15.06 – IL GIUDICE E LA VEDOVA (Luca 18.1-8)

15.06 – Il giudice e la vedova (Luca 18.1-8)

 

1 Diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: 2«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. 3In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: «Fammi giustizia contro il mio avversario». 4Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: «Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, 5dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi»». 6E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. 7E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? 8Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

 

Questa parabola è da considerarsi non come qualcosa di nuovo rispetto al capitolo precedente, quasi che Luca abbia voluto citarla come intermezzo a sé stante verso nuovi episodi, ma in quanto il discorso già in atto si sta avviando verso la sua conclusione. Ricordiamo il capitolo 17 in cui Gesù volle dare indicazioni consolatorie sui “giorni del Figlio dell’uomo”, ma certo non ha omesso il fatto che sarebbero stati di sofferenza. Ecco perché abbiamo letto “diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai”, parole che, inquadrate in quel contesto, demoliscono ancora una volta il falso concetto della preghiera che molti cristiani hanno, ricorrendo ad essa unicamente quando hanno bisogno di qualcosa che va al di là delle loro possibilità: spesso, persone che vivono la loro vita come se Dio non esistesse, spinte dal timore pregano per guarire, per essere liberati da qualcosa che li opprime, fanno gesti scaramantico-religiosi come il “segno della croce”, portano talismani, medagliette ed altro, ma non si interrogano sulla posizione che hanno davanti a Lui e, se “l’emergenza” viene a cessare per i motivi più svariati, tornano alle loro attività e interessi come se niente fosse, pronti comunque a riprendere i loro riti se e solo ce ne fosse bisogno.

Contrariamente, la “necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai”, trova la sua necessità nell’acquisizione del fatto che siamo nulla, che senza di Lui niente possiamo fare, che abbiamo bisogno ogni istante della Sua assistenza, in ogni cosa. Credo che un esempio in tal senso ce l’abbia lasciato proprio Nostro Signore, che pregava sempre perché, se poteva ogni cosa per l’uomo, così non era per Lui. E infatti non fece mai nessun miracolo per se stesso.

Il Dio in terra, il Figlio fattosi uomo, in quanto tale viveva e poteva fare affidamento  unicamente sul Padre per avere il necessario sostegno.

“Sempre” e “senza stancarsi mai” sono le due indicazioni date e la prima è riferita alle occasioni e ai momenti, più che stare a indicare una continuità totale: “sempre” non vuol dire giorno e notte senza interruzione, ma “in ogni momento”, “per ogni cosa”. Troppo spesso la vita ci porta a ritenere che gran parte di ciò che affrontiamo in essa dipenda da noi, in ossequio al detto “potere è volere”, ma così è per il mondo che ci circonda, non per il credente e se chiunque abbia studiato o lavori sa che si tratta di attività che richiedono fatica, fisica o mentale che sia, come credenti siamo tenuti a pregare per avere sostegno anche in quelli. Pregare quando siamo stanchi, quando siamo deboli, quando siamo perplessi, quando dobbiamo per una qualsiasi ragione compiere una scelta, quando ci troviamo di fronte al silenzio e, ascoltandolo, ci sentiamo parte di lui e scopriamo di non sapere. A parte quest’ultima situazione, Gesù provò tutte le altre. A parte il pregare perché – ad esempio – non venisse meno la fede dei discepoli, nei suoi dialoghi col Padre sono convinto abbia chiesto sostegno e soprattutto si sia consultato per i Suoi itinerari, le persone che avrebbe incontrato proprio in quanto, come detto all’inizio, era Figlio di Dio e al tempo stesso Figlio dell’uomo.

“Senza stancarsi mai”, poi, trova il suo riferimento più chiaro in questa parabola: di fronte al silenzio di Dio provare scoraggiamento è la cosa più inutile che possiamo fare, mentre è produttivo continuare fino a quando non abbiamo avuto da Lui una risposta che – attenzione – può essere positiva, cioè rispecchiare quanto chiediamo, oppure negativa, quindi il suo contrario, ma comunque costituisce una risposta. Ho conosciuto persone che si sono sentite profondamente offese dal fatto che Dio rispondesse l’opposto di quanto chiedevano, non riuscendo a capire che l’importante non era tanto un esaudimento in positivo, ma un segnale, una risposta che li togliesse dal dubbio o dalle false speranze, da quella fastidiosissima, insopportabile condizione che è l’incertezza. E invece no, volevano che Dio rispondesse come loro volevano, senza pensare che spesso il piano per la creatura è differente da quello che lei pretenderebbe poiché, in quanto esseri limitati, non sappiamo cosa è realmente per il nostro bene, mentre Lui sì. Chi non chiede una risposta, ma pretende che Dio sia succube dei propri desideri, è una persona che non si è mai distaccata dal bambino capriccioso che si porta dentro, quello che continua a chiedere una caramella e strilla fino allo sfinimento se non la ottiene.

