16.34 – IL SERMONE PROFETICO 7: L’ABOMINIO DELLA DESOLAZIONE (Matteo24.15-12)

16.34 – Il sermone profetico 7: l’abominio della desolazione (Matteo 24.15-22)

 

15Quando dunque vedrete l’abominio della desolazione, di cui parlò il profeta Daniele, stare nel luogo santo – chi legge comprenda -, 16allora quelli che sono in Giudea fuggano ai monti, 17chi si trova sulla terrazza non scenda a prendere la roba di casa, 18e chi si trova nel campo non torni indietro a prendersi il mantello. 19Guai alle donne incinte e a quelle che allatteranno in quei giorni. 20Pregate perché la vostra fuga non accada d’inverno o di sabato. 21Poiché vi sarà allora una tribolazione grande, quale mai avvenne dall’inizio del mondo fino a ora, né mai più ci sarà. 22E se quei giorni non fossero abbreviati, nessun vivente si salverebbe; ma a causa degli eletti quei giorni saranno abbreviati.

 

Ci siamo occupati di una buona parte di questi versi quando, nel nostro quindicesimo blocco, abbiamo affrontato il tema “Quando verrà il regno di Dio”, ripartito in quattro capitoli. Allora era Luca il narratore e riferì che tutta l’esposizione di Gesù fu originata dall’analoga domanda dei farisei. Ecco allora che cercheremo di affrontare l’argomento tenendo sempre presente quanto già esposto, ma cercando di offrire nuovi spunti, primo fra tutti la citazione del profeta Daniele, che nell’episodio di Luca manca.

Trovandoci di fronte ad un campo immenso, per il cui sviluppo non basterebbe una vita, dobbiamo affrontarlo nella sua essenzialità più stringente. In Daniele troviamo l’espressione “abominio devastante” in tre passi, ciascuno riferito ad altrettanti momenti storici ben distinti e cioè l’esercito romano, che nel 70 operò la distruzione del tempio, Antioco Epifane (o Mitridate), che dal 167 al 164 a.C. abolì qualsiasi sacrificio a YHWH, ed infine all’ultimo tempo, quando opereranno la Bestia e il falso profeta.

Vediamo il primo caso, reperibile nella profezia delle settanta settimane in cui alla seconda metà del verso 27 leggiamo “…farà cessare il sacrificio e l’offerta; sull’ala del tempio porrà l’abominio devastante, finché un decreto di rovina non si riversi sul devastatore”. Si tratta con ogni probabilità delle insegne romane, idolatrate dai legionari, che svetteranno sulle rovine del Tempio.

La seconda citazione si trova in 11.31 ed è riferita ad Antioco Epifane (Mitridate) che abbiamo già citato: “Forze da lui armate si muoveranno a profanare il santuario della cittadella, aboliranno il sacrificio quotidiano e vi metteranno l’abominio devastante”.

Terzo caso, in 12.11, ci parla, come anticipato, “del tempo della fine”; disse infatti l’Angelo a Daniele: “«Va’, Daniele, perché queste parole sono nascoste e sigillate fino al tempo della fine, Molti saranno purificati, resi candidi, integri, ma gli empi agiranno empiamente: nessuno degli empi intenderà queste cose, ma i saggi le intenderanno. Ora, dal tempo in cui sarà abolito il sacrificio quotidiano e sarà eretto l’abominio devastante, passeranno milleduecentonovanta giorni. Beato chi aspetterà con pazienza e giungerà a milletrecentotrentacinque giorni. Tu, va’ pure alla tua fine e riposa: ti alzerai per la tua sorte alla fine dei giorni»” (12.8-13).

Guardando a questi tre passi è chiaro che “l’abominio devastante” è da inquadrarsi sempre nell’idolatria, in un sistema di culto che pretenderà di sostituirsi in toto a quello a Dio e, per farlo compiutamente, dovrà avvenire nell’unico luogo legittimo per il popolo di Israele, cioè nel Tempio. L’Avversario infatti, essere comunque già sconfitto avendo rigettato la santità, non può accontentarsi di vie secondarie, ma cercherà sempre di riprodurre l’originale da cui proviene ed ecco perché le sue attenzioni saranno sempre rivolte al Tempio. “L’abominio della desolazione” è quindi l’orrore del culto idolatrico degli dèi pagani, che fu organizzato sotto Antioco sulle rovine del Tempio di Gerusalemme dal 15 dicembre del 167 al 25 del 164 (1105 giorni). La stessa cosa, per quanto in modalità differenti e con forza ancora maggiore perché interesserà tutto il mondo, avverrà “al tempo della fine” per il quale, come abbiamo letto, vengono impiegati termini analoghi, “sarà eretto l’abominio devastante”. “Eretto”, non “installato”, quindi ciò avverrà dopo un lungo lavoro, più che di costruzione in senso stretto, di convincimento e di studio. Questo abominio, l’ultimo, sarà il capolavoro dell’Avversario. E credo che un ruolo determinante in tutto questo lo assumerà la cosiddetta “intelligenza artificiale”.

