05.27 – PRATICARE LA GIUSTIZIA II/II (Matteo 6.1-4)

05.28 –Praticare la Giustizia II/II (Matteo 6.1-4)

1State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. 2Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 3Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, 4perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.”. 

Nella riflessione precedente abbiamo affrontato il tema delle “buone opere”, o della “giustizia”, partendo dall’aspetto negativo, quello di ciò che viene fatto per ostentazione. Abbiamo anche visto che col termine “giustizia”, in questo caso, si intendevano elemosina, preghiera e digiuno, elementi che si affiancavano alla legge cerimoniale praticata pubblicamente dagli Scribi e Farisei distorcendo così il valore spirituale di quellee azioni. Gesù, però, con il suo insegnamento non intendeva dare a chi Lo ascoltava delle “istruzioni su come ottenere i favori di Dio”, ma piuttosto far riflettere sulle motivazioni che spingono veramente ad agire chi si vuole porre in rapporto col Padre: siamo quello che facciamo e, in quanto esseri pensanti, c’è sempre l’invito a valutarci attentamente rispondendo sempre a una domanda che giunge puntuale: “perché?”. “Perché” è quel ritornello ossessivo che spesso un bambino, arrivato a una certa età, rivolge agli adulti, ma anche sarebbe un metodo che, se adottato in età consapevole, porterebbe a conclusioni senz’altro interessanti; sarebbe un andare alla radice, sarebbe un esame a vasto raggio su ciò che sentiamo sia nella vita quotidiana naturale che in quella spirituale. È un comportamento che raramente attuiamo, abituati come siamo al quotidiano e, soprattutto, a dare tutto per scontato nei rapporti coi nostri simili e con Dio. Chiedersi perché equivale a fermarsi, azione che soprattutto la società attuale fa di tutto per evitare che ciò accada.

Gesù, invece, proponendo due comportamenti tra loro opposti, cioè praticare la giustizia finta e quella vera, spinge i suoi uditori e chi legge le sue parole a riflettere sul valore di questi metodi, ma soprattutto a ricordare che Dio non può essere preso in giro da nessuno: sappiamo che il primo verso del capitolo 6 inizia con “State attenti”. Se nella prima parte di queste riflessioni ci siamo occupati dell’agire per avere l’altrui approvazione, qui esamineremo la verità secondo cui Dio guarda “in segreto” e quindi, alla radice, alla genesi delle nostre azioni.

 

  1. In segreto

C’è un particolare da tener presente non solo nel leggere questi versi, ma tutto il capitolo e cioè: se andiamo a leggere le indicazioni sulle “buone opere” troviamo sempre, a un certo punto, un bellissimo, interessante pronome: “Invece, mentre tu fai l’elemosina” (v.3), “Invece, quando tu preghi” (v.6), “Invece, quando tu digiuni” (v.17). Quando un essere umano incontra Cristo in salvezza e si pone in rapporto con Lui, quindi, esce dalla massa per farsi persona. Questo è il significato del “tu” citato per tre volte. Non è poco perché, se la massa fosse composta da individui pensanti, non sarebbe tale, non sarebbe folla, quella che gridava “crocifiggilo” dimenticando i miracoli e le guarigioni avvenute. La massa è pilotabile da sempre, fa sì che i movimenti politici diventino grandi, è quella che segue la Bestia e il falso profeta, che asseconda e si riconosce nelle mode, viene spinta a fare rivoluzioni da un’élite di “pensatori” perché tutto resti sostanzialmente come prima, dove le cose cambiano perché nulla cambi o, nella migliore delle ipotesi, vince una battaglia ma mai una guerra perché il potere momentaneamente sconfitto ritorna sempre e più forte di prima. E all’occorrenza, con forme diverse. La massa crede, si fa influenzare inconsapevolmente, obbedisce e non programma mai a lungo termine, dà per scontato, gli basta poco per sposare le opinioni che le vengono fornite perché non avendole ne ha bisogno, la massa si plasma col tempo e con strategia.

Il “tu” di Gesù invece chiama in causa direttamente, invita chi Lo ascolta a riconoscersi in Lui e, in caso di risposta affermativa, l’essere umano scopre che il suo nome è scritto nel libro della vita, nel “registro di Dio” come lo definì un giorno un fratello, quello che l’apostolo Giovanni vide in una visione che riporta in Apocalisse 5.1: “E vidi, nella mano destra di Colui che sedeva sul trono, un libro scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli”, quelli che solo il Cristo vittorioso potrà aprire dopo che si saranno compiuti tutti gli avvenimenti descritti nei capitoli dal quinto a 20.12: “E vidi i morti, grandi e piccoli che stavano ritti davanti al trono. E i libri furono aperti. E fu aperto un altro libro, che è il libro della vita. E i morti furono giudicati dalle cose scritte nei libri, secondo le opere loro”. Puntualizzazione: i morti “grandi e piccoli” non sono adulti e bambini, ma persone che nella loro vita sono stati più o meno importanti, ma hanno avuto comunque tutti la responsabilità della gestione del bene più prezioso, la loro vita. Notare la distinzione fra “i libri”, contenenti metaforicamente le azioni di ciascuno di loro, folla, e “il libro” su cui sono scritti i nomi dei salvati, quelli del “tu”: ognuno di loro è conosciuto perché “Le mie pecore conoscono la mia voce ed esse mi seguono” (Giovanni 10.27). Ecco, i tre “Invece tu” sono lo sviluppo del cammino secondo Cristo, quello che compiono quelle “pecore” che conoscono la voce del pastore e quindi non seguono altri, non fidandosi. Chi non ha Lui come pastore, non potrà che perdersi perché ne avrà scelto inevitabilmente un altro, uno alternativo, quello che la vita per il suo gregge non l’avrà mai data.

E ci troviamo ancora alla divisione in due gruppi, ai due tagli della spada che qui divide chi è massa da chi è diventato persona. Non si tratta di presunzione, ma di condizione ben delineata nella Parola di Dio. Non esiste credente che sia tale perché ha avuto un’esperienza personale col Signore e che non sia protetto dall’ultimo, grande inganno degli “ultimi tempi” visto in quel sistema religioso, politico ed economico che precluderà qualunque possibilità di evasione e distinzione da lui: “E tutti gli abitanti della terra i cui nomi non sono scritti fin dalla fondazione del mondo, la adoreranno” (Apocalisse 13.8), riferito alla Bestia. Mi rendo conto di scrivere concetti che meriterebbero ben altri approfondimenti, ma è importante sapere che ogni azione che facciamo è sempre il frutto di una scelta e non c’è possibilità di essere neutrali nel nostro cammino terreno. Chi è massa segue gli altri, chi è persona – spiritualmente parlando – segue Cristo in un percorso che sarà sempre e solo individuale, per quanto condiviso con altri.

