Questa condizione costringeva la gente a lavarsi i piedi continuamente, al rientro in casa e soprattutto prima di mangiare, come già ricordato. E qui ricordiamo lo “scrollarsi la polvere dai piedi” quando tornavano da territori pagani, per loro contaminati, o uscivano dalle case che non avevano accolto l’annuncio del Vangelo (Matteo 10.14; Marco 6.11; Luca 9.5; Atti 13.51).

Allora, spostando il significato del paragone sul piano spirituale, “Chi ha fatto il bagno” sono proprio i Dodici, o meglio di Undici, perché in quando credenti in Gesù erano puri nel senso che il peccato non dominava più su di loro impedendo una relazione con Dio. È molto importante che l’uomo sappia che l’Agnello di Dio non è quello “che toglie i peccati del mondo” come si sente dire nelle Messe della Chiesa di Roma, ma “il peccato del mondo” (Giovanni 1.29), cioè la base, la condizione che li teneva lontani da Lui in quanto tutti, nessuno escluso, nascendo portano con loro l’eredità contratta da Adamo ed Eva. Infatti in 1 Corinti 6.9-11 leggiamo “Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi – cioè non concepite opinioni vane, non fatevi false convinzioni –: né immorali, né idolatri, né adùlteri, né depravati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio. E tali eravate alcuni di voi. Ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello spirito del vostro Dio”. L’uomo nella carne, infatti, non può rientrare che in queste categorie a seconda del potere attrattivo che la carne ed il peccato esercitano su di lui.

Non esiste cristiano che, salvato, non sia stato purificato – quindi reso puro – dal sacrificio di Gesù, ma – attenzione – resta sempre il problema dei piedi perché, nel momento in cui si sposta, cammina, va da qualche parte, deve necessariamente lavarseli perché sono l’unica parte sporca del suo corpo, visto che il bagno, quello rigeneratore, è già stato fatto. Da sottolineare poi che, per chi si è lavato e quindi prova soddisfazione per la pulizia raggiunta, ritrovarsi nel giro di breve tempo coi piedi sporchi procura un profondo disagio avvertendo la polvere o il fango; così è per chi, quotidianamente, deve affrontare quello sporco visto nelle mancanze, nelle infrazioni, nei peccati che commette in quanto essere “fatto di carne”. Certo non vorrebbe insozzarsi, ma così avviene ed è il dualismo espresso dall’apostolo Paolo in Romani 7.21 “Quando voglio fare il bene, il male è accanto a me”.

Chi è “nato di acqua e di spirito” (Giovanni 3.5) è stato reso tale “non per opere giuste da lui compiute, ma per la sua misericordia, con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo, che Dio ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo salvatore nostro, affinché, giustificati per la sua grazia, diventassimo nella speranza eredi della vita eterna” (Tito 3.4-7), ma questo non vuol dire che è stato trapiantato in un territorio in cui il peccato non esiste né eserciti più alcuna forma di attrazione, anzi! Chi crede è una piantina di grano costretta a convivere con le zizzanie fino alla fine.

Non sono quindi le colpe della condizione di peccato, che sono state rimesse per sempre, a compromettere il rapporto con Dio, ma quelle contratte camminando che hanno bisogno di essere lavate, cosa che può essere fatta solo da Gesù figurativamente ai Dodici e per noi comunque davanti al Padre nel Suo Nome. Un perdóno che si rinnova e rinnova continuamente. Ecco perché, ancora una volta, quando Pietro chiese quante volte dovesse perdonare al suo prossimo, fu detto “Non fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette” (Matteo 18.22), che farebbe 490, quindi un perdóno senza fine. Chi, infatti, si metterebbe a contare 490 per noi smettere alle 491ma?

 

Ben diversa la teoria cosiddetta corinziana che, nonostante sia stata concepita allora è sostenuta ancora oggi, afferma l’inutilità da parte dell’uomo a liberarsi del peccato quotidiano, essendone già stato liberato da lui per sempre dal sacrificio di Gesù: “Se siamo stati davvero liberati dal peccato, non ha senso liberarcene ancora”. Il Signore però insegna col nostro episodio che quanti rifiutano l’idea che il Suo intervento purificatore riguardo ai piedi non sia necessario continuamente, non avranno con Lui parte alcuna. Ignorare questa fisiologia equivale ad annullare il Suo sacrificio proprio perché il rapporto con il Padre e il Figlio è proporzionale non solo al tempo che passiamo con loro, ma alla consapevolezza che dobbiamo continuamente toglierci di dosso le impurità contratte camminando. Infatti una cosa è la vita che Gesù condusse in mezzo ai peccatori, condividendo la Sua esistenza con loro senza contaminarsi mai, un conto è quella che percorriamo noi che, non essendo come Lui, inevitabilmente sbagliamo.

