16.38 – PER QUESTO IL PADRE MI AMA (Giovanni 10.14-20)

12.38 – Per questo il Padre mi ama (Giovanni 10.14-20)   

 

17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».19Sorse di nuovo dissenso tra i Giudei per queste parole. 20Molti di loro dicevano: «È indemoniato ed è fuori di sé; perché state ad ascoltarlo?». 21Altri dicevano: «Queste parole non sono di un indemoniato; può forse un demonio aprire gli occhi ai ciechi?».

 

Con i versi 17 e 18 Gesù conclude ed amplia il suo discorso sul “buon pastore”che “dà la propria vita per le pecore”. I verbi su cui riflettere in questi versi sono “dare” (3 volte), “riprendere” (2) e “togliere” (1) che cercheremo di analizzare. All’inizio abbiamo “Per questo il Padre mi ama”che ha riferimento con le condizioni di Gesù uomo che, a differenza di tutti gli altri suoi “simili”, riuscì ad adempiere perfettamente la volontà del Padre fino ad accettare, in ubbidienza libera, di dare la Sua vita per la creatura cui sarebbe altrimenti rimasta incapace di avere un rapporto con Lui. Abbiamo letto e citato più volte il capitolo 53 di Isaia, ma ricordiamo i versi 10 e 12: “Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza – perché“primogenito di molti fratelli” –, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. (…) perciò gli darò in premio le moltitudini”.

Abbiamo quindi, nella pericope “Per questo il Padre mi ama”, non la descrizione del motivo per cui Gesù è amato come Figlio (ha infatti vita propria, è “nel seno del Padre”, parte di Lui e Lui stesso), ma per come fu assistito nel Suo corpo di carne arrivando a dare la propria vita, gesto che l’apostolo Paolo commenterà razionalmente con queste parole: “Quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”(Romani 5.6-8).

Si noti quanto contrasta il morire “per gli empi”di fronte al “per un giusto”ed ecco perché “la predicazione della croce è pazzia per quelli che periscono, ma per noi, che siamo salvati, è la potenza di Dio”(1 Corinti 10.18). Razionalmente parlando, l’amore per il peccatore, cioè per chi è “professionalmente” contrario a Dio e ai suoi voleri, è qualcosa di assurdo, contrario ad ogni logica.

Per gente quale noi eravamo prima di incontrarLo, non certo “giusti” né “buoni”, nessuno sarebbe stato disposto a morire; eppure Gesù lo fece, donandosi come spiegò ai dodici: “Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti”(Marco 10.45). Da questi elementi sgorga allora l’amore per il Padre nei confronti del Figlio che ha preso forma umana ed è importante non confondere Gesù uomo da quello glorificato, che al pari di Dio non ha nome, ma viene descritto come, salvi l’ “IO SONO”, “simile a un figlio d’uomo”nelle visioni profetiche dell’Antico e del Nuovo Patto.

 

“Dare” è un’azione che nel passo in esame si esplica attraverso tre punti, “do la mia vita”,“la do da me stesso”e “ho il potere di darla”che ci forniscono le credenziali del donatore. Il primo è un annuncio di quello che avverrà da lì a qualche mese, ma i restanti vanno più in profondità perché sottolineano la totale, libera volontà di chi la vita la offre e soprattutto rivelano che nessun altro avrebbe potuto fare così al suo posto.

Con “la do da me stesso”abbiamo l’indicazione del gesto assolutamente volontario che culminerà con la morte e quindi con l’immolazione di Gesù come Agnello, ma non possiamo ignorare il fatto che tutta la vita di Nostro Signore fu un donarsi, un “dare da me stesso”nel privato come nel pubblico, nel constatare i limiti che aveva come uomo in contrapposizione a quelli che non aveva come Dio, nel camminare, nel provare la fame, la sete, la stanchezza, nel sopportare i propri simili facendosi, appunto come abbiamo letto, servo. Credo che quando la perfezione di Dio si scontra con l’imperfezione dell’uomo, solo la carità proveniente direttamente la Lui e una ferrea volontà di salvare abbia potuto provocare il miracolo della sopportazione e dell’amore “fino alla fine”.

L’autore alla lettera agli Ebrei descriverà molto bene l’essenza umana di Gesù quando disse “Tuttavia quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti”(2.9), ma quel “di poco inferiore agli angeli”non significa che Nostro Signore fu, nella carne, a un livello intermedio fra l’uomo e Dio Padre, ma essere umano come gli altri. Ecco perché Gesù, quanto al suo essere uomo, era ed è di per sé un miracolo enorme.

Precisazione necessaria: il Salmo 8 citato in Ebrei 2.9 è un ringraziamento al Creatore per aver formato così l’uomo; “Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi: tutte le greggi e gli armenti e anche le bestie della campagna, gli uccelli del cielo e i pesci del mare, ogni essere che percorre le vie dei mari. O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!” (vv. 6-10).

Ecco allora che il “la do da me stesso”racchiude tutta la volontarietà da un lato e la meraviglia dall’altro perché, se Gesù fosse stato costretto a fare ciò che ha fatto, nulla avrebbe avuto senso: sono i regni o i governi depravati della terra che si realizzano nell’oppressione, nell’obbligatorietà e nei vincoli, non certo Dio che pone semplicemente davanti all’uomo due vie, quella della benedizione o il suo esatto contrario lasciando a lui la scelta (Deuteronomio 30.15-20).

