17.03 – GESÙ A TAVOLA COI DODICI (Luca 22.14-16)

17.03 – Gesù a tavola coi Dodici (Luca 22.14-16)

 

14Quando venne l’ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, 15e disse loro: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, 16perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio». 

 

Il primo verso interessante considerare è il quattordicesimo, che apparentemente descrive un avvenimento che tutti possono comprendere. Ricordiamo che, prima che la cena ebbe inizio, Pietro e Giovanni furono incaricati da Gesù di occuparsi dei preparativi il che richiese non solo prendere gli accordi col proprietario della sala in cui l’avrebbero celebrata, ma occuparsi del necessario come procurare le erbe amare, il pane azzimo, il vino e soprattutto l’agnello che, come era usanza e richiesto, avrebbero dovuto portare al Tempio perché fosse immolato e consegnato ai sacerdoti che ne spargevano il sangue sull’altare, dopo di che dovettero riportarlo alla sala e arrostirlo.

L’ “ora” di cui parla Luca si riferisce a quella poco prima del tramonto, quando il 14 di Nisan finiva, ma ciò che va considerato è il “prese posto a tavola”, che nessuna versione traduce correttamente perché si è perso l’uso antico di mangiare sdraiati. Il verbo impiegato è anapìpto, cioè “coricarsi”.

In pratica, la sala dovette essere apparecchiata non con una grande tavolata con le persone sedute come vediamo nel cenacolo di Leonardo, Michelangelo o altri autori, ma con tredici lettini o divanetti attorno a quattro vassoi contenenti i cibi, equidistanti fra loro. La disposizione era ad una sorta di “U” o semicerchio con Gesù sicuramente al centro con Pietro da un lato e Giovanni dall’altro, questo non solo perché lo stesso Apostolo lo dichiara in 13.23, ma perché l’espressione stessa da lui usata, letteralmente “nel seno di Gesù”, autorizza a pensare che occupasse il lato a destra di Lui.

Giuda, che solitamente è in ombra nel senso che non viene mai citato nei Vangeli se non pochissime volte (Matteo 10.4 nell’elenco dei Dodici, Giovanni 12.6 “Era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro”) a parte le connessioni al tradimento, qui si pone accanto a Giovanni e ciò viene dedotto dalla frase “È colui al quale intingerò il boccone e glielo darò” (13.26) e “Uno dei Dodici, colui che mette con me la mano nel piatto” (Marco 14.20): siccome ciascun commensale non poteva passare il cibo a più di tre persone né con più di tre condividere il piatto, ecco che abbiamo i posti alla cena che ci interessano con Pietro ultimo anello della catena precedente, e Gesù – Giovanni – Giuda, che prese un posto certamente non suo per importanza, mentre ignoriamo quello di tutti gli altri.

Perché questo apostolo, sempre “nascosto” nei racconti evangelici se non dal momento in cui scelse di tradire, prese un posto così di riguardo, nelle immediate vicinanze del Maestro? La scelta fu probabilmente dovuta a quel meccanismo psicologico che si innesca nelle persone quando, sapendosi colpevoli, desiderano mimetizzarsi ed apparire il più “insospettabili” possibile. Analogo comportamento lo ha ad esempio chi, dopo avere ucciso una persona, chiama per primo gli organi inquirenti non certo per confessare, o si pensi anche a quelli che, poco tempo dopo avere commesso un omicidio ed avendo occultato il cadavere della persona uccisa, partecipano attivamente tra i volontari alle ricerche dello scomparso.

Se Giuda avesse scelto la solita posizione defilata, stante tutto quel che aveva in mente e l’accordo intercorso coi membri del Sinedrio, non si sarebbe sentito tranquillo, pensando di apparire sospetto, e volle quindi simulare ancora di più ciò non che era.

Tornando alla posizione di Pietro, si spiega il motivo per cui è scritto che, affinché Giovanni chiedesse al Maestro chi fosse il traditore, “gli fece cenno” (13.24), richiesta che trova spiegazione solo se Gesù fosse interposto tra loro; Pietro quindi ritenne più discreto far capire a gesti all’amico di informarsi. Resta difficile pensare che questo Apostolo, anche solo essendo il più anziano, non si trovasse a fianco di Gesù come Giovanni anche perché era sicuramente tenuto in considerazione da tutti gli altri in quanto più anziano di loro. Pensiamo poi al fatto che il traditore, prendendo quel posto, si insinua come soggetto assolutamente estraneo rispetto alla logica dei rapporti che avrebbe visto attorno a Gesù, ad esempio, il gruppo più intimo dei Dodici rappresentato da Pietro, Giacomo e Giovanni. Pensiamo comunque anche ad altre persone, come Andrea, Matteo, Filippo il cui nome compare spesso nei Vangeli legato ad episodi importanti.

