08.07 – IL MUTO INDEMONIATO (Matteo 9.32-34; Luca 11.14-20)

8.07 – Il muto indemoniato (Matteo 9.32-34; Luca 11.14-20)

 

32Usciti costoro, gli presentarono un muto indemoniato. 33E dopo che il demonio fu scacciato, quel muto cominciò a parlare. E le folle, prese da stupore, dicevano: «Non si è mai vista una cosa simile in Israele». 34Ma i Farisei dicevano: «Egli scaccia i demoni per opera del principe dei demoni”.

 

Prima di affrontare l’episodio è giusto sfatare un’opinione errata che purtroppo compare in diversi commentari i cui autori, trovando delle analogie con il racconto del cieco muto (indemoniato) reperibile in 12.22, sostengono essere il medesimo. È però chiaro che Matteo, che non scrisse il suo Vangelo con disattenzione, non poteva ripetersi e per questo distingue il muto dal cieco muto nonostante sia identica la reazione dei Farisei sostenenti che, se i demoni uscivano dalle persone, era perché Gesù li scacciava con l’aiuto del loro principe. Questa frase, una volta escogitata, verrà presa quasi come norma e ripetuta altre volte dagli avversari di Nostro Signore per spiegare gli esorcismi che operava. Loro intento era quello di confondere la folla, ammirata per quello che vedeva quando era Lui a intervenire: “Non si è mai vista una cosa simile il Israele”. Lasciando quindi l’episodio dell’indemoniato cieco muto ad un successivo commento, possiamo occuparci della versione di Luca, più ricca dal punto di vista dei dialoghi coi detrattori del Signore.

 

14Gesù stava scacciando un demonio che era muto. Uscito il demonio, il muto cominciò a parlare e le folle furono prese da stupore. 15Ma alcuni dissero: «È per mezzo di Beelzebul, capo dei demoni, che egli scaccia i demoni». 16Altri poi, per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo. 17Egli, conoscendo le loro intenzioni, disse: «Ogni regno diviso in se stesso va in rovina e una casa cade sull’altra. 18Ora, se anche Satana è diviso in se stesso, come potrà stare in piedi il suo regno? Voi dite che io scaccio i demoni per Beelzebul. 19Ma se io scaccio i demoni per mezzo di Beelzebul, i vostri figli per mezzo di chi li scacciano? Per questo saranno loro i vostri giudici. 20Se invece io scaccio i demoni con il dito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio»”.

 

Venendo all’episodio, è importante partire da Matteo perché leggiamo “Usciti costoro”, ancora una volta traduzione dettata dall’opportunità narrativa dall’originale “venendo fuori” che pone maggiormente l’accento sulla continuità dell’opera di Gesù che aveva appena guarito i due ciechi. Leggiamo poi “gli presentarono” che ci parla della solidarietà, penso di amici e/o parenti, che abbiamo già incontrato nel caso del paralitico che, sempre in quella stessa casa, fu calato dal tetto perché entrarvi era impossibile a causa della folla. A differenza di tutti gli altri infermi che lo avevano preceduto, l’indemoniato muto non sarebbe mai stato in grado di chiedere aiuto da solo. Mi spiego: l’handicap di quella persona era il mutismo e pertanto avrebbe teoricamente potuto andare da Nostro Signore ed esprimersi con Lui a gesti ma, essendo indemoniato, era impedito a farlo dallo spirito impuro che lo abitava. Di qui l’intervento di amici e parenti che glielo portarono.

Poi, in questo miracolo, di singolare c’è la causa del mutismo dovuta non a sordità, cecità o a un grave trauma infantile, ma al demonio che si era impossessato di quella persona lasciandolo così, incapace di comunicare senza che avesse manifestazioni considerate eclatanti come l’aggressività vista a Gherghesa. Da ciò consegue che Satana può servirsi non solo di uomini a lui soggetti per far male ad altri (indipendentemente dalla quantità), ma anche accanirsi su un singolo per danneggiarlo. Nella complessa trattazione dell’indemoniato di Gherghesa ho citato alcuni tipi di spiriti immondi in base a come si caratterizzano senza citare quello muto perché in un certo senso li compendia tutti in quanto rende chi è dipendente da questo spirito nell’impossibilità non solo di formulare qualunque concetto spirituale, ma neppure di concepirlo lontanamente. Si può essere muti anche parlando e si può parlare facendo del male anche senza essere indemoniati: tutto dipende dalla misura in cui si è abitati e da chi si è abitati. Nel caso dell’innominato protagonista dell’episodio lo spirito impuro gli impediva qualsiasi forma di comunicazione perché, se scopo del parlare è manifestare il proprio pensiero e volontà, limitarsi ad impedire il semplice interloquire non avrebbe avuto senso in quanto chi è muto ricorre a gesti, magari scrive o escogita altri sistemi. Oggi ad esempio, nei casi più gravi, ci sono tetraplegici o persone colpite da ictus gravi che riescono a comunicare guardando le lettere su uno schermo.

Tornando all’episodio sta di fatto che il demonio, in presenza di chi è più forte di lui, a un certo punto – e chiaramente dietro ordine di Gesù – non può fare altro che uscire provocando immediatamente una reazione vista nel cominciare a parlare. A questo punto Matteo riassume in poche parole quanto avvenne, mentre Luca dà più spazio alle reazioni dei presenti: ancora una volta le persone “normali” si stupiscono, ma i Farisei, compresi quelli venuti da Gerusalemme, spiegano, come abbiamo letto, il perché di quell’esorcismo. Alcuni di loro addirittura hanno una reazione forse peggiore, cioè chiedono “un segno per metterlo alla prova” o, come altri traducono “tentandolo”, cioè per avere altri elementi per deriderlo, ma ancora di più accusarlo. Da notare che quella gente non chiede un segno generico, ma “dal cielo”, cioè un avvenimento che fosse inequivocabilmente attribuibile a Dio, quale non riesco a comprendere, quasi che tutto quanto avvenuto anche solo quel giorno, cioè la guarigione della donna emorraissa, della giovanissima figlia di Giairo e dei due ciechi, non fosse sufficiente. A costoro Gesù non risponde nemmeno.

