12.34 – IL PASTORE DELLE PECORE (Giovanni 10.1-6)

12.34 – Il pastore delle pecore (Giovanni 10.1-6)   

 

1 «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. 2Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. 3Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. 4E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. 5Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». 6Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.

 

Il capitolo decimo si apre con questo discorso di Gesù, l’ultimo a Gerusalemme prima di lasciarla intraprendendo il viaggio missionario che verrà riportato da Luca, portandosi nei dintorni della città e nella regione di Betania. Le parole che abbiamo letto vengono subito dopo la netta distinzione fra “coloro che non vedono” destinati a ricuperare la vista a seguito di un Suo intervento, e “quelli che vedono” affinché “diventino ciechi”.

Tutta la prima parte del capitolo 10, da 1 a 21 che suggerisco di leggere per avere una panoramica dell’intero discorso, è dedicata al tema del pastore contrapposto ad altre figure come il “ladro o un brigante”, “il guardiano”, “un estraneo”, “tutti quelli venuti prima di me”, “il mercenario”, “la porta delle pecore”, “le altre pecore che non provengono da questo recinto”, che andranno analizzate.

Gesù fa questo discorso ai farisei presenti, ma anche difronte ad altri testimoni, quelli che lo seguivano perché attratti dalle Sue parole e soprattutto dalla guarigione poco prima avvenuta del cieco nato. Dobbiamo pensare che quel giorno si verificarono quattro eventi straordinari e cioè prima il miracolo, poi l’inchiesta del Sinedrio che si concluse con la scomunica del guarito dalla Congregazione di Israele e la sua annessione al gruppo dei discepoli, che non lasciarono certo indifferenti coloro che seguivano la “cronaca cittadina”. Difficile pensare che, fra i testimoni di questi fatti, vi fossero dei pettegoli; piuttosto quanto avvenuto non solo quel giorno, ma anche prima – pensiamo al paralitico di Betesda – aveva costretto le persone a interrogarsi con domande importanti, pensiamo a “Come può un peccatore compiere segni di questo genere?”, ai “molti credettero in lui”, a quelli che dicevano “È buono” contrapposti a quelli che sostenevano “No, inganna la gente” o alla frase “Il Cristo, quando verrà, compirà forse segni più grandi di quelli che ha fatto costui?”.

Ecco chi furono le persone, oltre ai farisei, che ascoltarono le parole di questo capitolo che sono precedute da due “In verità”, cioè “Amen”.

Proviamo ad esaminare a questo punto il verso 1, “Chi non entra dal recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro o un brigante”. Il “recinto delle pecore” costituiva il perimetro dell’ovile, costruzione quadrangolare cintata da un muro costituito da pietre in cima al quale si piazzavano dei rami spinosi tanto per impedire alle pecore di uscire, quanto per evitare l’ingresso di animali predatori. In ciascuno dei lati del quadrato vi era una porta che, nel caso di grandi greggi, era veniva aperta o chiusa dall’assistente del pastore, presente anche di notte.

L’ovile è quindi il recinto delimitato con cura e i farisei presenti, con la loro cultura, avrebbero immediatamente dovuto porre mente alle parole di due profeti al riguardo, Geremia 50.6 “Gregge di pecore sperdute era il mio popolo, i loro pastori le avevano sviate, le avevano fatte smarrire per i monti; esse andavano di monte in colle, avevano dimenticato il loro ovile” ed Ezechiele 34.16 che profetizzava l’opera di Nostro Signore come Dio: “Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia”. Qui è facile il raccordo alla parabola del “buon samaritano” che compie le medesime azioni nei confronti di un uomo caduto “nelle mani dei briganti”, figura presente anche qui assieme al “ladro”.