Ai tempi di Antioco, sopra quello che fu l’altare degli olocausti, ne venne posto uno dedicato a Giove e dopo dieci giorni venne imposto il culto in cui i Giudei dovevano sacrificare, sotto pena di morte in caso di disubbidienza, dei maiali che, una volta offerti, andavano mangiati. Questo stato di cose durò, come scritto, fino al 25 dicembre – data di nascita del dio Sole e non di Gesù – 164, quando il Tempio fu riconsacrato da Giuda Maccabeo.

 

A questo punto però sorge un problema, e cioè se prendessimo alla lettera le parole di Gesù “Quando vedrete l’abominio della desolazione (…) posta nel luogo santo”, implicherebbe un riconoscimento tardivo, cioè una Gerusalemme già presa e occupata dai Romani dopo l’assedio e tutti gli assalti perpetrati. Né, sotto questo aspetto, aiuterebbe Luca 21.20 che scrive “Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, allora sappiate che la sua distruzione è vicina”. Fuggire da una città circondata è infatti impossibile. Devono esservi quindi altri particolari, altri eventi, che vanno cercati. Ricordo un episodio particolare avvenuto sotto Pilato, che fu procuratore dal 26 al 36: quando si insediò, ordinò alla guarnigione di Gerusalemme di entrare in città con le loro insegne decorate con l’immagine dell’imperatore. Conscio del carattere dei Giudei e della loro suscettibilità religiosa, non fece entrare le truppe di giorno, ma di notte e con le immagini coperte. Le truppe si erano però insediate vicine al Tempio (nella fortezza Antonia) e la loro vicinanza a quel luogo sacro diede il via a manifestazioni durate cinque giorni e relative notti per chiedere a Pilato di rimuoverle. Vivaci proteste avvennero anche quando, tempo dopo, Pilato volle far appendere dei semplici scudi in onore di Tiberio nel palazzo: immediate proteste e lettere all’imperatore. Abbiamo già citato l’episodio di Caligola nel 40 che intendeva inserire nel Tempio una sua statua, cosa non avvenuta a causa della sua morte, ma possiamo aggiungere che proprio lì era stato imposto un sacrificio giornaliero (di intercessione) per l’imperatore con un bue e due agnelli offerti alternativamente dal Governo di Roma e dal popolo ebraico.

Credo che, assieme alla presenza romana con le loro insegne da loro venerate, sia stato questo il segno, per coloro che credettero nelle parole di Gesù, assieme alle “guerre e voci di guerre”, di abbandonare precipitosamente Gerusalemme: infatti, poco dopo, Eleazaro, figlio dell’ex sommo sacerdote Anania, ordinò che il sacrificio ordinato dai Romani fosse interrotto e mai più ripreso perché YHWH poteva essere solo il Dio di Israele. Ciò avvenne nel 68 circa. Da lì alle prime battaglie all’interno della città il passo fu breve: nel volgere di poco tempo (un mese) fu dato alle fiamme il palazzo di Erode e proseguirono i massacri, da ambo le parti. In seguito, vi furono molte azioni di guerriglia che videro i Giudei vittoriosi in molti episodi.