Interessante invece è il personaggio nominato, Beelzebul, o Beelzebub, riferentesi ad una divinità filistea da Baal (signore, padrone) e Zebub (mosca). “Zebul”, però, significava anche letame, idoli, oggetti offensivi e abominevoli per cui il nome può significare “Dio delle mosche” o “delle immondizie”. Era diventato il nome che gli ebrei davano a Satana , come in questo caso.

Siccome però l’ebraico, che se ci pensiamo è la lingua che parlava Dio con Adamo ed Eva e quella in uso prima della confusione a Babele, non può non avere una caratteristica spirituale, ecco che “zebul”, secondo un’accezione totalmente diversa, significa anche “casa, abitazione” per cui Baalzebul è anche il “Signore della casa” visto nel corpo della persona che abita. Ecco perché Gesù, dopo l’ovvio richiamo all’impossibilità che ha un regno diviso si resistere, passerà a parlare di un’abitazione, l’uomo, che non può che venire occupata dallo Spirito di Dio o da un demonio cacciato in precedenza.

Rimaniamo però ai nostri versi: “un regno diviso in se stesso va in rovina”. Col termine “regno” possiamo intendere qualunque sistema organizzato, quindi uno Stato indipendentemente dal tipo di governo, ma anche una famiglia oltre alla stessa, singola persona. Tutto ciò che ha una struttura ha bisogno di un’unitarietà di intenti, progetti, aspirazioni, mete. Quando, ad esempio nel rapporto di coppia, l’uomo e la donna agiscono in modo non tanto indipendente, quanto contrario alle esigenze e alle visioni dell’altro, inevitabilmente questo è destinato a sfaldarsi. E così tutti gli altri rapporti umani indipendentemente dal grado di parentela. Allo stesso modo una persona che subisce delle contraddizioni forti e violente, non in grado di gestire la coerenza, che oggi prova una cosa e domani il suo esatto contrario, non può che sdoppiarsi all’estremo e vivere in una condizione meschina che gli precluderà un rapporto sano col prossimo oltre che con se stesso. Questo è uno dei motivi per cui è scritto “Dio non è un dio di confusione, ma di ordine” (1 Corinti 11.33), frase riferita alle assemblee di una Chiesa e alla Chiesa stessa indipendentemente dalla regione in cui si colloca. Anche lei, certo parlando di quella locale, può sfaldarsi e conoscere defezioni fino a estinguersi, spegnersi, trasformarsi in un’organizzazione in cui prevalgono tradizioni, credenze e riti estranei alla fede.

Quindi Gesù, parlando ai Farisei, fa un primo enunciato sul fatto che Satana ha un regno ben organizzato e non può cacciare se stesso; se mai sappiamo che “si traveste da angelo di luce”, altra frase che aprirebbe considerazioni infinite sulle presunte manifestazioni ritenute “sacre” nella storia anche recente. Il regno di Satana, poi, deve sussistere fino a quando non sarà distrutto, per cui questo personaggio non può permettersi che l’uomo possa venire guarito o salvato. E Gesù era ed è l’unico in grado di potersi a lui opporre.

A questo punto ecco una domanda che ammutolì i detrattori di Gesù: “Se io scaccio i demoni per mezzo di Beelzebul, i vostri figli per mezzo di chi li scacciano?” (v.19). Questa frase ci consente di aprire una parentesi storica. I Padri della Chiesa hanno creduto di riconoscere ne “i vostri figli” gli apostoli in quanto ebrei, ma si tratta di un’ipotesi che non regge anche perché, a quel tempo, nessuno di loro aveva ancora compiuto un miracolo a parte quando furono inviati in missione. Piuttosto sappiamo da Giuseppe Flavio e da un episodio in Atti 19.13 che in Israele a quel tempo c’erano degli esorcisti che ogni tanto qualche risultato lo ottenevano. Si badi bene: ogni tanto, perché altrimenti gli indemoniati li avrebbero portati a loro e non a Gesù. Ebbene questi esorcisti appartenevano alla cerchia degli Scribi e Farisei, più precisamente erano dei loro discepoli che venivano chiamati “figli dei Profeti”.

Gli esorcisti di allora vanno inquadrati nella dispensazione della Legge, in cui la loro efficacia era direttamente proporzionale a quella della Legge stessa paragonata a quella della Grazia che Gesù era venuto ad annunciare non senza adempiere compiutamente quella precedente. Ricordiamoci bene del cortocircuito che si scatenò nel passo di Atti 19.13-16: “Alcuni giudei, che erano esorcisti itineranti, provarono anch’essi a invocare il nome del Signore Gesù sopra quanti avevano spiriti cattivi, dicendo: «Vi scongiuro per quel Gesù che Paolo predica». Così facevano i figli di un certo Sceva, uno dei capi dei sacerdoti, giudeo. Ma lo spirito cattivo rispose loro: «Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete?». E l’uomo che aveva lo spirito cattivo si scagliò contro di loro, ebbe il sopravvento su tutti e li trattò con tale violenza che essi fuggirono da quella casa nudi e coperti di ferite”.

Sta di fatto che comunque Scribi e Farisei avevano i loro esorcisti e che credevano nelle loro imprese, ma a questo punto dovevano spiegare chi stava realmente dietro a tutto: anche “i loro figli” scacciavano i demoni per Beelzebul? Quegli uomini certo non potevano rispondere affermativamente. Non solo, ma sarebbero stati quegli stessi esorcisti a giudicarli, per cui facessero attenzione alle loro parole.

La conclusione quindi è: nel momento in cui Satana non può cacciare se stesso, se Gesù lo mandava via con “il dito di Dio”, espressione che si rifaceva all’intervento persona di YHWH, altro non poteva significare che era giunto a loro quel regno che con estrema ostinazione rifiutavano.