“Ladro e brigante” è una persona dedita professionalmente all’infrazione del comandamento “non ruberai”, ma anche “non ucciderai”. Ricordiamo alcuni passi per questa prima figura: “se un ladro viene sorpreso mentre sta facendo una breccia in un muro e viene colpito e muore, non vi è per lui vendetta di sangue. Ma se il sole si era già alzato su di lui, vi è per lui vendetta di sangue. Il ladro dovrà dare l’indennizzo: se non avrà di che pagare, sarà venduto in compenso dell’oggetto rubato” (Esodo 22.1,2); “Quando un uomo dà in custodia al suo prossimo denaro od oggetti e poi nella casa di costui viene commesso un furto, se si trova il ladro, quest’ultimo restituirà il doppio”; infine Deuteronomio 24.7 dove abbiamo il ladro nella sua massima forza negativa: “Quando si troverà un uomo che abbia rapito qualcuno dei suoi fratelli tra gli Israeliti, l’abbia sfruttato come schiavo o l’abbia venduto, quel ladro sarà messo a morte. Così estirperai il male in mezzo a te”.

Il “brigante”, invece, è per definizione una persona armata che assale la gente in aperta campagna, approfittando del fatto che, in una zona isolata, non è possibile alcuna difesa. Tanto il ladro che il brigante, come nella parabola citata, non hanno nessuna pietà ed esistono solo per la rovina altrui. Eppure, secondo l’opinione di Ben Sira, “Meglio un ladro che un mentitore abituale” (Siracide 20.25), tutte comunque figure riferite all’Avversario e ai suoi angeli, cioè tutti coloro che si rendono suoi strumenti.

“Chi vi sale da un’altra parte”, tornando al testo, lo fa perché spera di passare inosservato agli occhi del portinaio e certo non “entra per la porta”, la più sorvegliata. Certo il “ladro e brigante” non agisce di giorno, confidando nel fatto che proprio di notte sia più facile che il custode dell’ovile possa addormentarsi.

Il “portinaio”, quattro nei grandi recinti cioè uno per varco, è figura della rimozione di qualsiasi ostacolo alla dottrina della salvezza per grazia, totalmente chiusa a coloro che non riconoscono Gesù Cristo ed il fatto che i portinai fossero dislocati ai punti cardinali, questo è indice di custodia e inattaccabilità, inaccessibilità da parte di estranei. Si tratta quindi di un incarico di responsabilità, come per i pastori umani individuabili in Marco 13.32,37: “Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo, né il Figlio, eccetto il Padre – perché è lui l’artefice della creazione e del recupero della Sua creatura dopo la caduta –. Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portinaio di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino, fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!”.

È fondamentale quindi che il compito di “portinaio” venga svolto con fedeltà e rigore perché si tratta di un ufficio conferito direttamente da Dio che ci rimanda ai Cherubini posti a salvaguardia della via di Eden quando leggiamo che “Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto. Scacciò l’uomo e pose a oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada guizzante, per custodire la via dell’albero della vita” (Genesi 3.23,24). Eden come territorio fisico perfetto, assoluto e spirituale contrassegnato dalla presenza di Dio esiste quindi ancora, ma in quanto tale è irraggiungibile dall’essere umano avendo la creatura perduto tutte le caratteristiche che aveva nel momento in cui fu formato. La “polvere della terra” col quale era stato plasmato era solo una sorta di “ingrediente base”, ma il suo essere divenuto “anima vivente”, perfetto a tal punto da vedere Dio senza subire la morte, è ormai da tempo un fatto remoto.

I Cherubini sono quindi la figura perfetta del portinaio: svolgono la loro opera incessante così come incessante dev’essere la veglia ricordata da Gesù e conosciamo bene la parabola delle dieci vergini e delle cinque di loro che si addormentarono dando prova di non avere onorato il compito loro affidato: dovevano organizzarsi in modo tale da non rimanere senza olio, oltre a non  addormentarsi.