C’è poi l’inspiegabile episodio di Cestio Gallo che, raccordandoci all’episodio al citato passo di Luca “Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti…”, dopo essere riuscito ad entrare in città con le sue truppe ed aver occupato il quartiere di Betesda e averlo dato alle fiamme, raggiunto il palazzo reale accampandovisi – altro richiamo a “l’abominio della desolazione” –, avendo combattuto duramente contro gli zeloti per cinque giorni e avendoli praticamente sconfitti, improvvisamente ordinò all’esercito di ritirarsi (le ragioni di questa decisione sono ancora oggi motivo di dibattito fra gli storici). Cestio, così facendo, offrì praticamente il fianco ai nemici che inseguirono l’esercito in marcia infliggendogli pesanti perdite fino alla rovinosa disfatta di Beth Horon che costò ai Romani più di cinquemila morti e la perdita dell’aquila. Ecco allora, credo, risolto il problema relativo ai due passi di Matteo e di Luca: dati questi due segnali, “l’abominio devastante” e “Gerusalemme circondata da eserciti”, inequivocabili per i credenti, viene posta in rilievo l’urgenza di scappare per evitare un assedio dal quale sarebbe stato impossibile uscire vivi. Dovrei aver già citato Eusebio di Cesarea (265-340) il quale afferma che i cristiani, obbedendo a un ordine profetico, fuggirono tutti a Pella, a Nord della Perea, evitando così “le calamità che sommersero la nazione”.

 

Riprendendo Luca 21, abbiamo importanti integrazioni al passo di Matteo: “Coloro che si trovano nella Giudea, fuggano ai monti, coloro che sono dentro la città, si allontanino, e quelli che stanno in campagna non tornino in città; quelli infatti saranno giorni di vendetta, affinché tutto ciò che è stato scritto si compia” (vv. 21,22). Le parole “non torni indietro a prendersi il mantello” in Matteo sono del traduttore che ha ritenuto di interpretare così ciò letteralmente è “non torni verso ciò che è rimasto indietro” (poi citando il mantello), passo che non indica solo qualcosa che si è lasciato magari appeso al ramo di un albero: è una frase che ci parla dell’urgenza della chiamata, il fatto che così come si è si viene presi, il tempo che manca, il “ricordatevi della moglie di Lot” (Luca 17.32). Quello che si cela dietro questo verso è proprio il fatto che ciò che abbiamo su questa terra, da noi conquistato a fatica o che ci sia stato donato non importa, non è mai un traguardo, ma qualcosa che abbiamo in prestito, non nostro, che presto o tardi saremo chiamati a restituire o a lasciare.

Non tornare “verso ciò che è rimasto indietro” è allora un modo per dire: siate proiettati sempre verso il vostro futuro spirituale, fate attenzione a ciò che può rallentarvi”. Certo, fatte le proporzioni del caso, perché c’è sempre il rischio che uno si spogli di molte cose e che poi non sappia cosa fare, tornando ad essere quello di prima. Credo che, una volta raggiunto interiormente lo stadio della disponibilità all’abbandono, sia il Signore stesso a organizzare l’impiego del cristiano che vuole essere operativo, mai il contrario. Troppe volte ho visto persone fallire perché, figurativamente parlando, hanno voluto percorrere strade lungo le quali non erano state chiamate, oppure in preda all’entusiasmo si sono messi a costruire “case e torri” senza avere materiali per realizzarle. Al contrario, il Vangelo ci dice che nessuno spazio dev’essere dato all’improvvisazione e che la fede non è mai un atto temerario, ma sempre, fortemente, responsabile. Fermarsi a pensare, calcolare, fare bilanci tenendo comunque presente la domanda di Gesù ai Suoi, “Quanti pani avete?”.

Il verso 21, “Poiché vi sarà allora una tribolazione grande, quale mai avvenne dall’inizio del mondo fino ad ora né mai più ci sarà”, è chiaramente riferito alla città e ai suoi abitanti. Potremmo leggere i libri di storia, alcuni dei quali molto dettagliati sull’argomento scritti anche in tempi recenti, cercare in Rete ogni tipo di notizie, ma credo che a commento bastino le parole di Deuteronomio 28.53-57: “Durante l’assedio e l’angoscia alla quale ti ridurrà il tuo nemico, mangerai il frutto delle tue viscere, le carni dei tuoi figli e delle tue figlie che il Signore, tuo Dio, ti avrà dato. L’uomo più raffinato e più delicato tra voi guarderà di malocchio il suo fratello e la donna del suo seno e il resto dei suoi figli che ancora sopravvivono, per non dare ad alcuno di loro le carni dei suoi digli, delle quali si ciberà, perché non gli sarà rimasto più nulla durante l’assedio e l’angoscia alla quale i nemici ti avranno ridotto entro tutte le tue città. La donna più raffinata e delicata tra coi, che per delicatezza e raffinatezza non avrebbe mai provato a posare in terra la pianta del piede, guarderà di malocchio l’uomo del suo seno, il figlio e la figlia, e si ciberà di nascosto di quanto esce dai suoi fianchi e dei bambini che partorirà, mancando di tutto durante l’assedio e l’angoscia alla quale i nemici ti avranno ridotto entro tutte le tue città”.