Il pregare “sempre”, “senza stancarsi mai” non è l’interloquire petulante di chi mendica un’attenzione da parte di Dio, ma di chi si presenta a Lui perché ne ha il privilegio dell’accesso in quando suo figlio/a. C’è chi lo fa di giorno, chi di notte, chi parla, chi ascolta, chi produce suoni, ma tutti costoro sanno che la risposta non può non arrivare e qui abbiamo il confronto fra i nostri tempi e i Suoi, così differenti, e quando leggiamo che chi chiede deve farlo “con fede, senza stare in dubbio” non abbiamo una chiave per l’esaudimento, ma nel fatto che, se quanto richiesto lo consideriamo ricevuto, quando ciò arriva è un dettaglio, è quasi virtuale. Io almeno posso dire di avere provato questo. L’attesa nel silenzio non è così diversa dall’avere quanto richiesto e infatti, quando ciò avviene, è come se al ringraziamento necessario e dovuto venga annesso un senso di già posseduto, non so se riesco a spiegarmi. La preghiera è tante cose, fondamentalmente la gioia per il fatto che siamo comunque ascoltati e il silenzio può bastare a farci rendere conto della presenza di Dio. O anche denunciare la Sua assenza, quando ci troviamo in una condizione di peccato per cui si rende necessario confessarlo e abbandonarlo.

Veniamo ora alla parabola, che ci permette di dare un breve quadro sull’amministrazione della giustizia nell’antico Israele che troviamo, quanto ad organizzazione in Deuteronomio 16.18: “Ti costituirai giudici e scribi in tutte le città che il Signore, tuo Dio, ti dà, tribù per tribù; essi giudicheranno il popolo con giuste sentenze. Non lederai il diritto, non avrai riguardi personali e non accetterai regali, perché il regalo acceca gli occhi dei saggi e corrompe le parole dei giusti. La giustizia e solo la giustizia seguirai, per poter vivere e possedere la terra che il Signore tuo Dio, sta per darti”. A parte il Sinedrio, il Tribunale supremo di appello, vi erano in tutte le città della Palestina delle corti inferiori ed altre ancora che decidevano in merito a cause civili di importanza minore composte da un giudice unico, come in questo caso.

Il carattere del giudice della parabola, “Non temeva Iddio, né aveva riguardo per alcuno” è l’esatto contrario di tutte le norme in merito alla giustizia, come Esodo 23.6, “Non ledere il diritto del tuo povero nel suo processo”, Levitico 19.15, “Non commetterete ingiustizia in giudizio; non tratterai con parzialità il povero né userai preferenze verso il potente: giudicherai il tuo prossimo con giustizia”, Deuteronomio 1.16, “Ascoltate le cause dei vostri fratelli e decidete con giustizia fra un uomo e suo fratello o lo straniero che sta presso di lui”.

Possiamo infine ricordare le parole di Giosafat, re di Giuda, proprio ai giudici: “Guardate a quello che fate, perché non giudicate per gli uomini, ma per il Signore, il quale sarà con voi quando pronuncerete la sentenza. Ora il terrore del Signore sia con voi; nell’agire badate che nel Signore, nostro Dio, non c’è nessuna iniquità: egli non ha preferenze personali né accetta doni” (2 Cronache 19.6,7). Queste sono quindi le parole che il giudice della parabola avrebbe dovuto osservare: al di là delle prescrizioni della Legge, il “non giudicate per gli uomini, ma per il Signore” e “il terrore del Signore sia con voi” costituiscono una definizione di terribile gravità per il giudice – e per noi oggi per chi ha il ministero – che tuttavia, nel nostro caso, non osservava.

Abbiamo poi la vedova, persona che dovette richiamare immediatamente l’attenzione dei discepoli o di qualunque altro ebreo che sapeva quanto fosse penosa la condizione di quelle persone in Israele: senza protezione, erano alla mercé di oppressioni e ingiustizie, oltre a vivere in povertà. Per questo nella Legge godevano di particolare tutela a partire da esodo 22.22, “Non maltratterai la vedova e l’orfano”, Deuteronomio 24.17, “Non lederai il diritto dello straniero e dell’orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova”, 27.19, “«Maledetto chi lede il diritto del forestiero, dell’orfano e della vedova». Tutto il popolo dirà: «Amen»”.

Ebbene, una dei protagonisti della parabola va da questo personaggio, che esercitava il suo ufficio alle porte della città, sede abituale per l’amministrazione della giustizia, a chiedere “Fammi giustizia contro il mio avversario” quindi non che questo fosse condannato, ma che fosse finalmente pronunciata una sentenza che quel giudice continuava a procrastinare. “Fammi giustizia” nel senso di “Non ignorarmi”, richiesta che viene rivolta ad una persona profondamente negativa perché trascurava completamente tutti i riferimenti alla condizione di giudice che abbiamo ricordato. Inutile fare appello alla sua umanità, perché non l’aveva, quindi inutile sperare, come purtroppo fanno le persone sensibili, che questa persona potesse provare una pur piccola forma di empatia per cui si decidesse ad esaminare la causa e a provvedere.

Abbiamo letto che quel giudice “non aveva riguardo per alcuno”, e quindi tutte le sue attenzioni erano rivolte alla propria persona, quindi l’unico modo per cercare di avere giustizia da lui era quello di importunarlo andando a toccarlo proprio su quanto gli stava più a cuore, la tranquillità, il far nulla. Quell’uomo “non aveva riguardo per alcuno”, quindi nemmeno per un avvertimento a mio giudizio terribile cui ben pochi, allora e ancor di più oggi, prestano attenzione, quello di Isaia 10.1-4, “Guai a coloro che fanno decreti iniqui e scrivono in fretta sentenze oppressive, per negare la giustizia ai miseri e per frodare del diritto i poveri del mio popolo, per fare delle vedove la loro preda e per defraudare gli orfani. Ma che cosa farete nel giorno del castigo, quando da lontano sopraggiungerà la rovina? A chi ricorrerete per protezione? Dove lascerete la vostra ricchezza? Non vi resterà che curvare la schiena, o cadere fra i morti” (Isaia 10.1-4).

