16.11 – L’incredulità dei Giudei (Giovanni 12.37-43)
37Sebbene avesse compiuto segni così grandi davanti a loro, non credevano in lui, 38perché si compisse la parola detta dal profeta Isaia: Signore, chi ha creduto alla nostra parola? E la forza del Signore, a chi è stata rivelata? 39Per questo non potevano credere, poiché ancora Isaia disse: 40Ha reso ciechi i loro occhi e duro il loro cuore, perché non vedano con gli occhi e non comprendano con il cuore
e non si convertano, e io li guarisca! 41Questo disse Isaia perché vide la sua gloria e parlò di lui. 42Tuttavia, anche tra i capi, molti credettero in lui, ma, a causa dei farisei, non lo dichiaravano, per non essere espulsi dalla sinagoga. 43Amavano infatti la gloria degli uomini più che la gloria di Dio.
Abbiamo visto nel nostro scorso intervento che Giovanni chiude la sua cronaca relativa a quel giorno con le parole “Gesù disse queste cose, poi se ne andò e si nascose loro”; poi, fino alla fine del capitolo, appone queste annotazioni per presentare altre parole del Maestro sulla Sua natura e funzione, che esamineremo.
Ora, il primo scopo di Giovanni è presentare la realtà assurda che si era venuta a creare e cioè che, nonostante i “segni così grandi compiuti davanti a loro”, questi, i Giudei e gran parte del popolo, non credevano. Va ricordato, come già avvenuto in uno scritto precedente, che esiste una sottile differenza fra “segno” e “miracolo”, per quanto sia una distinzione che necessiterebbe di uno studio approfondito: in generale si può affermare che il primo è una manifestazione diretta, chiaramente attribuibile a Dio mentre il secondo, pur da lui proveniente, può essere fatto anche da un suo inviato. Tanto l’uno quanto l’altro vanno valutati attentamente, miracoli li compirono i profeti dell’Antico e del Nuovo Patto, oltre che gli apostoli nel libro degli atti, ma i “segni” sono diversi, indipendenti.
“Segno”, per citarne qualcuno, fu quello che Dio impose a Caino (Genesi 4.15), l’arcobaleno (9.13), la circoncisione, certo fatta dall’uomo sull’uomo ma non da lui inventata (17.11), il sangue sugli stipiti delle porte e le sue conseguenze (Esodo 12.13), il sabato (31.13), l’altare spezzato (1 Re 13.3), l’ombra che avanzò o retrocesse di dieci gradi (2 Re 20.9), la stessa nascita di Gesù (Isaia 7.14).
Entrambe queste manifestazioni vanno comunque ponderate accuratamente prima di decretarne l’origine divina: leggiamo infatti in Deuteronomio 13. 2 “Qualora sorga in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio, e il segno e il prodigio annunciato succeda, ed egli ti dica: «Seguiamo dèi stranieri, che tu non hai mai conosciuto, e serviamoli», tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore perché il Signore, vostro Dio, vi mette alla prova per sapere se amate il Signore, vostro Dio, con tutto il vostro cuore e con tutta l’anima”. Questo verso, quindi, esclude il “misticismo”, la generalizzazione, l’attribuire al Creatore qualsiasi evento soprannaturale perché le entità in grado di produrli son due, Lui o l’Avversario che ha proprio come scopo quello di traviare, inquinare, togliere la comunione possibile fra Dio e l’uomo. Satana infatti, “principe di questo mondo”, considera l’uomo come sua proprietà, uno schiavo da non cedere per nessuna ragione.