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08.06 – DUE CIECHI (Matteo 9.27-31)

8.06 – Due ciechi (Matteo 9.27-31)

 

27Mentre Gesù si allontanava di là, due ciechi lo seguirono gridando: «Figlio di Davide, abbi pietà di noi!». 28Entrato in casa, i ciechi gli si avvicinarono e Gesù disse loro: «Credete che io possa fare questo?» Gli risposero: «Sì, o Signore!» 29Allora toccò loro gli occhi e disse: «Avvenga per voi secondo la vostra fede». 30E si aprirono loro li occhi. Quindi Gesù li ammonì dicendo: «Badate che nessuno lo sappia!» 31Ma essi, appena usciti, ne diffusero la notizia in tutta quella regione”.

 

Concluso l’episodio del ritorno in vita della figlia di Giairo, Marco riferisce che Gesù partì da Capernaum per Nazareth e Luca passa a trattare l’invio dei dodici in missione. In effetti sono entrambi eventi prossimi. Matteo però inserisce due miracoli particolari: quello della guarigione di due ciechi e, subito dopo, di un muto indemoniato, cui fa seguito un cenno ad un Suo giro missionario compiuto mentre i suoi facevano altrettanto. La guarigione di cui abbiamo letto viene collocata subito dopo quanto avvenuto a casa di Giairo, “Mentre Gesù si allontanava di là”, quando due ciechi seppero che Lui stava passando.

A quei tempi la cecità poteva essere causata fondamentalmente dalla cataratta, che rende opaco il cristallino, o dal glaucoma, danno progressivo del nervo ottico. Erano quelli territori caratterizzati da una forte presenza di raggi solari i cui effetti, aumentati dal riverbero del terreno, causavano un’infiammazione acuta della congiuntiva e della cornea che andava progressivamente aggravandosi perché la gente continuava a vivere all’aperto e non si proteggeva dalla luce del giorno. Aggiungiamo poi infiammazioni varie causate da polvere e sabbia che raramente venivano curate e abbiamo un quadro abbastanza drammatico sul numero dei ciechi che potevano essere presenti nei territori di quel tempo. Non è una credenza popolare il fatto che la mancanza della vista affina i sensi rimanenti che vanno a compensare quello mancante, per cui quando leggiamo “i ciechi lo seguirono” significa che si orientarono sfruttando in particolare l’udito, seguendo non il rumore dei passi di Gesù che ben difficilmente era solo, ma quello della gente che lo seguiva.

Sappiamo che i due ciechi lo seguirono fino a casa sua gridando una breve frase che esprime tutto il loro sentimento: prima abbiamo l’appellativo “Figlio di Davide” che incontriamo per la prima volta nella lettura cronologica dei Vangeli. Con queste parole viene espressa una giusta credenza popolare in base alla quale il Messia sarebbe stato un discendente di Davide. Ciò è provato da Matteo 22.41,42 quando Gesù, interrogando i Farisei per metterli in difficoltà chiese loro “«Cosa pensate del Cristo? Di chi è figlio?»; gli risposero: «Di Davide»”. E tanto Matteo che Luca, nella loro genealogia, si preoccupano di mettere questa discendenza in risalto. Una nota a margine della Bibbia di Gerusalemme afferma giustamente che “Gesù accettò quel titolo con riserva perché implicava una concezione troppo umana del Messia e preferì il titolo di Figlio dell’uomo”.

“Figlio di Davide” lo troviamo infatti poche volte negli scritti del Nuovo Patto: pensiamo alla donna sirofenicia che Lo chiamò così (Matteo 15.22), ai ciechi di Gerico in un episodio definito speculare a questo (20.30) e soprattutto alla folla che Lo accolse in Gerusalemme che, nonostante gli avesse dato quel titolo e lo osannasse, scomparve dopo quell’episodio guardandosi bene dall’intervenire in sua difesa. Eppure “La folla che lo precedeva e quella che lo seguiva gridava: «Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!»” (21.9). Da notare che la parola “Hoshana”, in ebraico e aramaico, significa “Salvaci” e col tempo il cristianesimo gli ha associato in senso di giubilo. Ebbene, dopo quelle manifestazioni in cui Gesù fu “portato in trionfo”, in cui “tutta la città fu presa da agitazione”, fece seguito il nulla.

“Figlio di Davide” è un fatto che fu poi, alla luce di tutte le manifestazioni con cui Gesù si qualificò al mondo, è dato per scontato; pensiamo all’apostolo Paolo che, scrivendo ai credenti di Roma, ne accenna solamente parlando del “…Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di Santità, in virtù della resurrezione dei morti” (1.3) e in 2 Timoteo 2.8, “Ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide”. I due ciechi allora si rivolsero a Nostro Signore chiamandolo così, dimostrando di credere chi effettivamente fosse, facendo affidamento sulla promessa di Isaia 35.5 “Allora saranno aperti gli occhi dei ciechi”.

“Abbi pietà di noi” sono parole dette non da questuanti, ma da chi è convinto che Gesù possa avere un intervento risolutore nei loro confronti, come il padre dell’epilettico che gli disse “Signore, abbi pietà di mio figlio”, o i due lebbrosi, “Gesù maestro, abbi pietà di noi”. E la pietà è un sentimento di partecipazione all’infelicità altrui che non è mai fine a se stessa, non ha niente a che vedere con quella pena che ci possono fare certe persone che vediamo in una triste condizione senza che abbiamo possibilità di far qualcosa per loro. La pietà la prova chi può far qualcosa per un altro e decide di non rimanere immobile perché le circostanze che si sono venute a creare fanno sì che dipenda dalla sua persona un intervento che può mutare radicalmente le condizioni dell’altro. La preghiera dei due ciechi, e come loro di altri che incontreremo, non è “guarisici”, ma “abbi pietà”, cioè in altre parole “Tu solo che puoi, aiutaci”. E questa preghiera non cessò, ma proseguì fino a quando Gesù non entrò in casa sua.

