07.24 – CINQUE CANTICI V.IV (Isaia 53.7-9)

7.24 – Cinque cantici V-IV (Isaia 53.7-9)

 

7Maltrattato si lasciò umiliare e non aprì la bocca. Era come un agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì la sua bocca. 8Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu messo a morte. 9Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno sulla sua bocca. 10Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con i dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. 11Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. 12Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.

 

Il sacrificio del Servo (vv. 7-9) e le sue conseguenze (vv. 10-12) sono l’oggetto dell’ultima parte del quinto cantico. “Maltrattato si lasciò umiliare” è una frase che prende in esame tutto ciò che avvenne dall’arresto ai processi che subì, che furono quattro: il primo davanti al Sinedrio, il secondo davanti a Pilato (flagellazione) che lo mandò a Erode il quale a sua volta lo rinviò al governatore. È da notare come tanto nelle parole di Isaia quanto in quelle degli Evangelisti siano del tutto assenti frasi tendenti a suscitare facili sentimenti di orrore o compassione, ma vi sia una descrizione scarna, asettica: “Maltrattato si lasciò umiliare” perché avrebbe potuto benissimo non farlo. È, come anticipato, la cronistoria dal Suo arresto all’arrivo al Golgotha, parola aramaica che Matteo stesso dice “che significa luogo del cranio” (27.33). “Maltrattato” comprende quindi i quattro processi che Gesù subì in cui leggiamo, ad esempio, che “…mentre i capi dei sacerdoti e gli anziani lo accusavano, non rispose nulla. Allora Pilato gli disse: «Non senti quante testimonianze portano contro di te?». Ma non rispose neanche una parola, tanto che il governatore rimase assai stupito” (26. 63,64).  I maltrattamenti di cui parla Isaia sono riferiti, facendo una sommaria cronologia, da Luca 22. 63-65 quando “prima del processo gli bendavano gli occhi e gli dicevano: «Fa’ il profeta: chi ti ha colpito?» e molte cose gli dicevano, insultandolo”. Davanti al Sinedrio abbiamo poi gli sputi in faccia, schiaffi e percosse varie (Matteo 26. 67,68), la flagellazione da Pilato (27.26; Marco 15.15), la corona di spine calcatagli sul capo con colpi di canna, corona non circolare come siamo abituati a pensare guardando l’iconografia medievale, ma del tipo orientale, cioè un copricapo integrale di spine che andava a perforare una zona estremamente vascolarizzata provocando dolori lancinanti e un’assai copiosa perdita di sangue.

C’è connessione con le parole di Geremia quando scrisse di sé “il Signore me lo ha manifestato e io l’ho saputo; mi ha fatto vedere i loro intrighi. E io, come un agnello mansueto che viene portato al macello, non sapevo che tramavano contro di me e dicevano: «Abbattiamo l’albero nel suo pieno vigore, strappiamolo dalla terra dei viventi, nessuno ricordi più il suo nome»” (11. 18,19). In particolare l’ultima frase, “nessuno ricordi più il suo nome”, rispecchia la volontà del Sinedrio, che voleva Gesù condannato sia fisicamente, ma soprattutto all’oblio. Ricordiamo anche tutti i tentativi da loro fatti per soffocare la Chiesa in Gerusalemme e ridurre al silenzio Pietro e Giovanni che là predicavano. Ancora oggi, leggendo le parole su di Lui nel Talmud – quello non censurato per motivi politici e di dialogo cosiddetto interreligioso – c’è da rabbrividire nel leggere le bestemmie tanto sulla Sua persona che su Sua madre e i cristiani.

Tornando alla cronaca della passione e sul “non aprì la bocca”, si potrebbe obiettare che sia un’affermazione non rispondente al vero, poiché Gesù disse delle cose, come ad esempio “D’ora innanzi vedrete il figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo” (Matteo 26.64), ma Isaia si riferisce al parlare per maledire, cosa che non fece e che l’apostolo Pietro sottolinea con queste parole: “Cristo patì per voi lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato non rispondeva con insulti, maltrattato non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia” (1 Pietro 2. 21-23).

La seconda parte del verso settimo presenta l’Agnello condotto al macello in cui vediamo il tragitto che gli fecero fare dal pretorio, cioè la fortezza Antonia di Gerusalemme dove risiedeva Pilato, al Calvario, in cui portò la croce che poi fecero trasportare da Simone di Cirene perché Gesù non era in grado di farlo. Occorre rilevare che l’iconografia che ci ha tramandato l’immagine di Nostro Signore, o Simone, che portano la croce con la forma che conosciamo non è corretta, poiché i romani, per loro comodità, erano usi tenere piantato il palo verticale giù terreno già pronto, facendo sì che il condannato arrivasse con quello orizzontale al patibolo.

L’immagine della “pecora muta di fronte ai suoi tosatori” ha poi connessione con “Dopo averlo deriso, lo spogliarono del mantello – di porpora secondo Marco 15.17 – e gli rimisero le sue vesti, poi lo condussero via per crocifiggerlo (Mt.27.31), vesti che poi si divisero tirandole a sorte. Non gli lasciarono nulla, come i tosatori con la pecora.

Proseguendo nella lettura del cantico incontriamo il verso ottavo, di difficile traduzione ma non comprensione, “Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo”: se l’oppressione è quella che abbiamo visto brevemente, a mo’ di panoramica, l’ingiusta sentenza è chiaramente quella della condanna a morte, che un blog ebraico rifiuta quanto a responsabilità di quel popolo, sostenendo che Gesù fu condannato e crocifisso dai romani e non da loro. Ricordiamo però che Pietro, parlando nel Tempio, disse “Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino. Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio lo ha risuscitato dai morti; noi ne siamo testimoni” (Atti 3.13-15).