Un “Segno” è un segnale, un messaggio che avverte, ammonisce o ricorda, qualcosa che non può essere ignorato, una testimonianza inequivocabile di un fatto avvenuto o imminente, un avvertimento. Certo, anche il miracolo è un segno della benevolenza di Dio, è incontestabile, ma se Gesù si fosse limitato solo a qualcuno di essi avrebbe dimostrato di essere soltanto un profeta. Essendo stata tutta la sua intera vita un segno, abbiamo tutti questi due elementi, segni e miracoli, fondersi in Lui dimostrando così la sua esistenza come Figlio di Dio. Ecco perché una delle domande che i Giudei si posero l’un l’altro, proprio dopo la risurrezione di Lazzaro, persona da loro conosciuta, fu “Che facciamo? Quest’uomo fa molti segni” (Giovanni 11.47): fu un avvenimento che rappresentò per loro la dimostrazione più grande della Sua natura, impossibile da ignorare, fatto appunto “davanti a loro”. In particolare, il fatto che Lazzaro fosse stato portato dalla morte del corpo alla vita dopo quattro giorni fu considerato un “segno”, dice molto sul loro rifiuto a credere.
E qui è inevitabile riportare Numeri 14.20-23 che si adatta benissimo alla situazione di coloro che assunsero una posizione avversa nei confronti di Gesù: “Com’è vero che io vivo e che la gloria del Signore riempirà tutta la terra, tutti gli uomini che hanno visto la mia gloria e i segni compiuti da me in Egitto e nel deserto e tuttavia mi hanno messo alla prova già dieci volte e non hanno dato ascolto alla mia voce, certo non vedranno la terra che ho giurato di dare ai loro padri, e tutti quelli che mi trattano senza rispetto non la vedranno”.
Se però i Giudei “non credevano in lui” abbiamo letto che, la prima Pasqua cui Gesù salì a Gerusalemme con ministero, “Mentre era a Gerusalemme per la festa, molti, vedendo i segni che compiva, credettero nel suo nome” per quanto non si fidasse di loro (Giovanni 2. 23,24) e che “lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi” (6.2): il popolo (non tutto) ha un comportamento, i suoi reggenti uno completamente diverso. Stessa vista, stesso udito, ma cuore opposto. E un differente modo di essere considerati da Dio.
Un appunto particolare poi lo possiamo fare sul “perché si compisse la profezia”, espressione che sappiamo cara a Matteo che scrive per gli ebrei, ma che qui Giovanni utilizza la prima volta con lo scopo di rilevare che tutto quell’atteggiamento di ostilità profonda era stato previsto. L’apostolo cita le prime parole di Isaia 53, che dal primo all’ultimo verso dà una descrizione minuziosa di quanto avverrà al Figlio di Dio a partire dal rifiuto dei maggiorenti del popolo: “Signore, chi ha creduto al nostro annuncio? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?”, una riflessione amara, un’anticipazione dei tempi del Messia che non avrebbe trovato un accoglimento totale da parte di Israele cui era diretto, in cui la “predicazione” era il suo “annuncio” e il “braccio” figura della forza del Vangelo.
Nel verso di Isaia, oltre che alla precisazione “per questo non potevano credere”, abbiamo il cuore, l’anima e lo spirito dell’uomo che emerge nel senso che assistiamo all’aderire a una religione che si scontra con la potenza dello Spirito che stravolge ogni cosa, mette in discussione, costringe a scegliere, fa sì che l’uomo si spinga fino al confine di ciò che ritiene sia suo per poi andare oltre; non esiste un limite perché si tratta di elementi che vanno al di là dell’umano. Ascoltare il Vangelo, meditarlo, assimilarlo nell’elaborazione silenziosa di un cuore ben disposto, equivale a contemplare l’infinito perché tale è, proviene dall’eternità e soprattutto a lì porta. Ovvio che quanti sono attaccati al loro presente, religioso o meno, rifiutino tutto il mondo spirituale puro che Gesù propone e inevitabilmente lo combattano: hanno bisogno di tradizioni, di norme, di riti, di credenze, di agenti inquinanti, di compromessi con la carnalità perché senza di essa si sentono persi. La mente, infatti, genera mondi che, soddisfacendola, ne placano i bisogni. La mente umana, senza lo Spirito, è “carne”.
