12.36 – IL BUON PASTORE I/II (Giovanni 10.11-13)

12.36 – Il buon pastore I/II (Giovanni 10.11-13)       

 

11Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. 

 

L’ “io sono” di Gesù è stato affrontato fin qui diverse volte, mai però quando vi aggiunge un complemento oggetto, particolare che nei Sinottici non troviamo. Complessivamente abbiamo nove definizioni, quindi tre per tre, viste nel

 

  1. “pane della vita”;
  2. “pane vivo disceso dal cielo”;
  3. “la luce del mondo”;
  4. “la porta delle pecore”;
  5. “la porta”;
  6. “il buon pastore”;
  7. “la resurrezione e la vita”;
  8. “la via, la verità e la vita”;
  9. “la vera vite”.

 

Ora, guardandole assieme, è facile individuare la perfezione degli interventi a favore di chi ha riposto il Lui la propria fede: abbiamo il nutrire (“pane della vita” e “pane vivo disceso dal cielo”), il guidare senza possibilità di errore (“la luce del mondo”, “il buon pastore”), ricoverare in un luogo sicuro (“la porta” e “la porta delle pecore”) e infine donare liberamente ciò che mai l’uomo avrebbe potuto acquistare coi suoi mezzi, cioè “la resurrezione e la vita” e “la via, la verità e la vita” che tutti cercano, purtroppo molti solo a parole. A tutte queste definizioni si aggiunge “la vera vite” che mantiene vivi i propri tralci destinati a far frutto (o a venire tagliati se non lo producono).

Gesù non è “un” pastore, ma “il” pastore al quale aggiunge l’aggettivo “buono” a sottintendere che non è come gli altri, ma quello ideale e appropriato, nel vero senso del termine, per la pecora. In greco “buono”, tradotto da “kalòs” riassume i significati di “bello, buono, nobile” mentre il suo contrario, “brutto” annovera in realtà anche i termini di “vile, malvagio”. Possiamo affermare che di “buon pastore” non ve ne possono essere altri perché portino come risultato la salvezza dell’uomo. Ricordiamo le sue parole “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”.

Gesù è “il” pastore che si occupa dei suoi animali interamente, amandoli a tal punto da dare la propria vita per loro perché non muoiano, cosa che senza il Suo sacrificio sarebbe certamente avvenuta perché con tutta la Sua predicazione, i miracoli e le potenti operazioni avrebbe soltanto dimostrato di essere il profeta più grande mai apparso sulla terra, ma saremmo rimasti assolutamente soli, senza possibilità di aggrapparci a Lui per avere riscatto.

Infatti Isaia scrive “Noi tutti eravamo sperduti come un gregge – senza pastore –, il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti” (53.6), talché “… camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di odor soave”.

Il percorso finale di Gesù fu questo: “Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo e di opere buone” (Tito 2.14) e, infine, “Egli portò i nostri peccati sul suo corpo sul legno della croce perché, non vivendo per il peccato, vivessimo per la giustizia. Dalle sue piaghe siamo stati guariti”.

Senza il Suo sacrificio Gesù non avrebbe potuto liberare nessuno da un’esistenza che, comunque la si guardi, è fatta di ben poche cose e soprattutto è destinata a finire perché “L’uomo, nato da donna, ha vita breve e piena d’inquietudine; come un fiore spunta e avvizzisce, fugge come l’ombra e mai si ferma” (Giobbe 14.1).

Proviamo a riflettere brevemente su questo verso: l’uomo ha “vita breve e piena d’inquietudine” e di questo purtroppo se ne rende conto quando, giunto avanti negli anni, fa un bilancio della propria esistenza ed è costretto a concludere che tutto il suo vissuto è trascorso quasi senza che se ne accorgesse. L’inquietudine che lo anima continuamente non è costituita solo dallo stress che accumula sul lavoro, per insoddisfazioni e tensioni varie a causa di incomprensioni col proprio simile, ma dalla ricerca di quiete che non riesce a trovare e, quando la raggiunge, è solo per poco tempo. Non riesce ad afferrarla che è già svanita. L’“inquietudine” è così tanto la preoccupazione quanto il tendere a qualcosa senza raggiungerlo, il soddisfare una sete che si ha dentro e si continua ad avvertire, come già detto alla Samaritana.

“Come un fiore spunta e avvizzisce” ci dà la descrizione della nascita, solitamente motivo di gioia perché una nuova vita rallegra chi la vede venire al mondo, ma all’immagine positiva e di bellezza del fiore si contrappone come una condanna l’ “avvizzisce”, processo che se uno vive abbastanza da vederlo è lento, ma inesorabile a tal punto che una persona anziana è costretta a rassegnarsi a vivere il meno peggio possibile, ma non bene come, forse, quando era giovane.

“Fugge come l’ombra e mai si ferma” è la descrizione delle nostre occupazioni, per lavoro o per svago non importa: siamo un’ombra costretta a muoversi seguendo un corpo che non conosce e che resta sempre un mistero. E l’ombra, incorporea, che assume forma solo quando c’è il sole o una fonte luminosa alternativa, non ha volontà né pensiero, sparisce non appena la luce si spegne o addirittura una semplice nuvola oscura il sole.