Quindi viene chiamato in causa il cammino che ognuno di noi fa quotidianamente, che senza una forte attività preventiva non può risolvere in bene. Ricordiamo in proposito Proverbi 3.21-23 “Custodisci il consiglio e la riflessione né mai si allontanino dai tuoi occhi: saranno per te vita e ornamento per il tuo collo. Allora camminerai sicuro per la tua strada e il tuo piede non inciamperà”, “Il Signore sarà la tua sicurezza e preserverà il tuo piede dal laccio” (v.26), per arrivare poi ad Ebrei 12.13, “camminate diritti con i vostri piedi, perché il piede che zoppica non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire”.

Alla luce di quanto emerso finora, abbiamo da un lato la preservazione nei nostri percorsi, ma anche il fatto che dove andiamo è la mente a determinarlo e da qui esiste o incidentalità o responsabilità, ciascuna da regolare con Dio o il nostro prossimo a seconda di chi il peccato vada a coinvolgere; come insegna il nostro Decalogo, sono due gli enti che possono essere interessati dalle nostre infrazioni. Ed ecco perché Gesù, al verso 14 dice “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi”.

I piedi implicano lo spostarsi che non è mai un’azione fatta così, per ingannare il tempo, ma è sempre il risultato di un’attività interiore che per il cristiano dev’essere preventiva: “Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne” (Galati 5.16), “Come dunque avete accolto Cristo Gesù, il Signore, in lui camminate” (Colossesi 2.6) per concludere con 2 Giovanni 2.16 “Il comandamento che avete appreso da principio è questo: camminate nell’amore”.

Tutto questo si riassume in un principio che Gesù dichiarerà poco più avanti, quando Giuda sarà già uscito dalla sala, con le parole “Voi siete già puri a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me, e io – rimarrò – in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me” (Giovanni 15.3,4).

Lasciarsi lavare i piedi da Gesù, quindi, è sinonimo del rapporto continuo con lui, dell’essere coscienti della nostra imperfezione e defettibilità, per trovare il soccorso, il conforto e soprattutto quel perdóno continuo senza il quale la nostra vita non può avere senso. Amen.

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17.05 – GESÙ LAVA I PIEDI AI DISCEPOLI I/II (Giovanni 13.2-10)

17.05 – Gesù lava i piedi ai discepoli I/II(Giovanni 13.2-10)

 

2Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, 3Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, 4si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. 5Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto. 6Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». 7Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». 8Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». 9Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». 10Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti». 11Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri».

 

“Durante la cena” e “mentre mangiavano” sono le due espressioni usate dagli evangelisti per collocare gli avvenimenti fondamentali dell’ultima cena che certo, se si prendono in esame le varie traduzioni, sono impossibili da collocare cronologicamente. Usando però la razionalità, a fronte delle numerose ipotesi di cui disponiamo, potremmo chiederci che senso avrebbe avuto, da parte di Gesù, interrompere la cena per lavare i piedi ai Dodici oppure per quale ragione, dopo l’annuncio del tradimento di uno di loro, questi passassero a discutere su chi fosse il maggiore quando la notizia li aveva “profondamente rattristati”, sconvolti a tal punto che ciascuno di loro Gli chiese “Sono forse io, Signore?” (Matteo 26.22).

Anche sapendo che, come più volte riportato, non è la cronologia ad interessare gli autori dei Vangeli, ciò non toglie che risolvere il problema della successione storica degli eventi andrebbe fatto, ma appare senz’altro cosa ardua.

Eppure, in tutto questo dibattersi, è proprio la lingua originale ad aiutarci perché il greco utilizza un verbo, “Ghenoménou”, che riferito alla cena suggerisce l’idea di qualcosa di pronto o comunque al suo imminente realizzarsi. Ad esempio, quando “ghenomenou” è riferito al giorno, è tradotto in Luca 4.42 e Atti 12.18 con “Sul far del giorno”. Ecco allora che Gesù si alzò per lavare i piedi ai Dodici quando la cena non era ancora cominciata ufficialmente (con il passaggio del primo calice e la preghiera di benedizione), ma stava per esserlo, e mi immagino che ciò avvenne dopo aver preso “posto a tavola e gli apostoli con lui” (Luca 22.14) dopo le parole “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, finché essa non si compia nel regno di Dio” (Luca 22.15).

 

A proposito di traduzioni va rilevato che quanti, nello studiare questo passo, vogliono basarsi sulla versione del Diodati (che reputo la migliore anche se non in questo caso), trovano un grosso errore perché, al posto di “durante” si legge “Finita la cena” che lascia insoluto il problema della cronologia degli eventi che, se non è di vitale importanza, credo aiuti nella conoscenza del Signore Gesù, nostra, dei fatti descritti e molto altro.

Invece, tornando in tema, il lavare i piedi ai Dodici fu la prima cosa che fece Gesù proprio per quel clima estraneo che si era venuto a creare fra gli Apostoli, che si chiedevano ancora una volta chi fosse tra loro il più grande (Luca 22.24) stante il fatto che Giuda aveva preso un posto anomalo.

Altra possibilità di corretta collocazione temporale di questo episodio è data dall’uso comune ai pranzi o alle cene in cui era consuetudine che un servo lavasse i piedi ai convitati poco prima che iniziassero a mangiare, fatto di cui Gesù stesso diede un cenno quando, invitato a pranzo da un fariseo, gli disse “Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non hai unto con olio il mio capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo” (Luca 7.44-47).