Torniamo però alla persona in genere: comunque sia, che appartenga alla massa o da lei si distingua – e non serve compiere azioni eclatanti per farlo – vale quanto leggiamo in Geremia 17.9,10: “Niente è più infido del cuore e difficilmente guarisce! Chi lo può conoscere? Io, il Signore, scruto la mente e saggio i cuori, per dare a ciascuno secondo la sua condotta, secondo il frutto delle sue azioni”. Ancora: “Sono forse Dio solo da vicino? (…) Non sono Dio anche da lontano? Può nascondersi un uomo nel suo nascondiglio senza che io lo veda?” (23.23,24). Infatti “Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di Colui al quale dobbiamo rendere conto” (Ebrei 4.13).

Ancora una volta abbiamo una distinzione molto importante sul rendiconto, diverso dal giudizio, risparmiato a chi crede: “In verità, in verità io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.24). Piuttosto, il concetto del rendiconto è spiegato dall’apostolo Paolo con queste parole: “Nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco” (1 Corinti 3.11-15).

In questi versi abbiamo prima di tutto la descrizione dell’impossibilità di costruire qualcosa senza Gesù Cristo come motivazione e soprattutto su di lui come fondamento, poi la prova del fuoco che brucerà tutto ciò che di inutile avremo realizzato lasciando soltanto ciò che avremo prodotto di veramente prezioso e accettevole a Dio. Come interpretare però le ultime parole “si salverà, però come attraverso il fuoco”? Il fuoco rovina, guasta, sfigura la persona, crea una sofferenza terribile. Per questo mi pare di capire che, per quanti si troveranno in quello stato, la loro vita nei “Nuovi cieli e nuova terra” sarà in qualche modo penalizzata come, nel quotidiano terreno, chi si ustiona al di là del primo grado incontra seri problemi per gli esiti cicatriziali e resta invalido, visto che la morte, che a volte sopraggiunge nei grandi ustionati, qui non è contemplata. Una cosa è vivere la dispensazione della grazia, data all’uomo per salvarsi e costruire, un’altra affrontare “il rendiconto”. Ecco uno dei perché del timor di Dio: è contemplato che uno sul fondamento costruisca con legno, fieno o paglia, materiali che non duraturi nel tempo e suscettibili ad essere distrutti nel giorno della retribuzione. Ricordiamoci che quando Giovanni vide in visione il Signore, lo descrisse come avente “occhi fiammeggianti” a sottolineare il suo discernimento tra ciò che resiste o no alla perfezione del suo sguardo.

Ecco allora che quel triplice “Invece tu”, indica il metodo, un aspetto del cammino che solo l’amore per Colui che ci ha salvato può spingerci a compiere.

Ho scritto della persona che si differenzia dalla massa: può aiutare l’esperienza di Davide nel Salmo 139 che illustra con parole di verità l’essenza di questo rapporto: “Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano i miei pensieri, osservi il mio cammino e il mio riposo, ti son note tutte le mie vie. La mia parola non è ancora sulla lingua ed ecco, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano. Meravigliosa per me la tua conoscenza, troppo alta, per me inaccessibile. Dove andare lontano dal tuo spirito? Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, là tu sei; se scendo negli inferi, eccoti. Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra”. Facciamo caso ai verbi: scrutare – conoscere – sapere – intendere – osservare – circondare – porre – essere – guidare – afferrare. Sono dieci, a significare la cura totale che Dio ha per l’uomo che ha chiamato. E che le esigenze che ha sono proporzionali alle cure che dà.

E abbiamo letto parole di Davide, nonostante abbia compiuto azioni non sempre degne di un individuo spirituale a tal punto che YHWH non gli consentirà di edificargli il tempio, scegliendo per questo Salomone suo figlio. Questo re conobbe momenti di formidabile comunione con Dio ed altri molto più carnali, quando si adagiò sui lussi della propria vita di corte. Questo ci consente di chiederci: quanto tempo della mia giornata trascorro col mio Dio onestamente? Pensiamo a Giovanni Battista, che stava nel deserto attendendo l’ora per cui era stato preparato. Certo, Davide scrisse questo Salmo gioendo per la possibilità di contemplazione che gli veniva data ed è proprio l’esperienza di essere ascoltato e conosciuto nel profondo a farlo parlare nel modo in cui abbiamo letto. Ecco ciò che è compreso nel “tu” e “in segreto”: un rapporto individuale che nessuno conosce al di fuori di due persone, quella di chi crede e Dio stesso.

Per questo il “tu” è anche una sorta di termometro, indica la nostra posizione spirituale. Davide descrive la conoscenza di Dio con le parole “Meravigliosa”, “troppo alta” e per lui “inaccessibile”, ma non si stancava di contemplarla sentendosi parte di lei e, nonostante fosse conscio di capirla in una quantità infinitesimale, ci ha lasciato come profeta delle verità molto profonde nei suoi Salmi. Davide sapeva di essere parte del piano per la redenzione dell’uomo. Per lui era importante quel “Tu” a prescindere dalla sua natura umana che purtroppo, come per tutti noi, era sempre lì, pronta a penalizzarlo. Chi è salvato entra in un mondo immenso, non potrebbe essere diversamente.

C’è poi la retribuzione, termine che nasconde realtà diverse e che consiste nel sostegno nella vita terrena nonostante le prove, i lutti o le malattie perché “piove sui giusti e sugli ingiusti”, ma anche nel risultato del rendiconto di cui troviamo una descrizione nella famosa parabola detta “dei talenti” (Matteo 24.14-30) in cui viene detto “Sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; entra nella gioia del tuo signore”. Sarà allora che ciò che è segreto diventerà palese ed eterno, mentre le opere di chi avrà agito per ostentazione saranno dimenticate e distrutte. Amen.