Quello di Nostro Signore non fu un gioco crudele, ma un insegnamento sulla necessità dell’insistere: in questo caso abbiamo due uomini per cui era vitale recuperare la vista, ma il loro seguire Gesù ripetendogli di avere pietà di loro è figura del nostro cercare di avere delle risposte alle nostre necessità spirituali, della preghiera che solo una reale necessità può spingere ad essere continua. Luca 18.1, prima di esporre la parabola del giudice e della vedova, scrive “Diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai” ed è quello che fecero i due ciechi. La loro non era la preghiera di due bambini capricciosi: quei due uomini chiedevano e arrivarono fino alla casa di Gesù perché sapevano che avrebbero potuto venire guariti, forti delle notizie di analoghi miracoli operati nei confronti di altri. Sapevano che, in quanto “Figlio di Davide” secondo l’ottica che abbiamo esaminato, Gesù avrebbe potuto avere pietà di loro.

E qui dobbiamo prestare attenzione a ciò che fu detto: “Credete che io possa fare questo?”. Gesù non chiede se loro credessero davvero che Lui fosse il Cristo, ma se ritenevano che veramente fosse in grado di guarirli, cioè se la loro fede era reale: per riconoscere un titolo a una persona è sufficiente pronunciare delle parole (“Figlio di Davide”), ma credere che gli effetti della sua funzione possano riversarsi su chi la dichiara è una cosa differente. Senza l’intervento di Gesù quei due ciechi avrebbero continuato a condurre una vita umiliante, soggetta alla derisione, allo sfruttamento e al dipendere da altri nonostante avessero dimostrato di essere autonomi. E il loro gridare è un esempio per noi, che ciechi non siamo fisicamente, ma spiritualmente sì, chi più, chi meno. Alla luce rivelata vista nel dono della salvezza, infatti, deve seguire un cammino in cui la vista spirituale si acuisce poco a poco in quanto diversa da quella fisica e certo i due ciechi non tornarono più da Gesù chiedendogli di essere riguariti o per delle visite di controllo. Ma noi di Lui abbiamo bisogno sempre e non possiamo esimerci dal pregare perché le nostre imperfezioni siano smussate e, ancora di più, che le nostre convinzioni personali siano rafforzate o demolite esistendo sempre quel “peccato di inavvertenza” che ci può sempre penalizzare.

Solo di fronte a una risposta affermativa da parte loro Gesù intervenne e lo fece direttamente, personalmente nel senso che avrebbe potuto dire “Sì, lo voglio” e sarebbero stati guariti, ma prima toccò i loro occhi, confermando fisicamente un Suo diretto interessamento. Le parole “Siavi fatto secondo la vostra fede” sottolineano che non può esistere un intervento risolutore di Dio senza una partecipazione umana attraverso la fede perché senza di essa non può operare, come avvenne in altre circostanze; ricordiamo quando a Nazareth Marco scrive “E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità” (6.5,6).

La fede quindi, se correttamente indirizzata, porta a una risoluzione: toccando gli occhi ai due ciechi Gesù fa la sua parte, ma la guarigione avviene solo quando viene dimostrata la proporzione tra fede e il gesto. Solo allora è scritto che “si aprirono i loro occhi”. A questo punto è invitabile chiederci quando “vediamo” realmente noi: credo molto poco e male. E proprio per questo la preghiera dei due ciechi dev’essere anche la nostra, perché possiamo essere in grado di orientarci, conoscere, vedere.

Certo la loro guarigione non poteva rimanere nascosta come tutti gli altri miracoli, compreso quello precedente della figlia di Giairo, eppure leggiamo che “Gesù li ammonì dicendo: «Badate che nessuno lo sappia!»”. Perché? Nessuno avrebbe dovuto scambiare Gesù solo per un guaritore, rivolgersi a Lui come risolutore di un problema esclusivamente materiale. I miracoli infatti erano la conseguenza della Sua missione, non certo la ragione.

Ci chiediamo: allora come oggi era ed è più importante conoscere Cristo come uno che può fare un miracolo, o come Colui che può e vuole salvare? I due ciechi, diffondendo “la notizia per tutta la regione” non aiutarono il progresso del Vangelo come fece l’innominato indemoniato gadareno, ma posero l’accento sulla loro disabilità scomparsa alimentando ancora di più le aspettative delle folle che pensavano al proprio tornaconto, salvo quelli che desideravano saziarsi con parole di vita.

I due ciechi sono allora la figura di quanti, ricevuta una grazia dal Signore, gestiscono le sue conseguenze in modo non appropriato. L’opposto del paralitico di Capernaum che “subito si alzò e andò a casa sua, glorificando Iddio” (Luca 5.25). Fu allora l’umanità a prevalere su queste due persone, mentre la dignità del perdono ricevuto la vediamo più nel paralitico.

Tenere per sé l’avvenuta guarigione non comportava continuare a simulare la cecità, ma vivere una vita nuova dando spiegazione dell’avvenuto cambiamento a chi ne chiedeva la ragione ed era in grado di capirne la risposta, perché le manifestazioni di piazza appartengono al superficiale, all’immediatezza. E il Vangelo e la fede sono molto diverse da quelle.

Concludendo queste riflessioni, va sottolineato che Gesù guarì questi due uomini nonostante sapesse la loro indole impulsiva, guardando alla loro fede segno che la salvezza non è destinata soltanto a uomini di razze e nazionalità diverse, ma anche indipendentemente dal carattere, risultato della genetica e delle esperienze vissute.

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08.05 – LA FIGLIA DI GIAIRO (Marco 5.21-24, 35-43)

8.05 – La figlia di Giairo (Marco 5.21-24; 35-43)

 

21Essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. 22E venne uno dei capi della Sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi 23e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». 24Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. (…) 35Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della Sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». 36Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della Sinagoga: «Non temere. Soltanto, abbi fede». 37E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. 38Giunsero alla casa del capo della Sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. 39Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme. 40E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dov’era la bambina. 41Prese la mano della bambina e le disse «Talità kum», che significa “Fanciulla, io ti dico, alzati!» 42E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. 43E raccomandò con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare”.

 

Fra i tanti che attendevano il ritorno di Gesù che si era allontanato in barca alla riva opposta del lago nel territorio della Decàpoli, i più ansiosi erano senza dubbio Giairo e la donna emorroissa. La figura di Giairo è particolare per il suo ruolo oltre che per carattere: Matteo non lo cita per nome e lo qualifica come “uno dei capi”, Marco “uno dei capi della Sinagoga” e poco dopo “capo della Sinagoga”. E Luca fa lo stesso definendolo “capo”. Non credo ci sia discordanza nel modo in cui quest’uomo è definito, poiché la Sinagoga poteva venir governata, a seconda della sua importanza, tanto da un collegio di rabbini che facevano riferimento a un presidente, quando da uno solo. Poi, gli stessi erano anche magistrati preposti agli affari della comunità giudaica e avevano autorità di infliggere sanzioni di vario genere.