Tornando al nostro testo, dopo queste prime tre figure, il ladro, il brigante e il portinaio, Nostro Signore dedica a lui il rimanente spazio: “il pastore delle pecore entra dalla porta”, è il padrone del gregge, tutte le sue azioni sono improntate alla chiarezza e alla logica della circostanza; “chiama le pecore per nome”, altro riferimento proprio a Mosè che doveva essere colto da coloro che si avevano detto “Noi siamo discepoli di Mosè”: “Mosè disse al Signore: «Vedi, tu mi ordini: «Fa’ salire questo popolo», ma non mi hai indicato chi manderai con me; eppure hai detto «Ti ho conosciuto per nome, anzi hai trovato grazia ai miei occhi»” (Esodo 33.12).

Chiamare “le pecore per nome”, a parte i riferimenti al gregge naturale perché così avviene in quel contesto, si riferisce alla conoscenza che ha il pastore dei suoi animali, della loro natura e fragilità più volte sottolineata in questi scritti, ma soprattutto ha a che fare con il nostro nome, “scritto nel libro della vita”: il credente è stato infatti chiamato da Gesù “per nome”, quello scritto “fin dalla fondazione del mondo” senza conoscerlo, ed ha risposto.

Il pastore conduce fuori al pascolo le sue pecore che, sentendo la sua voce, sanno di essere al sicuro. Viene chiamato così in causa l’udito spirituale, quello che è al tempo stesso naturale e richiede attenzione, quella necessaria per non fraintenderne il timbro: “Un estraneo non lo seguiranno”. Quindi “le chiama per nome, le conduce fuori” e “va davanti a loro”, azioni che attestano la reciprocità perché le pecore appartengono al pastore come lui al gregge e in quell’ andare “davanti a loro” è un chiaro riferimento a 1 Pietro 2.21 che recita “Cristo patì per noi, lasciandoci un esempio, perché ne seguiamo le orme”.

Poi abbiamo il non seguire “l’estraneo”, cioè chi non parla come lui, ha una voce diversa. Anche se costui le chiamasse, non gli darebbero retta. L’apostolo Paolo, scrivendo ai Galati, li esorta allo stesso udito spirituale e alla cautela di fronte a qualsiasi messaggio, soprattutto quello che simula una verità che è ben lungi da possedere: “Ma se anche noi stessi, oppure un angelo dai cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia anàtema! L’abbiamo già detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi annuncia un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema!” (1.8,9). Paolo scrive queste parole perché i membri di quella comunità erano rimasti turbati, e alcuni di loro si erano convinti, a fronte della predicazione di alcuni giudei cristiani, che la salvezza richiedeva l’osservanza della Legge di Mosè. Possiamo capire quanto fosse preoccupato perché la Galazia comprendeva quelle città in cui aveva predicato e fondato delle Chiese, come Licaonia, Iconio, Listra, Derba e Antiochia di Pisidia.

Infine abbiamo il verso 6, “Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro”: questi “essi” sono chiaramente i Suoi avversari, che nonostante gli esempi contenuti nei profeti in Ezechiele 34 e Zaccaria 11, per non parlare dei passi in cui il Messia viene presentato come il pastore supremo, non capirono, ancora prigionieri del loro ragionamento che respingeva qualsiasi collegamento spirituale. Non avevano capacità di astrazione e di armonizzare i testi a loro disposizione che era impossibile non avessero studiato. Piuttosto si avveravano le parole di Zaccaria 11.9: “Non sarò più il vostro pastore. Chi vuole morire muoia, chi vuole perire persica, quelle che rimangono si divorino pure fra loro”.

La stessa cosa avviene anche oggi sia per gli eredi dei farisei che per tutti coloro che vorrebbero capire il Vangelo e il messaggio cristiano a patto che venga filtrato, più che dai loro gusti, dalle loro esigenze personali. Ma, se una persona “non è delle mie pecore”, non potranno mai venirne a capo. Amen.

