08.04 – LA DONNA EMORROISSA (Marco 5.21-34)

8.04 – La donna emorroissa (Marco 5.21-34)

 

21Essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. 22E venne uno dei capi della Sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi 23e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». 24Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. 25Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni 26e aveva molto sofferto per opera di molti medici spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi, piuttosto peggiorando, 27udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. 28Diceva infatti: «Se riuscirò solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». 29E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male. 30E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: Chi ha toccato le mie vesti?» 31I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici «Chi mi ha toccato?»». 32Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. 33E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. 34Egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”.

 

Narrato dai sinottici, è un miracolo particolare perché tutti lo incuneano nella narrazione della risurrezione della figlia di Giàiro. È stato definito un “miracolo Giacobbiano” da Giacobbe, il cui nome non significa “soppiantatore” come molti interpretano, ma “colui che precede”. Matteo dedica all’episodio tre versi (9.20-22), mentre Marco e Luca aprono spazi ricchi di particolari utili, inquadrando prima di tutto il clima di aspettative che si era creato nei confronti di Gesù che era stato assente da Capernaum e dintorni per poco tempo: partito la sera su una barca coi discepoli, seguito da molti su altre, era approdato in territorio gadareno al mattino dal quale aveva fatto rientro nel pomeriggio. Ebbene, furono sufficienti poche ore perché la gente ne sentisse la mancanza per le ragioni più disparate: riconoscenza, stima, desiderio ascoltare le Sue parole, ma anche voler vedere miracoli o solo ascoltare le sue risposte in caso di conflitto dottrinale con qualche scriba o fariseo, senza contare l’attesa di Lui che avevano i malati, tra i quali Giàiro per sua figlia e la donna col flusso di sangue..

Luca scrive che, non appena approdò, “fu accolto dalla folla, perché tutti erano in attesa di lui” (8.40), situazione che ancora una volta dimostra il significato della frase detta al discepolo “le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Matteo 8.20), o le parole pronunciate in territorio samaritano, “Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera” (Giovanni 4.34). Un’opera incessante, che non conosceva soste, in mezzo agli uomini altrimenti perduti.

Riflettiamo ora sulla frase detta ai discepoli: “Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: «Vado a prepararvi un posto»? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, sapete anche la via” (Giovanni 14.2,3). Anche qui abbiamo un’opera incessante vista nel preparare “il posto” a tutti coloro che avrebbero creduto nel corso dei secoli, che culminerà con Suo ritorno: a Capernaum lo si aspettava sulla riva del mare perché tornasse a dissetare con la Sua parola, nella terra corrotta del futuro altri uomini e donne Lo avrebbero atteso perché li liberasse per sempre da un corpo votato alla morte intesa non come cessazione del battito cardiaco, ma come condizione perché tutto ciò che ci circonda è, appunto, morte. Ogni cosa è destinata ad avere una fine e porta in sé gli elementi del peccato.

Mettiamo da parte la figura di Giàiro, oggetto del prossimo studio, e soffermiamoci ora sulla donna conosciuta come emorroissa, dal greco “aimorroéo”, “perdere sangue”. La sua condizione la escludeva dalla comunità secondo Levitico 15.25-28: “La donna che ha un flusso di sangue per molti giorni, fuori del tempo delle mestruazioni, o che lo abbia più del normale, sarà impura per tutto il tempo del flusso, come durante le sue mestruazioni. Ogni giaciglio sul quale si coricherà durante tutto il tempo del flusso sarà per lei come il giaciglio sul quale si corica quando ha le mestruazioni; ogni oggetto sul quale si siederà sarà impuro, come lo è quando ha le mestruazioni. Chiunque toccherà quelle cose sarà impuro; dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell’acqua e sarà impuro fino a sera. Se sarà guarita dal suo flusso, conterà sette giorni e poi sarà pura”. Il fatto che chi toccasse una donna impura lo rimanesse fino a sera e che addirittura “ogni mobile sul quale si sarà seduta sarà impuro” come ogni oggetto da lei toccato (vv.19-23), credo renda sufficientemente l’idea dello stato di emarginazione in cui quella donna era costretta a vivere da dodici anni, numero che in questo caso ci parla di sottomissione forzata e sofferta che porta alla ribellione come nel caso dei cinque re che furono soggetti per tale tempo a Chedorlaomer, re di Siria (Genesi 14.4).

