15.30 – BARTIMEO I: Gerico (Marco 10.46)

15.30 – Bartimeo I: Gerico (Marco 10.46)

 

46E giunsero a Gerico. Mentre partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. 

 

Della guarigione del cieco Bartimeo parlano tutti e tre i Sinottici, pur se con qualche differenza che vedremo, trovandosi l’episodio anche nei racconti di Matteo 20.29-34 e Luca 18.35-48. Per quanto riguarda il Vangelo di Marco, quello della guarigione di Bartimeo è l’ultimo miracolo registrato di diciassette (10+7) e ha una valenza particolare perché lì, a Gerico, viveva anche quel Zaccheo, capo dei pubblicani, di cui parla solo Luca al capitolo 19. Va ricordato che il fatto che Gesù passasse per quella località non era dovuto al caso, ma come per tutti gli altri rientrava in quell’itinerario che il Padre gli aveva preparato per compiere il Suo progetto salvifico a favore del popolo di Israele e, per quanto esamineremo, di due non vedenti (Bartimeo e l’altro con lui rimasto innominato da Marco), e di Zaccheo stesso.

 

Prima di trattare l’episodio, è necessario fare una premessa, che occuperà tutto questo capitolo, ponendo le basi per le riflessioni spirituali perché Gerico è un argomento complesso e delicato. Definita “la città delle palme” (Deuteronomio 34.3), era un antico centro del territorio di Canaan dato da Dio in possesso agli israeliti come “terra promessa” che già esisteva a quando essi attraversarono il Giordano. Assieme a Damasco è la più antica città del mondo, ma è la sola ad avere la altitudine più bassa, ben 240 metri sotto il livello del mare. I Cananei, che occupavano il territorio, erano i discendenti di Canaan, figlio di Cam e quindi nipote di Noè sul quale pesava la maledizione pronunciata a seguito dell’oltraggio (di Cam) sul padre Noè: “Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli” (Genesi 9.25). Il paese di Canaan era stato promesso ad Abrahamo in Genesi 12.7 e, al momento opportuno, quando l’ingresso di Israele nella terra promessa era imminente, così Dio disse a Mosè: “Parla ai figli d’Israele e di’ loro: Quando avrete passato il giordano e sarete entrati nel paese di Canaan, scaccerete davanti a voi tutti gli abitanti del paese, distruggerete tutte le loro immagini – idolatre –, distruggerete tutte le loro statue di metallo fuso e demolirete tutti i loro luoghi sacri” (numeri 33.51,52).

Sappiamo che, alla morte di Mosè, Giosuè prese il suo posto, passò il Giordano e conquistò Gerico (Giosuè capp. 1-6), che fu distrutta e alla fine venne pronunciata una maledizione su chiunque l’avesse ricostruita (6.26), cosa che si concretò ai tempi del re Acab, 500 anni dopo circa. Di questo re è detto che “fece ciò che è male agli occhi del Signore, più di tutti quelli prima di lui” (1 Re 16.30) e tale Chièl di Betel (v.34), che la ricostruì materialmente, vide realizzarsi quanto pronunciato da Giosuè stesso: “Maledetto davanti al Signore l’uomo che si metterà a ricostruire questa città di Gerico! Sul suo primogenito ne getterà le fondamenta e sul figlio minore ne erigerà le porte!”, cioè la ricostruzione della città sarebbe stata pagata con la morte dei figli di chi avesse agito in oltraggio a quel giuramento.

Proprio alle vicende di Gerico sono legati due episodi importanti per la connessione spirituale all’opera del Cristo, cioè la vicenda di Rahab e quella della purificazione delle acque fatte dal profeta Eliseo col sale: Rahab, prostituta, sappiamo che nascose a rischio della propria vita gli esploratori d’Israele, sicura che quel popolo avrebbe conquistato la città giungendo a dir loro profeticamente “So che il Signore vi ha consegnato la terra” (Giosuè 2.9). Convinta di ciò chiese agli esploratori d’Israele, in cambio dell’assistenza che stava loro dando, la salvezza della propria famiglia. Il segno dell’patto stipulato con queste persone consisteva in una cordicella di colore scarlatto appesa ad una finestra, segno esteriore dell’alleanza ricevuta per fede la cui applicazione spirituale trova un chiaro riferimento col sangue di Gesù sparso sulla croce per la salvezza eterna del peccatore.