Guardando alla figura di Giairo e come si era posto nei confronti di Gesù, possiamo concludere che, se non lo avesse stimato e ritenuto in grado di guarire la propria figlia, non si sarebbe certamente rivolto a Lui nel senso che non va da Gesù come “ultima spiaggia”, ma per fede. Giairo era stato sicuramente tra quelli che avevano parlato in bene di quel centurione che, tempo prima, Gli aveva chiesto di guarire il suo servo. Ricordando l’episodio, avevamo letto che il centurione “gli mandò alcuni anziani dei Giudei – e Giairo era il più importante – a pregarlo di venire e di salvare il suo servo. Costoro, giunti da Gesù, lo pregavano con insistenza: «Egli merita che tu gli faccia questa grazia – dicevano – perché ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga»” (Luca 7.3-5). Interessatosi quindi assieme ad altri perché Gesù si prendesse carico del caso del centurione, è impossibile che non avesse saputo del miracolo. Ora però Giairo si ritrovava nella stessa condizione, con una figlia dodicenne che stava morendo, non sappiamo se per una malattia o per un incidente occorsole; sta di fatto che l’attesa che il Signore tornasse dal viaggio fu molto penosa e che, non appena lo vide, gli si gettò ai piedi, atteggiamento che esprime tanto la deferenza che nutriva nei Suoi confronti, quando l’estrema gravità dell’occasione.

Sappiamo che in quei momenti si intrecciarono due casi importanti, Giairo e l’anonima emorroissa, ma anche due “dodici” visti negli anni della giovane e in quelli di patimento della donna. Coi primi stava per finire l’infanzia e si entrava nell’età adulta (diversamente dai nostri usi, la figlia di Giairo aveva appena raggiunto o stava per avere età da marito) quindi si trattava di un numero importante che suggeriva speranza anziché morte; i secondi invece, quelli della donna, sappiamo che ci parlano di sofferenza e umiliazione.

Giairo quindi si getta ai piedi di Gesù supplicandolo “con insistenza”, quella che credo solo un padre angosciato per l’imminente perdita di una figlia possa avere. Nessuno se non Lui avrebbe potuto aiutarlo anche perché dalle versioni che abbiamo emerge che Giairo non poteva sapere se la ragazzina fosse viva o meno. Teniamo anche presente che tra le rive del lago e Capernaum intercorrevano circa 4km, che percorsi di buon passo avrebbero richiesto almeno 40 minuti. In più, dopo le parole “Vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva”, ecco frapporsi il caso della donna con la sua confessione di fede, per cui possiamo immaginarci con quanta ansia Giairo avesse atteso la conclusione della vicenda. Quell’uomo voleva che Gesù imponesse le mani alla figlia perché guarisse: quindi Lo considerava un profeta in grado di intervenire là dov’era umanamente impossibile, idea che accomuna entrambi i protagonisti di quei momenti, Giairo e l’emorroissa. Possiamo dire che, quel giorno, Nostro Signore fu riconosciuto tale da due esponenti che rappresentavano il popolo comune da una parte e l’autorità religiosa dall’altra. Giairo non era un dottore della legge venuto da Gerusalemme per condannare a priori, chiuso nel proprio formalismo, ma un responsabile che aveva avuto modo di meditare gli insegnamenti di Gesù e constatarne gli effetti attraverso l’edificazione dei componenti della Sinagoga e i miracoli fatti a Capernaum, per cui sapeva esattamente a chi si stava rivolgendo. Certo, il tutto considerando la limitatezza delle idee che allora si avevano su di Lui perché sappiamo che ci volle molto tempo prima che fosse riconosciuto come “…il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”.

La reazione di Gesù fu proporzionale alla richiesta, “andò con lui”. A questo punto sappiamo che si inserisce la guarigione della donna con relativa testimonianza e, al termine, l’arrivo di un messaggero che porta la notizia del decesso della giovane. Le sue parole sono di una realtà cruda dalla quale traspare l’inevitabile umano: “Tua figlia è morta, perché disturbi ancora il Maestro?”, oppure, secondo Luca, “non disturbare più il Maestro”. In pratica, secondo quella persona e chi l’aveva mandata era giusto chiedere a Gesù un intervento mentre la giovane era in vita, ma nel momento in cui la morte aveva posto il proprio sigillo scrivendo la parola “fine” alla sua esistenza, ogni preghiera avrebbe cessato di avere senso. Ecco, qui abbiamo già un’anticipazione del miracolo perché le parole “Non temere, soltanto abbi fede”, che provenivano da chi aveva autorità sulla vita e sulla morte fanno da contrasto a ogni idea, mentalità, ragionamento umano.

Da una parte abbiamo l’invito “Non disturbare più il Maestro” sottintendendo “perché tanto non può fare più nulla”, dall’altra, contro ogni logica umana, c’è un appello a Giairo a non temere e ad avere fede. È una chiamata diretta, precisa, individuale, in direzione contraria a tutto ciò che gli altri pensavano, al loro acquisito. “Non temere, soltanto abbi fede” sono le stesse parole che il Signore rivolge ad ogni essere umano anche oggi, invitandolo a staccarsi dal metro valutativo terreno che contiene sempre una conoscenza esclusivamente carnale, dimostrando che è la Sua l’unica logica possibile. significava porgli dei limiti o presumere che li avesse, proprio come avviene ora in cui la conoscenza umana è progredita, certo non dal punto di vista spirituale.