Le parole del “giudice disonesto” sono chiare, eppure Gesù dice “Ascoltate ciò che dice”, quindi “fatene tesoro”, “meditate”: ci troviamo di fronte a una parabola che riguarda la preghiera solo apparentemente, per quanto siano possibili molte applicazioni su di essa, perché in questo caso il vero scopo di Gesù è rincuorare tutti coloro che si aspettano giustizia da Lui quanto a provvedimenti verso persone che magari li opprimono, ne hanno approfittato o comunque patiscono le conseguenze di trovarsi in una condizione di debolezza rispetto a una prepotenza come probabilmente era per questa vedova.

“Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che giorno e notte gridano verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente”, che un’altra versione scrive “li vendicherà”. Occorre sottolineare che un altro testo, dopo “aspettare a lungo”, aggiunge “benché sia lento ad adirarsi per loro” in quanto Gli preme il recupero del peccatore. Ritengo questo testo più rispondente al pensiero originale di Gesù, perché mette molto bene in evidenza il contrasto fra l’impazienza dell’uomo, che vorrebbe tutto subito nonostante la pratica spirituale ne abbia attenuato le aspettative, e il metodo di Dio, il solo che verrà a capo di ogni cosa.

Sono però le ultime parole ad indicarci che Nostro Signore si riferisce soprattutto ai tempi del Suo ritorno, “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”: sappiamo infatti che “si raffredderà l’amore di molti per il dilagare dell’iniquità”, per cui la pratica dell’ingiustizia contagerà tutti, “se possibile, anche gli eletti” ed ecco perché leggiamo che “chi persevererà fino alla fine, sarà salvato” (Matteo 24.12,13). L’apostolo Paolo scriverà “Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso” (Ebrei 10.13).

Ecco, io credo che da questo ultimo verso veniamo riportati all’inizio, alla preghiera senza stancarsi. Perché abbiamo bisogno, tanto nei momenti in cui la calma è apparente perché prelude sempre a nuove situazioni o prove, quanto ancora di più nei momenti di oppressione, della comunione con il Padre e il Figlio attraverso quei “sospiri ineffabili” mediante i quali lo Spirito Santo interviene per noi (Romani 8.26). Amen.

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05.31 – PADRE NOSTRO 1/9 (Matteo 6.9-13)

05.32 – Padre nostro – I (Matteo 6.9-13)

 

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

Se dovessi definire il “Padre nostro”, personalmente lo farei in tre modi: è una preghiera, è un modello di preghiera, è un inno con una sua struttura precisa. Partendo dall’ultima caratteristica, quella dell’inno, vediamo che ha una struttura bipartita A-B. Nella A abbiamo l’espressione di tre “speranze”, o più propriamente “lodi”, e nella B quattro preghiere anche se la formula “non indurci in tentazione”insegnata per la recitazione mnemonica è errata essendo più proprio “non abbandonarci”o “non esporci”. Ancora una volta abbiamo allora il numero 3, indice di perfezione e completezza assieme al 7 e al 10, e il 4, tipico dell’uomo o, meglio, di qualcosa di cui necessita per avere stabilità. Nella parte A, vista nelle espressioni “sia santificato il tuo Nome”, “venga il tuo regno” e “sia fatta la tua volontà”, c’è chi ha riconosciuto un andamento discendente per l’essere umano, partendo dall’alto del Suo nome giungendo all’adempimento della Sua volontà, mentre nella B troviamo un percorso ascendente, partendo dal “pane quotidiano” per arrivare alla liberazione dal maligno (o dal male che è la sua diretta emanazione). Dio si piega verso l’uomo che, se lo riconosce, ha il dovere di elevarsi e di iniziare un cammino.

Il “Padre nostro” è un modello di preghiera perché, se quel “pregate così” fosse riferito ad un’unica formula accettata da Dio significherebbe avere il possesso di una sorta di “password” e che qualunque altro contenuto sarebbe rigettato. Naturalmente non è così anche perché il parallelo di Luca è lievemente diverso e, nel Nuovo Patto, troviamo tante preghiere diverse e specifiche, frutto dello Spirito e non di memorizzazione.

Il “Padre nostro” è una preghiera anche se una parte della cristianità piuttosto radicale si vanta di non recitarla mai accusando chi la utilizza di essere un perditempo o un superstizioso sostenendo (quasi) a spada tratta che qui Gesù ci indica le cose che dobbiamo chiedere e non le parole che dobbiamo pronunciare. Personalmente non ho mai capito questo accanimento, tanto più che le varie Chiese cristiane hanno degli inni che, anche se non parlati, ripetono le stesse parole ogni volta che vengono cantati dall’Assemblea. Non capisco quindi la differenza tra una preghiera cantata qual è l’inno vero e proprio, e una recitata consapevolmente qual è appunto il “Padre nostro” che, fra l’altro, inno, oltre che preghiera, a mio giudizio è.

Le tre speranze della prima parte non hanno solo un andamento discendente, ma si riferiscono anche a tutto il piano di Dio che si è sviluppato attraverso i secoli: il Padre che abita nei cieli, nella dimensione dell’eternità che un caro fratello amava definire come “quel concetto di tempo che non ha inizio né fine”, non lasciò solo Adamo dopo la caduta, ma fece la promessa in base alla quale la progenie della donna avrebbe schiacciato il capo al serpente in attesa della venuta del regno e alla volontà finale vista in quei “Nuovi cieli e nuova terra dove giustizia abita” che saranno pronti quando il numero dei salvati sarà completo e avremo il giudizio finale sull’Avversario e tutti coloro che lo avranno seguito.