Mentre per Luca la ragione del nostro episodio fu la “discussione su chi di loro fosse da considerare il più grande” (22.24), che lo stesso Giovanni conferma con le parole “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi” (13.14,15), leggiamo che a monte vi fu la consapevolezza del fatto che il Padre “…gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava”: certo che questo lo sapeva anche prima, ma l’idea della gloria che avrebbe avuto, ”il nome superiore ad ogni altro nome” che gli sarebbe stato dato, la vittoria sull’Avversario definitiva con la Sua risurrezione, partorirono quel gesto.

In altri termini, alzandosi da tavola, deponendo le sue vesti, prendendo un asciugamano e cingendoselo attorno alla vita, il Maestro assunse ancora una volta “forma di servo” per i Suoi. Si tratta di un gesto dal significato enorme e che mai potremo sviluppare fino in fondo sia per quanto avvenne che per quanto Gesù disse ai Dodici. E va rimarcato che anche Giuda Iscariotha beneficiò di questo intervento, il che sottolinea la sua scelta di tradire avvenne fino in fondo nel senso che fu assolutamente personale, determinata, volontaria, opponendosi in tutto al suo Maestro. Ricordiamo che Satana gli aveva già messo in cuore di tradirlo, cosa che svilupperemo. Mi capita spesso di ragionare sull’impermeabilità morale e spirituale di questo personaggio, e non so mai darmi delle risposte precise. Se, con il suo comportamento, aveva consentito a Satana di gestire la parte conscia e inconscia del proprio essere, vedersi lavare i piedi da Colui che aveva praticamente già tradito con l’accordo coi capi dei sacerdoti, deve averlo lasciato assolutamente indifferente, come un animale che anziché la ragione ha l’istinto e altro non capisce.

Gesù, per lavare i piedi ai Dodici, si tolse la veste di sopra che lo avrebbe impedito nei movimenti e iniziò nel suo lavoro, non sappiamo a partire da chi, ma è probabile dall’Apostolo sdraiato più lontano perché altrimenti Giovanni non avrebbe scritto “Venne dunque da Simon Pietro” (v.6). Personalmente mi soffermerei sul fatto che Gesù non si limitò a lavare, ma anche asciugò come facevano i servi, compiendo così un lavoro che altrimenti sarebbe rimasto in sospeso; pensando al significato riflesso di quel gesto, di benedizione per il cammino fatto fino ad allora e quello che li attendeva, è il piede asciutto dopo essere stato lavato a parlarci di prontezza e rinnovamento, quasi a dire loro “adesso potete camminare secondo la mia volontà”. Lavando quei piedi e asciugandoli, è come se Gesù riconoscesse le fatiche fin lì fatte e il cammino nuovo che avrebbero compiuto e non a caso avrà per loro parole di elogio dicendo: “Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove e io preparo per voi un regno, come il Padre lo ha preparato per me, perché mangiate e beviate alla mia mensa nel mio regno. E siederete sul trono a giudicare le dodici tribù di Israele” (Luca 22,28-30).

Altra considerazione possibile su quanto fece Gesù è che, se la Croce fu l’ultima, definitiva rinuncia a se stesso per tutti gli uomini che grazie ad essa sarebbero stati salvati, il servire lavando i piedi ai Dodici fu l’ultimo esempio lasciato alla Chiesa, riunita ancora in embrione. Le Sue parole infatti furono: “Chi è più grande, colui che sta a tavola, o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve”. Il servire di Gesù non è solo un atto di umiltà, ma un aspetto del totale amore del Figlio di Dio sul quale spesso sorvoliamo: si fece servo e non si risparmiò mai. L’uomo Gesù, mai disgiunto dal Suo essere Dio e un tutt’uno col Padre, è lì, davanti ai Suoi, con un catino d’acqua e un asciugamano.

E le Sue parole, che riporta Luca in 22.25,26, illuminano perché pone due esempi, quello del mondo, il pensare e il metodo umano, e quello spirituale che nella Chiesa dev’essere la norma: ”I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori” (25). Questo termine è usato in senso paradossale perché chi governa è sempre esaltato da una propaganda meschina anche se è animato da sentimenti che, se riguardano il benessere del popolo, sono secondari e sono volti a un suo benessere di comodo tramite opere di regime. Il termine “benefattori” trova il suo esempio in “Augusto” che significa “degno di venerazione e onore” dato agli imperatori romani e in seguito adottato dagli altri come lui e prìncipi.