È probabile che fu proprio il posto che occuparono tutti i dodici a far scaturire la questione su chi di loro fosse il maggiore, cosa che avvenne praticamente subito dopo le parole introduttive del Maestro sul Suo desiderio di mangiare la Pasqua con loro: per quelle persone era più importante capire il grado di importanza che aveva ciascuno e questo era rappresentato dal posto a tavola.

 

Il nostro testo, dopo “Prese posto a tavola e gli apostoli con lui”, prosegue con “e disse loro”: Gesù, conscio di tutto quanto sarebbe accaduto di lì a pochissimo tempo, vede riunita la Sua “famiglia” rappresentata dai Dodici nonostante la stridente – ma necessaria e inevitabile – presenza dell’uomo di Kerioth che comunque diventerà ufficialmente il traditore a partire da un momento preciso, o se preferiamo da più momenti, con azioni ben definite.

Non ci è detto con chi e dove Nostro Signore celebrò la Pasqua negli anni precedenti, ma qui ebbe il ruolo di capo famiglia, celebrandola coi Suoi, dando così conferma di quanto disse in Matteo 12.48-50, “«Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Poi, tendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre”. C’è quindi una famiglia di Gesù naturale, terrena che fu quella di sua madre Maria, Giuseppe e i Suoi fratelli e sorelle, e ce n’è una spirituale, la Chiesa, in cui oltre alle qualifiche di “fratello, sorella e madre” esiste anche quella di “amici”, come leggiamo in Giovanni 15.13-15, pronunciate da Gesù proprio nel corso di questa cena: “Nessuno ha amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi”.

In altri termini la Chiesa, vera famiglia di Gesù, è unita dalla volontà e dalla perseveranza nella consacrazione che poi è ricerca: si parte con Giovanni 6.49 con le parole “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato”, per poi passare a Romani 12.2, “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”, e Colossesi 4.12 in cui l’apostolo Paolo parla delle preghiere di Epafra suo collaboratore “…perché siate saldi, perfetti e aderenti a tutti i voleri di Dio”. Ecco, credo che anche qui abbiamo uno degli innumerevoli motivi per cui Nostro Signore desiderò “tanto” celebrare la Pasqua con i Suoi.

 

Le prime parole di Gesù che inaugurano la cena sono: “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi”, o “Ho grandemente desiderato” come altri traducono, che nel Suo parlare sempre essenziale e mai enfatico costituiscono una particolarità; letteralmente la frase sarebbe “con desiderio ho desiderato” e, come nota un fratello, “il raddoppiamento della stessa parola o di parola simile è un ebraismo che segna il grado superlativo o un modo di esprimersi che aggiunge grande forza al significato”. La stessa cosa è usata in Genesi 2.17 quando al posto di “per certo morirai” abbiamo “morendo morirai” che allude alla perdita della dignità spirituale in Eden (“morendo”) con la chiusura di una vita nell’eternità (“morirai”) per tornare che carne e quindi polvere.

Chiedendoci perché Gesù abbia così tanto desiderato mangiare la Pasqua coi Dodici, troviamo una serie infinita di risposte: sappiamo che non vedeva l’ora che il Suo Ministero si compisse alla croce, come leggiamo in Luca 12.50 (“Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!”) o in Marco 10.32 (“Mentre erano sulla strada per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti, coloro che lo seguivano erano impauriti”), ma qui sappiamo che dal momento in cui si aprirà la cena, con la benedizione e il passaggio del primo calice, inizieranno una serie di eventi fondamentali per la Chiesa come l’istituzione del memoriale, o eucaristia, il lavare i piedi dei Dodici e tutte quelle verità assolute che verranno rivelate nei quattro capitoli del Vangelo di Giovanni, da 13 a 17, quello della preghiera sacerdotale di fronte alla quale non credo esista cristiano che non si sia profondamente commosso.

