16.22 – Il primo dei comandamenti (Marco 12.28-34)
28Allora si avvicinò a lui uno degli scribi che li aveva uditi discutere e, visto come aveva ben risposto a loro, gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». 29Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; 30amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. 31Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi». 32Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; 33amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». 34Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
Dalla lettura del testo di Marco parrebbe che, terminata la questione posta dai sadducei esaminata nello scorso capitolo, si sia fatto avanti uno scriba sottoponendo a Gesù un nuovo tema; in realtà l’episodio coi sadducei si era concluso con le parole di Luca “Non osavano più rivolgergli alcuna domanda” (20-39), “Allora i farisei, avendo udito che aveva chiuso la bocca ai saducei, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della legge, lo interrogò per metterlo alla prova” (Matteo 22.34). Passò quindi un certo tempo tra un episodio e l’altro, poiché “i farisei si riunirono insieme”, presumibilmente nella sala del Sinedrio, poco distante da dove Nostro Signore si trovava. Certo il fine della domanda dello scriba era quello, ancora una volta, di “metterlo alla prova”, ma credo senza la malizia che aveva caratterizzato tutti gli altri che in quel giorno si erano rivolti a Lui. Questo lo dimostra sia il commento al verso 32, ”Hai detto bene, Maestro, e secondo verità” con relativo commento, sia le parole di Gesù, “Non sei lontano dal regno di Dio”.
Tra l’altro, viene anche da pensare che la persona in questione fosse la stessa che gli disse “Maestro, hai parlato bene” nella disputa coi sadducei, facendo il confronto col verso 28, “visto come aveva ben risposto a loro”. Se così fosse avremmo una progressione spirituale perché dall’approvazione alla risposta ai sadducei si passerebbe a una richiesta “per metterlo alla prova”, ma non “per tentarlo”. Il fatto poi che secondo Marco questa persona fosse uno scriba e per Matteo un Dottore della Legge, non deve far gridare alla contraddizione perché le qualifiche di scriba, fariseo e dottore non erano così rigide, ma piuttosto si trattava di competenze, per cui vi erano soli scribi, ma anche scribi, farisei e dottori al tempo stesso.
La domanda posta a Gesù, per gli studiosi delle Scritture, non era semplice ed era molto dibattuta perché, a fronte delle 365 proibizioni e ai 248 obblighi della Legge, si ammetteva che ve ne fossero di più o meno gravi, ma districarsi fra le leggi sui sacrifici, il sabato, la circoncisione, le abluzioni e altri punti era per loro impossibile nel senso che non arrivavano mai a un parere unitario in merito. La frase in risposta al problema del “primo di tutti i comandamenti”, tra l’altro, la leggiamo anche prima della parabola del ”buon samaritano” quando “Un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?» Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gesù gli disse: «Hai risposto bene, fa’ questo e vivrai»” (Luca 10.25-28).
In quell’occasione quel dottore riportò il testo di Deuteronomio 6.5, ma qui abbiamo la citazione dello Shemà, la preghiera che ogni ebreo devoto, allora come oggi, ripete al mattino e alla sera essendo ritenuta la più sacra e che inizia appunto con “Ascolta, Israele!” e poi prosegue con lo stesso testo oltre a 11.13-21 e Numeri 15.37-41. Credo che, a proposito dei due episodi, si tratti di due approcci diversi al problema: nel primo caso un dottore dà una risposta a una domanda di Gesù, nel secondo è Lui stesso a fornirla, ma presentandola come ovvia e unica possibile in quanto a portata di mano di chiunque la recitava; quindi tutti, compreso il popolo minuto, l’aveva memorizzata, ma la ripetevano meccanicamente, con maggiore o minore enfasi, senza riuscire ad andare oltre le semplici parole del testo. Un po’ come accade con la Chiesa di Roma. Qualcuno l’ha definita “La grande confessione della fede nazionale nel Dio vivente e personale”, ma non credo si andasse oltre.
Nel passo di Deuteronomio e nello Shemah si trovano tre elementi, cuore – anima – forza (tradotta anche “maggior potere”), ma nelle parole di Gesù quattro poiché aggiunge “la mente” e sappiamo che il quattro, numero dell’uomo, ha qui riferimento alla sua totalità, quindi ciò di cui è capace a livello tanto costruttivo quanto affettivo.