Ecco, questo “noi ne siamo testimoni” credo sia un efficace ponte storico con “l’ingiusta sentenza”, poiché per condannare a morte Gesù ci fu, da parte di coloro che avrebbero dovuto essere i custodi della Legge, un’affannosa ricerca di falsi testimoni, in oltraggio al comandamento “Non pronunzierai falsa testimonianza contro il tuo prossimo”. Infatti “I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una falsa testimonianza contro Gesù, per metterlo a morte, ma non la trovarono, sebbene si fossero presentati molti falsi testimoni – che evidentemente non avrebbero retto un contraddittorio o di fronte ad un’indagine accurata –. Finalmente se ne presentarono due – il minimo legale – che affermarono: «Costui ha dichiarato: «Posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni»»” (Matteo 26. 59-61).

La frase riportata dai due testimoni era vera solo in apparenza, poiché Gesù disse “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”, ma Giovanni annota “Ma egli parlava del tempio del suo corpo”. Poi, alla domanda di Caiafa ”Ti scongiuro, per il Dio vivente, di dirci se sei tu il Cristo, il Figlio di Dio” e alla risposta di Gesù “Tu lo dici” seguita dal verso sul Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo, seguì l’accusa di bestemmia: “Che ve ne pare? E quelli risposero: «È reo di morte»” (Matteo 27. 62-67).

Credo che le parole “fu tolto di mezzo” rispecchino bene la fretta e la volontà acritica di tutti: la priorità infatti era quella di liberarsi di Gesù a prescindere: Luca scrive che “Pilato, riuniti i capi dei sacerdoti, le autorità e il popolo, disse loro: «Mi avete portato quest’uomo come agitatore del popolo. Ecco, io l’ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in quest’uomo nessuna delle colpe di cui voi lo accusate, e neanche Erode: infatti ce l’ha rimandato. Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte. Perciò, dopo averlo punito – forse perché aveva turbato la sua tranquillità, o credendo di calmare gli animi dei presenti – lo rimetterò in libertà». Ma essi si misero a gridare tutti insieme «Togli di mezzo costui! – ecco Isaia – Rimettici in libertà Barabba». (…) Pilato parlò loro di nuovo, perché voleva rimettere in libertà Gesù. Ma essi urlavano: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». Ed egli, per la terza volta, disse loro: «Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato in lui nulla che meriti la morte. Dunque, lo punirò e lo rimetterò in libertà». Essi però insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso, e le loro grida crescevano. Pilato allora decise che la loro richiesta venisse eseguita” (23. 13-24) non prima di dichiararsi ufficialmente estraneo a quell’esecuzione lavandosi le mani in pubblico e dicendo “Sono innocente del sangue – attenzione – di questo giusto; pensateci voi” (Matteo 27.22).

Il verso ottavo si conclude con la domanda “Chi si affliggerà della sua posterità?”, cioè parafrasando: “A chi potrà importare il fatto che da lui non ci sarebbe stata una discendenza?”. E qui arriviamo a un punto interessante e particolare perché tutto il verso, a differenza degli altri, è enigmatico ed è stato tradotto in vari modi. Monsignor Antonio Martini, autore della Bibbia che ne porta il cognome, in una sua nota parla di “passo oscuro” e altri lo definiscono “crux interpretum”. Le versioni che confronteremo però, anziché creare confusione, ci consentono di estendere il significato e trovare nuove vie di comprensione e ciascuno di chi legge questo studio potrà fare le proprie riflessioni:

 

(Ricciotti:)

Dall’oppressione e dal giudizio fu tolto di mezzo: chi potrà narrare la sua generazione, che fu reciso dalla terra dei viventi, percosso dalle colpe del mio popolo?

(Luzzi:)

La morte lo liberò dall’angoscioso giudizio, e fra i contemporanei chi pensava che egli fosse strappato dalla terra dei viventi e colpito per via dei peccati del mio popolo?

(Martini)

Dopo l’oppressione della condanna fu tolto di mezzo. La generazione di lui chi la spiegherà? Or egli dalla terra dei viventi è stato reciso, per le scelleraggini del mio popolo io l’ho percosso

(Diodati 1607)

Egli è stato assunto dalla distretta e dal giudicio: e chi potrà narrar la sua era, benché sia stato reciso dalla terra dei viventi; e, per i misfatti del mio popolo, abbia sofferte battiture?

(Diodati Riveduta)

Fu portato via dall’oppressione e dal giudizio; e della sua generazione chi rifletté che era strappato dalla terra dei viventi e colpito per le trasgressioni del mio popolo?

 

Queste sono le versioni che ho ritenuto di paragonare, tutte corrette perché rispondenti al senso del sacrificio unico e insostituibile, “fatto una volta per sempre”, di Cristo, prima di tutti verso quel popolo che lo rifiutò. In particolare, “la generazione di lui, chi la spiegherà?” si riferisce tanto ai versi coi quali proseguirà il cantico, quanto alla particolarità del Suo tempo, ma anche al fatto secondo cui ben pochi lo riconobbero mentre era in vita. Ricordiamo poi che le sofferenze patite dal Servo sarebbero state le uniche a realizzare quanto descritto da Pietro: “Ma voi siete – nessuno escluso – una generazione eletta, un real sacerdozio, una gente santa, un popolo che Dio si è acquistato, affinché proclamiate le virtù di Colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua meravigliosa luce” (1 Pietro 2.9). Ecco perché il credente dovrebbe tener ben presente questa descrizione e riflettere prima di compiere qualsiasi scelta.

Resta, prima di concludere, da esaminare il verso nono che, con le parole “sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca”, ricorda ancora una volta l’innocenza perfetta dell’Agnello di Dio. Ma l’inizio, “Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo” prelude in un certo senso già alla resurrezione e potremmo vederlo come un punto storico-morale di passaggio: la sepoltura coi criminali era quella che avrebbe dovuto avere il corpo di Gesù, gettato in una fossa comune dove certamente finirono i due ladri crocifissi con lui. Successe però un fatto nuovo: “Venuta la sera, giunse un uomo ricco, di Arimatea, chiamato Giuseppe, anche lui era diventato discepolo di Gesù” (Matteo 17.57). Lasciando proseguire Giovanni, “Giuseppe d’Arimatea era discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei giudei, (e) chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodemo – quello che in precedenza era andato da lui di notte – e portò circa trenta chili di una mistura di mirra e di aloe. Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con dei teli, insieme ad aromi, come usano fare i giudei per preparare la sepoltura. Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto. Là dunque, poiché era il giorno della Parasceve dei Giudei e dato che il sepolcro era vicino, posero Gesù” (19. 38-42).