In sintesi assolutamente estrema, credo che i motivi del desiderare così “tanto” di Gesù di celebrare con gli apostoli la cena siano stati questi perché ogni insegnamento è particolare: tralasciando il comandamento sul memoriale che costituisce una novità assoluta, sono proprio tutte le parole pronunciate in quella sera a gettare le fondamenta della Chiesa; pensiamo alle parole credo più semplici, “Vi do un comandamento nuovo, che voi vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Giovanni 13.34,35). È certo da notare la presenza del tempo presente, “avete” che formalmente stona col futuro “sapranno”, che qui non è una svista del traduttore, ma il riferimento a un metodo di conduzione dei rapporti interpersonali nella Chiesa. “Sapranno” nel senso di “constateranno”, “ne avranno la prova”. Il tempo presente, chiaramente, è anteriore al futuro e quindi fa riferimento a qualcosa che esiste prima e che, quindi, esclude il formalismo e soprattutto la simulazione. Io amo il mio fratello o sorella perché vedo in lei/lui un essere che come me è stato chiamato, amato, ma soprattutto uno per cui Cristo è morto e il mio rapporto con questa persona non può limitarsi alla cortesia naturale che si instaura fra persone educate.

Proseguendo nella lettura del testo, vediamo che era fondamentale per Gesù celebrare la Pasqua “prima” della Sua passione: se quella cena non avesse avuto luogo, non avrebbe potuto dare compimento a tutti quegli insegnamenti di cui poi gli apostoli avrebbero potuto fare tesoro una volta risorto, prendendo atto che ogni elemento da lui predetto, stabilito e istituito non aveva mancato di adempiersi.

C’è però una spiegazione che proviene proprio da Lui, “perché non la mangerò più, finché essa non si compia nel Regno di Dio” coincidente con la versione di S. Girolamo, di comprensione difficile perché, se la Pasqua è un sacrificio, quello di Cristo è stato fatto “una volta per sempre” (Ebrei 10.10). Ci troviamo di fronte ad uno dei casi in cui, per essere compresa, la frase va vista non in senso letterale, ma globale e la chiave di lettura sono quel “finché”, cioè “fino a quando” e “compiuta”, cioè “adempiuta”: in altri termini la Pasqua che Gesù celebra è sì il ricordo del sangue dell’agnello innocente che, messo sulle porte, segnalava all’angelo di risparmiare chi era in casa dal giudizio di Dio, ma è al tempo stesso sostituzione di quell’animale con Lui per una definitiva liberazione dalla schiavitù del peccato e dal potere dell’Avversario.

La Pasqua ha quindi una prima fase con il Sacrificio, ma i suoi effetti definitivi, ultimi, si avranno con la realizzazione dei “nuovi cieli e nuova terra dove dimora stabile la giustizia” che adesso non vediamo. Teniamo presente che, se “Cristo nostra Pasqua è stato immolato” (1 Corinti 5.7), la Pasqua era anche la festa in cui tutti i membri di una famiglia si radunavano attorno al proprio padre perché la celebrasse ed è questo che ci attende dopo la resurrezione e l’assunzione di un corpo nuovo. Ed ecco perché Gesù sostiene che non la celebrerà più “fino a quando essa si compia nel Regno di Dio”: quel Regno che lascerà fuori dalla porta ogni soggetto contaminante e contaminato che, in passato, aveva impedito a tutti il cammino perfetto che avrebbero voluto. Amen.

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4.05 – APOSTOLI 5 (Luca 6.12-16)

4.5 – Apostoli V (Luca 6.12-16)

 12In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. 13Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: 14Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, 15Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; 16Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore.”

GIUDA DI GIACOMO

È chiamato anche Taddeo nell’elenco di Matteo e Marco e in alcuni manoscritti Lebbeo, parole che significano entrambe “Diletto, coraggioso”, che si è pensato essere dei soprannomi stanti a indicarne il carattere. A puro titolo di citazione, secondo Eusebio di Cesarea questo apostolo fu lo sposo innominato delle nozze di Cana, ma non abbiamo dati a suffragio di quest’ipotesi. È citato da Giovanni, che spesso dà dei ritratti veloci ma molto indicativi dei dodici, in 14.15-22, nell’occasione in cui Gesù promise il Consolatore facendo un distinguo tra gli uomini: “Se mi amate, osservate i miei comandamenti ed io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro Consolatore, che rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce; ma voi lo conoscerete, perché dimora con voi e sarà in voi.(…) Chi ha i miei comandamenti e li osserva, è uno che mi ama; e chi mi ama sarà amato dal Padre mio, e io lo amerò e mi manifesterò a lui. Giuda, non l’Iscariotha, gli disse «Signore, come mai ti manifesterai a noi e non al mondo?». Gesù rispose e gli disse «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio l’amerà, e noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui»”.