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05.34 – PADRE NOSTRO 4/9 (Matteo 6.9-13)

05.35 – Padre nostro – IV (Matteo 6.9-13)

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

 

SIA FATTA LA TUA VOLONTÀ COME IN CIELO COSÌ IN TERRA

Con questa terza e ultima dossologia abbiamo il punto ideale di congiunzione tra il credente e Dio Padre; sicuramente è la più impegnativa e responsabilizzate perché ci chiama in causa davvero in modo diretto. Sono convinto che, quando molti cristiani recitano il “Padre nostro”, non pensino che in realtà s’impegnino di fronte a Dio in modo categorico perché, a prescindere dalle richieste che rivolgiamo davanti al Trono della Sua Grazia, chiediamo che venga fatta la Sua volontà e non la nostra. E il nostro essere naturale viene così a trovarsi, obiettivamente, davanti a un muro, a ciò che è il perimetro del nostro territorio, dell’ambito in cui viviamo contrapposto alla volontà di Dio che può essere, come spesso avviene, diversa dalla nostra.

Tutto ciò ci porta a Gesù, che sperimentò nella sua perfezione e totalità il dolore e l’angoscia giungendo pregare perché gli fosse risparmiato l’immenso patire che avrebbe subito dall’arresto alla crocifissione e, infine, la morte. Sofferenza non solo fisica, ma spirituale, quella che più lo opprimeva. Gesù stesso è il primo riferimento a quel “Sia fatta la tua volontà” perché ne ha dato il più illustre esempio. Leggiamo il testo: “Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Ghetsemani, e disse ai discepoli: «Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare». E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciòa provare tristezza e angoscia. E disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me». Andò un poco più avanti, cadde faccia a terra e pregava, dicendo: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!». Poi venne dai suoi discepoli e li trovò addormentati. E disse a Pietro: «Così, non siete capaci di vegliare con me una sola ora? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Si allontanò una seconda volta e pregò dicendo: «Padre mio, se questo calice non può passare via senza che io lo beva, si compia la tua volontà». Poi venne e li trovò di nuovo addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti. Li lasciò, si allontanò di nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole”(Matteo 26.36-44).

Personalmente rilevo in questi versi che Gesù, nonostante avesse perfettamente chiaro fin dall’inizio del suo ministero pubblico, ma anche prima della fondazione del mondo, che lo scopo della prima sua venuta sulla terra sarebbe stato quello della morte in croce, qui inizia a provare un sentimento assolutamente umano (ricordiamo che sudò sangue, a differenza di Adamo che col sudore del volto si sarebbe guadagnato il pane). Non si trattava della paura del dolore fisico, ma di quello morale e spirituale che sarebbe consistito nell’abbandono del Padre che avrebbe provato per la prima e unica volta. Quel grido, “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” non credo possa essere descritto, quanto a significato di sofferenza, con termini adeguati. Eppure, nonostante questo, Nostro Signore dichiara “Sia fatta la tua volontà” mettendosi in secondo piano rispetto al volere del Padre che era il risultato di un piano concordato dalle tre persone racchiuse nella parola “Elohim” e raffigurate nel tetragramma YHWH.

Poi, notiamo che Gesù rivolse al padre la richiesta di non bere quel calice per tre volte, non una di più, a conferma di un comportamento assolutamente dignitoso, di una preghiera in cui la consapevolezza di venire ascoltato a prescindere dall’esaudimento era l’elemento più importante.

La meravigliosa e perfetta dignità con la quale Nostro Signore accettò il suo ultimo compito, dall’arresto all’ultima parola sulla croce, poi, ci presenta tra gli infiniti spunti di riflessione quanto fosse stata reale, vera l’accettazione della volontà del Padre: Gesù non cede mai. Non si lamenta. Non ha un solo movimento o frase inconsulti giungendo a rifiutare l’anestetico che i soldati romani porgevano ai condannati. “Sia fatta la tua volontà”,principio che per Lui rappresentava una fonte di nutrimento: “Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera”(Giovanni 4.34). E il “compiere” comportava bere quel “calice” a Lui riservato e di cui chiedeva, se possibile, che gli fosse risparmiato.