Le quattro preghiere, d’altro lato, con il loro andamento ascendente, partono dalle elementari esigenze del corpo per il suo sostentamento e terminano con la liberazione dal maligno: questa coinciderà proprio con l’avvento del Regno che costituirà la liberazione da Satana e da tutto ciò che è sua diretta emanazione. L’ultima parte del periodo A, “Sia fatta la tua volontà”, punto di arrivo del piano di Dio per l’uomo, coincide con l’ultima parte del periodo B, “Liberaci dal maligno”, punto di arrivo del percorso dell’uomo che a Lui si è affidato: lo ha fatto per quanto peccatore, per quanto imperfetto e bisognoso di cure continue, ma santificato dal sangue di Colui che, morendo sulla croce, ha compiuto il sacrificio per eccellenza, gradito a Dio “una volta per sempre” (Ebrei 10.10).

Possiamo concludere questo breve sguardo in generale sulla preghiera insegnata da Gesù con questa annotazione: abbiamo l’espressione di tre speranze, o lodi, e quattro richieste per un totale di sette elementi, preceduti da un’invocazione per un totale di otto episodi. Ecco allora che l’ottavo elemento, cioè l’invocazione, sta a significare ancora una volta il compimento, l’indirizzo perfetto a cui inviamo le nostre richieste, ben diverse da una divinità generica che non ha orecchi per udire e potenza per rispondere proprio come il Baal al quale i suoi profeti si rivolgevano nel passo che abbiamo citato nelle precedenti riflessioni, appartenete al capitolo 18 del primo libro dei Re.

 

  1. PADRE NOSTRO CHE SEI NEI CIELI

In questa pericope vengono contemporaneamente espresse le idee della prossimità e della distanza. La prima fornisce una caratteristica di Dio alla quale gli ebrei non erano abituati, essendo usi a chiamare Dio con una quantità notevole di nomi, o più propriamente attributi. Ricordiamo Elohim, in forma plurale, il primo incontrato in Genesi 1.1. Troviamo poi “El” come suffisso accompagnato a un sostantivo come ad esempio El Hane’eman (Il Dio fedele), El Elyon (Il Dio altissimo), El Olam (Il Dio d’eternità), El Echad (L’unico Dio), ma anche “il Dio d’Israele”, “del cielo e della terra” e molti altri.

Abbiamo poi il tetratramma YHVH, tradotta come “Signore”, rivelato per la prima volta a Mosé al pruno ardente: “Io sono colui che sono”, tetragramma proveniente dal verbo “essere”. Di questo nome, pronunciato da alcuni YEHOWAH e dal altri YAHVEH, non si conosce in realtà la pronuncia corretta poiché l’uso di utilizzarlo nel linguaggio parlato presso gli ebrei cessò nel 200 d.C. temendo di infrangere il comandamento “Non usare il nome dell’Eterno, che è il Dio tuo, in vano; perché l’Eterno non terrà per innocente chi avrà usato il suo nome invano” (Esodo 20.7). Oggi i rabbini spiegano che nel tetragramma è anche compreso il senso del nascondere e da qui l’impronunciabilità del Nome.

Il Dio rivelato ad Israele era quindi innanzitutto l’Unico vero, giusto e terribile, ma anche amorevole come sappiamo fu testimoniato, fin dagli inizi della storia umana, dal vestito confezionato ai nostri progenitori e dalla promessa della progenie della donna che avrebbe schiacciato il capo al serpente.

La qualifica di Dio come “Padre”, tuttavia, era quasi sconosciuta, potremmo definirla come velata e veniva usata per ricordare agli israeliti la loro ribellione. Ad esempio vediamo Isaia 1.2 “Udite, o cieli, e ascolta, o terra, perché L’Eterno ha parlato: «Ho allevato dei figli e li ho fatti crescere, ma essi si sono ribellati contro a me”. Malachia 1.6 riporta le parole di Dio “«Un figlio onora il padre e un servo il suo signore. Se dunque io sono padre, dov’è il mio onore? E se sono signore, dov’è il timore di me?» dice l’Eterno degli eserciti a voi, sacerdoti «che disprezzate il mio nome» e dite «In che cosa abbiamo disprezzato il tuo nome?».

Ora invece abbiamo questo titolo di Dio, Padre, che in tutti e quattro i Vangeli verrà utilizzato 80 volte in passaggi indicanti il legame tra il credente e Dio e tra Cristo e Colui che lo ha mandato: non è poco. Gesù quando pregava si rivolgeva a Dio chiamandolo Padre e la stessa cosa possiamo fare noi, sotto la nuova rivelazione, la nuova dispensazione, epoca, periodo della Grazia fino a quando Dio riterrà opportuno farla durare. Con la rivelazione della parola “Padre” abbiamo l’apertura di un ponte reso possibile, in tutta la sua ufficialità, con la resurrezione e ascensione al cielo di Cristo perché fu quella a sancire in modo definitivo che era Gesù e non altri il Figlio di Dio promesso.