Questo passo, per il modo con cui gli evangelisti sviluppano i personaggi, dimostra che siamo noi non solo a porre dei limiti alla potenza di Dio, ma che corriamo il pericolo di non avere di Lui una corretta opinione se non ci dedichiamo allo studio della Sua parola. Le dinamiche dell’episodio, poi, sottolineano che questo applicarsi serve a ben poco se non si mette lo Spirito Santo nelle condizioni di agire in noi per illuminarci per primi e renderci così utili. Per questo ci vuole molta umiltà e vigilanza, un confronto serio, un giudizio continuo su noi stessi valutando i risultati delle nostre azioni dopo un attento esame. Ricordiamoci dei dodici e della loro missione, quando “Al loro ritorno, gli apostoli raccontarono a Gesù tutto quello che avevano fatto” (Luca 9.10) . La stessa cosa dobbiamo fare noi, quando la giornata concessaci sta per concludersi, per discutere alla Sua presenza di come abbiamo speso il nostro tempo e i risultati ottenuti, come e se abbiamo saputo reagire alle negatività, se abbiamo conseguito successi o fallimenti e probabilmente li avremo riportati entrambi. Ma il fallimento, che indica la nostra umanità e debolezza, dev’essere strumento di crescita per la costituzione di quell’armatura che solo noi possiamo procurarci attivamente. Un risultato mancante trova sempre la sua origine in un difetto della nostra “armatura”.

Andiamo in Efesi 6.10-17: “Per il resto, rafforzatevi nel Signore e nel vigore della sua potenza – quindi il credente, se non agisce così, rimane debole –. Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti – cioè in territori diversi dai nostri, “cieli” come tutto ciò che non possiamo raggiungere –. Prendete dunque l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove – e superare è l’opposto della sconfitta –. Siate saldi, dunque: attorno ai fianchi, la verità; indosso, la corazza della giustizia; i piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace. Afferrate sempre lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito che è la Parola di Dio”.

Bene. A Giairo Gesù, che a quel tempo poneva le basi anche per un edificio spirituale che poi sarà lo Spirito Santo a costruire, chiede fede perché quella freccia che il Maligno aveva scagliato e aveva colpito a morte la figlia potesse essere spenta.

Dalla lettura dei sinottici sappiamo che la gente seguì Gesù fino davanti alla casa in cui tutti facevano il solito cordoglio fuori luogo che si manifestava, anziché tramite un dolore dignitoso e nobile, attraverso musiche e soprattutto l’opera di piangitrici di professione pagate per emettere alte grida e invitare alla commozione generale, vera o finta non importava. Ecco perché abbiamo letto che la gente “piangeva e urlava forte”, traduzione che letteralmente suona con “facevano un grande strepito, gente che piangeva e faceva un grande urlare”. Erano tutti elementi di tradizione pagana che andavano a snaturare la nobiltà e dignità del dolore.

A questo punto ci troviamo di fronte ad una frase illuminante di Gesù sulla quale si è molto discusso, “La bambina non è morta, ma dorme”, abbiamo “bambina”, non “fanciulla” o “ragazza” perché qui il termine usato è neutro, “to paidìon”, adattabile a qualsiasi genere in quanto la figlia di Giairo è vista come creatura al di là del sesso e non aveva ancora raggiunto i 13 anni in cui sarebbe stata dichiarata “figlia del comandamento”. Sul significato del “dormire”, che fu preso dai presenti come un controsenso e quindi motivo di derisione nei confronti di Gesù, molto è stato scritto e detto, ma l’unica lettura possibile è che con la frase “non è morta, ma dorme”, Lui intenda correggere l’opinione che la quasi totalità del genere umano ha del decesso, cioè la fine di tutto, a parte usare una strategia che vedremo a breve.

La “morte” intesa come cessazione del battito cardiaco e la consunzione del corpo certo è un dato di fatto, ma in realtà le persone “si addormentano” perché destinate alla resurrezione e sarà lì che avverrà lo “smistamento” tra la vera vita e la vera morte. È triste constatare che alcune Bibbie, per semplificare, hanno stravolto il senso profondo di questo termine e così, ad esempio in 1 Tessalonicesi 4.15, leggiamo “Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti”, quando l’originale è “di quelli che dormono”, o “si sono addormentati”. L’uomo infatti non muore mai e se ciò accadrà, sarà per quelli che non avranno accolto il sacrificio di Gesù per essere salvati. Infatti: “Poi la Morte e gli inferi furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la seconda morte, lo stagno di fuoco. E chi non risultò scritto nel libro della vita fu gettato nello stagno di fuoco” (Apocalisse 20.14).

Tornando all’episodio, a questo punto Gesù non ammette che la soglia di casa sia varcata da nessuno salvo un gruppo molto stretto di persone, Pietro, Giacomo e Giovanni (Luca 8.51) oltre a Giairo e sua moglie; parla alla giovane in aramaico, “Talita kum”, cioè “Fanciulla, alzati”, richiamandola in vita e dimostrando di avere potere tanto sulla vita quanto sulla morte. Questo era lo scopo che Nostro Signore si prefiggeva, perché nonostante il dare sollievo a due genitori affranti non fosse certo cosa da poco, riportare in vita una bambina destinata a morire comunque più avanti avrebbe avuto senso solo se inquadrato nel concetto “Io ho le chiavi della morte e degli inferi”, uno dei cardini della dottrina cristiana.

Mi sono chiesto perché Gesù abbia ordinato “che nessuno venisse a saperlo” quando sarebbe stato impossibile: credo che si riferisse alle modalità con la quale aveva operato quella resurrezione in opposizione all’incredulità manifestata dai presenti che lo avevano deriso. Il miracolo non solo era stato operato alla presenza di  cinque testimoni, ma si era manifestato con modalità che agli altri non dovevano interessare. I tre apostoli sono la figura del credente spirituale cui sono affidate responsabilità che altri non hanno, sono la rappresentazione del fatto che l’essere “fratelli” non è cosa che si può generalizzare esistendo credenti vittime della propria carnalità e altri che si sono appartati e hanno ricevuto posizioni e doni diversi. Giairo e la moglie invece rappresentano chi sperimenta su di sé i benefici del Vangelo, potenza che non ha né può avere limiti. Agli altri però, quelli che avevano reagito deridendo Gesù, si sarebbe potuto dire che la bambina era caduta in una sorta di sonno molto profondo che, per quanto spiegabile, era tale. Alla ragazzina, infine, fu dato da mangiare non per recuperare le forze, ma perché fosse dimostrato tramite il prender cibo che era tornata in possesso di tutte le facoltà vitali esattamente come al paralitico, sempre in Capernaum, fu ordinato di prendere la propria barella e tornarsene a casa.