Infine, il verso 22, anche qui non perfettamente tradotto perché al posto di “vivente” andrebbe messo “carne”, che pone molto più del primo l’accento su cosa è l’uomo senza la presenza in lui di Gesù. È un termine che ci rimanda a Genesi 6.3, “Lo Spirito mio non contenderà per sempre con l’uomo poiché, nel suo traviamento, egli non è altro che carne” (versione Diodati). È stato calcolato che, su tre milioni di persone, all’assedio ne sopravvissero quarantamila. C’è poi uno sguardo importante, una panoramica sui tempi a venire che riporta Luca in 21.24: “Cadranno a fil di spada e saranno condotti prigionieri in tutte le nazioni; Gerusalemme sarà calpestata dal pagani finché i tempi dei pagani non saranno compiuti”.

“Ma a causa degli eletti quei giorni saranno abbreviati”: questi non possono essere i credenti che si trovavano in città, perché erano già fuggiti proprio ascoltando le parole di Gesù che stiamo esaminando. Piuttosto, credo si tratti di coloro che lo sarebbero diventati un giorno, loro o i loro figli, per i quali la misericordia di Dio agisce e agirà sempre, fino alla fine. Amen.

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01.18 – DINAMICHE (Matteo 2-7-12)

01.18 – Dinamiche (Matteo 2.7-12)

 

7Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella 8e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo».
9Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. 10Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. 11Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. 12Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.
”.

 

Satana, il calcolatore, il tecnico, lo psicologo per eccellenza che si prefigge come unico scopo quello di agire contro i progetti di Dio nei riguardi dell’uomo al fine di perderlo, doveva fare tutto ciò che era in suo potere pur di avere ragione su Colui che lo avrebbe sconfitto. Perché là dove c’è un piano di salvezza, ce n’è anche uno di perdizione ordito dal “principe di questo mondo”. Lo fa da sempre. Questo piano iniziò una volta constatata la libertà, gratuità e ricchezza di relazione che l’uomo aveva in Eden e proseguì di pari passo con le varie epoche: pensiamo alla dispensazione della coscienza quando suscitò il pensiero omicida in Caino, al rifiuto all’obbedienza in quella della Legge, a Erode quando nacque Gesù e poi via, attraverso tutti i persecutori della vera Chiesa; solo il giudizio definitivo su di lui e relativi angeli potrà fermarlo una volta per sempre.

Ora, a proposito di Erode, riflettiamo un attimo su quanto sappiamo sulla biografia di re, imperatori o dittatori piccoli e grandi indipendentemente dall’epoca in cui sono vissuti: tutti loro hanno sempre teso ad esaltare la loro immagine perché dotati di un ego smisurato, adoratori in primis di loro stessi e disposti a tutto pur di garantirsi la sopravvivenza, oltre che propria, di quanto hanno costruito. Nella lettura dei testi storici abbiamo incontrati tanti, eroi negativi tanto nella Bibbia quanto al di fuori. La tecnica di questo piccolo despota è stata la seguente: trovandosi di fronte una delegazione di persone autorevoli che non lo avevano cercato dando molta più importanza a quel re che sarebbe stato davvero vittorioso e liberatore, Erode ritenne di non allarmarli facendoli scortare dai suoi uomini fino a Betlehem, e li chiamo “segretamente” – il fare di nascosto le cose è già indice di cospirazione contro qualcuno – informandosi nei dettagli sul motivo della loro visita, su come avevano fatto a sapere di quella nascita, sul loro viaggio e soprattutto da quanto tempo era apparsa la stella. Erode aveva quindi un piano di riserva, come dimostrò successivamente, per uccidere il bambino. Il re voleva usare i magi come informatori inconsapevoli, ma soprattutto il reale disegno (satanico) prevedeva che il bambino Gesù fosse ucciso dagli uomini di Erode proprio grazie ai dati forniti da chi che era venuto da lontano a rendergli omaggio. Era questa una beffa che, per l’Avversario, avrebbe rappresentato una grande sottolineatura alla sua eventuale vittoria contro progetto di Dio.