Ecco, questo è ciò il Signore volle rivelare ad Isaia che scrisse queste cose circa 750 anni prima che avvenissero. Certo gli approfondimenti dovrebbero essere ben di più, ma li rimando a quando potremo affrontare la crocifissione con maggiori dettagli.

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07.23 – CINQUE CANTICI V.III (Isaia 53.4-6)

7.23 – Cinque cantici V-III (Isaia 53.4-6)

 

4Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. 5Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. 6Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. 7Maltrattato si lasciò umiliare e non aprì la bocca. Era come un agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì la sua bocca. 8Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu messo a morte. 9Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno sulla sua bocca. 10Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con i dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. 11Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. 12Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.

 

“Eppure” è una congiunzione avversativa che si riferisce a parole dette precedentemente: “Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo di dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima”  (v.3); “Eppure”esprime opposizione, contraddizione a un giudizio di altri. È la pietra scartata dai costruttori diventata angolare cui abbiamo accennato precedentemente.

Il verso quarto, nella sua prima parte, si riferisce al ministero pubblico del Servo e alla sua conclusione: la frase “si è caricato delle nostre sofferenze e si è addossato i nostri dolori” ha indubbiamente connessione col peccato dell’umanità portato alla croce, ma anche all’immedesimazione nello stato rivelatore di esso, visto nell’infermità, nella malattia, nella possessione dello spirito del male, tutti elementi che, senza il “peccato originale”, non esisterebbero. Pensiamo alla vita  Gesù in terra: non si limitò alla crocifissione, punto culminante della Sua esistenza, ma nacque, crebbe, raggiunse l’età di trent’anni in cui i Leviti iniziavano a prestare servizio nel Tempio, dopo di che iniziò a sua predicazione non limitandosi all’esposizione di belle e interessanti teorie: non si fermò mai per il bene dell’uomo guarendolo spiritualmente e fisicamente: “Venuta la sera, gli portavano molto indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la parola e guarì tutti i malati, perché si compì ciò che era stato detto dal profeta Isaia: «Egli ha preso le nostre infermità e si è caricato delle nostre malattie»” (Matteo 8.16). Gesù era l’unico a poter mantenere la promessa “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò riposo”.

Ecco allora che Nostro Signore si fece carico della pena dell’esistenza umana. Come? Vivendola, faticando e condividendo la vita di tutti anche guarendoli, lui che lo poteva fare, dimostrando così ai beneficiari, quindi anche a noi, non tanto che a Dio nulla era impossibile, concetto che già conoscevano, ma che Lui si interessava di loro e per loro aveva un progetto di salvezza. Dal mondo teorico della teologia astratta rabbinica, il miracolato veniva posto al centro, nella condizione di vivere personalmente la grazia che gli era stata fatta.  Al posto di “Eppure” della nostra traduzione, Diodati usa “Veramente”, cioè un “amen”, che esclude un sentimentalismo celebrativo e al posto di “caricarsi delle nostre sofferenze” usa il “portare” che suggerisce un moto, una continuità, un’attività incessante.

Ci sono poi due sostantivi, “dolore” e “sofferenza”, che potremmo intenderli come sinonimi, ma sbaglieremmo perché il primo è un fatto oggettivo mentre la seconda è soggettiva e può addirittura essere il costrutto dell’immaginazione di chi la prova. Il primo è inevitabile, è uno strumento di informazione e di allarme, appartiene al nostro corpo costituito di ossa, muscoli, nervi, cellule, organi. La seconda è stata invece definita “l’esperienza dell’esperienza del dolore che è sempre soggettiva e mai universale. Interiorizzata, problematizzata, cosciente e interrogante, riguarda il corpo vissuto che interagisce con il sé vissuto”. Con la prima parte del verso quarto, allora, Isaia guarda e vede il Servo come Colui che ha svolto un’opera perfetta, senza tralasciare nulla del corpo e dell’anima dell’uomo per alleggerirlo: si è “caricato” e si è “addossato”. Ha “portato” quotidianamente i dolori e le sofferenze della sua creatura per la quale aveva creato il mondo assieme al Padre e allo Spirito Santo.

E gli uomini? E il popolo? Salvo rarissime eccezioni, fraintese, poiché “e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato”: dimenticando le Sue parole e i miracoli che spaziarono dalla guarigione di una febbre alta alla resurrezione del figlio di una vedova di Nain, del capo di un Sinagoga o di Lazzaro per non parlare dell’ultimo, il riattaccare l’orecchio di Malco. Ebbene, nell’immediato, nel tempo del buio, il risultato fu lo scuotere la testa dei presenti alla crocifissione. Per loro era inconcepibile che chi aveva aiutato gli altri non potesse liberarsi, o coi suoi “poteri” o con l’intervento di Colui del quale pretendeva di essere figlio.

Quegli uomini, e con loro molti altri nelle epoche seguenti, non compresero cosa stava realmente accadendo alla croce, anche se, nei versi seguenti del cantico, Isaia lo spiega molto bene. “Lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato”, idea unilaterale non del tutto sbagliata se confinata in quello spazio, ma che non teneva affatto conto del perché si stessero realizzando quegli eventi che l’apostolo Paolo, probabile autore della lettera agli Ebrei, spiegherà molto bene.

Infatti: “Tuttavia quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli– riguardo al corpo per la vita terrena –, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti. Conveniva infatti che Dio, per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria, rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza. Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli, dicendo: «Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, in mezzo all’assemblea canterò le tue lodi»” (2.9-12).

Ancora, nella stessa lettera abbiamo la storia spirituale di Gesù uomo: “Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo chiamato da Dio sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedec” (5.7-10), figura tanto superiore quanto misteriosa sulla quale hanno indagato in tanti, che a un certo punto emerge benedicendo Abramo. Di lui null’altro sappiamo se non che era “sacerdote dell’Iddio altissimo” e re di Salem, poi Gerusalemme secondo una comune opinione. È a lui, al suo “ordine” che viene collegato Gesù nell’esposizione dottrinale dell’apostolo Paolo: “È senza padre, senza madre, senza genealogia, senza inizio di giorni né fin di vita, simile quindi al Figlio di Dio. Questo Melchisedec, rimane sacerdote in eterno” (Ebrei 7.3).