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08.04 – LA DONNA EMORROISSA (Marco 5.21-34)

8.04 – La donna emorroissa (Marco 5.21-34)

 

21Essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. 22E venne uno dei capi della Sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi 23e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». 24Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. 25Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni 26e aveva molto sofferto per opera di molti medici spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi, piuttosto peggiorando, 27udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. 28Diceva infatti: «Se riuscirò solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». 29E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male. 30E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: Chi ha toccato le mie vesti?» 31I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici «Chi mi ha toccato?»». 32Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. 33E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. 34Egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”.

 

Narrato dai sinottici, è un miracolo particolare perché tutti lo incuneano nella narrazione della risurrezione della figlia di Giàiro. È stato definito un “miracolo Giacobbiano” da Giacobbe, il cui nome non significa “soppiantatore” come molti interpretano, ma “colui che precede”. Matteo dedica all’episodio tre versi (9.20-22), mentre Marco e Luca aprono spazi ricchi di particolari utili, inquadrando prima di tutto il clima di aspettative che si era creato nei confronti di Gesù che era stato assente da Capernaum e dintorni per poco tempo: partito la sera su una barca coi discepoli, seguito da molti su altre, era approdato in territorio gadareno al mattino dal quale aveva fatto rientro nel pomeriggio. Ebbene, furono sufficienti poche ore perché la gente ne sentisse la mancanza per le ragioni più disparate: riconoscenza, stima, desiderio ascoltare le Sue parole, ma anche voler vedere miracoli o solo ascoltare le sue risposte in caso di conflitto dottrinale con qualche scriba o fariseo, senza contare l’attesa di Lui che avevano i malati, tra i quali Giàiro per sua figlia e la donna col flusso di sangue..

Luca scrive che, non appena approdò, “fu accolto dalla folla, perché tutti erano in attesa di lui” (8.40), situazione che ancora una volta dimostra il significato della frase detta al discepolo “le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Matteo 8.20), o le parole pronunciate in territorio samaritano, “Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera” (Giovanni 4.34). Un’opera incessante, che non conosceva soste, in mezzo agli uomini altrimenti perduti.

Riflettiamo ora sulla frase detta ai discepoli: “Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: «Vado a prepararvi un posto»? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, sapete anche la via” (Giovanni 14.2,3). Anche qui abbiamo un’opera incessante vista nel preparare “il posto” a tutti coloro che avrebbero creduto nel corso dei secoli, che culminerà con Suo ritorno: a Capernaum lo si aspettava sulla riva del mare perché tornasse a dissetare con la Sua parola, nella terra corrotta del futuro altri uomini e donne Lo avrebbero atteso perché li liberasse per sempre da un corpo votato alla morte intesa non come cessazione del battito cardiaco, ma come condizione perché tutto ciò che ci circonda è, appunto, morte. Ogni cosa è destinata ad avere una fine e porta in sé gli elementi del peccato.

Mettiamo da parte la figura di Giàiro, oggetto del prossimo studio, e soffermiamoci ora sulla donna conosciuta come emorroissa, dal greco “aimorroéo”, “perdere sangue”. La sua condizione la escludeva dalla comunità secondo Levitico 15.25-28: “La donna che ha un flusso di sangue per molti giorni, fuori del tempo delle mestruazioni, o che lo abbia più del normale, sarà impura per tutto il tempo del flusso, come durante le sue mestruazioni. Ogni giaciglio sul quale si coricherà durante tutto il tempo del flusso sarà per lei come il giaciglio sul quale si corica quando ha le mestruazioni; ogni oggetto sul quale si siederà sarà impuro, come lo è quando ha le mestruazioni. Chiunque toccherà quelle cose sarà impuro; dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell’acqua e sarà impuro fino a sera. Se sarà guarita dal suo flusso, conterà sette giorni e poi sarà pura”. Il fatto che chi toccasse una donna impura lo rimanesse fino a sera e che addirittura “ogni mobile sul quale si sarà seduta sarà impuro” come ogni oggetto da lei toccato (vv.19-23), credo renda sufficientemente l’idea dello stato di emarginazione in cui quella donna era costretta a vivere da dodici anni, numero che in questo caso ci parla di sottomissione forzata e sofferta che porta alla ribellione come nel caso dei cinque re che furono soggetti per tale tempo a Chedorlaomer, re di Siria (Genesi 14.4).

Possiamo allora immaginare il grado di sofferenza in cui versava quella donna innominata: isolata, privata di rapporti sociali, aveva interpellato i medici di allora, dal primo che le era capitato al più bravo o ritenuto tale, ogni volta sperando di guarire e puntualmente restando delusa. Il testo di Marco dice “aveva molto sofferto per opera di molti medici”, due “molto”, certo fisicamente e moralmente, tra l’altro raggiungendo la povertà, segno che un tempo era di condizione agiata.

Certo la malattia che un medico o la medicina non riesce a curare indica il limite che ha la scienza umana a prescindere dall’epoca e di tale limite approfitta Satana che, tramite guaritori, maghi o pranoterapeuti illude l’essere umano di una possibile guarigione lasciandolo alla fine ancora più angosciato, solo e umiliato. Così, temendo la propria fine e interiormente disarticolata dalle sofferenze fisiche e morali, la creatura inferma non sa più a chi votarsi e, oggi, un pellegrinaggio a Lourdes o altre località simili prendono il posto delle illusioni precedenti.