La domanda di Giuda di Giacomo lo qualifica allora come uditore attento alle parole del Maestro, non uno che ricorda soltanto l’ultima frase e se ne accontenta. È ritenuto da alcuni l’autore dell’omonima epistola, presentandosi come “Giuda, servo di Gesù Cristo e fratello di Giacomo”, quel Giacomo detto “fratello del Signore” che è annoverato tra le colonne della Chiesa di Gerusalemme, ma altri negano questa possibilità, in particolare la critica moderna.

GIUDA ISCARIOTHA

Il secondo nome, Iscariotha, ha un doppio significato perché se l’ebraico potrebbe qualificare la sua provenienza, “Uomo di Kerioth” città del Sud della Giudea, il significato dall’aramaico è “il mentitore, l’ipocrita”. Dei dodici è sicuramente il personaggio più complesso e credo che una buona analisi su di lui debba attenersi il più possibile ai dati che abbiamo. Non sappiamo nulla riguardo al tempo intercorso tra il primo incontro con Gesù e la sua elezione ad apostolo; di certo c’è solo che fu eletto al pari di tutti gli altri, dopo un certo tempo vissuto con loro. Incontriamo Giuda per la prima volta in Giovanni 6 nell’episodio che abbiamo già ricordato quando, insegnando nella sinagoga di Capernaum, Gesù fece il suo discorso sul mangiare la sua carne e bere il suo sangue. Sappiamo che molti discepoli furono scandalizzati da questo discorso e si allontanarono da lui. Ora è scritto che disse “Tra voi vi sono alcuni che non credono” e, subito dopo, “Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che credevano in lui e chi era colui che lo avrebbe tradito” (v.64). La prima differenza quindi è tra chi crede e chi no. Due mondi diversi nonostante il cielo sotto cui si vive sia lo stesso, ci si incontri per strada, si frequenti la stessa gente. Il fatto che Gesù sappia chi crede in lui, che legga nel cuore della persona, è garanzia della sua attenzione e protezione, ma allo stesso modo il contrario esiste per chi non crede per scelta, vale a dire trova alternative al Suo messaggio e le ritiene migliori. Molto spesso il non credere è una scelta che si fa per continuare a vivere ignorando il messaggio di Cristo, per fare i propri comodi, per non adeguarsi a Lui perché una vita senza gli obiettivi che hanno tutti e che tutti si tramandano da secoli, spaventa.

Secondo dato che i versi di Giovanni ci comunicano è che Gesù sapeva chi lo avrebbe tradito. Lo sapeva da sempre, prima ancora di chiamare l’Iscariotha nel numero dei 12 e possiamo dire che non lo avrebbe mai ammesso al gruppo degli apostoli se non avesse avuto il ruolo di consegnarlo di notte al sinedrio ebraico. Giuda Iscariotha non fu usato per compiere il tradimento, ma piuttosto partecipò alla vita comunitaria dei dodici, ascoltò gli insegnamenti di Gesù, vide molto più di noi che abbiamo solo un libro su cui basarci, ma non credette mai, neppure di fronte ai miracoli. Se avesse avuto anche un solo dubbio, se avesse posto in discussione il suo essere anche in una minima parte, avrebbe avuto il Maestro per un confronto.