Arrivando al verso quinto abbiamo quattro episodi in coppia divisi in due parti: “trafitto per le nostre colpe e schiacciato per le nostre iniquità” vanno dritti alla realtà immediatamente percepibile, mentre “Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe siamo stati guariti” descrivono gli effetti del Suo sacrificio. Anche qui per avere una visione più ampia è bene andare alla versione Diodati, che scrive “ferito per i nostri misfatti e tritato per le nostre iniquità”: sono gli effetti del peccato perché “Egli portò i nostri peccati– “caricarsi” e “addossarsi” – nel suo corpo sul legno della croce perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti”. Sono parole dell’apostolo Pietro nella sua prima lettera, in 2.24, che si rifà e spiega il verso di Isaia che abbiamo letto. Era quello l’unico modo perché avvenisse la nostra liberazione, non vivendo più per il peccato, ma per la giustizia. E Gesù sappiamo essere l’unica via di accesso al Padre, l’unico Dio perché “vivente”.

Ferito” e “trafitto”: un fratello scrisse che “Al Signore Gesù furono inflitti tutti e cinque i generi di ferite note alla scienza medica: contusioni (percosse con un’asta, senza contare quelli a mani nude); lacerazioni (flagellazione), ferite penetranti (la corona di spine); ferite perforanti (i chiodi) e da punta (la lancia)”.

Così, nello “schiacciato”, o “tritato”, abbiamo una descrizione di quanto la forza del peccato sia devastante, opprimente e distruttiva, patita al nostro posto: “Colui che non aveva conosciuto peccato– perché Santo anche per tutta la sua vita terrena – Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui potessimo diventare giustizia di Dio” (2 Corinti 5.21). Sono parole d’amore impossibile a quantificare così come lo è lo scopo di quest’azione: “perché in lui potessimo diventare giustizia di Dio”. Ognuno di noi è chiamato a chiedersi se lo è e da qui comprendiamo quanto abbiamo bisogno di lui per essere e quindi agire. Personalmente rifiuto la reazione di alcuni credenti a questa frase, che si ritengono santi e perdonati sempre e a prescindere dai loro pensieri, parole ed opere: noi, imperfetti e defettibili per natura, soggetti a volte a sbagli anche macroscopici se perdiamo di vista la nostra realtà, abbiamo bisogno ogni giorno, sempre, della giustizia di Dio alla quale fare appello. Sempre del Suo amore, sempre del suo perdono. Tutto ciò nonostante, per la Sua Grazia, le porte del cielo siano per noi aperte.

Ma non basta: “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione per noi, poiché sta scritto «Maledetto chi è appeso al legno» perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse ai pagani e noi, mediante la fede, ricevessimo la promessa dello Spirito” (Galati 3.13,14). Qui il riferimento è a Deuteronomio 21.21,23 che si riferisce alla morte più infamante: “Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l’avrai messo a morte e appeso ad un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull’albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l’appeso è una maledizione a Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore, tuo Dio, ti dà in eredità”.

Per concludere, chiedendoci cosa voglia dire la frase “ci ha riscattati dalla maledizione della Legge”, possiamo capirla mettendola in connessione con verso sesto del Cantico, “Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada”: questo era il risultato, quando i 613 precetti, 248 positivi e 365 negativi, avevano condotto al contrario di quanto avrebbe dovuto essere il suo scopo: ottenere una nazione santa davanti a tutte le genti con le modalità che troviamo descritte nel capitolo 7 del libro del Deuteronomio. Quella Legge, santa perché procedente da Dio, fu disattesa e per questo divenne, alla luce della Grazia e non di altre, maledizione. Ecco perché ci voleva un riscatto e il prezzo fu pagato non dagli uomini, ma da YHWH nella persona del Servo, fu pagata dal Figlio.

Parliamo ora di numeri. I Maestri ebrei nel Talmud (Makkoth 23b) rilevano che il valore numerico della parola Torah (Legge) è di 611; 613 è la cifra che si ottiene sommando al numero della Legge i primi due dei dieci comandamenti che, a differenza degli altri otto, sono posti in prima persona: ricordiamo il primo “Io sono il Signore Iddio tuo, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù. Non avere altri dèi oltre a me” e il secondo, “Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra. Non ti prostrare a loro e non li servire, perché io, il Signore, sono un Dio geloso; punisco l’iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano, e uso bontà fino alla millesima generazione verso quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti” (Esodo 20.2,4).

Ancora, guardando alla quantità dei precetti positivi e negativi, 248 e 365, il primo era considerato quello delle ossa nel corpo umano (oggi sappiamo che sono 270 alla nascita e 206 nell’adulto) e il secondo non solo quello dei giorni dell’anno, ma anche quello dei legamenti che collegano le ossa fra loro. “Attraverso questi numeri la Torah quindi vuol dire che con le nostre 248 singole ossa dobbiamo compiere le 248 azioni prescritte e che ogni giorno dell’anno dobbiamo impegnarci a non violare i 365 precetti negativi”. Così insegnavano. E aggiungono oggi: “Nella pratica però non tutti questi precetti sono attuabili e non da tutti; alcuni necessitano dell’esistenza del Tempio di Gerusalemme, che secondo la tradizione rabbinica potrà essere ricostruito solo quando giungerà il Messia e radunerà tutte le dieci tribù disperse del popolo d’Israele. Altri sono limitati ai soli uomini, altri alle donne, altri sono rivolti solo ai Kohanim, i membri della famiglia sacerdotale, coloro che cioè vantano di discendere da Aaronne, fratello di Mosè”.