Qui possiamo aprire una parentesi riguardante la religione in genere. Al mondo ce ne sono tante, ciascuna che propone un modello di vita più o meno austero o rigido, ciascuna che propina una o più verità e ciascuna di loro ha un fondatore. La religione implica aderire ad essa in modo più o meno radicale, comporta l’osservanza di riti e atteggiamenti che molto possono adattarsi ai versi letti tempo fa, quelli relativi al “premio” che a nulla serve. Religione a parte ci sono poi correnti di pensiero, o ideali, ai quali molti aderiscono e si impegnano con forme di attivismo più o meno accentuate. Sono però fedi basate sull’uomo. Alcune di loro possono anche sembrare positive, ma riguardano uno o più settori che, se possono far sentire meglio chi si inserisce in loro, tutto possono fare tranne che salvare perché l’unica scelta possibile in tal senso è Gesù Cristo. E dico questo non per propagandare una Chiesa o uno stile di vita religioso, ma perché posso dire di avere sperimentato personalmente di non avere alcuna alternativa o scelta che possa risolvere il problema relativo al mio essere umano.

L’ateo, colui che è convinto nel profondo che non esista alcuna forma di vita superiore o creatrice, non dovrebbe avere nessun problema perché, ritenendosi il frutto di un incidente molecolare, sa di venire dal nulla e di ritornare al nulla. Chi tuttavia non riesce a concepire come il caso abbia potuto far nascere, per quanto nei millenni, anche una semplice drosophila, s’interroga inevitabilmente su chi possa essere o quale sia stata la Forza che ha creato l’Universo: ora, il problema è che tutti i fondatori delle religioni o delle forme di pensiero ad esse afferenti, sono morti. Alcuni, quelli delle numerose sette in particolare – mi riferisco sia a quelle che hanno tratto spunto dalla Bibbia che a quelle tipo Scientology – sono morti da tempo e hanno comunque lasciato imperi economici tutt’altro che irrilevanti e avuto eredi che hanno portato avanti la loro “missione”.

Gesù Cristo, però, è stato l’unico ad essere risorto, nonostante la prima reazione dell’autorità costituita fu quella di nascondere la cosa: sappiamo infatti che i soldati posti a guardia del sepolcro in cui il corpo era stato posto, corsero a riferire ai capi sacerdoti quanto avevano visto ma quelli, “radunatisi con gli anziani, deliberarono di dare una cospicua somma di denaro ai soldati dicendo loro «Dite: i suoi discepoli sono venuti di notte e l’hanno rubato mentre noi dormivamo. E se la cosa verrà agli orecchi del governatore. Lo placheremo noi e faremo in modo che voi non siate puniti». Ed essi, preso il denaro, fecero come erano stati istruiti e questo si è divulgato fra i Giudei fino ad oggi” (Matteo 28.11-15).

Ma perché credere alla resurrezione? Per quanto mi riguarda, la lettura dei Vangeli mi ha insegnato che i discepoli di Gesù, che credettero in lui nei suoi tre anni di ministero, entrarono in crisi profonda con il suo arresto e morte. Parlano credo a nome di tutti gli altri i due discepoli sulla via di Emmaus che dissero: “…ora noi speravamo che fosse lui che avrebbe liberato Israele; invece, con tutto questo, siamo già al terzo giorno da quando sono avvenute queste cose. Ma anche alcune donne tra di noi ci hanno fatti stupire perché, essendo andate di buon mattino al sepolcro, e non avendo trovato il suo corpo, sono tornate dicendo di avere avuto una visione di angeli che dicono essere lui vivente. E alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato le cose come avevano detto le donne, ma lui non lo hanno visto” (Luca 24.21-24).

Vediamo l’incredulità di questi due discepoli che sicuramente rappresentavano quella di tutti: se non avessero visto il loro Maestro resuscitato non una, ma molte volte come leggiamo in Atti 1.3 – “Ad essi, dopo aver sofferto, si presentò vivente con molte prove convincenti, facendosi vedere da loro per quaranta giorni e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio” – se ne sarebbero tranquillamente tornati alle loro case e ai loro mestieri. Se quindi Pietro e tutti gli altri non avessero avuto la prova finale della resurrezione, non avrebbero avuto alcun interesse a propagandare una nuova dottrina che non solo non li avrebbe arricchiti, ma avrebbe fatto di loro dei perseguitati e soprattutto dei martiri. Qui, come uomo razionale, ho dovuto arrendermi perché all’evidenza non avevo era tanto l’ordine nell’Universo indice di un Creatore, ma la testimonianza di uomini come me che non avrebbero mai dato la loro vita per una persona, per quanto sapiente, buona e fautore di miracoli, che non avesse sancito le Sue parole con la resurrezione. Poi la Grazia ha fatto altro e ha prodotto l’uomo nuovo.

Gesù Cristo quindi visse, morì, risorse e salì al cielo. Come questo avvenne è narrato in Atti 1.9-11: “Dette queste cose, mentre essi guardavano, fu sollevato in alto e una nuvola lo accolse e lo sottrasse ai loro occhi. Come essi avevano gli occhi fissi in cielo, mentre egli se ne andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono loro e dissero: «Uomini galilei, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù, che è stato portato in cielo di mezzo a voi, ritornerà nella stessa maniera con cui lo avete visto andare in cielo»”. Mi fermo, purtroppo, solo sul fatto della nuvola, chiaro rimando agli episodi in cui Dio, nell’Antico Patto, manifestava la sua presenza attraverso di essa o da lei parlava. Non è che Gesù salì in cielo e continuò nella sua ascesa fino alla ionosfera e oltre: fu accolto in una nuvola ed entrò in quella dimensione così a noi lontana, ma spiritualmente non così tanto, che è quella dei “cieli” in cui il Padre Nostro abita.