* * * * *

05.26 – PRATICARE LA GIUSTIZIA (Matteo 6.1-4)

05.27– Praticare la GiustiziaI/II (Matteo 6.1-4)

1State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. 2Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 3Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, 4perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.”.

Nonostante il contenuto semplice ed immediato, questi versi implicano e ampliano sinteticamente concetti che svilupperemo per lo spazio di due incontri, ponendo delle basi su cui costruire anche i successivi insegnamenti di Gesù sulla preghiera e il digiuno. La prima precisazione riguarda il termine “giustizia”, diverso da quello sviluppato a suo tempo con la quarta beatitudine, “Beati quelli che sono affamati e assetati di giustizia, perché saranno saziati”: “giustizia”, nel brano oggetto di riflessione, è reso in vari modi nelle traduzioni, cioè con “elemosina” o il generico “buone opere”. Ora il termine “vostra giustizia” è riferito effettivamente alle opere buone che ogni pio israelita era tenuto a compiere cioè l’elemosina, la preghiera e il digiuno, argomenti sui quali Nostro Signore si soffermerà non poco e sempre facendo una divisione netta tra il valore che si dà alle cose secondo parametri umani e quanto appartiene all’ambito spirituale. Umano e spirituale sono due mondi, due blocchi distinti che comportano realtà, dimensioni assolutamente incompatibili ovunque, tanto nel mondo tangibile quanto in quello della quarta dimensione.

Se andiamo alla parabola del ricco e Lazzaro, a un certo punto Abrahamo dice al ricco: “Tra voi e noi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a voi” (Luca 16.26). Ebbene queste parole hanno una valenza a largo raggio perché riassumono delle esistenze che, in realtà, erano già divise dal “grande abisso” anche quando si svolgevano in terra. Ricordiamo le parole “chi non crede è già condannato” (Giovanni 3.18) che, pur indicando uno stato non definitivo perché la persona può sempre ravvedersi, inseriscono il condannato in un ambito preciso, diverso da chi è giustificato per fede. Per quanto la parabola sarà oggetto di studio a suo tempo, va detto che le parole su“coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono”, non vogliono sottintendere che ci sia qualcuno che dal “seno di Abrahamo” vuol raggiungere chi è nei tormenti, ma sono la risposta alla richiesta del ricco che pretendeva di avere ancora autorità sul povero Lazzaro che in vita aveva costantemente umiliato.

Venendo ad testo, le prime due parole che incontriamo sono un avvertimento, “State attenti”, cui segue uno sviluppo sulla divisione tra il mondo della carne e quello dello spirito. Non si tratta solo della descrizione di una condizione, ma delle conseguenze cui porta aderire a un mondo piuttosto che a un altro, che non possono essere trascurate: “State attenti”. Essendo la Sua parola una spada a due tagli, tutto il messaggio di Gesù si basa sulla divisione che essa produce e in questo caso va a colpire la realtà storica del suo uditorio, abituato a manifestazioni eclatanti nella gestione delle “buone opere” da parte dei suoi maestri: l’elemosina elargita sempre in pubblico, preghiere esternate con atteggiamenti quasi teatrali, digiuno accompagnato da aspetto mesto e sofferente. Nostro Signore quindi affronta i punti cardini di quella “giustizia” individuale secondo l’insegnamento (ed esempio) che scribi e farisei davano al popolo, nonostante tutta la loro scienza scritturale che avrebbe potuto aiutarli in un’onesta relazione con Dio.

Pensiamo: conoscevano il passo “O voi tutti che siete assetati, venite alle acque” (Isaia 55.1). Ebbene, anziché aderire a quell’invito avevano finito per realizzare ancora una volta il lamento “Hanno abbandonato me, fonte di acqua viva, e si sono scavati cisterne piene di crepe, che non contengono acqua”(Geremia 2.13). Ogni volta che l’uomo abbandona la vera via, quella spirituale e diretta che gli concede un accesso a Dio, e vuole fare da solo, scava cisterne inidonee, inutili se c’è una fonte eterna, già crepate in partenza e, sempre da Geremia, corre dietro al nulla, e nulla diventa (2.5). L’uomo si trasforma sempre in ciò che ama, cerca, arriva a formare un tutt’uno con lui.

Il tema del primo intervento di Nostro Signore sulle “buone opere” riguarda l’elemosina, quell’azione che chi ha è tenuto a compiere nei confronti del povero. Già abbiamo incontrato nel sermone sul monte alcuni cenni al dare a chi chiede, ma qui è diverso, è un riferimento a Deuteronomio 15.11 in cui è scritto “Poiché i bisognosi non mancheranno mai nella terra, allora io ti do questo comando e ti dico: «Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso sulla terra». Giobbe stesso, in uno dei suoi ultimi discorsi ai cosiddetti “amici” venuti a consolarlo dice “…soccorrevo il povero che chiedeva aiuto e l’orfano che ne era privo. La benedizione del disperato scendeva su di me e al cuore della vedova infondevo la gioia” (Giobbe 29.11,12).

Colpisce in entrambi i versi come sia non il dovere, ma l’immedesimazione nel prossimo sofferente il motore dell’azione che porta all’aiuto economico. Colpisce il fatto che Giobbe, vissuto nella dispensazione della coscienza, ai suoi tempi il più ricco degli uomini in Oriente definito “Integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male” (1.1), si immedesimasse a tal punto nella condizione di preoccupazione e sofferenza del suo prossimo indigente da rinunciare a parte dei suoi averi. Le sue non erano delle semplici offerte, che oggi ci sono e domani no, ma un sostentamento. E qui il confronto tra Giobbe e il ricco della parabola che abbiamo citato sorge spontaneo: l’uno teneva per sé ossessivamente, l’altro dava ritenendo ciò che possedeva uno strumento per aiutare l’altro. Anche qui, due mondi.

Quello dell’elemosina è per noi un tema delicato, essendo la realtà in cui viviamo molto più complessa di quella di allora: chi mendicava era realmente bisognoso mentre oggi sono molti quelli che vivono di espedienti, che oggi chiedono aiuto e domani rubano per cui aiutare in modo mirato chi veramente si trova in condizioni precarie è molto difficile; le stesse associazioni benefiche cui uno potrebbe far riferimento sono in realtà organizzazioni che cercano di trarre profitto anche dalla donazione più insignificante e le stesse strutture, anche religiose, che provvedono agli indigenti raramente rispettano il principio di sopperire prima ai bisogni dei poveri locali. E l’apostolo Paolo scrisse “Se uno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele” (1 Timoteo 5.8). Oggi ci sono delle congregazioni religiose che hanno sfrattato dalle loro strutture persone realmente povere, italiane, per ospitarne altre, straniere, confidando nell’aiuto economico dello Stato, cosa davvero molto triste e che di carità ha solo la parvenza esteriore.