Aggiungo che lo stesso numero 611, 6+1+1=8, suggerisce un nuovo inizio, la Grazia allora non ancora esistente se non nelle profezie messianiche, quindi sotto questo aspetto già da allora la Legge denotava la necessità di un compimento, di una nuova era, o dispensazione più perfetta. E 6+1+3=10, la perfezione vista nell’esigenza di Dio nei confronti della Sua creatura. Come afferma infatti l’autore della lettera agli ebrei qui più volte ricordata, “Ma ora Gesù è incaricato di una funzione nuova e più grande: quella di essere mediatore di un’alleanza molto migliore, fondata su migliori promesse. Infatti, se la prima alleanza fosse stata perfetta, non sarebbe stato necessario sostituirla con un’altra.(…) Così Dio parla di un’alleanza nuova, e perciò dichiara superata l’alleanza precedente. E quando una cosa antica invecchia, le manca poco a scomparire” (8.6-13). Ciò è stato fatto “facendo ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”: senza tutte queste azioni, e altre che vedremo in questo cantico, nulla sarebbe cambiato. Ci sarebbero solo pecore sperdute, senza pastore, destinata a vagare prima di conoscere inevitabilmente la morte. Amen.

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07.22 – CINQUE CANTICI V.II (Isaia 53.2-3)

7.22 – Cinque cantici V-II (Isaia 53.2-3)

 

2È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. 3Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo di dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. 4Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. 5Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. 6Noitutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. 7Maltrattato si lasciò umiliare e non aprì la bocca. Era come un agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì la sua bocca. 8Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu messo a morte. 9Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno sulla sua bocca. 10Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con i dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. 11Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. 12Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.

 

Dopo le due domande introduttive viste nello scorso capitolo in cui Isaia si chiede, alla luce della condotta del popolo costantemente in opposizione ai voleri di Dio, quale frutto avrebbe dato la predicazione profetica e a chi sarebbe stato rivelato “il braccio del Signore”, ecco che il suo sguardo si posa immediatamente sulla figura del Servo, “venuto a salvare ciò che era perito”. Dal verso 2, poi, Isaia passa ad esaminare la figura di questo personaggio che, secondo il metro valutativo umano, è inconcepibile se rapportata a quella di un re, una guida, un liberatore. Un re cresce in una corte, abituato agli agi, ad ottenere ciò che vuole così come si fa da sempre nelle dinastie regnanti o comunque molto ricche. Questo, invece, cresce “davanti a lui”, quindi a Dio e non agli uomini che tuttavia, come sappiamo, ne presero atto quando leggiamo che “cresceva in sapienza, in età e grazia davanti a Dio e davanti agli uomini” (Luca 2.52).

Nella prima parte del secondo verso, però, Isaia sottolinea come si è caratterizzato lo sviluppo della persona di Gesù nel corso della sua esistenza e quel “davanti a lui” ha riferimento con l’unico Suo obiettivo, “fare la volontà di colui che mi ha mandato”: per questo non erano possibili altre alternative al di là del crescere tenendo lo sguardo fisso sul Padre facendo la Sua volontà e avendo con Lui un continuo contatto in preghiera. Lo sviluppo “come un virgulto” e “una radice in terra arida” ci parla poi di un percorso irto di difficoltà e sofferenze: il virgulto, giovane pianta che ha come unico destino quello di crescere, così oggetto di attenzione da parte di chi lo coltiva, nel nostro caso si sviluppa in un terreno ostile perché arido, cioè sterile, povero di umidità ed acqua, con precipitazioni molto scarse. E infatti Gesù, per tutta la sua vita terrena, dovette fare affidamento solo sul Padre per avere quel nutrimento spirituale senza il quale non avrebbe mai potuto affrontare un solo giorno di vita. Ecco la ragione del Suo tempo passato in preghiera, più volte ricordato nei Vangeli. Nella terra arida possiamo agevolmente identificare l’umanità in mezzo alla quale Nostro Signore crebbe, contaminata dal peccato, arsa dal sole, un’umanità che non conosce l’acqua della vita e la confonde con la sabbia. Possiamo vedere anche la terra stessa, non più quella santa del giardino protetto, come leggiamo in Genesi 3.17 “Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie– che ricordiamo era subordinata rispetto ad Adamo – e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato: «Non ne devi mangiare», maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita”.

Il comune essere umano, quindi noi, cresce assorbendo la mentalità e la cultura dell’ambiente in cui è inserito. Salvo rari casi scopre col tempo le sue attitudini, intreccia relazioni e rapporti coi propri simili, diventa una persona affondando le due radici sulle proprie esperienze di cui, in un modo o in un altro, dovrebbe far tesoro: non fu così per Nostro Signore, che sapeva fin da giovanissimo quale sarebbe stato il suo compito, come leggiamo dalle parole che disse a Sua madre che lo rimproverava per essere rimasto a parlare coi sapienti nel Tempio anziché tornare a Nazareth con loro: “Dopo tre giorni lo trovarono nel Tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre ed io ti cercavamo angosciati». Ed egli risposte: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro” (Luca 2.46,50).

Ancora, a proposito della crescita della persona in mezzo ai suoi simili, vero è che ogni uomo si ritrova presto o tardi a fare i conti con la prepotenza, l’umiliazione e la violenza degli altri, ma è altrettanto vero che a volte può contare sul loro aiuto, solidarietà e comprensione, confidarsi. Non fu così per Gesù, che dovette far leva sempre e solo sulle proprie forze e quelle che il Padre gli dava per adempiere il compito per il quale era venuto; pensiamo a tutte le volte in cui non solo non fu capito, ma anche e soprattutto frainteso e ostacolato. Ecco perché sono convinto che la grandezza di Gesù risiede non solo nei miracoli, “piccoli” o “grandi”, nella sua resurrezione, ma, sotto questo aspetto, nella vita di ogni giorno, soprattutto in quella non raccontata. Se penso alla Sua crescita in terra arida sotto i punti di vista cui ho accennato, la mia persona si perde: a differenza di me, di noi, aveva una strada da percorrere senza possibilità di deviazioni, scorciatoie, soste. La Sua opera, come disse un giorno, fu incessante: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Matteo 8.20).