Sì, ma a questo punto uno potrebbe dire che si tratti di belle parole, ma impossibili da realizzare perché non si può amare in modo così totale un essere in cui si crede, per quanto con forza. È un’affermazione vera e al tempo stesso deviante, che non tiene conto della realtà del tempo in cui il verso fu scritto e soprattutto di ciò che è la fede, che non viene da altro se non dall’esperienza. La fede non è mai un’ipotesi o una speranza, ma si fonda sulla certezza di ciò che si è davanti a Dio. È la dimensione dell’essere con Lui, si esprime così. E qui abbiamo la necessità non di ubbidire, ma dell’acquisire perché, senza di questo, possiamo avere solo una sterile riproduzione di un precetto. Con l’acquisizione, invece, abbiamo elaborazione ed espressione piena e consapevole. Ecco perché Gesù disse “Il mio giogo è dolce e il mio peso leggero” (Matteo 11,30).
Il testo di Deuteronomio 6.5 riporta parole di Dio ad Israele che non furono pronunciate prima: in altri termini, quel comandamento fu emanato quando il popolo aveva dentro di sé, in memoria collettiva, tutti gli interventi che Lui aveva fatto nei suoi confronti e poteva trarre da solo le conclusioni del caso. YHWH non chiedeva un amore senza basi, ma fondato sul fatto che Lui aveva amato per primo, dandone dimostrazione attraverso gli adempimenti alle Sue promesse
Ricordiamo in proposito le parole in Esodo 20: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile” (v.2), che in concreto, per allora, aveva significato questo: “Resero loro amara la vita – gli Egiziani – mediante una dura schiavitù, costringendoli a preparare l’argilla e a fabbricare mattoni, e ad ogni sorta di lavoro nei campi. A tutti questi lavori li obbligarono con durezza. (…) Gli israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio”. (Esodo 1.14; 2.23). E tutti sappiamo le modalità con cui la liberazione avvenne, dalle dieci piaghe dalle quali il popolo fu risparmiato al passaggio del mar Rosso alla manna, all’acqua. L’amare il Signore, quindi, non era qualcosa di richiesto senza presupposti, ma il naturale evolversi di una relazione.
Il libro dell’Esodo è quello del cammino, del percorso fra la schiavitù in un paese straniero alla terra promessa ed è per questo che le vicende del popolo, quanto a cadute e liberazioni, insegnano molto al credente che è impegnato in un cammino simile e che, una volta liberato dal peccato, non può fare altro che amare il Suo Liberatore, pur con tutte le limitatezze del caso dovute alla carne in cui è prigioniero. Conoscerà momenti di entusiasmo e di sconforto, di aderenza e lontananza, insomma l’avverarsi di quel “tempo per ogni cosa” di cui parla Salomone in Ecclesiaste 3.1-15 che, al di là della veridicità delle parole anche in senso letterale, spiritualmente presenta tutte le fasi della vita interiore dell’essere umano di fronte alle quali non può opporsi.
Le parole che Gesù dà con riferimento alla gestione dell’amore per Dio, che abbracciano la totalità dell’uomo, sono “cuore” e “anima”, cioè coinvolgono la vita affettiva e la personalità, la parte razionale (“mente”) e la “forza”, quindi la possibilità di espressione in un insieme paragonabile al profumo, che sappiamo doveva essere realizzato con parti uguali dei suoi componenti. Se si amasse solo col cuore, si cadrebbe nel sentimentalismo causa di tanti fraintendimenti. Se si amasse solo con la mente, diventeremmo degli aridi, dei teorici, degli insensibili. Se usassimo solo la forza, saremmo degli asceti fini a loro stessi, con solo l’anima vivremmo una vita di contraddizioni perché essa è la nostra psiche: quindi è nella misura in cui i quattro elementi convivono in noi che avremo possibilità di evitare errori di condotta, nella testimonianza e naturalmente nella nostra relazione con Dio.
Una volta conosciutoLo, potremo amarlo. Non prima, che è piuttosto il tempo dedicato alla ricerca, alle domande. Così si potranno realizzare le conseguenze di cui al Salmo 1: “Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella vita dei peccatori e non siede in compagnia degli arroganti, ma nella legge del Signore trova la sua gioia, la sua legge medita giorno e notte. Egli sarà come un albero piantato lungo corsi d’acqua, che dà frutto a suo tempo: le sue foglie non appassiscono e tutto quello che fa, riesce bene. Non così, non così i malvagi, ma come pula che il vento disperde: perciò non si alzeranno i malvagi nel giudizio né i peccatori nell’assemblea dei giusti, poiché il Signore veglia sul cammino dei giusti, mentre la via dei malvagi va in rovina”.