Il secondo episodio, quello in cui operò il profeta Eliseo, è narrato in 2 Re 2.19-22: “Gli uomini della città dissero a Eliseo: «Ecco, è bello soggiornare in questa città, come il mio signore può constatare, ma le acque sono cattive e la terra provoca aborti». Ed egli disse: «Prendetemi una scodella nuova e mettetevi del sale». Gliela portarono. Eliseo si recò alla sorgente delle acque e vi versò il sale, dicendo: «Così dice il Signore. Rendo sane queste acque; da esse non verranno più né morte, né aborti». Le acque rimasero sane fino ad oggi, secondo la parola pronunciata da Eliseo”.

Qui abbiamo un profondo riferimento alle parole di Gesù dette ai suoi discepoli “Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il suo sapore, con che cosa lo si potrà rendere salato? Non serve nient’altro che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini” (Matteo 5.13), parole queste ultime che non dichiarano la perdita della salvezza, ma la testimonianza fallita.

Ai tempi di Nostro Signore Gerico era stata resa molto bella prima da Erode il Grande, che ne aveva fatto costruire la sua residenza estiva e vi morì, e in misura minore dal figlio Archelao. Era dotata di un anfiteatro, di un ippodromo oltre alla reggia, totalmente ricostruita sempre da Archelao. Fu però una Gerico diversa anche come posizione nel senso che fu costruita a un paio di chilometri a Sud rispetto a quella antica, fatto di cui dovremo necessariamente tenere conto per inquadrare i personaggi del nostro episodio in maniera corretta. Sempre ai tempi di Gesù, Gerico era meta di pio ritiro per scribi e farisei per il refrigerio che offrivano le palme e le acque del Giordano ed era diventata importante per il traffico carovaniero da e per Gerusalemme; lì si coltivava la pianta dalla quale si estraeva quel balsamo (il demdron mirae) che le donne d’Israele conservavano per il loro matrimonio, ma che Maria, sorella di Lazzaro, e la peccatrice innominata versarono sul capo e sui piedi di Gesù riconoscendoLo come il loro sposo spirituale, Salvatore e Signore della loro vita. Il nome “Gerico”, ha “profumo” come sua radice.

 

A questo punto però sorge una questione importante, da affrontare per quanto brevemente perché, se alcun dubbio è mai sorto sulla genuinità del racconto dei sinottici sulla vicenda di Bartimeo e dell’altro cieco, diverso è per le vicende narrate nel libro di Giosuè, alla cui redazione, secondo la critica biblica, intervennero più autori, uno detto “il compilatore”, e altri due, detti “i redattori”, che intervennero modificando il testo o aggiungendo sezioni. Va poi detto che le ricerche archeologiche più recenti non avrebbero trovato alcuna traccia di una città cananea a Gerico posteriore a quella distrutta dagli Egiziani verso il 1550, circa tre secoli prima dell’arrivo di Giosuè. Da qui la teoria secondo la quale il racconto della conquista di Gerico e della vicenda di Rahab abbiano valore eziologico, cioè siano stati costruiti per spiegare un fatto ed esaltare una sorta di “guerra santa”. C’è chi ha proposto che il libro di Giosuè sia da considerare come un’antologia di racconti famigliari inventati per rendere interessanti e memorizzare i nomi delle varie località.