È importante questa sottolineatura poiché ogni azione che l’uomo compie, tanto sotto costrizione quanto di malavoglia, provoca l’effetto contrario. A volte dimentichiamo che la vita cristiana non può che manifestarsi attraverso un libero e gioioso donarsi senza pensare a un tornaconto personale perché “Tenete a mente che chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà. Ciascuno dia secondo a quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia”(2 Corinti 9. 6,7). Ecco perché Nostro Signore dovette precisare che avrebbe donato spontaneamente la sua vita sotto l’aspetto non solo della morte, pur sapendo le sofferenze che avrebbe comportato.

La terza precisazione sul dono è “Ho il potere di darla”, strettamente connessa alla precedente: come già rilevato, dare la propria vita per qualcuno è un gesto che, pur ammirevole, altro non fa che rimandare la morte del beneficiato a meno che chi sacrifica la propria vita per un altro non abbia “il potere di”farlo, cioè andare oltre, rimediare, farsi garante per sempre. E questo nessun altro uomo avrebbe potuto farlo: sarebbe stato certo considerato positivamente perché “Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”(Giovanni 15.13), ma Gesù, che di dare la vita ne aveva “il potere”, lo fa perché solo così avrebbe potuto riscattare la sua creatura, quella con cui in Eden parlava e che nutriva anche lì, per quanto sotto diversa forma, donava di suo, cioè i frutti.

Credo che nessun uomo potesse definirsi più padrone della propria vita di Gesù, Signore di tutto. Eppure la donò liberamente per noi. Eppure non era obbligato a morire, ne aveva solo “il potere”che per definizione implica una scelta. E pensiamo anche a questo: a differenza di noi che abbiamo un appuntamento inevitabile – salvo che Lui non ritorni prima – con la morte, Nostro Signore poteva benissimo non fare quest’incontro, ma morendo dimostrò di condividere in tutto e per tutto, tranne che nel peccato, l’esistenza umana. Fino alla fine.

 

Ed è sul concetto di “potere” che possiamo passare al “riprendere”, “riprenderla di nuovo”, identico in tutti i due casi in cui compare. Chiaramente nessuno può riprendersi la propria vita a meno che non abbia “il potere di darla”nel senso che abbiamo visto poc’anzi. “Dare” e “riprendere”, allora, ci parlano della libertà che Dio ha di disporre della vita e della morte, quest’ultima non soggetta a lui perché conseguenza del peccato, o, come dice la Scrittura, suo “salario”. Tenendo in considerazione il potere di Gesù di deporre la sua vita e di riprenderla si può allora comprendere l’adempimento della promessa, criptica per loro, rivolta ai Giudei, “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”(Giovanni 2.19) ed è bello considerare che il potere di riprendere la vita che ha donato è in realtà il frutto dell’impossibilità da parte della morte al trattenerlo perché “Ora Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere”(Atti 2.24).

Ecco allora perché solo il Cristo può dire “Io sono il primo e l’ultimo, e il vivente. Ero morto, ma ecco sono vivo per i secoli dei secoli, e tengo le chiavi della morte e dell’Ades”(Apocalisse 1. 17,18).

 

Ora resta da esaminare l’ultimo verbo, “togliere”, visto nella pericope “Nessuno me la toglie”che ha connessione, come rilevato più volte, con l’impossibilità che avrebbero avuto gli uomini avversi a Gesù di fargli alcunché se non fosse stato loro permesso. In altri termini, quelli sottostarono alla Sua volontà anche nell’arrestarlo, processarlo, condannarlo e crocifiggerlo. Ricordiamo infatti tutti i tentativi andati a vuoto perché fosse “tolto di mezzo”prima del tempo stabilito tanto a Nazareth quanto a Gerusalemme. “Nessuno me la toglie”nel senso anche di “può togliermela” e molto avrebbero da meditare in proposito coloro che sostengono che Gesù non poteva essere Dio perché Dio non può morire, sofisma farisaico che non tiene conto, perché la rifiuta, della risurrezione dopo tre giorni.

 

Le ultime parole di Gesù nel nostro passo sono “Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio”, ma va sottolineato che la parola “entolé” significa anche “mandato”che pare più appropriata perché nulla lascia supporre, negli scritti dell’Antico e del Nuovo Patto, che il Figlio sia stato costretto a donarsi in sacrificio, senza contare il fatto che, come detto poco prima, l’adesione a Dio sia tutto tranne che frutto di costrizione.

Il “mandato” di Gesù credo piuttosto consistesse nella libertà del dare la vita e di riprenderla con tutto ciò che questo avrebbe comportato: ciò viene ufficializzato nel momento storico della morte e resurrezione, ma in realtà si trattava di qualcosa che Padre, Figlio e Spirito Santo avevano concordato assieme prima ancora di stabilire tutte quelle leggi che governeranno gli equilibri dell’Universo e la vita sulla terra.

Assieme a tutto questo, c’erano anche i nostri nomi secondo Efesi 1.4: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà”.

Gli ultimi due versi del nostro passo descrivono la reazione dei Giudei che iniziano a dividersi in due fazioni una delle quali, la minoranza, fu in grado di collegare il principio del “buon pastore”e alla vita che sarebbe stata data e ripresa al miracolo del cieco nato: “Queste parole non sono di un indemoniato– constatazione oggettiva, diagnosi alla luce della conoscenza biblica che avevano e di quanto constatavano personalmente –; può forse un demonio aprire gli occhi ai ciechi?”. C’era dunque chi aveva conservato memoria di quel miracolo, avvenuto certo da poco tempo, eppure prontamente, volutamente dimenticato dagli altri che accusarono Gesù di essere “indemoniato e fuori di sé”, la stessa accusa a lui rivolta dai “suoi” parenti, presumiamo madre e fratelli, in Marco 3.21.

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