I “re delle nazioni e coloro che hanno potere su di esse” certo non occupano gli ultimi posti e nemmeno quelli di riserva, vengono riveriti ovunque e tengono molto a tutto ciò che il protocollo stabilisce per loro, ma per la Chiesa le istruzioni sono diverse: “Voi però non fate così, ma chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e colui che governa come colui che serve” (26). “Il più giovane” è tradotto da altri come “il minore”, ma rende meno l’idea perché nella Chiesa primitiva ai giovani venivano affidati gli incarichi di servizio, quelli considerati “secondari” ma non per questo meno importanti sotto l’ottica del fatto che ogni cristiano è membro di un Corpo. Se i cristiani comprendessero che l’importante è servire a prescindere dal ruolo, le Chiese godrebbero di una salute migliore di quella che hanno oggi. Invece si fa distinzione fra ruolo e ruolo, compito e compito, incarico e incarico. Ma questo stride con quanto abbiamo letto e con molti altri passi. La Chiesa non è un’azienda in cui contano i dirigenti e chi fa le pulizie è all’ultimo posto, non funziona così.

Ricordiamo cosa dissero gli apostoli riuniti in Atti 6.2, “Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense”: queste parole non hanno riferimento col rifiuto da parte loro ad avere un incarico secondario rispetto alla gestione della Parola, ma vogliono denunciare il fatto che, se avessero pensato anche al servizio ai tavoli, ne avrebbe nuociuto il loro ministero per cui, lungi dal scegliere persone a caso per occuparsi del problema, dissero “Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di spirito e sapienza, ai quali affideremo quest’incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola” (v.3).

Va anche sottolineato che, se la Chiesa non si stesse sviluppando e l’impegno delle mense non si fosse fatto pressante e dominante su quello del servizio cui i Dodici erano chiamati, avrebbero continuato a portarlo avanti personalmente senza sentirsi sminuiti.

Ha scritto un fratello: “Ben lungi dallo spianare ogni differenza di rango e di ufficio nella cerchia dei suoi discepoli, Gesù riconobbe qui una vera aristocrazia entro la sfera del Cristianesimo, ma è un’aristocrazia di umiltà che non solo richiese, ma esemplificò nella propria persona”.

Chi è umile e ha dono spirituale per cui è giusto che abbia una posizione di onore nella Chiesa, non lo accetterà mai da un punto di vista umano e non avrà alcuna difficoltà a considerarsi come uno in mezzo agli altri e quindi a servire. E quel posto di onore lo rifiuterà. Ricordiamoci che proprio l’apostolo Pietro, che una parte del Cristianesimo vorrebbe attribuirgli il primo posto, il primato definendolo “Il principe degli apostoli”, scrisse nella sua prima lettera “Esorto gli anziani che sono tra voi, quale anziano come loro, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi…” (5.1).

Certo Pietro, dei Dodici, è il più particolare: era il più avanti con gli anni, il più irruento e facile agli slanci, è colui che più degli altri sbaglia, ma fu il primo a definire il Maestro come “Il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente” (cosa che fece anche Marta, sorella di Lazzaro dicendo “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il figlio di Dio, colui che viene nel mondo”, Giovanni 11.27), rinnegherà il suo Maestro e conoscerà poi una piena riabilitazione. Più che detentore di un primato, Pietro è una persona che si farà obbediente a Gesù fino alla morte, respingendo qualsiasi onore che non sia quello ricevuto da Dio, quello di essere un Apostolo e un anziano della Chiesa, pastore posto non per governare, ma appunto per servire. Amen.

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17.04 – LE VERSIONI DELL’ULTIMA CENA

17.04 – Le versioni dell’ultima cena

 

A questo punto dell’esame degli eventi che caratterizzarono la celebrazione della Pasqua di Gesù coi discepoli, è necessaria una doverosa sosta per fissare alcuni elementi che, pur non modificando in alcun modo ciò che in quella sera fu detto e avvenne, sono comunque importanti. Più che riflessioni su un passo o un episodio per una volta fornirò dei dati, dei contenuti da mettere da parte per ulteriori sviluppi da parte di ciascuno. Per una questione pratica e di introduzione partirei dall’approccio che ogni cristiano ha nei confronti della Scrittura, che generalmente si basa su due posizioni differenti, una critica e l’altra che accetta ogni contenuto ritenendo che non vada mai posto in discussione.

Mi domando però: la fede è qualcosa di granitico, immobile, cieco e inattaccabile, o è piuttosto una piantina che cresce sempre di più, alimentata da dubbi (anche forti) risolti e da risolvere? Personalmente opto per la seconda ipotesi, perché altrimenti JHWH non avrebbe detto “Venite, e discutiamone insieme”, che costituisce chiaramente un invito al confronto, soprattutto scomodo. La fede cieca non ha mai illuminato nessuno, ma rende gli uomini degli automi che pensano allo stesso modo, hanno agli stessi usi, le medesime reazioni. La fede cieca genera il settarismo, l’integralismo e soprattutto quegli errori che fanno fallire la testimonianza, con posizioni mantenute ad oltranza nonostante l’evidenza dei contrari.

Quindi, quando il confronto dei testi genera discordanze, occorre chiedersi prima di tutto se sono apparenti o reali per poi affrontare la parte più impegnativa che consiste nello scavare nel testo, nella forma e nella storia, senza forzature. È una procedura che dobbiamo a noi stessi prima di tutto e agli altri, perché verrà sempre il momento in cui ci domanderanno in merito a un passo scomodo e, se saremo impreparati, avremo perso un’occasione di testimonianza.