“Nonostante i segni che faceva”, cioè incuranti delle attestazioni che non tanto Gesù dava di sé, ma il Padre di Lui nel senso che quel Dio che aveva liberato personalmente il suo popolo “dalla schiavitù del paese d’Egitto” ora voleva fare altrettanto con quella del peccato alla quale volevano restare ancoràti, incuranti di ogni dimostrazione prima di tutto d’amore, poi teologica.
E tutto questo ci parla del cammino di ognuno, che deve scegliere se intraprendere un percorso illuminato dalla Parola, faticoso, spesso incerto, fatto di comprensioni e fraintendimenti, di forze e di debolezze, di sconfitte e vittorie, oppure da quello nelle tenebre in cui si è sempre convinti di raggiungere una meta che poi però sfugge o, quando la si consegue, lascia il posto ad altre e passa. Non si sa in realtà dove si va, tutto alla fine lascia un’insoddisfazione di fondo perché, paradossalmente, ciò che è umano non può saziare fino in fondo l’uomo che ha bisogno di altro, quello che non può trovare se non nel Dio che però rifiuta.
Scrive l’autore della lettera ai Romani: “Ma non tutti hanno ubbidito al Vangelo. Lo dice Isaia: «Signore, chi ha creduto, dopo averci ascoltato?». Dunque, la fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo” (10.16). Ecco allora che comprendiamo come, per ascoltare il Vangelo e quindi Gesù, occorre cessare di ascoltare noi stessi e soprattutto rinunciare, o per lo meno disporsi a mettere in discussione tutto quel patrimonio conoscitivo che ci ha guidati fino al momento in cui ascoltiamo la Sua Parola che, in quanto Sua, è vera e a noi infinitamente superiore. Perché questo possa avvenire, è necessario che ci mettiamo quanto meno in secondo piano e questo, come sappiamo e leggiamo anche in questo episodio, non è facile.
Giovanni, nello scritto in esame, dopo avere citato il primo verso di Isaia 53, passa a 6.9,10: “Egli disse: «Va’, e riferisci a questo popolo: «Ascoltate pure, ma non comprenderete, osservate pure, ma non conoscerete». Rendi insensibile il cuore di questo popolo, rendilo duro d’orecchio e acceca i suoi occhi, e non veda con gli occhi né oda con gli orecchi né comprenda con il cuore né si converta in modo da essere guarito»”. La loro resistenza, come ricordo sempre, aveva finito per provocare questa reazione, la stessa che sperimentò il Faraone che si rifiutava di ascoltare le parole si Mosè, “lascia andare il mio popolo, perché mi serva”. E i sette verbi usati in questo passo, “rendere duro d’orecchi”, “accecare”, “non vedere”, “non udire”, “non comprendere”, “non convertirsi”, “non essere guarito”, costituiscono una sentenza, un sigillo di chiusura che tale rimarrà fino a quando non verrà un tempo diverso, quello della conversione di massa a Gesù Cristo da parte di Israele nell’ultimo tempo.
Nella parabola dei contadini omicidi leggiamo “il padrone della vigna verrà e farà morire i contadini e darà la vigna ad altri” (Marco 12.9), ma così non è per tutti coloro che si pongono all’ascolto senza pregiudizi carnali: “Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non le ascoltarono” (Matteo 13.14).
Ancora, “A voi è stato dato il mistero del regno di Dio. Per quelli che sono fuori, invece, tutto avviene in parabole affinché guardino, sì, ma non vedano, ascoltino, sì, ma non comprendano, perché non si convertano e venga loro perdonato” (Marco 4.12), tutto perché a monte manca l’umiltà, la consapevolezza di aver bisogno di qualcosa e, poiché c’è questa situazione, il senso di sufficienza della persona fa sì che ritenga non necessario il messaggio che le si offre, altrimenti ascolterebbe e vorrebbe comprendere, non si arrenderebbe di fronte alla difficoltà della ricezione, cercherebbe. E il risultato è l’impossibilità del perdóno.