Il fatto è che Giuda aveva un’altra caratteristica negativa; sempre nello stesso capitolo, alle parole di Pietro che riconosceva che Gesù era il solo ad avere parole di vita eterna, gli fu risposto: “«Non sono forse io che ho scelto voi, i dodici? Eppure uno di voi è un diavolo». Parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariotha: costui infatti stava per tradirlo, ed era uno dei dodici” (v.70,71). Occorre prestare molta attenzione al termine “diavolo”, al quale associamo una figura repellente e macabra che ci è stata tramandata dalla superstizione o da dipinti di artisti più o meno grandi: il termine greco “diàbolos” è colui che divide, accusa, calunnia ed è quindi avverso, contrario, ostile. In altre parole, un nemico. Così “diabolico” è ciò che allontana da Dio e non necessariamente ciò che è perverso, malvagio, assolutamente riconoscibile come opposto al bene. E “diavolo” come persona concreta, nel senso etimologico, Giuda lo fu sempre, come possiamo dedurre dal terzo episodio in cui è citato da Giovanni in cui commenta in modo sprezzante quanto avvene alla cena di Betania: lì Maria, sorella di Lazzaro e Marta, aveva cosparso i piedi di Gesù con una libbra (300 grammi), di nardo puro, del valore di 300 denari, quasi la paga di un anno di un operaio che veniva pagato un denaro al giorno. Al verso 4 leggiamo “Allora Giuda Iscariotha, uno dei suoi discepoli che doveva poi tradirlo, disse «Perché quest’olio profumato non lo si è venduto per 300 denari per poi darlo ai poveri?». Disse questo non perché gli importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro”. (vv.5.6).

Ora dire “era ladro” è diverso che, come alcuni traducono, “era un ladro”, perché la prima definizione indica uno stato d’animo, un atteggiamento, un’attitudine, mentre il secondo può riferirsi anche a qualcosa di occasionale e compiuto per necessità, come leggiamo in Proverbi 6.30 “Non si disprezza il ladro che ruba per soddisfare l’appetito quando ha fame; ma se viene colto in fallo, dovrà restituire sette volte, e dare tutti i beni della sua casa”. Giuda era quindi ladro dentro, privo di rispetto qualsiasi per la cosa altrui, pensava esclusivamente al suo vantaggio incurante della buona fede degli altri undici che lo ritenevano uno di loro, come disse Pietro con quel famoso “Signore, a chi ce ne andremo noi?”. Pensiamo al valore dato al denaro da personaggi che conosciamo: Maria aveva dato per ungere i piedi di Gesù 300 denari – ricordiamo che Filippo disse a Gesù che ce ne sarebbero voluti 200 per sfamare le persone al miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci -, e Nicodemo ne portò 100 libre, quindi 3.000, per l’imbalsamazione del corpo del crocifisso.

Giuda era insensibile a qualsiasi amore che non fosse per se stesso e rubava per il gusto del furto, non certo per arricchirsi, come Anania e Saffira in Atti 5.1-11 che avevano trattenuto per loro una parte del ricavato di un podere che avevano venduto, e arrivò a tradire Gesù per 30 sicli, il prezzo di uno schiavo. Tanto aveva stimato valere il proprio Maestro ed ecco perché Giuda fu un oppositore costante, un “diavolo”, un terreno impermeabile alla parola di Vita, ma permeabile a quella di morte perché in 13.2 Giovanni scrive “Mentre cenavano, il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda Iscariotha, figlio di Simone, di tradirlo.” Qui è l’opera dell’avversario che agisce non certo nei confronti di un innocente, ma di chi da sempre gli aveva dato sempre più spazio, come fosse un veicolo senza freni su una strada in discesa.

Sappiamo che Giuda il tradimento lo aveva già preparato: era già andato dai capi dei sacerdoti per fare arrestare Gesù (Marco 14.10), aveva già ricevuto il prezzo pattuito e “Da quell’ora cercava l’opportunità di tradirlo” (Matteo 26.15,16), ma l’accettazione piena e incondizionata del suo compito la accettò definitivamente nel prendere il “boccone intinto”: “E quel discepolo– Giovanni – chinatosi sul petto di Gesù, gli disse «Signore, chi è?». Gesù rispose «È colui al quale io darò il boccone, dopo averlo intinto» e, intinto il boccone lo diede a Giuda Iscariotha, figlio di Simone. Ora, dopo quel boccone, Satana entrò in lui” (Giovanni 13.25-27). Giuda, prendendo quanto Gesù gli porgeva, è come se avesse posto la propria firma a un terribile contratto stipulato con l’Avversario, gli diede il suo benestare anche se non possiamo escludere abbia pensato che, con tutti i miracoli che aveva fatto il suo Maestro, avrebbe potuto farne un altro, liberandosi come già avvenuto in altre occasioni. È l’unica attenuante che però non sminuisce la portata dell’atto, è come dire che chi fa un sorpasso azzardato a folle velocità, se causa un incidente in cui muoiono delle persone, non voleva uccidere. Non è un omicidio preterintenzionale.