L’estrema serietà della Paola di Dio, infatti, non ci consente di agire a nostro piacimento e soprattutto che prevalgano su di essa il sentimento perché, così facendo, scompare la consapevolezza di essere persone che da Lei dipendono. Così purtroppo è accaduto innumerevoli volte nella storia a tutti coloro che hanno voluto interpretare a loro vantaggio il testo senza preoccuparsi che vi fossero delle serie basi dottrinali per sostenere le loro tesi. Se nel vivere la fede cristiana, per “aiutarla” quando non si è in grado di gestire l’onestà con se stessi e con Dio, si cerca di fare leva sull’emozione, sulla sensibilità umana (il famoso pietismo) per instaurare con Lui un rapporto di tipo sentimentale, ecco che si pongono le basi per un’alterazione della relazione che non potrà portare al altro se non alla distanza.

Tutto questo per dire che l’approccio al testo evangelico, se non presenta alcuna difficoltà per determinare la propria salvezza, può fornirne molte dal momento in cui ci si trova di fronte alla necessità di armonizzare un racconto, un concetto anche fondamentale per la realizzazione di un “dunque” spirituale. E di questo occorre esserne consapevoli così come del fatto che le risposte sbrigative molto spesso sono degli adesivi di comodo con l’unico scopo di coprire un problema.

 

Ora quanto presentato appare anche nel caso dell’esame dell’ultima cena, tema enorme e molto delicato; se la nostra unica fonte di informazione fossero i sinottici non avremmo nessun problema, ma con il racconto di Giovanni, che completa il tutto portandolo a livelli immensi circa l’identificazione di Gesù con l’uomo, le domande che si pongono sono parecchie per cui stabilire cosa sia avvenuto in quella circostanza e con quale cronologia è tutt’altro che semplice: tutti i Vangeli  pongono la cena pasquale nel giorno di giovedì e la morte di Gesù il successivo, ma la differenza sta nella data perché per i Sinottici la cena avvenne il 14, “Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua” (Marco 14.12 e l’analogo Luca 22.7), mentre Giovanni colloca i processi a Gesù e la Sua morte alla “Parasceve della Pasqua” (19.14), quindi, secondo le date dei sinottici, il giorno a lei precedente. Secondo la versione di Giovanni una lettura obiettiva rivela una contraddizione data dal fatto che, se Gesù morì il 14 Nisan, l’ultima cena da Lui celebrata non era quella pasquale. Ciò ha fatto sostenere alcuni che in realtà Nostro Signore avesse effettuato due cene coi Dodici, una raccontata da Giovanni che precedette di un giorno quella effettiva riportata dagli altri evangelisti in cui fu istituito il Memoriale. Ripeto che è una questione di numeri del giorno e non del loro nome perché giovedì e venerdì della Passione concordano.

 

Può essere utile il seguente specchietto:

 

mese Nisan                 Sinottici                  Giovanni

giorno 13                                                          giovedì: ultima cena

giorno 14                      giov: ultima cena venerdì: morte di Gesù

giorno 15                      venerdì: morte di Gesù

 

In base al racconto dei Sinottici Nostro Signore fu arrestato nella notte tra il 14 e il 15, poi iniziarono i processi cui fu sottoposto e la Passione, ma tutto questo si scontra con una enorme difficoltà dovuta all’importanza e al carattere festivo che aveva il giorno di Pasqua, che cadeva appunto il 15: lì non era possibile fare alcun lavoro, valendo le stesse norme del riposo del sabato.

È quindi totalmente inconcepibile che gli avversari di Gesù, per quanto lo odiassero così profondamente e con tutta la fatica che avevano fatto per giungere al Suo arresto, trascurassero non solo la cena pasquale di quella notte, ma violassero il riposo compiendo tutte quelle azioni necessarie a condurli verso l’esecuzione del loro nemico; pensiamo solo al trasporto di armi ed altro materiale (“Mentre ancora egli parlava, ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e con lui una grande folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti e dagli anziani del popolo”, Matteo 26.47), all’accensione del fuoco nella casa del sommo sacerdote (Luca 22.55), oppure al caso di Simone di Cirene di cui è detto che “veniva dalla campagna” da cui aveva finito di lavorare (Marco 15.21), per non parlare della preparazione di aromi e unguenti fatta dalle “donne venute con Gesù dalla Galilea” (Luca 22.55,56).

Ora, consideriamo tutte queste azioni, va da sé pensare che quella notte e quel giorno non era sacro né di riposo e quindi non si trattava del 15 di Nisan nonostante, se si seguono i sinottici, Gesù per loro morì in quella data, ma se il riferimento è a Giovanni la morte avvenne il 14.

Per risolvere la questione si sono applicati in molti, a volte anche stravolgendo elementari fondamenti storici. Eusebio di Cesarea (265-340), ad esempio, ipotizzò che gli avversari di Gesù vollero ritardare di un giorno la festa di Pasqua celebrandola il 16, altri sostennero che Giovanni fornisce una versione “allegorica” degli eventi e che Gesù morì, in quanto vero agnello pasquale, proprio il 15.