Un secondo esempio lo troviamo in Atti 21 in un contesto molto particolare: l’apostolo Paolo aveva terminato il suo viaggio attraverso la Macedonia e la Grecia e intendeva tornare a Gerusalemme. Dice il testo: “…giungemmo a Cesarea ed entrati nella casa di Filippo l’evangelista, che era uno dei Sette, restammo presso di lui. Egli aveva quattro figlie nubili, che avevano il dono della profezia. Eravamo qui da alcuni giorni, quando scese dalla Giudea un profeta di nome Agabo. Egli venne da noi e, presa la cintura di Paolo, si legò i piedi e le mani e disse: «Questo dice lo Spirito Santo: l’uomo al quale appartiene questa cintura, o Giudei a Gerusalemme lo legheranno così e lo consegneranno nelle mani dei pagani». All’udire queste cose, noi e quelli del luogo pregavamo Paolo di non salire a Gerusalemme. Allora Paolo rispose: «Perché fate così, continuando a piangere e a spezzarmi il cuore? Io sono pronto non soltanto ad essere legato, ma anche a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù», E poiché non si lasciava persuadere, smettemmo di insistere dicendo: «Sia fatta la volontà del Signore»(Atti 21.8-14).

Qui siamo in un contesto diverso, in cui gli interessati sono dei credenti che manifestano il loro affetto spirituale e umano legato ad un ambito personale: consci del valore dell’apostolo e di tutto quello che aveva fatto per loro, rifiutano l’idea che Paolo potesse subire una sorte a lui “sfavorevole”, dimenticandosi che il solo che può disporre veramente della vita e stabilire i percorsi di ciascuno di loro sia in realtà il Padre. La resa manifestata dalle loro ultime parole, le sole che Luca riporta in modo preciso, risiede proprio in quel “Sia fatta la volontà del Signore”dalle quali rileviamo l’accettazione di quei credenti del piano di Dio per Paolo. È un verso molto bello perché ci insegna che, per quanto sia lecito pregare in base alle nostre aspettative, l’importante è la Sua “volontà” e non la nostra. Sicuramente quei cristiani accettarono il fatto che l’apostolo partisse per Gerusalemme come un esaudimento alla loro preghiera, capendo che le vie del Signore possono essere differenti da quelle che ci aspettiamo. E giunto là, Paolo fu arrestato nel Tempio e dovette successivamente affrontare il tribunale ebraico.

Conseguenza diretta di questo episodio, spiritualmente, è l’atteggiamento raccomandato a tutti i veri cristiani: “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare per poter discernerela volontà di Dio, cioè che è buono, a lui gradito e perfetto” (Romani 12.2). Sono parole importanti che ci rivelano ciò che da soli non sapremmo. Vivendo in questo mondo, per lo più circondati da gente che vive un sistema che pensa unicamente alla propria sopravvivenza inevitabilmente a danno di altri sempre e comunque, abbiamo l’invito a non conformarci a lui, cioè adeguarsi alla sua mentalità, ai suoi metodi di vita, ai suoi obiettivi che sono innati anche in noi e si sviluppano dal preciso momento in cui ascoltiamo la nostra carne e la sua volontà. Il lasciarsi trasformare, poi, implica un’azione docile, un lasciarsi trasportare senza resistenza perché in quel caso porremmo una forza di attrito a quella benefica dello Spirito. Resistere a qualcosa implica fatica, ma opporsi allo Spirito comporta un danno al nostro stato di “nuova creatura” che rimarrebbe inevitabilmente penalizzata. Solo rinnovando il nostro modo di pensare antico, nel quale purtroppo a volte torniamo, è possibile “discernere la volontà di Dio, cioè che è buono, a lui gradito e perfetto”. Anche questo è racchiuso in quel “Sia fatta la tua volontà” ed ecco perché ho scritto che, per chi recita il Padre nostro indipendentemente dal fatto che lo utilizzi come preghiera recitata o modello, sono parole che impegnano profondamente e non possono venire pronunciate alla leggera, non confermandole con un comportamento – impegno consono all’importanza che rivestono. Pronunciarle significa porre la nostra persona in secondo piano dichiarando la nostra disponibilità ad accettare qualunque progetto che Dio ha per noi.