Il “Padre” implica quanto l’apostolo Paolo scrive ai Romani in 8.16,17: “Lo Spirito stesso rende testimonianza al nostro spirito che noi siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi, eredi di Dio e coeredi di Cristo, se pure soffriamo con lui per essere anche con lui glorificati”. Il “Padre” è “nostro”, cioè è a noi pertinente, ci appartiene. Il “Nostro” implica relazione reciproca per cui è di ciascuno, uomo e donna, che in Lui crede. È di tutti i componenti della Chiesa, latino ecclesia, greco ek-kaleo, cioè coloro che sono “chiamati fuori” dal mondo in cui vivono. Infatti “…noi siamo debitori non alla carne per vivere secondo la carne, perché se vivete secondo la carne voi morrete, ma se per mezzo dello Spirito fate morire le opere del corpo, voi vivrete, poiché tutti coloro che sono condotti dallo Spirito di Dio sono figli di Dio. Voi infatti non avete ricevuto uno spirito di schiavitù per cadere nuovamente nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito d’adozione per il quale gridiamo «Abba, Padre»” (Ibid. v. 12-15) dove “Abba” è una parola derivante dall’aramaico traducibile con “padre” oppure il famigliare “papà”. È una relazione che si possiede, poiché un figlio è e rimane tale, ma che va al tempo stesso mantenuta e non autorizza il cristiano a comportarsi come se non fosse, appunto, un figlio.

Tornando al testo, se gli uomini di Dio dell’Antico Testamento potevano rivolgersi a Dio chiamandolo “Signore”, in Cristo ora possiamo dire “Abba, Padre”, “nostro che sei nei cieli” e che, nonostante questa distanza, è vicino e pronto ad accogliere chi lo cerca con cuore sincero e desideroso di diventare erede della promessa della vera Vita Eterna.

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05.29 – INTRODUZIONE AL PADRE NOSTRO (Matteo 6.9-13)

05.30 – Padre nostro – Introduzione I (Matteo 6.9-13)

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

            Sono due le osservazioni da fare su questo testo: la prima è che, per lo meno in questa versione, viene finalmente corretta la traduzione “non indurci in tentazione” che purtroppo è diventata di dominio comune fra molti credenti, e la seconda è che manca, dopo “liberaci dal male” la pericope “Poiché tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli” in uso presso le Comunità Evangeliche. Non si tratta di un’aggiunta, azione dalla quale i veri traduttori si guardano bene di fare, né di un’omissione (per la quale vale lo stesso principio); piuttosto è questa una frase che si trova presente non in tutti i manoscritti e riportarla o meno è una scelta. “Tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli” non si trova nella Vulgata (IV secolo), ma compare nella versione Peshito, Siriaca e in quelle Sahidica e Thelaica del II secolo per poi mancare in quella Latina, dello stesso periodo. Siccome è opinione comune che gli antichi cristiani, seguendo l’esempio ebraico, avessero l’abitudine di aggiungere questa dossologia alla fine delle loro preghiere, alcuni hanno qui individuato una reminiscenza di tale uso. Personalmente mi ritengo a favore di una sua inclusione. Prima di trattare il “Padre nostro” sezione per sezione, credo sia giusto introdurlo; per farlo dovremo inevitabilmente tornare ai versi che abbiamo già letto la volta scorsa, quelli da 5 a 8, sui quali saranno possibili riflessioni aggiuntive.

La preghiera del “Padre Nostro”, sotto certi aspetti, si può dire che sia stata l’unica ad essere insegnata da Gesù a quanti lo ascoltavano e non possiamo escludere che fu ripetuta, come modello, in più occasioni, non sempre con le stesse parole così come leggiamo e confrontiamo Matteo e Luca che ci suggeriscono così l’idea di una preghiera dalla struttura non rigida e mnemonica, ma di contenuti.

Matteo, come abbiamo visto, la inserisce nel discorso detto “della montagna” in un punto particolarmente importante, cioè dopo avere affrontato il tema della preghiera individuale; Luca la pone in un momento più generico che viene descritto con queste parole: “Mentre stava pregando in un luogo, quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni insegnò ai suoi discepoli»” (Luca 11.1). Quel discepolo dovette constatare la differenza tra il modo di Gesù di presentarsi davanti al Padre e il suo: da lì si rese conto che, nonostante la tradizione che gli era stata trasmessa, non sapeva pregare cioè gli mancavano gli elementi per relazionarsi realmente con Dio. Se una persona chiede ad un’altra di insegnargli qualcosa, ammette di non saperla fare, o di farla male.

Due furono quindi i momenti “ufficiali” in cui fu insegnato il modello che tutta la cristianità conosce a memoria, ma non si può escludere che il Signore, stante la sua importanza, lo abbia proposto, in tutto o in parte, anche in altre circostanze nonostante Marco (che scrisse sotto la supervisione dell’apostolo Pietro) e Giovanni non ne parlino. Si può essere autorizzati a fare questa supposizione perché sappiamo che i Vangeli contengono una minima parte di quello che Gesù fece e insegnò: “Vi sono ancora molte altre cose fatte da Gesù che, se si volessero scrivere una ad una, credo che il mondo intero non potrebbe contenere i libri che si potrebbero scrivere” (21.25).

Sarebbe un errore esaminare questa preghiera senza soffermarci sugli insegnamenti precedenti ad essa; per questo credo sia giusto rileggere i versi da 5 a 9 di cui ci siamo occupati nello scorso studio, che spiegano la differenza tra il metodo di ragionamento umano, orizzontale, e quello di Dio, verticale: 5E quando pregate, non siate come gli ipocriti: poiché amano starsene a pregare nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze in modo da apparire agli uomini, vi dico per certo che ricevono la loro ricompensa. 6Tu invece, quando preghi, entra nella tua stanza e, chiusa la tua porta, prega il tuo Padre, quello (che è) nel segreto, e il tuo Padre che vede nel segreto ti ricompenserà. 7Pregando, non sproloquiate come i pagani, che ritengono che saranno esauditi nella loro verbosità. 8Dunque non siate simili ad essi, poiché il vostro Padre sa di che cosa avete bisogno prima che voi lo chiediate”.