Il problema però è insolubile per chiunque ritenga il calendario come qualcosa di immutabile, come in effetti è per noi, in cui a ogni giorno corrisponde sempre un numero e un mese, ma ai tempi di Gesù non era così proprio in merito alle date sia della Pasqua che della Pentecoste, che cadeva il cinquantesimo giorno a lei successivo. Chi si confrontava su questi temi erano i Sadducei e i Farisei, ma senza pervenire ad alcunché di risolutivo per cui, quando la Pasqua cadeva di venerdì, la anticipavano di un giorno ed ogni gruppo seguiva il proprio calendario senza preoccuparsi di ciò che facevano gli altri.

Così, riunendo tutti gli elementi abbiamo, quanto a date sul mese di Nisan:

 

Sadducei               Farisei                          Giorno                      Sinottici                    Giovanni

12                                13                                 Mercoledì

13                                14 cena dell’agn.  Giovedì             14 ultima cena    13 ultima c.

14 cena dell’agn. 15 Pasqua                Venerdì             15 Pasqua          14 c. dell’agn.

15 Pasqua               16                                Sabato               15 Pasqua

 

Commentando questo prospetto, vediamo che Gesù, stando ai Sinottici, celebrò la cena il 14 secondo l’uso farisaico e per lo più del popolo. La maggioranza del Sinedrio però era costituita da Sadducei che consideravano quel giovedì come 13 e quindi ritardavano la cena alla sera del venerdì e la celebrazione della Pasqua al sabato. Così, quando leggiamo in Giovanni 18.28 “Condussero poi Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l’alba ed essi non volevano entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua”, significa che quanti portarono Gesù in quel luogo temevano di contaminarsi con il lievito che li avrebbe impediti nella celebrazione che avrebbero fatto la sera.

Non ritengo questa ricostruzione esente in toto da lacune, ma è comunque vero che sia la più plausibile.

Respingendo con forza la teoria in base alla quale Gesù celebrò una cena privata coi Dodici e il giorno dopo quella pasquale, resta il problema cronologico di quanto avvenne quella sera una volta che tutti presero posto accanto al loro Maestro: per farlo in modo efficace, occorre armonizzare il racconto dei quattro evangelisti, ma dalla lettura del testo di Giovanni appare chiaro che, essendo il suo Vangelo stato scritto per ultimo, non abbia voluto ripetere quanto scritto dagli altri e, come suo uso, dare la prevalenza ai detti e alle azioni del Signore Gesù. Del resto, cosa avrebbe potuto aggiungere – ad esempio – all’istituzione del Memoriale, così limpida e dottrinalmente chiara nei racconti di Matteo, Marco e Luca?

Ecco allora che Giovanni preferisce darci tutti quei particolari e indicazioni che altrimenti sarebbero andate perdute, come il lavacro dei piedi, il brevissimo dialogo con Giuda forse nell’ultimo tentativo di recuperarlo, l’immensa preghiera detta “sacerdotale” e molti altri. Anche una fugace lettura fra Sinottici e il nostro Evangelista mostra un divario quantitativo di dati enorme: Matteo e Marco dedicano all’ultima cena 9 versi, Luca 24, Giovanni 5 capitoli per un totale di 143 versi.

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17.03 – GESÙ A TAVOLA COI DODICI (Luca 22.14-16)

17.03 – Gesù a tavola coi Dodici (Luca 22.14-16)

 

14Quando venne l’ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, 15e disse loro: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, 16perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio». 

 

Il primo verso interessante considerare è il quattordicesimo, che apparentemente descrive un avvenimento che tutti possono comprendere. Ricordiamo che, prima che la cena ebbe inizio, Pietro e Giovanni furono incaricati da Gesù di occuparsi dei preparativi il che richiese non solo prendere gli accordi col proprietario della sala in cui l’avrebbero celebrata, ma occuparsi del necessario come procurare le erbe amare, il pane azzimo, il vino e soprattutto l’agnello che, come era usanza e richiesto, avrebbero dovuto portare al Tempio perché fosse immolato e consegnato ai sacerdoti che ne spargevano il sangue sull’altare, dopo di che dovettero riportarlo alla sala e arrostirlo.

L’ “ora” di cui parla Luca si riferisce a quella poco prima del tramonto, quando il 14 di Nisan finiva, ma ciò che va considerato è il “prese posto a tavola”, che nessuna versione traduce correttamente perché si è perso l’uso antico di mangiare sdraiati. Il verbo impiegato è anapìpto, cioè “coricarsi”.

In pratica, la sala dovette essere apparecchiata non con una grande tavolata con le persone sedute come vediamo nel cenacolo di Leonardo, Michelangelo o altri autori, ma con tredici lettini o divanetti attorno a quattro vassoi contenenti i cibi, equidistanti fra loro. La disposizione era ad una sorta di “U” o semicerchio con Gesù sicuramente al centro con Pietro da un lato e Giovanni dall’altro, questo non solo perché lo stesso Apostolo lo dichiara in 13.23, ma perché l’espressione stessa da lui usata, letteralmente “nel seno di Gesù”, autorizza a pensare che occupasse il lato a destra di Lui.