Successivamente Gesù ci indica dove debba compiersi questa volontà e lo fa citando la totalità dei luoghi coinvolti, il cielo e la terra. È una congiunzione tra i due elementi, il planare perfetto del volere del Padre che dall’alto, o meglio dalla dimensione perfetta dello spirito, la quarta, arriva fino a noi. Obiettivamente, presa alla lettera la prima parte, sembrerebbe una richiesta senza senso, poiché il Padre agisce indipendentemente dalla volontà dell’uomo, non ha chiesto il permesso a nessuno quando ha dato inizio alla creazione e neppure il nostro prima di farci venire al mondo; anzi, dalla lettura di Giobbe 38.8-41 emerge quanto siano distanti la nostra conoscenza, volontà e possibilità dalle sue. Ricordiamo parte delle parole di questo passo: “Cingiti i fianchi come un prode: io ti interrogherò e tu mi istruirai: quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri? Dimmelo, se sei tanto intelligente! (…) Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite e gli ho messo chiavistello e due porta dicendo «Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde»?(…) Da quando vivi, hai mai comandato al mattino e assegnato il posto all’aurora, perché afferri la terra per i lembi e ne scuota i malvagi, ed essa prenda forma come creta premuta da sigillo e si tinga come un vestito e sia negata ai malvagi la loro luce e sia spezzato il braccio che si alza a colpire? Sei mai giunto alle sorgenti del mare e nel fondo dell’abisso hai passeggiato? Sei mai giunto fino ai depositi della neve, hai mai visto i serbatoi della grandine, che io riserbo per il giorno della sciagura, per il giorno della guerra e della battaglia?”.

Ecco, in questo dialogo abbiamo un racconto di alcune fasi della creazione e del diluvio, che non esistono nel libro della Genesi, da cui traspare la perfetta scienza e autonomia di Dio. Allora la risposta alla domanda sul perché di una simile richiesta nel “Padre nostro” non può essere se non il voler aderire ancora una volta e con forza al progetto del Creatore: è una dichiarazione totale che, come già detto, non può essere pronunciata alla leggera, ritualmente, distrattamente, ma richiede piena partecipazione non come atteggiamento, ma come condivisione. “Sia fatta la tua volontà” è una confessione, è la dichiarazione mediante la quale ci riconosciamo dei subordinati a lui perché la volontà che si deve compiere non può essere che la sua, come comprese quel lebbroso che disse a Gesù “Signore, se tu vuoi, puoi guarirmi” (Marco 1.40). Sappiamo che fu quella frase a suscitare in Nostro Signore la compassione, cioè a immedesimarsi nella sua condizione che contemplava sì la malattia, ma anche tutto quel sentimento di riverenza, fede e non pretesa. “Se tu vuoi, puoi”, è una frase che potremmo definire parente stretta di quel “Sia fatta la tua volontà” espressa nel Padre nostro.

La volontà del Padre in cielo è un riferimento a tutto ciò che non conosciamo relativamente ai Suoi piani, alla totalità di quel creato che possiamo soltanto intravedere e dal quale siamo stati esclusi per quanto riguarda la nostra vita in una terra in cui sperimentiamo costantemente le conseguenze del peccato dei nostri progenitori. Esprimere la preghiera per cui sia fatta la volontà del Padre in cielo come in terra, esprime l’adorazione profonda dell’uomo al suo Dio: “Il Signore ha posto il suo trono nei cieli e il suo regno domina l’universo. Benedite il Signore, angeli suoi, potenti esecutori dei suoi comandi, attenti alla voce della sua parola. Benedite il Signore, voi tutte sue schiere, suoi ministri che eseguite la sua volontà” (Salmo 103.19-21). Amen.

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