Tornando alle parole di Gesù sull’elemosina, che nella sua forma corretta è un atteggiamento, uno spazio mentale e non un mero versare delle somme a qualcuno, vediamone lo sviluppo: c’è un’azione, l’esercizio della “giustizia” e poi due scopi, quello di guadagnarsi l’ammirazione altrui, oppure qualcosa compiuto in silenzio, nel segreto, che si esprime attraverso il naturale e semplice gesto del puro, disinteressato aiuto per il prossimo. Scegliere a quale aderire significa prendere una direzione che porta a conseguenzediametralmente opposte.

 

  1. Agire per avere l’altrui approvazione.

Chi cerca il pubblico è l’attore, cioè una persona che finge una condizione, uno stato d’animo che non gli appartiene, l’essere ciò che non è. Agisce per altri scopi, recita. E il greco, per indicare una simile persona, usa il sostantivo “ipocrita” adottato dalla lingua italiana che lo spiega con la definizione “simulatore di atteggiamenti o sentimenti esemplari”. Chi ha letto il Vangelo non può non associare l’ipocrita ai tradizionali oppositori di Gesù, gli Scribi e i Farisei, da lui così definiti in Matteo 23.27 e non solo: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti! Perché rassomigliate a sepolcri imbiancati, che di fuori appaiono belli, ma dentro sono piedi di ossa di morti e di ogni putredine!”. Poiché i sepolcri e relativi monumenti venivano imbiancati ogni anno il 15 del mese di Adar (febbraio – marzo) per evitare che i viandanti contraessero impurità toccandoli inavvertitamente, Nostro Signore fa un paragone assolutamente esaustivo con la condizione spirituale di questi personaggi. Anzi, in Luca 11.44 va oltre, sottolineando la loro pericolosità: “Guai a voi, perché siete come quei sepolcri che non si vedono e la gente vi passa sopra senza saperlo”. Con il primo paragone, quello dei sepolcri imbiancati, abbiamo un riferimento alla persona che fa di tutto per sembrare “per bene” e non lo è; con il secondo, invece, si ha il ritratto di colui che pare innocuo, ma in realtà danneggia profondamente gli altri con il suo esempio.

La religione, con l’esercizio così spinto della forma e della ritualità, rende impossibile l’espressione sana e semplice della fede, insegna non troppo trasversalmente a chi vi prende parte ai suoi riti che è l’apparenza quello che conta. Quando da bambino sono stato cresimato e qualcuno interessato alla pecunia mi ha fatto una foto ricordo, prima di scattare mi ha detto “metti le mani giunte e fa’ finta di pregare”. Fare finta era l’importante, senza quella messa in scena il ritratto non avrebbe avuto valore. E allora ecco che anche nel cristianesimo esiste il rischio di ridurre tutto a qualcosa di falsamente rappresentativo che, nella migliore delle ipotesi, snatura il messaggio originale e nella peggiore insinua nella mente di quanti vi si accostano l’idea che tutto si basi su un atteggiamento, una veste di distinzione, un paramento, mani giunte o alzate, belle musiche e canti. In una parola, effetti speciali. Viene allora spontaneo l’accostamento alle parole di rimprovero rivolte sempre ai Farisei: “Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filatteri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati «Rabbi» dalla gente” (Matteo 23.3).

Avere l’ammirazione o l’approvazione degli uomini è qualcosa che conforta e soprattutto sazia la persona vanitosa che si sente realizzata quando gli altri le riconoscono un merito, ma oltre questo non si va. Non solo, ma ci si preclude la vera realizzazione spirituale come fecero quei capi del popolo che credettero in Gesù, ma senza rivelarsi: “Anche tra i capi, molti credettero in lui, ma a causa dei farisei non lo dichiaravano per non essere espulsi dalla sinagoga. Amavano infatti la gloria degli uomini più che la gloria di Dio” (Giovanni 12.42,43). Certo l’espulsione di cui parla Giovanni non era cosa da poco perché implicava l’esclusione dalla vita sociale di Israele: se quei capi de popolo di fossero rivelati, avrebbero perso la loro carica e ogni diritto.

Secondo le parole di Gesù, chi si comporta per avere l’approvazione altrui riceve il suo premio che consiste nell’ottenere ciò che cerca: l’altrui plauso.

Ecco però emergere ancora una volta in queste riflessioni la parabola che abbiamo già citato: il ricco, che aveva speso la sua vita per soddisfare la propria carne, si sentì dire “…lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti” (Luca 16.25): c’è un premio che si riscuote sulla terra e ce n’è un altro che si ottiene nella vita che viene dopo. Anche questi sono incompatibili, tra loro vi è “un profondo abisso”. Nella prossima parte esamineremo il secondo atteggiamento e cercheremo di sviluppare il significato del “vedere nel segreto”; per ora, vale l’avvertimento del primo verso, “State attenti”, teso a correggere l’idea che Dio sia costretto ad approvare e mettere “in conto di giustizia” qualunque buona azione che, in realtà, soddisfa esclusivamente la vanità personale. Sono i pochi centesimi dati come offerta nelle riunioni di Chiesa. Sono le donazioni anche cospicue in denaro date agli enti caritatevoli e pubblicizzate sui quotidiani o in televisione. Sono le ambulanze con su scritto “Dono della famiglia Tale”. È tutto ciò che viene fatto utilizzando la finta fede per avere un tornaconto personale, anche solo il cosiddetto “ritorno di immagine”. Perché le rivelazioni di Dio sono state sempre nel silenzio. Amen.

* * * * *

5.18 – SETTIMO: NON COMMETTERE ADULTERIO IV (Matteo 5.27-32)

5.18 – Settimo, non commettere adulterio IV (Matteo 5.27-32)

27Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio.28Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. 29Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. 30E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. 31Fu pure detto: «Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio». 32Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio”.