Giuda, che solitamente è in ombra nel senso che non viene mai citato nei Vangeli se non pochissime volte (Matteo 10.4 nell’elenco dei Dodici, Giovanni 12.6 “Era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro”) a parte le connessioni al tradimento, qui si pone accanto a Giovanni e ciò viene dedotto dalla frase “È colui al quale intingerò il boccone e glielo darò” (13.26) e “Uno dei Dodici, colui che mette con me la mano nel piatto” (Marco 14.20): siccome ciascun commensale non poteva passare il cibo a più di tre persone né con più di tre condividere il piatto, ecco che abbiamo i posti alla cena che ci interessano con Pietro ultimo anello della catena precedente, e Gesù – Giovanni – Giuda, che prese un posto certamente non suo per importanza, mentre ignoriamo quello di tutti gli altri.

Perché questo apostolo, sempre “nascosto” nei racconti evangelici se non dal momento in cui scelse di tradire, prese un posto così di riguardo, nelle immediate vicinanze del Maestro? La scelta fu probabilmente dovuta a quel meccanismo psicologico che si innesca nelle persone quando, sapendosi colpevoli, desiderano mimetizzarsi ed apparire il più “insospettabili” possibile. Analogo comportamento lo ha ad esempio chi, dopo avere ucciso una persona, chiama per primo gli organi inquirenti non certo per confessare, o si pensi anche a quelli che, poco tempo dopo avere commesso un omicidio ed avendo occultato il cadavere della persona uccisa, partecipano attivamente tra i volontari alle ricerche dello scomparso.

Se Giuda avesse scelto la solita posizione defilata, stante tutto quel che aveva in mente e l’accordo intercorso coi membri del Sinedrio, non si sarebbe sentito tranquillo, pensando di apparire sospetto, e volle quindi simulare ancora di più ciò non che era.

Tornando alla posizione di Pietro, si spiega il motivo per cui è scritto che, affinché Giovanni chiedesse al Maestro chi fosse il traditore, “gli fece cenno” (13.24), richiesta che trova spiegazione solo se Gesù fosse interposto tra loro; Pietro quindi ritenne più discreto far capire a gesti all’amico di informarsi. Resta difficile pensare che questo Apostolo, anche solo essendo il più anziano, non si trovasse a fianco di Gesù come Giovanni anche perché era sicuramente tenuto in considerazione da tutti gli altri in quanto più anziano di loro. Pensiamo poi al fatto che il traditore, prendendo quel posto, si insinua come soggetto assolutamente estraneo rispetto alla logica dei rapporti che avrebbe visto attorno a Gesù, ad esempio, il gruppo più intimo dei Dodici rappresentato da Pietro, Giacomo e Giovanni. Pensiamo comunque anche ad altre persone, come Andrea, Matteo, Filippo il cui nome compare spesso nei Vangeli legato ad episodi importanti.

È probabile che fu proprio il posto che occuparono tutti i dodici a far scaturire la questione su chi di loro fosse il maggiore, cosa che avvenne praticamente subito dopo le parole introduttive del Maestro sul Suo desiderio di mangiare la Pasqua con loro: per quelle persone era più importante capire il grado di importanza che aveva ciascuno e questo era rappresentato dal posto a tavola.

 

Il nostro testo, dopo “Prese posto a tavola e gli apostoli con lui”, prosegue con “e disse loro”: Gesù, conscio di tutto quanto sarebbe accaduto di lì a pochissimo tempo, vede riunita la Sua “famiglia” rappresentata dai Dodici nonostante la stridente – ma necessaria e inevitabile – presenza dell’uomo di Kerioth che comunque diventerà ufficialmente il traditore a partire da un momento preciso, o se preferiamo da più momenti, con azioni ben definite.

Non ci è detto con chi e dove Nostro Signore celebrò la Pasqua negli anni precedenti, ma qui ebbe il ruolo di capo famiglia, celebrandola coi Suoi, dando così conferma di quanto disse in Matteo 12.48-50, “«Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Poi, tendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre”. C’è quindi una famiglia di Gesù naturale, terrena che fu quella di sua madre Maria, Giuseppe e i Suoi fratelli e sorelle, e ce n’è una spirituale, la Chiesa, in cui oltre alle qualifiche di “fratello, sorella e madre” esiste anche quella di “amici”, come leggiamo in Giovanni 15.13-15, pronunciate da Gesù proprio nel corso di questa cena: “Nessuno ha amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi”.

In altri termini la Chiesa, vera famiglia di Gesù, è unita dalla volontà e dalla perseveranza nella consacrazione che poi è ricerca: si parte con Giovanni 6.49 con le parole “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato”, per poi passare a Romani 12.2, “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”, e Colossesi 4.12 in cui l’apostolo Paolo parla delle preghiere di Epafra suo collaboratore “…perché siate saldi, perfetti e aderenti a tutti i voleri di Dio”. Ecco, credo che anche qui abbiamo uno degli innumerevoli motivi per cui Nostro Signore desiderò “tanto” celebrare la Pasqua con i Suoi.