Giuseppe Ricciotti annota che a volte erano gli stessi rabbini a svolgere la funzione di medico, ma con metodi che definire superstiziosi è poco. Ad esempio facevano “sedere la donna malata alla biforcazione di una strada facendole tenere in mano un bicchiere di vino; qualcuno, ad un tratto, venendole di soppiatto alle spalle, doveva gridarle che cessasse il profluvio di sangue”. Oppure si prendeva “un granello d’orzo trovato nello stabbio (recinto) di un mulo bianco: prendendolo per un giorno il profluvio sarebbe cessato per due giorni, per due sarebbe cessato per tre e prendendolo per tre si sarebbe ottenuta la guarigione completa e per sempre. Altre ricette richiedevano l’impiego di droghe rare e costose, e quindi comportavano grandi spese da parte della malata”.

Ora la donna del nostro episodio aveva forse sperimentato anche questi rimedi, che avevano generato in lei credo un senso di solitudine ancora maggiore, e forse interrogativi seri nei confronti di una religione e ministri che non l’avevano saputa guarire; ricordiamo le parole “spendendo tutti i suoi avere senza avere alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando”. Nel suo caso, tutti i tentativi per guarire davano come risultato l’esatto contrario. Però, a un certo punto sente parlare di Gesù, chissà se direttamente dalla gente o da una persona da lui miracolata e inizia un percorso tutto particolare. Ci dobbiamo chiedere quale ragionamento avesse fatto per concludere che le sarebbe bastato “anche solo toccare le sue vesti” – precisamente “il lembo del mantello” secondo Luca 8.44 – per guarire dalla sua impurità e dal peccato che l’aveva provocata. Ricordiamo infatti che quella donna era un’israelita, per cui per lei in quanto tale valeva la regola che all’origine della malattia ci fosse un peccato e questa non rientrasse nei casi della vita come per gli altri popoli.

Ebbene, la prima conclusione cui la donna giunse fu che Gesù fosse veramente chi diceva di essere perché altrimenti non pensò a toccare la sua veste, che a quel tempo rappresentava la persona, la sua dignità e l’ufficio che rivestiva. In altre parole ciò che voleva fare non aveva nulla a che vedere con un gesto scaramantico paragonabile a quello di chi oggi bacia un’immagine “sacra”, una statua o una reliquia immaginando chissà cosa, ma il venire a contatto con una persona che la propria santità e missione la dimostrava quotidianamente guarendo ogni malattia. E la veste era un tutt’uno con lei. Teniamo presente che, se per guarire fosse bastato solamente “toccare” Nostro Signore, tutti coloro che sulle rive del lago lo stringevano attorno si sarebbero sentiti meglio e – mi si perdoni il paragone – sarebbero guariti anche da un banale raffreddore o anche solo dalla stanchezza, cosa che naturalmente i Vangeli non dicono. Interessante Marco 6.56 che scrive “E là dove giungeva, in villaggi o città o campagne, deponevano i malati nelle piazze e lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello; e quanti lo toccavano venivano salvati”.

Perché? Il “lembo” era la frangia viola che si trovava sugli orli della veste: “Avrete tali frange e, quando le guarderete, vi ricorderete di tutti i comandi del Signore e li eseguirete; non andrete vagando dietro il vostro cuore e i vostri occhi, seguendo i quali vi prostituireste. Così vi ricorderete di tutti i miei comandi, li metterete in pratica e sarete santi per il vostro Dio” (Numeri 15.39,40). Non vi fu un comandamento che Gesù disattese, lui, “venuto non per abolire, ma per adempiere”. Dunque, toccandogli la veste per essere guariti si dimostrava di credere nel suo ruolo, toccare il lembo era un modo per riconoscerne la santità operante la guarigione.

In conseguenza di quel gesto “immediatamente l’emorragia si arrestò” e allo stesso tempo Gesù chiese chi lo avesse toccato perché “una forza era uscita da lui”. Certo, come già rilevato in altro episodio, Lui sapeva chi aveva agito così, ma voleva che si rivelasse. Quella donna avrebbe potuto benissimo non dire nulla e andarsene, poiché quel “vedendo che non poteva rimaner nascosta” in Luca 8.47 si riferisce a una condizione morale e non di fatto: l’innominata avrebbe potuto eclissarsi tra la folla, ma si manifesta “impaurita e tremante” per la moltitudine di sentimenti che l’occupavano, gettandoglisi ai piedi perché la riconoscenza non poteva che spingerla a questo, oltre alla consapevolezza di essere una peccatrice di fronte a Colui che l’aveva guarita non volontariamente, ma per emanazione.

Sappiamo cosa avvenne: “Gli disse tutta la verità”, o “Dichiarò davanti a tutto il popolo per quale motivo l’aveva toccato e com’era stata guarita all’istante” (Luca 8.47); raccontò quindi la sua storia, i ragionamenti, le conclusioni che l’avevano portata ad agire in quel modo. Non c’è quindi spirito, da Dio o dall’Avversario come nel caso dell’indemoniato gadareno, che non possa rivelarsi di fronte a Gesù Cristo.

Con le parole “Figlia – perché tale era diventata avendo accolto la Sua parola – la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”, Gesù le accorda la Sua benedizione, dicendole che era stata salvata, cioè posta nelle condizioni di essere dei Suoi, di rientrare in coloro che un giorno lo avrebbero incontrato nella gloria. In pratica, la donna era stata guarita dal suo peccato, poiché ciò che nel nostro testo è tradotto con “male” è in realtà “flagello”, termine che nella Scrittura si riferisce a una punizione di Dio.

Scrive un fratello: “Quella guarigione che la donna aveva carpito di nascosto perché non sarebbe potuta stare tra la gente comune, dopo la sua confessione aveva ben altro valore. Tutti coloro che la conoscevano l’avrebbero interrogata in proposito, per cui poteva rispondere parlando bene di Gesù perché altri beneficiassero del suo intervento”.

Infine, abbiamo la fede. Non consiste in un tentativo che si fa cercando di autoconvincersi, ma attraverso una certezza interiore che non può essere insegnata. Alla fede, come avvenuto per la donna emorroissa, si giunge da soli. A volte a suscitarla è un ragionamento, in altre l’istinto, ma sta di fatto che è lei che giustifica l’uomo davanti a Dio (Romani 1.28) ed è “certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono” (Ebrei 11.1,2). Certezza e dimostrazione che nessuno può togliere e che ogni cristiano conosce. Amen.

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