La prima impressione che si ricava da questa lettura è che essa parla di separazione: saltano subito alla mente i frammenti “non siate come”, “Tu invece” e ancora, rafforzando il concetto, “dunque non siate simili ad essi”, riferiti a due categorie ben precise, sostanzialmente accomunate alle persone che non vanno oltre alla religiosità ostentata e quindi, intenzionalmente o per ignoranza, simulano per un proprio tornaconto. L’ipocrita, termine riferito anticamente all’attore, quindi una persona che fingeva di essere colui che nella realtà non era, trova un suo collegamento, per i tempi in cui Gesù parlava alle folle o ai discepoli, con i Farisei e gli Scribi, definiti appunto ipocriti. La preghiera finta si può manifestare con due atteggiamenti: il primo è esteriore e si caratterizza con manifestazioni pubbliche fine a se stesse nei luoghi di adunanza (sinagoga) o scelti per l’occasione: non in viottoli o in quei posti isolati in cui Gesù si recava spesso, ma quelli in cui la gente passava e non poteva fare a meno di considerare le persone che vedeva pregare, in piedi e oscillando avanti e indietro come gli ebrei usano fare ancora oggi, come pie. Si trattava di una strategia portata avanti per avere un’influenza maggiore presso il popolo e che andava a rafforzare il ruolo che quei personaggi avevano nella società del tempo influendo molto più dei Sadducei, che erano in maggioranza, nelle decisioni del Sinedrio.

Tra i tanti passi dei Vangeli che parlano dei comportamenti di costoro, ricordiamo le parole “E io vi dico che se la vostra giustizia non sarà maggiore di quella degli Scribi e dei Farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Matteo 5.20) e ancor di più quell’esempio in cui Gesù mette a confronto la preghiera di Fariseo e di un pubblicano: 10Due uomini salirono al tempio a pregare, uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il Fariseo, ritto in piedi, pregava dentro di sé così: «Ti ringrazio, o Dio, perché io non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti e adulteri, e nemmeno come quel pubblicano. 12Io digiuno due volte la settimana, pago le decime su tutto ciò che posseggo». 13Il pubblicano, invece, stando da lontano, non ardiva neppure alzar gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo «O Dio, abbi pietà di me, che sono peccatore». 14Io vi dico che questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro: perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”. Anche qui abbiamo un modello di preghiera errato e uno corretto: il primo resta lì, non va oltre al semplice compiacimento personale (ecco il “premio”) che non porta ad alcun vantaggio nel suo presunto rapporto con Dio, mentre il secondo, al di là del gesto esteriore del battersi il petto, frequente in Israele al pari dello stracciarsi le vesti, porta il frutto della giustificazione addirittura in un tempo in cui Gesù non si era ancora totalmente identificato nel peccatore arrivando a morire e risorgere per lui.

La preghiera del Fariseo che abbiamo letto contiene due “Io” espliciti (“non sono come gli altri uomini” e “digiuno due volte la settimana”) e due impliciti (“Ti ringrazio” e, in osservanza alla legge,  “pago le decime”): un totale di quattro, numero che ci parla dell’uomo, ma soprattutto di stabilità e base su cui costruire e quindi dell’opinione alta, ferma e assoluta che quell’uomo aveva di sé . Nel nostro versetto 5, rileviamo un altro particolare: queste persone è scritto che “amano” fare le cose che abbiamo letto, quindi si compiacciono ancora di più nella loro religiosità ostentata che va a gonfiare il loro orgoglio che si autoalimenta all’infinito impedendo quel processo di esame interiore, di coscienza, che ogni credente è chiamato a compiere. È solo un serio e consapevole inventario delle proprie azioni che può condurre la creatura alla conclusione di essere sempre e solo un peccatore che, per vivere, ha bisogno del perdono di Dio.

Il verso 6 propone invece un profondo cambiamento di rotta, visto nel “Ma tu”. Un invito, un avvertimento personale, molto più rafforzativo di un generico “voi”. “Tu” che leggi le mie parole che un mio servo ha riportato e che sono giunte a te dopo più di 2000 anni, “tu” che mi stai ascoltando su questo monte, “tu” che vuoi esimerti dal metodo ipocrita che ti ho appena descritto o vuoi sapere come fare, “quando preghi, entra nella tua stanza e, chiusa la tua porta, prega il Padre tuo, che è nel segreto, e il tuo Padre che vede nel segreto ti ricompenserà”.

C’è qui una situazione diametralmente opposta alla precedente, tesa a dimostrare l’assoluta intimità del rapporto non più con un Dio altissimo e irraggiungibile, ma con qualcosa di molto più vicino all’uomo. La preghiera comunitaria, così necessaria nell’adorazione e in altre circostanze, passa qui in secondo piano poiché una Chiesa, per definirsi tale, non può che essere composta da persone che hanno un’esperienza privata e personale, appunto, col Padre.