Credo che, al di là della perfetta intellegibilità di questo Salmo, sia necessario considerare che la beatitudine non si realizza perché ci si esenta dal frequentare persone negative, ma nel trovare gioia nella “legge del Signore”, per noi nella Sua Parola, e relativa, continua meditazione. Credo che sia una concreta descrizione di cosa significhi “Amerai il Signore Iddio tuo”. Il punto chiave non è nell’evitare malvagi e peccatori, neppure il meditare giorno e notte, ma la “gioia” che deriva dallo stare “nella legge del Signore” nei termini che abbiamo usato.
Nonostante siamo credenti, nonostante come tali siamo protetti dall’amore di Cristo, senza quel “medita giorno e notte”, riferimento alla continuità nel tempo e non a una vita senza sonno, non avremmo la “gioia” che porterà a 2 Corinti 9.7, “Dio ama chi dona con gioia”. Il costretto, il riluttante, l’abitudinario, il non spontaneo, sono incompatibili. Senza meditazione sulla Parola, senza una vita equamente impostata, cadremo vittime prima di noi stessi e poi di altri.
Il Salmo prosegue poi con il paragone dell’ “albero piantato lungo i corsi d’acqua”, quindi senza avere il problema del patire le conseguenze della siccità, essendo comunque ben radicato, con foglie che non appassiscono né per la mancanza di piogge e neppure per un giudizio come fu nel caso del fico sterile che iniziò a morire proprio a partire dalle foglie.
C’è poi il malvagio, del quale non è detto che per forza condurrà una vita terrena tribolata o pagando per le sue colpe mentre è nel corpo (per quanto così avviene per molti di loro), ma che non sarà in grado di sopravvivere nonostante creda il contrario: “non si alzerà nel giudizio” cioè ne sarà schiacciato, né potrà in alcun modo comparire nell’ “assemblea dei giusti”, vale a dire partecipare alla “festa di nozze” e alla nuova creazione.
Tornando al nostro testo, Gesù prosegue dicendo “Il secondo è questo”: in ordine di importanza e come conseguenza del primo nel senso che, se l’amore per il Signore sarà autentico, quello per il prossimo sarà la diretta conseguenza. Definendolo “secondo” Nostro Signore stabilisce un rapporto di reciprocità, vale a dire che non può esistere amore autentico per Dio senza un amore altrettanto autentico per il prossimo. Anche qui non si tratta di un sentimento generico, ma questa volta di immedesimazione, cosa che Gesù ha fatto arrivando a dare sé stesso in sacrificio per noi.
A ben vedere, la frase “Non c’è comandamento più grande di questi” appare curiosa, perché avrebbe dovuto dire “non ci sono comandamenti più grandi”, ma il fatto che “comandamento” sia al singolare e “questi” al plurale ci parla di come, pur essendo distinti, si compendiano reciprocamente.
Il principio, lo abbiamo letto, fu compreso da quello scriba che lo commentò arrivando ad esprimere un concetto che Gesù espose più volte, vale a dire che quanto contenuto nel comandamento/i valeva “più di tutti gli olocausti e i sacrifici”, quindi di quegli aspetti che, per quanto ordinati, potevano diventare degli atteggiamenti esteriori, delle formalità da adempiere e presto dimenticare.
Una simile affermazione, frutto di un ragionamento importante, rendeva quell’uomo “non lontano dal regno di Dio”, cioè vicino, ma non dentro. Aveva capito molto, ma non abbastanza perché non serve essere “buoni” o comprendere dei princìpi o praticarli, ma occorre essere salvati, accettare quel dono gratuito che eleva la persona da creatura a figlio. A quello scriba mancava ancora quel senso di desolazione infinita ed altrettanto infinita inadeguatezza che si prova nel momento in cui ci si confronta con Colui che è, la consapevolezza della immensa distanza per cui si chiede di appartenergli tramite l’unico intervento risolutivo possibile visto nel sacrificio di Gesù. Amen.
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