07.25 – CINQUE CANTICI V.V (Isaia 53.10-12)

7.25 – Cinque cantici V-V (Isaia 53.10-12)

 

10Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con i dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. 11Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. 12Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli”.

 

Se nelle riflessioni precedenti abbiamo visto ciò che il Servo ha dovuto subire dagli uomini a Lui avversi e in particolare i loro piani per risolvere il problema che costituiva la Sua predicazione – ricordiamo le parole “tolto di mezzo” e “sradichiamolo dalla terra dei viventi, di lui non rimanga alcun ricordo” – il verso 10 inizia con un “Ma” che contrappone la loro volontà a quella di Dio. Allora leggiamo che “…al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori” nel senso che ha dato il proprio benestare al fatto che gli uomini potessero fargli ciò che avevano in animo, ma – attenzione – non fu mai nulla di più di quanto era stato stabilito: ricordiamo che ci fu un solo momento fissato per questo e che solo in quell’istante ebbero potere su di Lui. Possiamo pensare quando a Nazareth intendevano buttarlo giù da una rupe, a quando vollero farlo re dopo aver moltiplicato i pani e i pesci, a quando “caddero a terra” dopo che Gesù, al Getsemane, disse “Sono io”.

Quindi l’uomo, che mai come nel momento in cui aveva Nostro Signore nelle mani si sentì autonomo e libero di fargli ciò che voleva, in realtà si mosse all’interno di confini ristretti e ben precisi. Ricordiamo che non ebbe potere neppure sul Suo corpo poiché non fu consentito ai torturatori di spezzargli neppure un osso. Così scrive Giovanni in 19.31-37: “Era il giorno della Parasceve– il giorno della preparazione della festività del sabato – e i giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato (era infatti un giorno solenne quel sabato), chiesero che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via. Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui. Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue ed acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso». E un altro passo della Scrittura dice ancora: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto»”.

In particolare il primo riferimento possibile è all’agnello pasquale, cui era comandato che nessun osso gli fosse rotto (Esodo 12. 3-14 e Numeri 9.12).  E “Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato” (1 Corinti 5.7) quale Agnello di Dio perfetto. Il primo riferimento all’Antico Patto attese circa 1500 anni prima di adempiersi nel sacrificio di Gesù e la pericope “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” è di Zaccaria 12.10, cioè circa 500 anni prima che Cristo assumesse una forma umana. Il Cristo doveva venire “trafitto” e certo quell’anonimo soldato, dandogli quel colpo, non immaginava di adempiere ciò che era stato stabilito. L’uomo, quindi, non fa mai in ogni caso ciò che vuole, ma solo quello che Dio gli consente.

Proseguendo nella lettura del decimo verso del canto, l’attenzione di Isaia si focalizza sul Servo, che “si offrirà in sacrificio di riparazione”. E qui risiede il mistero a lungo tempo nascosto nella storia sul perché sia richiesta una vita innocente per pagare il prezzo del peccato: chi ha un animo sensibile prova disagio in questo, al fatto che dal peccato di Adamo ed Eva sia sempre stata una vita estranea alla trasgressione a subirne le conseguenze, ma se ci pensiamo si tratta di un pensiero non correttamente formulato ed influenzato dalla repulsione che suscita la morte di un animale. Dobbiamo pensare che ai nostri progenitori era stata affidata la tenuta responsabile del territorio di Eden e che la sopravvivenza di tutto quel santo ecosistema, in cui morte e violenza non esistevano, dipendeva da loro perché superiori a tutti gli altri esseri viventi essendo dotati di libero arbitrio e di coscienza. Astenendosi dal cibarsi del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male a vantaggio di quello della vita, rinnovavano quotidianamente l’amore per il loro creatore da un lato, per loro stessi dall’altro perché in tal modo mantenevano l’equilibrio di quella vita perfetta che si rifletteva su tutto il creato che erano chiamati ad amare e difendere. La morte non esisteva quindi né per loro, né per tutte le altre creature. Il fatto che fossero nudi e non se ne vergognassero significa anche che la temperatura di quell’ambiente rendeva superfluo qualunque vestito che riparasse dal freddo, dal vento, dalle intemperie e dal disagio. Ogni cosa era permeata dalla presenza di Dio e dalla loro. L’assenza del vestito, inoltre, stava ad indicare che non vi era nulla da nascondere, non vi erano riserve in quel rapporto, la fiducia era totale tanto fra creature che fra loro e il creatore.

Col peccato il primo sacrificio avvenne proprio in Eden: l’uomo, divenuto incompatibile con la santità di quel luogo, avrebbe dovuto avere un riparo, essere protetto da un vestito e Dio provvide a fargli una tunica in pelle di animale perché i nostri progenitori non sapevano come fare a coprirsi. Le foglie di fico intrecciate non servivano a nulla. Lì morì il primo, o i primi innocenti. L’animale non aveva peccato, ma subì le conseguenze del peccato dell’uomo. Da lì in poi ne morirono tanti di loro, uccisi da altri perché il disequilibrio, conseguenza della trasgressione, aveva oramai irrimediabilmente corrotto il creato. Tutti erano fuori dal Giardino di Dio.

La cultura pagana che abbiamo purtroppo acquisito fin da bambini ci ha fatto assimilare alla parola “sacrificio” qualcosa di personalmente sgradevole e ancora oggi la intendiamo in questo modo, pensando che significhi rinunciare a qualcosa di nostro; eppure “sacri-ficio” significa “faccio una cosa sacra”, quindi che appartiene a una dimensione che non è la mia, che non posso giudicare perché il mondo del sacro, se mi coinvolge, lo fa senza rendermi totalmente partecipe e non potrebbe farlo perché è lontano da me. Ho i piedi piantati per terra, non posso alzarmi in volo senza ricorrere a strumenti che mi aiutino e, in ogni caso, presto o tardi tornerò inevitabilmente al suolo. Parlo di me come uomo di carne, ovviamente.