La seconda parte del verso sposta l’attenzione del lettore al tempo presente chiamando in causa l’apparenza e la bellezza – attenzione – sotto ogni aspetto, non necessariamente quello fisico, perché Gesù non fece mai del marketing né si rivolse a persone che usavano l’immediatezza per giudicare. Non guardò mai al numero, si ritirò in un luogo isolato quando vollero farlo re, nacque in un ricovero per animali, “figlio di Davide” da un lato, ma di un falegname dall’altro, liberò chi credette in Lui dal potere del peccato che conduce a morte, ma non dall’oppressione straniera. Gesù stravolse il perbenismo, il moralismo, la quiete che l’uomo naturale ha quando s’incontrano – e purtroppo si stabilizzano – religione e carne, là dove “…disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno dei cieli” (Matteo 21.30),

Riguardo alla “apparenza” (o “forma”) e alla “bellezza” possiamo pensare anche alla Sua persona: non fu come Mosè, che da bambino era “divinamente bello” (altri traducono, svilendone il senso, “molto”), il cui volto risplendeva quando scese dal monte, ma una persona dall’aspetto assolutamente normale, riconoscibile come “figlio dell’Iddio vivente” solo riflettendo su ciò che faceva e diceva, quindi chiamando in causa l’intelligenza, la ragione e il cuore. Dalla somma di questi elementi, se correttamente gestiti, nasce la fede, quella che mosse la donna emorroissa: “aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando. Udito parlare di Gesù, venne tra la folla e toccò da dietro il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male” (Marco 5.25-29).

L’apparenza umana di Gesù non era importante, né aveva senso l’avesse perché l’immagine esteriore, quella a cui tengono i potenti che si sono sempre fatti ritrarre, in quadri o in foto, con una luce che li illuminasse strategicamente per suggerire qualità fisiche o morali che non avevano, sarebbe stata completamente fuori luogo. Penso a Nicodemo, abituato alla sintesi e alla concretezza, che disse “Maestro, noi sappiamo che tu sei un dottore venuto da Dio, perché nessuno può compiere le opere che tu fai, se Dio non è con lui” (Giovanni 3.2). Ecco allora che Isaia, con quel “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri guardi, non splendore per poterci piacere”, chiama in causa ciò cui guardano gli uomini distrattamente quando sono intenti a pensare a loro stessi e ai loro bisogni, dediti a seguire la fame di vita che si impossessa di loro. Ed è facile collegare questo atteggiamento istintivo alla via larga e spaziosa che conduce alla perdizione.

È stato ricordato l’episodio in cui giudei volevano fare re Gesù: questo si verificò al primo miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Quella gente disse “Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo” perché era stata sfamata in modo impossibile e quindi poco ci voleva, nella loro mente, a pensare che invece dei pani e dei pesci avrebbe potuto moltiplicare la forza di un esercito, armi, vittorie. Erano incapaci di comprendere che la vera liberazione stava nel togliere il peccato del mondo, in quel “Io posso ogni cosa in Colui che mi fortifica” dell’apostolo Paolo, nella moltiplicazione delle benedizioni, del vivere già da ora essendo in possesso della cittadinanza del regno di Dio.

Quegli uomini che avrebbero dovuto accoglierlo, lo disprezzarono. Il verso terzo dice “Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo di dolore che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima”: passò nell’indifferenza, a parte il “coprirsi la faccia” per non vedere il Suo volto e ciò che rappresentava. In questo gesto possiamo vedere certamente l’effetto del constatare quanto fosse sfigurato dalle percosse, ma anche il non voler vedere, accettare la loro condizione umana che aveva rivelato. Vedere e passare oltre cercando di dimenticare confidando che il tempo, che molto cancella ma non tutto, copra il ricordo di quanto visto e ascoltato. Perché, lo si ammetta o no, tutti vogliono essere assolti, anche se solo da loro stessi. Da notare che “coprirsi la faccia” suggerisce un’azione diversa da quella che viene in mente leggendo la traduzione di Diodati, che parla di “nascondere”: così, nascondere il volto ci parla di un gesto volontario di autoprotezione: non voglio vedere, non voglio sentire, non voglio cambiare, mi arrocco sulle mie convinzioni perché sono quelle che mi sono state insegnate, rifiuto il confronto.

Così scrive Davide nel suo profetico Salmo 22 citando il disprezzo: “Io sono un verme e non un uomo, rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente. Si fanno beffe di me quelli che mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo. «Si rivolga al Signore, lui lo liberi, lo porti in salvo se davvero lo ama” (6-8).

C’è così il disprezzo collettivo, cui si aggiunge “non ne avevamo alcuna stima” che lo rafforza. Da dizionario, il disprezzo è quel “sentimento di chi, giustamente o ingiustamente, ritiene una persona o una cosa troppo inferiore a sé, o vile in sé stessa, o comunque indegna della propria stima e considerazione”. Chi ha familiarità col Vangelo sa che questo sentimento si manifestò continuamente nei confronti di Gesù, ma venne ufficializzato in modo lampante quando Pilato fece scegliere al popolo chi doveva essere liberato, se Lui o Barabba, che Giovanni definisce “brigante” e che, dai sinottici, possiamo pensare fosse uno zelota omicida, “prigioniero famoso” secondo Matteo 27.16.

Molto interessanti sono le parole di Benedetto XVI al riguardo: “In altre parole Barabba era una figura messianica. La scelta tra Gesù e Barabba non è casuale: due figure messianiche, due forme di messianesimo si confrontano. Questo fatto diventa ancor più evidente se consideriamo che Bar-Abbas significa figlio del padre. È una tipica denominazione messianica, il nome religioso di uno dei capi eminenti del movimento messianico. L’ultima grande guerra messianica degli ebrei fu condotta nel 132 da Bar-Kochba, Figlio della stella. È la stessa composizione del nome; rappresenta la stessa intenzione. Da Origene apprendiamo un ulteriore dettaglio interessante: in molti manoscritti dei Vangeli fino al III secolo l’uomo in questione si chiamava Gesù Barabbas, Gesù figlio del padre. Si pone come una sorta di alter ego di Gesù, che rivendica la stessa pretesa, in modo però completamente diverso. La scelta è quindi tra un Messia che capeggia una lotta, che promette libertà e il suo proprio regno, e questo misterioso Gesù, che annuncia come via alla vita il perdere se stessi”.