Anche se si tratta di passi che verranno meglio sviluppati a suo tempo, è buona cosa esaminare i paralleli alla versione di Matteo. In questa quarta parte prenderemo in esame l’istituzione matrimoniale dal punto di vista tecnico-legale, lasciando alle successive il compito di entrare nella rivelazione cristiana, fermo restando il fatto che a cambiare non sono tanto i contenuti, quanto le premesse e alcuni sviluppi.

Il primo passo da prendere in esame è reperibile in Luca 16.17,18 e conferma quanto esposto sul monte. Gesù stava parlando alla folla e, dopo la parabola del “servitore disonesto”, aveva parlato dell’impossibilità a “servire due padroni, Dio e la ricchezza”. Questo discorso rese i Farisei, che erano “attaccati al denaro”, indisponenti a tal punto da farsi “beffe di lui” davanti a coloro che lo ascoltavano. Dopo aver detto loro “Voi siete quelli che si ritengono giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che fra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole”, ecco che Gesù passa a descrivere ciò che stava avvenendo in quel tempo: “La Legge e i Profeti durarono fino a Giovanni: da allora in poi viene annunciato il regno di Dio e ognuno si sforza di entrarvi. È più facile che passino il cielo e la terra, anziché cada un solo trattino della Legge. Chiunque ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio; chi sposa una donna ripudiata dal marito, commette adulterio”.

Ecco, in questi tre versi, solo in apparenza scollegati, vediamo altrettante verità: la prima riguarda la “Legge” e i “Profeti”, le due grandi branche in cui si dividono gli scritti dell’Antico Patto che “durarono fino a Giovanni” nel senso che fu il Battista l’ultimo grande uomo di Dio di quell’era. Gesù, colui di cui lo stesso Giovanni disse “bisogna che lui cresca, e io diminuisca”, precisa cosa sta accadendo in quei momenti: “viene annunciato il regno di Dio” a quanti hanno “orecchie per sentire” e ciascuno di loro “si sforza di entrarvi”, cioè ubbidisce all’invito “Sforzatevi di entrare per la porta stretta perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno” (Luca 13.24). Entrare per questa porta equivale a lasciare fuori da essa tutto ciò che è inutile, appesantisce e impedisce il passaggio attraverso di lei. E, come dicono i versi successivi, molti cercheranno di entrare quando sarà troppo tardi, senza riuscirvi.

Ebbene, nonostante il messaggio della salvezza, rivoluzionario, abbiamo letto che “è più facile che passino il cielo e la terra, anziché cada un solo trattino della Legge” certo un riferimento non a quella cerimoniale, ma a quella morale perché le esigenze di Dio in proposito non sono cambiate a tal punto che leggiamo, a compendio dei tre versi di Luca che abbiamo riportato, “Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né depravati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio” (1 Corinti 6.9,10): sono parole che confermano il senso della Legge talché, per porre rimedio alle infrazioni commesse incidentalmente e non per professione, leggiamo “Chi rubava non rubi più, anzi lavori operando il bene con le proprie mani, per poter condividere con chi si trova nel bisogno” (Efesi 4.28).

Qui vediamo chiaramente che è la confessione del peccato e il suo abbandono che cancella il peccato specifico e quindi dà il perdono di Dio, a differenza del sacrificio o della condanna richiesta dalla vecchia dispensazione che comunque è la sola ad informarci di cosa sia il peccato: una violazione più o meno cosciente alle esigenze di YHWH. È probabile che, con la citazione della frase sul cielo e la terra contrapposta al trattino, Gesù citi un proverbio in uso al suo tempo, condividendolo. Sappiamo che non era venuto per abolire, ma per adempiere, o “portare a compimento”.

Il secondo passo, più impegnativo, lo troviamo in Marco 10 quando dei farisei, “per metterlo alla prova, gli domandavano se era lecito ad un marito ripudiare la propria moglie”. Dobbiamo tener presente che Matteo, riportando lo stesso episodio, aggiunge “per un motivo qualsiasi”, che riflette più da vicino il dibattito rabbinico contemporaneo sul divorzio. Leggiamo ora Marco: “Ma egli rispose loro «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». Gesù disse loro «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma, ma dall’inizio della creazione li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Dunque l’uomo non divida ciò che Dio ha unito». A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento, e disse loro «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio»” (10.2-12).

Da queste parole vediamo che Nostro Signore spinge i Farisei ad andare alle origini della creazione, quando Adamo vedendo la donna disse “Questa veramente è ossa delle mie ossa e carne della mia carne”, ragione che spiega la spinta dell’uomo – e della donna – a formare con la sua controparte un legame più forte di quello che aveva coi propri parenti diretti. “Per la durezza del vostro cuore” è così un invito a riflettere sulla condizione penalizzante del peccato e della mente di quel popolo: Dio che li aveva eletti, ma il dettaglio “essere di dura cervice” equivaleva all’essere ostinati, caparbi, non disposti a piegarsi. Ricordiamo Deuteronomio 31.27 “…perché conosco la tua ribellione e la durezza della tua cervice”, o Nehemia 9.16 “Ma essi, i nostri padri, si sono comportati con superbia, hanno indurito la loro cervice e non hanno obbedito ai miei comandamenti”. Eppure li amò comunque. E soprattutto, li scelse. Gli stessi Farisei, comunque, dovettero ammettere che Mosè aveva “permesso”, cioè concesso in virtù di un’autorità, quando la norma in origine era un’altra.

In altri termini Gesù, citando la regola scritta da Mosè a proposito del divorzio, pone l’accento sulla sacralità dell’unione e non sul fatto che l’uomo potesse interrompere il legame matrimoniale a suo piacimento: “l’uomo non separi ciò che Dio ha unito”. Citando poi la “sola carne” il Maestro ci rimanda a quello che era Adamo all’origine, quando fu creato e la donna ancora non esisteva. Quindi, l’unione tra uomo e donna (compatibili fra loro) è in un certo senso un ritorno alle origini in cui la parte maschile convive con quella femminile. E lo fa per tutta la vita. Qui abbiamo il confine e al tempo stesso ciò che accomuna il matrimonio dei tempi della Legge a quello della Grazia. Ancora una volta, dobbiamo sottolineare che gli ebrei, a differenza di noi pagani “innestati” nel piano di Dio, sapevano queste cose e venivano loro insegnate fin dall’infanzia per cui non giungevano impreparati alla gestione del matrimonio. Per quanto riguarda il cristianesimo, la conoscenza di questi argomenti non può avvenire per sommi capi, ma deve essere profondamente radicata nei giovani che, purtroppo molto spesso, arrivano al matrimonio frettolosamente e soprattutto disinformati sugli innumerevoli significati che la scelta di vita a due comporta, nel bene e nel male e i cui germi, come sempre, si trovano già pronti negli scritti dell’Antico Patto.