C’è poi il pentimento: “Allora Giuda – colui che lo tradì -, vedendo che Gesù era stato condannato, preso dal rimorso, riportò le trenta monete d’argento ai capi dei sacerdoti e agli anziani, dicendo: «Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente». Ma quelli dissero: «A noi che importa? Pensaci tu!». Egli allora, gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e andò a impiccarsi. I capi dei sacerdoti, raccolte le monete, dissero: «Non è lecito metterle nel tesoro, perché sono prezzo di sangue». Tenuto consiglio, comprarono con esse il «Campo del vasaio» per la sepoltura degli stranieri. Perciò quel campo fu chiamato «Campo di sangue» fino al giorno d’oggi. Allora si compì quanto era stato detto per mezzo del profeta Geremia: E presero trenta monete d’argento, il prezzo di colui che a tal prezzo fu valutatodai figli d’Israele, e le diedero per il campo del vasaio, come mi aveva ordinato il Signore”(Matteo 27.3-10). Nel libro degli Atti Luca riporta le parole di Pietro che aggiunge dei particolari, vale a dire che Giuda aveva già acquistato un appezzamento di terra con quei soldi pur avendo poi restituito la somma ai capi dei sacerdoti: “In quei giorni Pietro si alzò in mezzo ai fratelli – il numero delle persone radunate era di circa centoventi – e disse: «Fratelli, era necessario che si compisse ciò che nella Scrittura fu predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo a Giuda, diventato la guida di quelli che arrestarono Gesù. Egli infatti era stato del nostro numero e aveva avuto in sorte lo stesso nostro ministero. Giuda dunque comprò un campo con il prezzo del suo delitto e poi, precipitando, si squarciò e si sparsero tutte le sue viscere. La cosa è divenuta nota a tutti gli abitanti di Gerusalemme, e così quel campo, nella loro lingua, è stato chiamato Akeldamà, cioè «Campo del sangue». Sta scritto infatti nel libro dei Salmi: La sua dimora diventi deserta e nessuno vi abiti, e il suo incarico lo prenda un altro”. (Atti 1. 16-19).

Giuda si rese conto di quello che aveva fatto, ma il suo fu un pentimento disperato, che non contemplava la possibilità del perdono. Scrive Paolo che “La tristezza secondo Dio produce un ravvedimento che porta alla salvezza e del quale non c’è mai da pentirsi, ma la tristezza del mondo produce la morte” (2 Corinti 7.10). Abbiamo detto che l’accettazione del boccone intinto fu la firma di Giuda a un contratto dal quale non poteva più tirarsi indietro: umanamente aveva ragionato fino a poco prima di tradirlo, poi aveva concesso a Satana di disporre di lui e da Satana fu abbandonato una volta raggiunto il suo scopo. Solo con se stesso, si ritrovò totalmente deserto con la propria colpa e il peso fu intollerabile perché non c’era chi potesse sollevarlo. La tristezza secondo il mondo produce la morte e la psicodinamica del suicidio è la disperazione che si forma nella persona quando non esiste più nulla in cui sperare, manca una prospettiva e il peso conseguente si fa insopportabile a tal punto che la non esistenza appare l’unica soluzione.

Pietro, dopo aver rinnegato Gesù per tre volte, è scritto che “pianse amaramente”: pianse sulla sua natura avendo agito per paura dopo una crisi nervosa vista in quel “cominciò a maledirsi”, pensando alla verità delle parole del Maestro che gli aveva predetto quel comportamento, ma a Giuda restava solo quel peccato, l’aver tradito quel “sangue innocente” che tanto aveva “amato il mondo”. Era possibile un perdono per lui? Se il pentimento può nascere solo dalla comprensione dell’errore, è indubbio che ci sia stato, ma questo stato d’animo può trovare rimedio solo rivolgendosi all’Unico in grado di dare perdono, cosa che non avvenne. Forse le parole che più lo tormentarono furono “Amico, tradisci il Figlio dell’uomo con un bacio?”. Amico.

Si possono concludere queste riflessioni con le parole di don Primo Mazzolari: “Credete voi che non ci fosse stato posto anche per Giuda, se avesse voluto? Se si fosse portato ai piedi del calvario, se l’avesse guardato almeno a un angolo o a una svolta della strada della via crucis, la salvezza sarebbe arrivata anche per lui. Povero Giuda, una croce e l’albero di un impiccato, dei chiodi e una corda”.

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