Il verso della stella che “giunse e si fermò sul luogo dove si trovava il bambino” si potrebbe raccordare a quanto è riportato in Giosuè 10.12-15 che narra l’episodio in cui Israele sconfisse gli Amorrei che, come è noto, fu interpretato letteralmente dalla Chiesa del 1600 quando, tramite il Sant’Uffizio, condannò Galileo per eresia: “«Fermati, sole, su Gabaon, luna, sulla valle di Aialon». Si fermò il sole e la luna rimase immobile finché il popolo non si vendicò dei nemici. Non è forse scritto nel libro del Giusto? Stette fermo il sole nel mezzo del cielo, non corse al tramonto un giorno intero. Né prima, né poi vi fu un giorno come quello, in cui il Signore ascoltò la voce di un uomo, perché il Signore combatteva per Israele” (12-15). Se quindi in via teorica il Creatore non avrebbe avuto difficoltà a “fermare una stella”, in realtà non fece nulla del genere, ma semplicemente raccordò la dinamica del viaggio dei magi e del luogo in cui suo Figlio si trovava a quella della congiunzione dei pianeti, vista la volta scorsa, in cui termina il moto diretto “da – a” per iniziare quello retrogrado: in quel momento sembra, a chi lo osserva, che “la stella” si fermi. Sono perfettamente consapevole di usare termini primitivi, rudimentali; tuttavia chi volesse approfondire in merito esistono studi molto interessanti, reperibili in Rete, editi dall’Osservatorio Astronomico di Genova a cura di Giuseppe Veneziano e Marco Codebò sia riguardo alla “stella dei Magi”, ma ancor di più sull’astronomia nei testi biblici.

Giunti a quel punto e constatato il fenomeno, i Magi capirono di essere arrivati a destinazione: per loro era il coronamento non solo di un lungo viaggio (800 km), ma di attese secolari che si erano tramandati da generazioni e l’idea che avessero di un salvatore dell’umanità che sarebbe nato ci conferma quanto fosse andato in profondità nel cuore e nella mente di queste persone l’insegnamento di Daniele, tramandato nei secoli e che si raccordava ai profeti venuti prima di lui.

Non sappiamo dove “la stella si fermò”: c’è chi traduce con “casa”, chi con “luogo”, ma è evidente che i Magi arrivarono quando Maria non era più impura secondo la Legge e che quindi avesse potuto trovare ospitalità presso dei parenti, probabilmente gli stessi che non avevano potuto accoglierla quando stava per partorire. Giuseppe non era presente e i Magi si prostrarono – come davanti al re che attendevano – e lo adorarono – lui, non sua madre – vale adire esternarono tutto il loro sentimento reverenziale, riconoscendo in lui chi avrebbe esteso il suo dominio spirituale su tutti i popoli. La loro conoscenza era quella che si tramandavano da generazioni basata su forse poche, ma per loro certe profezie e sono certo che vadano riconosciuti anche nel Salmo 72.9-12 di Salomone: “A lui si pieghino le tribù del deserto, mordano la polvere i suoi nemici. I re di Tarsis e delle isole portino tributi, i re di Saba e di Seba portino doni. Tutti i re si prostrino a lui, lo servano tutte le genti, perché egli libererà il misero che lo invoca e il povero che non trova aiuto”. Adorare presuppone il fatto che si riconosca a chi riceve quel gesto una dignità e un potere unico, riconoscendo l’inferiorità assoluta di chi la porge. Al prostrarsi dei magi si accompagnava un profondo sentimento interiore e non escludo che, per le modalità con cui si manifestò loro “la stella”, riconoscessero in Lui anche il re del creato.

Mi sorge spontaneo paragonare i due sentimenti descritti al verso 3 (“All’udire questo Erode fu turbato e con lui tutta Gerusalemme”) e il 10 (“Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima”), due opposti. Citando le parole di un fratello, “Il turbamento cui il testo si riferisce non caratterizzò solo Erode, ma soprattutto le autorità religiose del popolo d’Israele che dimostrarono, con il loro stile di vita, di non aspettare affatto il promesso Messia e di avere una profonda ignoranza delle scritture profetiche malgrado la lettura continua nel Tempio e nelle Sinagoghe. Ancora oggi molti celebrano il Natale di Cristo, ma non fanno mai proprio il Suo Vangelo e la dottrina degli Apostoli. Natale dunque non è espressamente la giornata nella quale dimostrare di essere necessariamente buoni, dove le strette di mano accompagnate da frasi di circostanza trovano fondamento solo in tradizioni pagane: quelle stesse mani che si stringono diventano poi da calde a tiepide e quindi fredde, dure, violente”. I Magi furono annunciatori della nascita di Gesù a un popolo che a parole attendeva un Messia che avrebbe dovuto portarlo a una vittoria materiale, non certo spirituale.