Ora nell’esortazione a entrare nella propria stanza e chiudere la porta c’è un messaggio che non poteva essere ignorato dalle persone allora presenti, poiché è un riferimento alla resurrezione del figlio della Sunamita operata da Eliseo (2 Re 4.32,33) di cui è scritto “Quando Eliseo entrò in casa, vide il fanciullo morto e sdraiato sul suo letto. Egli allora entrò, chiuse la porta dietro a loro e pregò l’Eterno”. Stessa cosa farà l’apostolo Pietro per la resurrezione di Tabita (Atti 9.40) e prima delle sue visioni sul puro e impuro (10.9 e seguenti), per quanto si trovasse sul terrazzo di casa. Le rivelazioni di Dio avvengono sempre quando la persona si trova appartata, e credo non potrebbe essere altrimenti. Nella solitudine, si conosce. Chiedere onestamente l’aiuto di Dio quando si guarda in se stessi è un’azione che produce sempre un risultato.

Nel verso sesto c’è una cronologia: l’intento della preghiera, l’ingresso nella stanza e la chiusura della porta. Le prime due azioni si spiegano da sole, la terza è una condizione. La porta chiusa ci parla di scelta, di condizione seria, del lasciare fuori tutto ciò che è di impedimento tanto all’esposizione che all’ascolto. La preghiera non è mai, non può essere un elenco sterile di bisogni più o meno carnali che vengono presentati a Colui che può, ma un rapporto tra creatura e Creatore qui rivelato come Padre. La chiusura della porta non può essere qualcosa di rituale, un’obbedienza a quanto troviamo scritto in questo passo, ma l’atto finale di un processo spirituale e mentale attraverso il quale rinunciamo a noi stessi consapevoli di non poter nascondere nulla a Colui che ci ha ammessi alla Sua presenza. Il Padre tuo è “in segreto” e “in segreto ricompensa” (alcune traduzioni riportano “ti ricompenserà in palese”) perché a volte l’esaudimento è recepito dal singolo, in altre anche da quanti conoscono il nostro stato e lo vedono mutare.

L’essere “in segreto” del Padre implica la Sua perfetta lettura della coscienza e dei suoi intenti, pronta a rivelarne se del caso la sua ipocrisia e a rendere un premio ad essa proporzionato. L’essere “in segreto” ci parla della profondità del rapporto creatura redenta – Creatore: se nulla può essergli nascosto possiamo avere la certezza, nella preghiera, non tanto del suo esaudimento, ma della correttezza della sua valutazione. Il Padre “riguarda” in segreto, verbo che ci parla della Sua perfetta valutazione e conoscenza del nostro esistere che è al tempo stesso prezioso e, sotto l’ottica dei “servi inutili”, insignificante. Ricordiamo Luca 17.10 “…così anche voi, quando avrete fatto tutto ciò che vi è stato ordinato, dite: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare»”.

Il segreto può essere di Dio – i Suoi piani rivelati e non – oppure dell’uomo, temporaneo, pericoloso: quanti segreti abbiamo? Quante cose ci illudiamo di tenere nascoste? Ebbene, “Non vi è nulla di nascosto che non si debba manifestare e nulla di segreto che non venga a risapersi e non venga messo in luce” (Luca 8.17).

Dio è colui che “conosce i segreti del cuore” (Salmo 44.21) e la Sua onniscienza e onnipresenza è ben descritta nel Salmo 139 di cui riportiamo i versi 3 e 4 particolarmente adatti al tema di cui ci stiamo occupando: “Tu esamini attentamente il mio cammino e il mio riposo e conosci a fondo tutte le mie vie. Poiché prima ancora che la parola sia sulla mia bocca tu, Eterno, la conosci appieno”. E infine, un avvertimento di cui tutti noi abbiamo bisogno per il nostro avanzamento spirituale, alla luce del “premio” di cui Gesù ha parlato a proposito del pregare in modo corretto o errato: “Io, l’Eterno, investigo il cuore, metto alla prova la mente per rendere a ciascuno secondo le sue vie, secondo il frutto delle sue azioni” (Geremia 17.10), perché “Non vi è alcuna creatura nascosta davanti a lui, ma tutte le cose sono nude e scoperte agli occhi di colui al quale dobbiamo rendere conto” (Ebrei 4.13). “…e tutte le chiese conosceranno che io sono colui che investiga le menti e i cuori, e renderò a ciascuno di voi secondo le sue opere” (Apocalisse 2.23). Ecco, io credo che, nella preghiera individuale e non solo, il concetto del “segreto” sia racchiuso anche in tutti questi versi che sono stati citati.

La chiusura della porta va fatta con onestà e consapevolezza perché, se non accettiamo ciò che questo comporta, rischiamo di compiere un gesto come tanti, formale, privo di significato, sterile che non va oltre la ricompensa data alla preghiera dei Farisei, degli ipocriti. La “ricompensa” che riceve chi prega non per proprio tornaconto come visto al verso 5, ma si pone di fronte a Dio per avere una risposta – che può essere positiva o negativa – è vista nel dialogo e nella consapevolezza che la preghiera rivolta sia accolta indipendentemente da quello che chiediamo. Troppo spesso si pretende, complice anche un mancato insegnamento sulla preghiera vista più come il presentare un elenco di richieste cui si accompagnano promesse o “voti” poi non mantenuti, che il “premio”, o ricompensa, di cui Gesù parla consista nell’esaudimento di quanto chiediamo: può anche essere, ma non è il primo elemento sul quale ci si deve basare. Piuttosto, vanno tenute presenti le parole che verranno riportate più avanti in 7.11: “Se dunque voi, che siete malvagi, sapete dare buoni doni ai vostri figli, quanto più il Padre vostro, che è nei cieli, darà cose buone a coloro che gliele chiedono?”.

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