Certo, in tutto quello che abbiamo visto finora non c’è nulla che non sia vero e rispondente alle esigenze di Dio perché tutta la Scrittura, se ci pensiamo, in sostanza contiene due cose, quello che Lui ha fatto per l’uomo e ciò che l’uomo può fare per Lui. La Bibbia, per il credente spirituale, è un libro dai contenuti inesauribili sui rapporti fra l’uomo e Dio, fra l’uomo e il suo simile e fra l’uomo e la donna rivolto a tutti a prescindere dal tempo in cui i suoi libri furono scritti. Se da un lato abbiamo il dovere di prendere il testo come riferimento, dall’altro abbiamo la stessa necessità di porci delle serie domande su cosa significhino quelle frasi oggi fermo restando che, se “Gesù Cristo è lo stesso di ieri, di oggi e in eterno”, lo sono anche le sue esigenze. Eppure, queste cambiano nel senso che siamo chiamati ad osservarle alla luce della conoscenza di cui disponiamo e di una lettura attenta, ben diversa da quella della Chiesa di un tempo che, male interpretando le Scritture, riteneva la terra piatta e che il sole ruotasse attorno ad essa, quando nulla di ciò è scritto. E al riguardo si potrebbero dire tante cose.

Ci sono fenomeni che hanno avuto un senso nei primi tempi del cristianesimo e che oggi non si ripetono più: pensiamo alle lingue straniere che parlavano i componenti della Chiesa di Gerusalemme dopo la discesa dello Spirito Santo, primo segno ufficiale della Sua presenza. I membri di quella Chiesa parlavano lingue precise che non avevano mai studiato prima e che i testimoni a quell’evento riconobbero: “Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano «Tutti costoro che parlano non sono forse galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proseliti, Cretesi ed Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio». Tutti erano stupefatti e perplessi e si chiedevano l’un l’altro «Che cosa significa questo?». Altri, invece, li deridevano e dicevano «Si sono ubriacati di vino dolce»” (Atti 2.7-13). Dopo quella manifestazione dello Spirito, chiunque avesse voluto imparare l’arabo, avrebbe dovuto studiarlo. Dopo di allora, ogni persona anche spirituale, se vuole parlare una lingua straniera, è costretta a dedicarsi ad essa con impegno e può far leva solo sulla propria attitudine.

Altro caso avvenuto e non più proponibile oggi è l’immunità dal morso dei serpenti velenosi. Leggiamo infatti “Questi sono i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome cacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malari e questi guariranno” (Marco 16.17,18): sono eventi che si sono verificati; Paolo stesso sulla costa di Malta fu morso da un serpente e, fra lo stupore generale, non gli avvenne nulla di male (Atti 28.1-10). Oggi, se mi morde una vipera, la mia vita corre un serio pericolo se non ho con me l’antidoto o il Padre decide che la mia ora non è ancora giunta. Ma mi faccio male comunque.

Questi due esempi li ho citati per dire che i tempi sono diversi e che oggi i miracoli e l’assistenza di Dio costituiscono eventi molto seri che non possono essere dati per scontati. Certo sostenere che non siamo protetti sarebbe un’assurdità, ma dobbiamo tenere presente sempre che abbiamo il dovere di essere consapevoli e di “non tentare il Signore” attraverso la pretesa che debba per forza intervenire, provvedere, assistere, sopperire alla nostra incoscienza o presunzione. Ecco, questa è una premessa fondamentale per le nostre prossime riflessioni sul matrimonio cristiano: oggi le leggi della fisica, della psicologia accertata, della genetica, insomma di tutto quanto è dimostrato e dimostrabile, non possono essere ignorate come un tempo.

Chiudo citando l’esempio di un componente di una Chiesa cristiana di cui sentii parlare tempo fa: era portatore sano di una malattia genetica remissiva che, quindi, avrebbe potuto essere trasmessa ad eventuali figli. Convinto che Dio avrebbe comunque provveduto in bene, volle un figlio che nacque con problematiche molto serie e, convinto che ciò fosse dovuto a una sua poca fede, ne ebbe ancora un altro che nacque con gli stessi handicap del fratello. Il suo fu un comportamento che potrebbe essere definito criminale, ma che trova le sue radici in un atteggiamento, o interpretazione, superstiziosa: non si possono sfidare impunemente le leggi della scienza quando è palese che riflettono la logica della creazione. Non tentare il Signore Iddio tuo.

Il matrimonio, per noi oggi, alla luce di quello che sappiamo dall’Antico e del Nuovo Testamento, è un avvenimento che spesso trova le origini del suo eventuale fallimento in un difetto di progettazione di uno o entrambi i coniugi che, probabilmente non informati a dovere non tanto sulla sua importanza, ma sulle sue premesse, finiscono per vivere con estrema fatica il loro legame.

* * * * *

5.16 – SETTIMO: NON COMMETTERE ADULTERIO II (Matteo 5.27-32)

5.17 – Settimo, non commettere adulterio II (Matteo 5.27-32)

27Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio.28Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. 29Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. 30E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. 31Fu pure detto: «Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio». 32Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio”.

Prima di passare alla seconda parte di questo studio è giusto tornare un attimo alla precedente perché abbiamo citato il caso di violenza – con la forza fisica o con la seduzione – su una giovane non fidanzata. Va ricordato che, nel caso fosse promessa sposa, il fatto non poteva rientrare nella categoria degli “incidenti di percorso” cui andava posto rimedio con matrimonio o una multa, ma in quella dell’adulterio che prevedeva la morte. Va tenuto presente che la Legge, vista nel Decalogo e relativi corollari, non era per il popolo qualcosa di oscuro o sconosciuto, ma veniva insegnata senza trascurare nulla; c’era tutta una pedagogia specifica costituita dalla trasmissione orale, e non solo, che possiamo leggere in Deuteronomio 6.4-8: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze. Questi precetti che io ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte”. Esisteva quindi di una vera e propria profilassi spirituale al fine di evitare che i comandamenti contenuti nel Decalogo venissero infranti, cosa che si verifica sempre quando l’uomo si considera il centro, rifiutando la dipendenza da Dio come Caino e i suoi discendenti.