Dopo l’adorazione, ecco i doni che non ebbero un significato umano, ma profetico, premesso che secondo l’uso del tempo i re non ricevevano delegazioni che non portassero con sé degli omaggi.

 

  1. 1. ORO

era probabilmente quello di Ofir, estratto nella regione di Avila, che aveva 24 carati. Il suo significato, come per gli altri doni, è fondamentale: l’Avila era bagnata dal fiume Pison, primo dei quattro che prendevano origine dall’unico fiume che usciva dal giardino di Eden e che significa “Primogenito”; il Pison anticipa e presenta la persona e la nascita di Cristo, definito anche “Il primogenito di ogni creatura”. L’oro poi aveva connessione “pratica” con lo stato regale del bambino che gli attribuivano i Magi riconoscendo in Lui la Sua presenza nel tempo: re era e sarebbe stato sempre e per sempre, come del resto l’oro, che è inattaccabile dagli agenti chimici. L’oro, nella Scrittura, ha sempre connessione con l’essere di Dio, mentre l’argento con quella dell’uomo.

 

  1. 2. INCENSO

il riferimento è alla divinità di Cristo e al tempo stesso è figura della preghiera che sale verso l’alto. Ricordiamo che Gesù, nella Sua vita terrena, rimase sempre in contatto col Padre anche per mezzo di lei. Non sappiamo la composizione dell’incenso che gli portarono i magi, ma quella che i sacerdoti bruciavano sull’altare a lui dedicato, quello detto anche dei profumi, era costituito da quattro componenti in parti uguali, che si bruciavano al mattino e alla sera. “Sarà da voi ritenuta cosa santissima, Non farete per vostro uso alcun profumo di composizione simile a quello che devi fare: lo riterrai una cosa santa in onore del Signore. Chi ne farà di simile, per sentirne il profumo, sia eliminato dal suo popolo. (Esodo 30.34). Non è azzardato, per estensione, paragonare ai componenti dell’incenso ai quattro Vangeli che solo amalgamati, connessi e armonizzati tra loro possono dare un quadro esaustivo del messaggio di Dio per l’uomo. È in questo incenso che risiede la verità come in Cristo ne abita tutta la pienezza. Essendo l’incenso un profumo, viene spontaneo paragonarlo al Suo sacrificio.

 

  1. 3. MIRRA

proveniente da Avila come i primi due doni, ha un significato diverso, ci parla di morte e di sofferenza. La mirra è una resina che esce dalla pianta spontaneamente o per incisione praticata sulla corteccia, per poi raccoglierla una volta essicata. Gli egiziani la usavano nella mummificazione, era uno dei componenti dell’olio per l’unzione sacra non solo dei componenti per il culto ebraico, (candelabro, tenda del convegno ed altri), ma anche dei sacerdoti. La mirra, oltre che profumo, è un disinfettante e un analgesico (vedi il vino mescolato alla mirra che i soldati romani offrirono a Gesù sulla croce); inoltre, sarà portata da Nicodemo per seppellire Gesù: “Vi andò anche Nicodèmo, quello che in precedenza era andato da lui di notte, e portò una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre. Essi presero allora il corpo di Gesù, e lo avvolsero in bende insieme con oli aromatici, com’è usanza seppellire per i Giudei.” (Giovanni 19: 39-40). Con quei doni, quindi, i magi resero al bambino anche un onore profetico.

 

Fu un sogno ad avvertire i magi di non passare da Erode, avvenimento che ci parla dell’universalità del messaggio che, da lì a trent’anni circa, sarebbe stato dato all’umanità: quei sapienti, che per manifestare i loro sentimenti di adorazione avevano percorso su carovana migliaia di chilometri, scelsero una strada diversa per tornarsene al loro paese, probabilmente costeggiando il Mar Morto.

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