Il sacrificio dell’innocente non è qualcosa che posso capire o giudicare, mentre ho la facoltà di scegliere se cibarmi di carne e pesce oppure no, per non essere coinvolto in morti che non condivido. Ma il fatto che il sacrificio sia “una cosa santa al Signore” è proprio quel “al Signore” che pone un confine tra le mie possibilità intellettive e la Sua realtà, posto che oggi il sacrificio dell’Antico Patto è cosa superata e inutile. Perché comunque “conosciamo in parte”. Tutto questo tenendo ben presente che la mentalità di una persona e di un popolo è profondamente radicata nella propria epoca e nel territorio in cui vive e il sacrificio, nella sua accezione originaria, va appunto dalla caduta di Adamo ed Eva fino alla morte di Gesù, quell’ultimo Adamo fatto “in spirito vivificante” che, a differenza di quello dell’animale, dà la vita ed è stato fatto “una volta per sempre”.

Secondo il nostro verso decimo “vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore” proprio perché perfetto, compiuto, senz’altro elemento da aggiungere. Altrimenti non avrebbe avuto la totalità come caratteristica.

Nel “vedrà una discendenza” individuiamo la Chiesa, certo non quella dei (pre)potenti, della grande finanza, della violenza o della superstizione, ma dei “beati” con cui si apre il sermone sul monte, quella degli Atti e delle lettere, quella dei salvati che operano in base ai doni ricevuti oggi sparsi nelle denominazioni nessuna delle quali può arrogarsi il diritto di definirsi unica. In ciascuna esiste il “rimanente fedele” che attende il ritorno del Suo Signore. Il Servo “vivrà a lungo”, cioè per tutto il tempo che durerà la terra e oltre, quindi nell’eternità, “nei secoli dei secoli”, vivrà ben oltre al metro umano che vede una morte a circa 33 anni il fermarsi di una vita nel pieno vigore. Ricordiamo le parole del Risorto all’apostolo Giovanni: “Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi” (Apocalisse 1. 18).

Isaia al verso 11 dà una spiegazione sobria di un aspetto del “sacrificio di riparazione” del Servo con le parole “Dopo il suo intimo tormento” in cui la Sua sofferenza viene quantificata: “intimo” cioè “che si trova nella parte più interna e profonda”, che non fu circoscritto al dolore fisico nonostante fosse atroce. Il “tormento” non è un dolore generico, ma qualcosa che rode con insistenza senza dare tregua: quando questo sarà finito, e si concluderà col “gran grido” che precedette di pochi istanti la Sua morte (per infarto), “vedrà la luce” dopo aver conosciuto per la prima e unica volta le tenebre del peccato che alla croce prese su di sé venendo privato dell’assistenza del Padre. La frase “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato” non fu detta da una persona in preda alla sofferenza fisica, ma a quella spirituale. Ricordiamo Romani 5.25: “È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati”.

Ebbene il Servo, dopo aver visto la luce, “si sazierà della sua conoscenza”, traduzione che può trarre in inganno essendo il verso corretto “Egli godrà della fatica dell’anima sua e ne sarà saziato” che prosegue con “giustificherà molti, si addosserà le loro iniquità” (notare il plurale): solo da Lui sarebbe potuta uscire una “stirpe eletta, un sacerdozio regale, una nazione santa, un popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua meravigliosa luce. Un tempo voi eravate un non-popolo, ora invece siete popolo di Dio; un tempo eravate esclusi dalla misericordia, ora invece avete avuto misericordia” (1 Pietro 2.9,10). E qui Pietro ci fa rientrare già nel dodicesimo verso del canto, “Io gli darò in premio le moltitudini”.

Infine, proprio questo verso anticipa le conseguenze del sacrificio del Servo e del suo abbassarsi, dello spogliarsi “fino alla morte” cioè lì fu il suo culmine. “Dei potenti farà bottino” è una profezia che va ancora oltre nei secoli e copre il periodo dell’era della Grazia fino al tempo del giudizio che era stato rivelato già a Davide: “Oracolo del Signore al mio Signore: «Siedi alla mia destra finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei miei piedi. (…) Egli abbatterà i re nel giorno della sua ira, sarò giudice tra le genti, ammucchierà i cadaveri, abbatterà teste su vasta terra” (Salmo 110. 1,5,6), immagine cruda che si realizzerà nel tempo della fine che rappresenta l’alt definitivo di Dio ai progetti degli uomini che Lo escludono.

Annoverato tra gli empi “mentre portava il peccato di molti”, quindi non di tutti perché è solo nel momento in cui l’essere umano accetta quel sacrificio per la propria salvezza eterna che si ottiene il perdono eterno. E nel “mentre intercedeva per i colpevoli” vediamo nell’immediatezza la richiesta di perdono, “perché non sanno quello che fanno”, per i soldati secondo i quali Gesù era un malfattore come tanti, ma anche quella per tutti coloro che sarebbero venuti nel tempo fino ai nostri giorni. Anche noi, prima del nostro incontro con Cristo, non sapevamo quello che facevamo. Ma abbiamo ottenuto perdóno, intercessione e difesa perché “…se qualcuno ha peccato, abbiamo un Avvocato presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccato; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1 Giovanni 2.1,2). Amen.

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