Quando poi dopo l’avvizzimento viene la morte, si conclude il percorso sulla terra, ma non è tutto così semplice perché il decesso non è solo il cessare del battito cardiaco, ma un punto fermo: non è più possibile tornare indietro, dire ciò che non si è detto o correggerlo, riparare a qualcosa o costruirlo e ciò avviene tanto per chi muore quanto per tutti coloro che resteranno in vita dopo di lui. La morte porta con sé l’irrimediabilità del tutto. Una fine che, come sappiamo, porterà un rendiconto quando ci troveremo dall’altra parte ed ecco perché nella nostra vita sulla terra Gesù è “Il buon pastore” che, al contrario di quello cattivo che citeremo brevemente, conosce le sue pecore “una per una” nel profondo, sa di cos’hanno bisogno, qual è il loro carattere, come prenderle, come usarle, cosa donare loro.

Il gregge è un organismo composto da elementi che non sanno orientarsi e possono cadere vittime di pastori iniqui oppure di altri soggetti, come preannunciò l’apostolo Paolo in Atti 20.29: “Io so che dopo la mia partenza – si trovava a Mileto – verranno tra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino in mezzo a voi sorgeranno alcuni a parlare di cose perverse, per attirare discepoli dietro di sé”, “discepoli”, quindi “pecore” che dipenderanno da loro e non più da Dio.

Ancora Pietro nella sua seconda lettera 2.1-3: “Ci sono stati anche falsi profeti fra il popolo, come pure ci saranno in mezzo a voi falsi maestri – cioè falsi pastori umani che “il buon pastore” ha lasciato a pascere il suo gregge in Sua assenza – i quali introdurranno fazioni che portano alla rovina – perché un regno diviso in due non può sussistere –, molti seguiranno la loro condotta immorale e per colpa loro la via della verità sarà coperta di disprezzo – pensiamo a quanti abbandoni ci sono nella Chiesa per gli scandali e le immoralità che avvengono in essa –. Nella loro cupidigia vi sfrutteranno con parole false, ma per loro la condanna è in atto ormai da tempo e la loro rovina non si fa attendere”.

Non così il vero credente, che ha avuto l’imprinting proprio dal “buon pastore” e che ne riconosce la voce e a Lui si affida e, nonostante tutte le negatività che si esprimono proprio là dove potrebbe trovare riposo; “Tuttavia le solide fondamenta gettate da Dio resistono e portano questo sigillo: Il Signore conosce quelli che sono suoi, e ancora: Si allontani dall’iniquità chiunque invoca il nome del Signore. In una casa grande però non vi sono soltanto vasi d’oro e d’argento, ma anche di legno e di argilla; alcuni per usi nobili, altri per usi spregevoli. Chi si manterrà puro da queste cose, sarà come un vaso nobile, santificato, utile al padrone di casa, pronto per ogni opera buona” (2 Timoteo 2.1-3).

C’è però una realtà e cioè che “il buon pastore”, che “dà la vita per le sue pecore”, svolge una funzione che non conosce fine: “Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime” (1 Pietro 2.25), quindi alla descrizione di questi animali disorientati e senza un dove, “eravate erranti”, ora c’è una situazione di stabilità e pace vista nelle parole “ricondotti”, “pastore e custode” e “vostre anime”. La “pecora di Gesù”, se lo seguirà sempre, non si smarrirà. Quando, perché comunque è dotata di volontà propria, vorrà fare di testa sua potrà perdersi per un tempo più o meno lungo, ma verrà sempre ritrovata. Il “custode” non usa metodi violenti per sottomettere i suoi animali, non li chiude in una prigione, “cammina davanti a loro”, ma non li percuote perché stiano compatte e unite: vuole che decidano, nel loro interesse, di stare con lui condividendone il cammino e il pascolo.

Veniamo ora al “mercenario”, altro personaggio indicativo: si tratta di una persona insensibile, pagata per fare un lavoro quindi non un altro pastore che può amare più o meno quegli animali. Il “mercenario” si muove per interesse, per lui conta solo venire pagato, possibilmente al meglio col minor sforzo; sa che non deve perdere delle pecore perché altrimenti il padrone si rivarrebbe su di lui per cui le cura, ma solo per non rimetterci ed è una figura differente dall’ “estraneo” che abbiamo trovato nei versi precedenti.

Il “mercenario” è figura di persone, ma anche di dottrine e filosofie che non possono che offrire una soluzione temporanea per poi dissolversi e pensiamo a quanti sono convinti di aver trovato la soluzione ai loro problemi praticando Yoga o altre forme di rilassamento e/o meditazione, frequentano circoli mistici o esoterici e, siccome ottengono risultati (temporanei), vi si dedicano con assiduità, ma quando “viene il lupo”? Il “mercenario” fugge perché non è più in grado di aiutare, offrire soluzioni, alternative a quella che è la meccanica della vita che inevitabilmente sfocia nella tribolazione, nel lutto e nella disperazione causata dalla rovina imminente o avvenuta. È la casa costruita sulla sabbia che altro non può fare se non distruggersi.

Il “mercenario, che non è un pastore e al quale le pecore non gli appartengono” si rivela così per quello che è: un palliativo, un individuo non idoneo, incompetente, alternativo di un nulla. Costui “abbandona le pecore e fugge” non perché trova la sua soddisfazione nella rovina del gregge, ma perché pensa a se stesso, si preoccupa di salvarsi a fronte del pericolo e nulla gli importa se degli innocenti muoiono: “è un mercenario e non gli importa delle pecore”, è così e basta, non gli importava prima, né tantomeno quando giunge un predatore che, paradossalmente, gli dà solo una giustificazione per non agire: “le pecore non sono mie, chi me lo fa fare?”.

Credo che ogni cristiano sincero sia scampato e scamperà sempre dal “mercenario” perché con lui incompatibile: “le pecore ascoltano” la voce del pastore e un estraneo non lo seguiranno. E infatti, il verso 14 col quale apriremo il prossimo capitolo, così riporta: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”. Amen.

* * * * *