Il popolo e i suoi capi, quindi, preferirono affidare la loro vita e destino a Barabba piuttosto che a Nostro Signore: non è questa un’affermazione esagerata se la colleghiamo alla terribile frase, poi adempiutasi, “Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli” (Matteo 27.25). Suggerisco di leggere i versi da 15 a 26 di Matteo perché da essi possono scaturire molte considerazioni sulle dinamiche che portarono Pilato a far scegliere al popolo chi liberare, dichiarandosi non responsabile di quel sangue, e molto altro.

La “stima” è una valutazione di un bene o di una persona. Non si può fare alla leggera, è una conclusione alla quale si perviene dopo averne soppesato il valore: una “stima” in proposito la fecero la peccatrice innominata e Maria sorella di Lazzaro, che versarono su Gesù un olio del valore di un anno di paga di un operaio. Giuda Iscariotha stimò il suo Maestro trenta sicli d’argento, il prezzo di uno schiavo o la paga di un giorno di un operaio. Molti cristiani, compresi alcuni apostoli, ritennero di offrire la loro vita col martirio. Altri, sempre per amore e per la stima effettuata sul loro Salvatore, vivono resistendo al male, e quindi alla sua fonte, non chiedendosi mai chi o cosa glielo faccia fare mentre il loro prossimo vive come se Dio non esistesse. Ma a ciascuno verrà data retribuzione, per il bene e per il male. Amen.

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07.21 – CINQUE CANTICI V.I (Isaia 53.1-12)

7.21 – Cinque cantici V-I (Isaia 53.1-12)

 

QUINTO CANTICO

 

1Chi avrebbe creduto al nostro annuncio? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore? 2È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. 3Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo di dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. 4Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. 5Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. 6Noitutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. 7Maltrattato si lasciò umiliare e non aprì la bocca. Era come un agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì la sua bocca. 8Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu messo a morte. 9Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno sulla sua bocca. 10Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con i dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. 11Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. 12Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.

 

L’analisi del quinto canto è suscettibile ad un’infinità di applicazioni e verrà affrontata in diversi passaggi, o capitoli. Prima di qualsiasi riflessione, occorre andare all’episodio in cui il diacono Filippo, uno dei sette scelti dalla Chiesa di Gerusalemme perché si occupassero delle vedove e dei poveri, incontrò l’eunuco etiope: era un funzionario, un amministratore della regina di Candace, proselito ebreo che faceva ritorno in patria sul suo carro e, lungo il viaggio, leggeva a voce alta un passo della Scrittura particolare. Il testo degli Atti ci informa che Filippo “…udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come potrei, se nessuno mi istruisce?». E invitò Filippo a salire, e a sedersi accanto a lui. Il passo della Scrittura che stava leggendo era questo: Come un agnello egli fu condotto al macello e come una pecora senza voce innanzi a chi lo tosa, così egli non apre la sua bocca. Nella sua umiliazione il giudizio gli è stato negato,la sua discendenza chi potrà descriverla?Poiché è stata recisa dalla terra la sua vita. Rivolgendosi a Filippo, l’eunuco disse: «Ti prego, di quale persona il profeta dice questo? Di se stesso o di qualcun altro?». Filippo, prendendo la parola e partendo da quel passo della Scrittura, annunciò a lui Gesù” (Atti 8. 29-35). Trovo questi versi illuminanti e destinati a chiudere la questione se il “Servo” di cui trattano i cantici sia riferito ad Israele, oppure a Nostro Signore Gesù Cristo poiché se la prima ipotesi fosse vera, Filippo avrebbe parlato diversamente.

Dando uno sguardo generale al cantico, non è possibile fare a meno di notare l’impiego di numerosi tempi verbali: Isaia, che avrebbe potuto benissimo scrivere in modo grammaticalmente più corretto, preferisce riunire in un testo di 12 versi il passato prossimo, il remoto, il condizionale, il presente ed il futuro: egli vede il Servo, ne contempla i dolori, il sacrificio e soprattutto gli effetti per finire con la visione delle moltitudini date a Lui in premio. Questo profeta non ha tempo per spiegare in modo chiaro e ordinato ciò che vede in una successione temporale definita, ma solo quello di annotare eventi che saranno poi i lettori e gli uditori, usando l’intelligenza spirituale, a capire il senso delle sue parole e a riconoscere il momento in cui queste si adempiranno. Si è fatto così da sempre e ogni credente attento può testimoniare che la lettura di passi apparentemente semplici, ad esempio dei Vangeli, nasconde, implica l’assimilazione di significati che verranno compresi col tempo, se e quando il Signore deciderà di rivelarli, esattamente come descritto nel libro dei Proverbi circa la ricerca della sapienza, versi che abbiamo più volte ricordato: va cercata “come i tesori”.

Ora veniamo al primo verso, che contiene due domande: “Chi avrebbe creduto al nostro annuncio?”e “A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?”. Questi due interrogativi sono stati per lo più interpretati come posti dal Figlio al Padre nel corso del suo ministero terreno, stante il numero esiguo delle persone che ne accettarono il messaggio a fronte dell’intero popolo d’Israele e così le spiega l’apostolo Giovanni quando, in 12.37-40, riporta che “Sebbene avesse compiuto segni così grandi davanti a loro, non credevano in lui, perché si adempisse la parola detta dal profeta Isaia: Signore, chi ha creduto alla nostra parola? E la forza del Signore, a chi è stata rivelata?. Per questo non potevano credere, perché ancora Isaia disse: Ha reso ciechi i loro occhi e duro il loro cuore, perché non vedano con gli occhi e non comprendano con il cuore, e non si convertano e io non li guarisca”.

Per molto tempo mi sono attenuto a questo collegamento, indubbiamente vero, ma considerarlo come la sola applicazione possibile è errato: dobbiamo tenere presente che quel “nostro”,riferito all’annuncio, appare più come da intendersi in senso collettivo a livello dei profeti che certamente trovano il loro punto più alto, e insuperabile, nella predicazione del Servo, il Figlio.