Il matrimonio era un’istituzione concepita per popolare la terra in modo “ordinato”, vale a dire con lo scopo che nessuna linea genealogica si estinguesse e, a differenza di quanto accaduto nella dispensazione della coscienza, Dio istituì delle norme precise tese a preservare la razza che non poteva venire contaminata da unioni tra consanguinei e mutazioni genetiche destinate a produrre malformazioni e/o ritardo mentale nella popolazione. È Levitico 18 ad elencare nei dettagli tutte le relazioni carnali illecite. È un capitolo molto importante che va esaminato, per quanto lo spazio ridotto lo renda possibile solo a grandi linee, dai versi 4 e 5 che fungono da introduzione: “Fate ciò che io vi comando attraverso le mie leggi e osservate i miei statuti, per camminare in essi: io sono il Signore Iddio vostro. Osservate i miei statuti e le mie leggi: chiunque li metterà in pratica, vivrà per essi: io sono il Signore”. Sta all’uomo scegliere se aderire o meno all’esigenza divina riguardo alla gestione del proprio corpo ed è avvertito che, se osserverà gli statuti e le leggi presentate, “vivrà per essi”. Si tratta di scegliere fra bene e male, cioè tra ciò che è approvato da Dio e ciò che non lo è; inutile accusare il testo o il suo Autore di essere reazionario o dileggiarlo perché non viene consentito l’esercizio di una sessualità “libera”: ogni uomo o donna poteva e può scegliere di seguire i comandamenti nel suo interesse, oppure no. Ma non è possibile poi avere la pretesa, in caso di ribellione a ciò che non un uomo ha stabilito, di “vivere per essi”. Chi quindi non si adegua ai precetti che seguono, si colloca quanto meno fuori dall’attenzione e la protezione di Dio: sceglie di anteporre il proprio “ma” subendone le conseguenze.

6Nessuno si accosti ad una sua parente carnale per scoprire la sua nudità. Io sono il Signoreè il verso d’esordio, dove altri hanno tradotto “parente carnale” con “consanguineo” anche se cosa s’intenda per essi viene spiegato versi nei successivi, non potendo la Legge lasciare dei dubbi in quanti intendevano metterla in pratica. “Scoprire la nudità” è uno dei modi per riferirsi al rapporto carnale, come già accennato con altri casi. Per scongiurare fraintendimenti, ecco che il verso parte proprio dall’ovvio, non essendovi parente carnale più stretto del proprio padre o della propria madre. Essendo l’omosessualità non consentita, “padre” o “madre” stanno a indicare che quanto esposto riguarda sia gli uomini, che le donne. 7Non scoprirai la nudità di tuo padre né la nudità di tua madre: è tua madre; non scoprirai la sua nudità.8Non scoprirai la nudità di una moglie di tuo padre; è la nudità di tuo padre”. Immediatamente dopo la madre naturale viene un’altra donna, considerata allo stesso livello della genitrice perché comunque carne del padre. Viene qui in mente l’episodio dell’incestuoso di Corinto, che aveva questo tipo di rapporto (1 Corinti 5.1-5). 9Non scoprirai la nudità di tua sorella, figlia di tuo padre o figlia di tua madre, generata in casa o fuori; non scoprirai la loro nudità”: da qui vediamo che, come nel verso precedente, per essere fratelli o sorelle secondo la carne non è necessario discendere dagli stessi genitori, ma ne basta uno ed è quell’ “o” a negare ci sia differenza tra fratello e fratellastro, sorella o sorellastra. Qui, in particolare, penso che il verso si riferisca a fratelli o sorelle acquisiti, quindi anche figli di un matrimonio precedente interrotto a causa di una vedovanza poiché la dichiarazione ufficiale dei rapporti fraterni a livello famigliare è più definita al verso 11 che recita “Non scoprirai la nudità della figlia di una moglie di tuo padre, generata da tuo padre: è tua sorella, non scoprirai la sua nudità”: cambiano i termini, ma non la sostanza. Al verso 10,  “Non scoprirai la nudità della figlia di tuo figlio o della figlia di tua figlia, perché è la tua propria nudità”vediamo cheil o la nipote sono visti in modo profondamente identificativo giungendo ad essere accomunati agli stessi nonni, parenti carnali come gli zii paterni e materni:12Non scoprirai la nudità della sorella di tuo padre; è parente carnale di tuo padre.13Non scoprirai la nudità della sorella di tua madre, perché è carne di tua madre”. Si arriva poi alla zia acquisita, altra configurazione di incesto:14Non scoprirai la nudità del fratello di tuo padre: non accostarti con sua moglie: è tua zia”. Infine chiudono l’elenco la nuora e la cognata comprendendo implicitamente genero e cognato:15Non scoprirai la nudità di tua nuora: è la moglie di tuo figlio; non scoprirai la sua nudità.16Non scoprirai la nudità di tua cognata: è la nudità di tuo fratello.

Seguono poi alcune indicazioni di etica e igiene che avrebbero dovuto distinguere, come le precedenti, Israele dagli altri popoli: “17Non scoprirai la nudità di una donna e di sua figlia. Non prenderai la figlia di suo figlio né la figlia di suo figlio per scoprirne la nudità: sono parenti carnali. È un’infamia.18Non prenderai in sposa la sorella di tua moglie, per non suscitarne rivalità, mentre tua moglie è in vita.19Non ti accosterai a donna per scoprire la sua nudità durante l’impurità mestruale.20Non darai il tuo giaciglio alla moglie del tuo prossimo, rendendoti impuro con lei.22Non ti coricherai con un uomo come si fa con una donna: è cosa abominevole.23Non darai il tuo giaciglio a una bestia per contaminarti con essa; così nessuna donna si metterà con un animale per accoppiarsi: è una perversione”.