Possiamo allora immaginare il grado di sofferenza in cui versava quella donna innominata: isolata, privata di rapporti sociali, aveva interpellato i medici di allora, dal primo che le era capitato al più bravo o ritenuto tale, ogni volta sperando di guarire e puntualmente restando delusa. Il testo di Marco dice “aveva molto sofferto per opera di molti medici”, due “molto”, certo fisicamente e moralmente, tra l’altro raggiungendo la povertà, segno che un tempo era di condizione agiata.

Certo la malattia che un medico o la medicina non riesce a curare indica il limite che ha la scienza umana a prescindere dall’epoca e di tale limite approfitta Satana che, tramite guaritori, maghi o pranoterapeuti illude l’essere umano di una possibile guarigione lasciandolo alla fine ancora più angosciato, solo e umiliato. Così, temendo la propria fine e interiormente disarticolata dalle sofferenze fisiche e morali, la creatura inferma non sa più a chi votarsi e, oggi, un pellegrinaggio a Lourdes o altre località simili prendono il posto delle illusioni precedenti.

Giuseppe Ricciotti annota che a volte erano gli stessi rabbini a svolgere la funzione di medico, ma con metodi che definire superstiziosi è poco. Ad esempio facevano “sedere la donna malata alla biforcazione di una strada facendole tenere in mano un bicchiere di vino; qualcuno, ad un tratto, venendole di soppiatto alle spalle, doveva gridarle che cessasse il profluvio di sangue”. Oppure si prendeva “un granello d’orzo trovato nello stabbio (recinto) di un mulo bianco: prendendolo per un giorno il profluvio sarebbe cessato per due giorni, per due sarebbe cessato per tre e prendendolo per tre si sarebbe ottenuta la guarigione completa e per sempre. Altre ricette richiedevano l’impiego di droghe rare e costose, e quindi comportavano grandi spese da parte della malata”.

Ora la donna del nostro episodio aveva forse sperimentato anche questi rimedi, che avevano generato in lei credo un senso di solitudine ancora maggiore, e forse interrogativi seri nei confronti di una religione e ministri che non l’avevano saputa guarire; ricordiamo le parole “spendendo tutti i suoi avere senza avere alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando”. Nel suo caso, tutti i tentativi per guarire davano come risultato l’esatto contrario. Però, a un certo punto sente parlare di Gesù, chissà se direttamente dalla gente o da una persona da lui miracolata e inizia un percorso tutto particolare. Ci dobbiamo chiedere quale ragionamento avesse fatto per concludere che le sarebbe bastato “anche solo toccare le sue vesti” – precisamente “il lembo del mantello” secondo Luca 8.44 – per guarire dalla sua impurità e dal peccato che l’aveva provocata. Ricordiamo infatti che quella donna era un’israelita, per cui per lei in quanto tale valeva la regola che all’origine della malattia ci fosse un peccato e questa non rientrasse nei casi della vita come per gli altri popoli.

Ebbene, la prima conclusione cui la donna giunse fu che Gesù fosse veramente chi diceva di essere perché altrimenti non pensò a toccare la sua veste, che a quel tempo rappresentava la persona, la sua dignità e l’ufficio che rivestiva. In altre parole ciò che voleva fare non aveva nulla a che vedere con un gesto scaramantico paragonabile a quello di chi oggi bacia un’immagine “sacra”, una statua o una reliquia immaginando chissà cosa, ma il venire a contatto con una persona che la propria santità e missione la dimostrava quotidianamente guarendo ogni malattia. E la veste era un tutt’uno con lei. Teniamo presente che, se per guarire fosse bastato solamente “toccare” Nostro Signore, tutti coloro che sulle rive del lago lo stringevano attorno si sarebbero sentiti meglio e – mi si perdoni il paragone – sarebbero guariti anche da un banale raffreddore o anche solo dalla stanchezza, cosa che naturalmente i Vangeli non dicono. Interessante Marco 6.56 che scrive “E là dove giungeva, in villaggi o città o campagne, deponevano i malati nelle piazze e lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello; e quanti lo toccavano venivano salvati”.