La vicenda delle mura di Gerico, archeologicamente parlando, è molto più complessa perché tracce della sua distruzione sono state trovate, ma non coincidenti con il periodo storico in cui essa avrebbe dovuto avvenire. Il fatto però è che non c’è unanimità fra gli archeologi essendoci chi colloca il crollo nel 2000 a.C., chi molto tempo dopo, come Bryant Wood, dell’università di Toronto, che dichiarò le ricerche erano state fatte nel posto sbagliato, menzionando uno strato di cenere spesso un metro in cui abbondavano frammenti di vasellame e mattoni provenienti dal crollo di mura, oltre a travi annerite da un incendio che distrusse tutta la città. I frammenti di ceramica rinvenuti consentirono di datare l’evento al 1410, con uno scarto di 40 anni sulla data in cui Giosuè avrebbe dovuto distruggere la città.

Personalmente credo che la Scrittura debba comunque detenere il primo posto (altrimenti non sarebbe fonte di verità) e più di tutto valga a chiudere il discorso il fatto che, se Rahab non fosse esistita, non sarebbe mai stata nominata in due passi del Nuovo Testamento, uno in Ebrei 11.31 (“Per fede Rahab, la prostituta, non perì con gli increduli, perché aveva accolto con benevolenza gli esploratori”) e l’altro in Giacomo 2.25, “Così anche Rahab, la prostituta, non fu forse giustificata per le opere, perché aveva dato ospitalità agli esploratori e li aveva fatti ripartire per un’altra strada?”.

Infine, a chiudere la questione, è la genealogia di Gesù secondo Matteo in cui Rahab compare in 1.5, “Salmon generò Booz da Rahab”, citata senz’altro per premiare la sua scelta di fede e relativa conversione. In proposito, va segnalato che gli ebrei tradizionalisti negano che Rahab fosse una prostituta nel senso letterale del termine: Giuseppe Flavio, del resto, parla di lei come una “locandiera”, ma a quei tempi le locande erano anche dei postriboli. Comunque sia, credo che sia giusto armonizzare i due termini tra loro tenuto conto che, se Rahab non avesse avuto una locanda, difficilmente avrebbe potuto nascondere in casa sua gli esploratori.

 

Venendo ora al nostro testo, o per meglio dire ai testi, gli storici Eusebio di Cesarea (III° secolo) e Giuseppe Flavio (I°) riportano nei loro scritti la presenza di due città, cioè la vecchia costruita da Chièl e la nuova da Erode Antipa e questo spiega la variante degli altri sinottici dai quali traspare che i due ciechi fossero seduti uno all’entrata e l’altro all’uscita della città, non la stessa, ma la vecchia e la nuova. C’è anche chi ha ipotizzato, alla luce dei confronti fra i testi, che i ciechi fossero in realtà tre, ma stante il fatto che tutti gli evangelisti spostino l’attenzione su uno solo, direi che poco rileva.

Il verso 46, l’unico del nostro testo di oggi, dopo il riferimento a Gerico, nomina immediatamente “il figlio di Timeo” a indicare che suo padre fosse persona molto conosciuta; pare quasi che Matteo dia per scontato che alcuni suoi lettori del tempo sapessero immediatamente di chi parlasse. Già il nome, “Bartimeo” significa appunto “figlio di Timeo”. Costui, come molti ciechi o infermi gravi che vivevano di carità, erano persone spesso sfruttate dai loro familiari che, da quanto queste misere persone riuscivano a raccogliere, ne traevano guadagno.

Inoltre, il fatto che quest’uomo fosse costretto a mendicare denunciava il meneferghismo dei capi e del popolo di Israele che avevano smesso di praticare la Legge data da Dio a Mosè a vantaggio del pensare al loro prossimo esclusivamente come strumento per la realizzazione dei propri egoismi. E sono sicuro che a molti verranno in mente i versi che richiamano al principio della carità e comprensione dell’altrui condizione.

Bartimeo, quindi, sopravviveva con l’elemosina sfruttando il passaggio delle carovane e possiamo affermare che, come scriveva un fratello, “il concetto che il suo prossimo aveva di lui era più di commiserazione che di risoluzione del suo problema”.

Fatte tutte queste premesse, credo se non indispensabili molto utili per inquadrare l’episodio, passeremo nel capitolo successivo ad esaminare la vicenda dal suo punto di vista dottrinale e spirituale.

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