 

Le prime parole di Gesù che inaugurano la cena sono: “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi”, o “Ho grandemente desiderato” come altri traducono, che nel Suo parlare sempre essenziale e mai enfatico costituiscono una particolarità; letteralmente la frase sarebbe “con desiderio ho desiderato” e, come nota un fratello, “il raddoppiamento della stessa parola o di parola simile è un ebraismo che segna il grado superlativo o un modo di esprimersi che aggiunge grande forza al significato”. La stessa cosa è usata in Genesi 2.17 quando al posto di “per certo morirai” abbiamo “morendo morirai” che allude alla perdita della dignità spirituale in Eden (“morendo”) con la chiusura di una vita nell’eternità (“morirai”) per tornare che carne e quindi polvere.

Chiedendoci perché Gesù abbia così tanto desiderato mangiare la Pasqua coi Dodici, troviamo una serie infinita di risposte: sappiamo che non vedeva l’ora che il Suo Ministero si compisse alla croce, come leggiamo in Luca 12.50 (“Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!”) o in Marco 10.32 (“Mentre erano sulla strada per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti, coloro che lo seguivano erano impauriti”), ma qui sappiamo che dal momento in cui si aprirà la cena, con la benedizione e il passaggio del primo calice, inizieranno una serie di eventi fondamentali per la Chiesa come l’istituzione del memoriale, o eucaristia, il lavare i piedi dei Dodici e tutte quelle verità assolute che verranno rivelate nei quattro capitoli del Vangelo di Giovanni, da 13 a 17, quello della preghiera sacerdotale di fronte alla quale non credo esista cristiano che non si sia profondamente commosso.

In sintesi assolutamente estrema, credo che i motivi del desiderare così “tanto” di Gesù di celebrare con gli apostoli la cena siano stati questi perché ogni insegnamento è particolare: tralasciando il comandamento sul memoriale che costituisce una novità assoluta, sono proprio tutte le parole pronunciate in quella sera a gettare le fondamenta della Chiesa; pensiamo alle parole credo più semplici, “Vi do un comandamento nuovo, che voi vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Giovanni 13.34,35). È certo da notare la presenza del tempo presente, “avete” che formalmente stona col futuro “sapranno”, che qui non è una svista del traduttore, ma il riferimento a un metodo di conduzione dei rapporti interpersonali nella Chiesa. “Sapranno” nel senso di “constateranno”, “ne avranno la prova”. Il tempo presente, chiaramente, è anteriore al futuro e quindi fa riferimento a qualcosa che esiste prima e che, quindi, esclude il formalismo e soprattutto la simulazione. Io amo il mio fratello o sorella perché vedo in lei/lui un essere che come me è stato chiamato, amato, ma soprattutto uno per cui Cristo è morto e il mio rapporto con questa persona non può limitarsi alla cortesia naturale che si instaura fra persone educate.

Proseguendo nella lettura del testo, vediamo che era fondamentale per Gesù celebrare la Pasqua “prima” della Sua passione: se quella cena non avesse avuto luogo, non avrebbe potuto dare compimento a tutti quegli insegnamenti di cui poi gli apostoli avrebbero potuto fare tesoro una volta risorto, prendendo atto che ogni elemento da lui predetto, stabilito e istituito non aveva mancato di adempiersi.

C’è però una spiegazione che proviene proprio da Lui, “perché non la mangerò più, finché essa non si compia nel Regno di Dio” coincidente con la versione di S. Girolamo, di comprensione difficile perché, se la Pasqua è un sacrificio, quello di Cristo è stato fatto “una volta per sempre” (Ebrei 10.10). Ci troviamo di fronte ad uno dei casi in cui, per essere compresa, la frase va vista non in senso letterale, ma globale e la chiave di lettura sono quel “finché”, cioè “fino a quando” e “compiuta”, cioè “adempiuta”: in altri termini la Pasqua che Gesù celebra è sì il ricordo del sangue dell’agnello innocente che, messo sulle porte, segnalava all’angelo di risparmiare chi era in casa dal giudizio di Dio, ma è al tempo stesso sostituzione di quell’animale con Lui per una definitiva liberazione dalla schiavitù del peccato e dal potere dell’Avversario.

La Pasqua ha quindi una prima fase con il Sacrificio, ma i suoi effetti definitivi, ultimi, si avranno con la realizzazione dei “nuovi cieli e nuova terra dove dimora stabile la giustizia” che adesso non vediamo. Teniamo presente che, se “Cristo nostra Pasqua è stato immolato” (1 Corinti 5.7), la Pasqua era anche la festa in cui tutti i membri di una famiglia si radunavano attorno al proprio padre perché la celebrasse ed è questo che ci attende dopo la resurrezione e l’assunzione di un corpo nuovo. Ed ecco perché Gesù sostiene che non la celebrerà più “fino a quando essa si compia nel Regno di Dio”: quel Regno che lascerà fuori dalla porta ogni soggetto contaminante e contaminato che, in passato, aveva impedito a tutti il cammino perfetto che avrebbero voluto. Amen.

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