Perché? Il “lembo” era la frangia viola che si trovava sugli orli della veste: “Avrete tali frange e, quando le guarderete, vi ricorderete di tutti i comandi del Signore e li eseguirete; non andrete vagando dietro il vostro cuore e i vostri occhi, seguendo i quali vi prostituireste. Così vi ricorderete di tutti i miei comandi, li metterete in pratica e sarete santi per il vostro Dio” (Numeri 15.39,40). Non vi fu un comandamento che Gesù disattese, lui, “venuto non per abolire, ma per adempiere”. Dunque, toccandogli la veste per essere guariti si dimostrava di credere nel suo ruolo, toccare il lembo era un modo per riconoscerne la santità operante la guarigione.

In conseguenza di quel gesto “immediatamente l’emorragia si arrestò” e allo stesso tempo Gesù chiese chi lo avesse toccato perché “una forza era uscita da lui”. Certo, come già rilevato in altro episodio, Lui sapeva chi aveva agito così, ma voleva che si rivelasse. Quella donna avrebbe potuto benissimo non dire nulla e andarsene, poiché quel “vedendo che non poteva rimaner nascosta” in Luca 8.47 si riferisce a una condizione morale e non di fatto: l’innominata avrebbe potuto eclissarsi tra la folla, ma si manifesta “impaurita e tremante” per la moltitudine di sentimenti che l’occupavano, gettandoglisi ai piedi perché la riconoscenza non poteva che spingerla a questo, oltre alla consapevolezza di essere una peccatrice di fronte a Colui che l’aveva guarita non volontariamente, ma per emanazione.

Sappiamo cosa avvenne: “Gli disse tutta la verità”, o “Dichiarò davanti a tutto il popolo per quale motivo l’aveva toccato e com’era stata guarita all’istante” (Luca 8.47); raccontò quindi la sua storia, i ragionamenti, le conclusioni che l’avevano portata ad agire in quel modo. Non c’è quindi spirito, da Dio o dall’Avversario come nel caso dell’indemoniato gadareno, che non possa rivelarsi di fronte a Gesù Cristo.

Con le parole “Figlia – perché tale era diventata avendo accolto la Sua parola – la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”, Gesù le accorda la Sua benedizione, dicendole che era stata salvata, cioè posta nelle condizioni di essere dei Suoi, di rientrare in coloro che un giorno lo avrebbero incontrato nella gloria. In pratica, la donna era stata guarita dal suo peccato, poiché ciò che nel nostro testo è tradotto con “male” è in realtà “flagello”, termine che nella Scrittura si riferisce a una punizione di Dio.

Scrive un fratello: “Quella guarigione che la donna aveva carpito di nascosto perché non sarebbe potuta stare tra la gente comune, dopo la sua confessione aveva ben altro valore. Tutti coloro che la conoscevano l’avrebbero interrogata in proposito, per cui poteva rispondere parlando bene di Gesù perché altri beneficiassero del suo intervento”.

Infine, abbiamo la fede. Non consiste in un tentativo che si fa cercando di autoconvincersi, ma attraverso una certezza interiore che non può essere insegnata. Alla fede, come avvenuto per la donna emorroissa, si giunge da soli. A volte a suscitarla è un ragionamento, in altre l’istinto, ma sta di fatto che è lei che giustifica l’uomo davanti a Dio (Romani 1.28) ed è “certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono” (Ebrei 11.1,2). Certezza e dimostrazione che nessuno può togliere e che ogni cristiano conosce. Amen.

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