La stessa cosa avverrà parecchi anni dopo quando l’apostolo Paolo, prigioniero a Roma, insegnava ai Giudei di quella città che aveva convocato a casa sua, essendo agli arresti domiciliari: “E avendo fissato con lui un giorno, molti vennero da lui nel suo alloggio. Dal mattino alla sera egli esponeva loro il regno di Dio – ricordiamo che erano Giudei –, dando testimonianza, e cercava di convincerli riguardo a Gesù, partendo dalla legge di Mosè e dai Profeti. Alcuni erano persuasi delle cose che venivano dette, altri invece non credevano. Essendo in disaccordo fra di loro, se ne andavano via, mentre Paolo diceva quest’unica parola: «Ha detto bene lo Spirito Santo, per mezzo del profeta Isaia ai vostri padri…” e qui abbiamo il verso di 6.9 e segg. che abbiamo già citato (Atti 28.26.27).
Ancora Paolo, riguardo al sistema religioso contorto, scrive in proposito: “Che dire dunque? Israele non ha ottenuto quello che cercava; lo hanno ottenuto invece gli eletti. Gli altri invece sono stati resi ostinati, come sta scritto: Dio ha dato loro uno spirito di torpore, occhi per non vedere e orecchi per non sentire, fino al giorno d’oggi” (Romani 11. 7,8).
C’è una nota da fare riguardo a questi versi, che riguardano Israele nel momento storico fino a quando non si convertirà al Signore nell’ultimo tempo, ed è che l’indurimento degli occhi e delle orecchie, oltre che del cuore, è cosa che si verifica a seguito del rifiuto ostinato di resistere alla Parola di Dio: arriva un momento, che solo Lui può stabilire, in cui è impossibile per questa persona tornare indietro, comprendere, ravvedersi, proprio perché Lui è il Signore e come tale fa ciò che vuole.
Arriviamo così all’ultimo verso che ci presenta la condizione intermedia di “molti fra i capi credevano in lui, ma, a causa dei farisei, non lo dichiaravano, per non essere espulsi dalla sinagoga”: è la condizione in cui si è compreso che Gesù è il Signore, ma manca il coraggio per ammetterlo davanti agli altri perché farlo equivarrebbe all’espulsione dalla sinagoga con l’esclusione dalla congregazione di Israele (Giovanni 9.22, “I Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga”).
Di cosa ci parla questa situazione, soprattutto alla luce della conclusione finale, “Amavano infatti la gloria degli uomini più della gloria di Dio”? Credo di tormento irrisolto, di soffocamento, perché da un lato quei “capi” non potevano ignorare quanto avevano elaborato nel privato del loro cuore, ma dall’altro si trovavano mancanti di quella forza necessaria per emergere da quel contesto, ponendosi in contrasto, effettuando quella distinzione netta fra ciò che era da Dio e ciò che non lo era. Il loro credere in Gesù veniva vanificato e coperto dal timore di perdere la loro onorabilità presso gli uomini, cosa che Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea smisero di fare, dopo un lungo lavoro personale di elaborazione. Ricordiamo le parole “Come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” (Giovanni 5.44).
Amare “la gloria degli uomini più di quella di Dio”, poi, non può essere adattato certo a questa sola situazione, ma anche in tutte quelle in cui, come cristiani, ci possiamo venire a trovare: ciò avviene tutte le volte in cui, se non prendessimo una posizione netta di rifiuto o estraniamento, verremmo inevitabilmente confusi con tutti gli altri, perdendo così un’occasione di testimonianza e, soprattutto, dimostrando di non anteporre alla nostra funzione come credenti, la comodità delle relazioni interpersonali, il cosiddetto “quieto vivere”. E questo è un punto dottrinale molto importante, perché con le nostre scelte ci qualifichiamo di fronte agli altri, come loro oppure no. E dimostriamo a Gesù di non vergognarci di Lui, prendendo posizione. Amen.
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