Isaia, infatti, come tutti i profeti, è e si considera intimamente legato al suo popolo; basti la lettura finale del verso ottavo, “Per la colpa del mio popolo è stato messo a morte”, dove il possessivo usato è molto significativo. Isaia condivide l’esperienza di Israele: scrive “le nostre colpe”, non “le vostre”, “siamo stati guariti” e non “siete stati”, questo perché il profeta è cosciente di essere un peccatore come gli altri, per quanto beneficiato della rivelazione di JHWH. Quando allora al verso primo parla di “nostro annuncio”, o come altri traducono “nostra predicazione”, Isaia prende atto del risultato a cui portò l’attività dei profeti prima, durante e dopo di lui, quando era stato loro ordinato fondamentalmente di predicare e annunciare il ravvedimento per scampare dal giusto giudizio di Dio.

In pratica, se si vuole capire il senso della prima domanda di apertura del cantico, “Chi avrebbe creduto al nostro annuncio?”, occorre andare alle parole di Gesù quando espose la parabola dei malvagi vignaioli ai responsabili religiosi di Gerusalemme: “Un uomo piantò una vigna, vi fece attorno una siepe, vi scavò un luogo ove pigiare l’uva, vi costruì una torre e l’affidò a dei vignaioli, poi se ne andò lontano. Nella stagione della raccolta inviò a quei vignaioli un servo per ricevere da loro la sua parte del frutto della vigna. Ma essi lo presero lo batterono e lo rimandarono a mani vuote. Egli mandò loro di nuovo un altro servo, ma essi, dopo avergli tirate delle pietre, lo ferirono alla testa e lo rimandarono vilipeso. Ne inviò ancora un altro e questi lo uccisero. Poi ne mandò molti altri e di questi alcuni furono percossi, altri uccisi. Gli restava ancora uno da mandare: il suo amato figlio. Per ultimo mandò loro anche lui, dicendo: «Avranno almeno rispetto per mio figlio». Ma quei vignaioli dissero fra loro: «Costui è l’erede. Venite, uccidiamolo e l’eredità sarà nostra». Così lo presero, lo uccisero e lo gettarono fuori della vigna. Che farà dunque il padrone della vigna? Egli verrà e sterminerà quei vignaioli e darà la vigna ad altri” (Marco 12.1-9).

Questa parabola viene riportata da Matteo che ci parla di una domanda di Gesù cui segue la risposta dei suoi stessi uditori: “Ora, quando verrà il padrone della vigna, cosa farà a quei vignaioli?». Essi gli dissero: «Farà perire miseramente quegli scellerati e affiderà la vigna ad altri vignaioli, i quali gli renderanno i frutti a suo tempo»” (21.40,41), che si collega a Isaia 65.15, dal contenuto terribile: “Il Signore, l’Eterno, ti farà morire, ma darà ai suoi servi un altro nome”.

Ecco, qui comincia a delinearsi la risposta alla seconda domanda del nostro testo, “A chi sarà manifestato il braccio del Signore?”: si noti che “il braccio del Signore” è un’espressione, una definizione usata nell’Antico Patto per indicare l’assistenza di Dio al Suo popolo: incontriamo per la prima volta questo definire l’intervento divino in Esodo 6.6 quando Lui stesso disse a Mosè: “Perciò di’ ai figli di Israele: «Io sono l’Eterno, vi sottrarrò dai duri lavori impostivi dagli egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi riscatterò con braccio steso e con grandi castighi”.

La risposta alla seconda domanda di Isaia, allora, che si chiede a chi sarebbe stato rivelato “il braccio del Signore”, si trova nelle parole di Gesù con l’esempio dei vignaioli e, essendo un argomento che andava chiarito senza possibilità di errore, con quelle dell’apostolo Paolo che la espone così: “Dice ancora in Osea: «Io chiamerò il mio popolo quello che non è mio popolo– cioè i pagani – e amata quella che non è mia amata– cioè la Chiesa, che ancora non esisteva, al posto di Gerusalemme -. E avverrà che là dove fu loro detto «Voi non siete mio popolo», saranno chiamati figli dell’Iddio vivente. Ma Isaia esclama riguardo a Israele: «Anche se il numero dei figli di Israele fosse come la sabbia del mare, solo il residuo sarà salvato».(…)Che diremo dunque? Che i gentili, che non cercavano la giustizia, hanno ottenuto la giustizia, quella però che deriva dalla fede. Mentre Israele, che cercava la legge della giustizia non vi è arrivato. Perché? Perché la cercava non tramite la fede, ma mediante le opere della legge; essi infatti hanno urtato nella pietra d’inciampo, come sta scritto: «Ecco, io pongo in Sion una pietra d’inciampo e una roccia di scandalo, ma chiunque crede in lui non sarà svergognato»(Romani 9.25-33).

Proprio al termine della parabola dei vignaioli, Gesù disse ai giudei “Non avete voi mai letto nelle Scritture «La pietra che i costruttori hanno scartato, è diventata pietra d’angolo; ciò è stato fatto dal Signore ed è cosa meravigliosa ai nostri occhi?». Perciò io vi dico che il regno di Dio vi sarà tolto e sarà dato ad una gente che farà i suoi frutti” (Matteo 21.42,43).

Riflettiamo un attimo: abbiamo dei costruttori, cioè persone teoricamente esperte, che quando procedono alla realizzazione di un edificio scelgono accuratamente la pietra d’angolo consapevoli del fatto che deve sorreggere l’intero edificio. Eppure, hanno scartato proprio la più importante, fallendo miseramente nel compito loro affidatogli.

Infine, ecco la parte finale: “Sarà dato ad una gente che farà i suoi frutti”, dove “suoi” è riferito a quelli del regno. Per quanto venga istintivo fare un accostamento gente – gentili, sbaglieremmo perché col termine il testo intende “persone diverse”, cioè un insieme dato dai pagani e dagli ebrei convertiti, il famoso “residuo” che in Gerusalemme e non solo credette affrontando così le persecuzioni dei propri ex correligionari.

Concludendo, Isaia apre il quinto canto del servo con due domande. Non dà una risposta immediata, ma focalizza subito l’attenzione del lettore sul percorso spirituale del servo, cresciuto “come un virgulto davanti a lui e come un radice in terra arida” per la nostra salvezza. Amen.

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