Nessuna di queste unioni proibite, tanto nella prima che nella seconda parte del capitolo, è inconcepibile per il cosiddetto “uomo naturale” tant’è che il paganesimo antico e moderno le ha impiegate quasi come metodo; basta pensare alla Grecia antica prima, durante e dopo i tempi dell’apostolo Paolo (Corinto ed altre) come ai popoli che Israele avrebbe cacciato dalla terra che gli era stata promessa. “24Non rendetevi impuri con nessuna di tali pratiche, poiché con tutte queste cose si sono rese impure le nazioni che io sto per scacciare davanti a voi.25La terra ne è stata resa impura; per questo ho punito la sua colpa e la terra ha vomitato i suoi abitanti.26Voi dunque osserverete le mie leggi e le mie prescrizioni e non commetterete nessuna di queste pratiche abominevoli: né colui che è nativo della terra, né il forestiero che dimora in mezzo a voi.27Poiché tutte queste cose abominevoli le ha commesse la gente che vi era prima di voi e la terra è divenuta impura.28Che la terra non vomiti anche voi, per averla resa impura, come ha vomitato chi l’abitava prima di voi,29perché chiunque praticherà qualcuna di queste abominazioni, ogni persona che le commetterà, sarà eliminata dal suo popolo.30Osserverete dunque i miei ordini e non seguirete alcuno di quei costumi abominevoli che sono stati praticati prima di voi; non vi renderete impuri a causa di essi. Io sono il Signore, vostro Dio”.

Ho ritenuto utile inserire anche quelle che potremmo definire “situazioni estreme” perché si verificano ancora oggi sia come pratica individuale che come spettacolo, così come non ci vuole molto a riconoscere per estensione al verso 21, che prima ho omesso, la produzione degli “snuff movies” ricercati a prezzi inimmaginabili anche nell’ambito cosiddetto “pedofilo”: “Non consegnerai alcuno dei tuoi figli per farlo passare a Moloc e non profanerai il nome del tuo Dio. Io sono il Signore”. E Moloc era il dio cananeo il cui culto veniva celebrato nella Geenna, la Valle di Hinnom, tramite sgozzamento e bruciamento dei bambini, spesso figli primogeniti. È vero, abbiamo letto dei versi che pongono situazioni molto pesanti, ma sono convinto che occorra conoscere il negativo per conoscere ed apprezzare il positivo.

In pratica: l’uomo è stato creato maschio e femmina, quindi la sessualità è da considerarsi un dono da esercitarsi liberamente con la persona che ciascun individuo, maschio e femmina, si è scelto. Qualche millennio dopo una parte della cristianità, con perversione opposta alle categorie che abbiamo trovato in Levitico 18, ma sempre di perversione si tratta, giungerà a considerare il rapporto sessuale un peccato a meno che non fosse giustificato da fine procreativo prescrivendo che, prima dell’atto, si frapponesse un lenzuolo forato tra i corpi sostenendo che lo scopo fosse quello di procreare e non il piacere fine a se stesso. Credo che quando la sessualità, legittima espressione di sé, viene repressa, trovi inevitabilmente sfogo in altre vie che la stessa Bibbia condanna. Leggiamo in Proverbi 5.18,19 “Sia benedetta la tua fonte, e vivi lieto con la sposa della tua gioventù. Cerva d’amore, cavriola di grazia, le sue carezze t’inebrino in ogni tempo, e sii del continuo rapito nell’affetto suo”.

Possiamo concludere queste riflessioni con una semplice presa d’atto: quando Dio creò l’essere umano, lo pose in un territorio circondato da quattro fiumi. Doveva restare lì, protetto, senza conoscere ciò che non gli sarebbe servito o, meglio ancora, gli avrebbe procurato molto danno. Da allora, nonostante il peccato e il suo essere fuori da quel giardino, gli è sempre stato indicato un confine, un territorio, un “recinto” visto sbrigativamente, almeno nella Legge, nei termini “farai” o “non farai”, anche questi posti nel suo interesse. Aggiungere nuove norme o precetti a quelli già dati da Dio, così come eliminarli o torcerli a proprio vantaggio, equivale a infrangere quelli già esistenti e le conseguenze non possono che essere disastrose nel rapporto con Lui. Perché è l’abbattimento dei confini che il Creatore ha stabilito, non perché dispotico, ma in quanto conoscitore perfetto della propria creatura, che rende l’uomo davvero schiavo. Amen.

* * * * *

5.15 – SETTIMO, NON COMMETTERE ADULTERIO I (Matteo 5.27-32)

5.16 – Settimo, non commettere adulterio I (Matteo 5.27-32)

27Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio.28Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. 29Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. 30E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. 31Fu pure detto: «Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio». 32Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio”.

Dopo aver spiegato cosa si intenda per infrazione al sesto comandamento Gesù passa al successivo implicante la presenza di un vincolo matrimoniale che, nel corso delle dispensazioni, è stato inteso in vari modi. Ciò non è accaduto per altri precetti del decalogo come il non rubare e lo stesso “non uccidere” che abbiamo appena visto. Il passo di Matteo è sicuramente impegnativo e, per affrontarlo, è necessario percorrere nelle sue linee fondamentali come si è sviluppata l’istituzione del matrimonio aggiornandolo poi alla nostra realtà di cristiani alla quale Gesù, commentando la Legge, accenna solamente. “Matrimonio” è parola che deriva da due sostantivi latini, mater al genitivo (“matris-”) e “-monium” cioè “dovere, compito” per cui, letteralmente, il suo significato letterale è “dovere di madre”: l’etimologia stessa fa riferimento alla finalità procreativa dell’unione dei coniugi, fondamentale nei tempi antichi, ma molto meno oggi come avremo modo di vedere.

Andando alle origini, quindi al libro della Genesi, leggiamo che la donna fu creata dopo che Iddio “disse: Non è bene che l’uomo sia solo; voglio fargli un aiuto che gli corrisponda”(2.18) e, poco dopo,  “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno una sola carne” (2.24). Sappiamo che è anche scritto che “Dio li benedisse e disse loro «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mate e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra»” (1.28). La donna quindi venne creata perché l’uomo, che a quel tempo aveva evidentemente in sé sia le caratteristiche maschili che femminili, non aveva un simile con cui confrontarsi e, quando Dio gli condusse tutti gli animali perché desse loro un nome, leggiamo “…ma per l’uomo non si trovò un aiuto che gli corrispondesse” (2.20). Si tratta di termine, “aiuto” che non allude alla necessità di avere qualcuno che gli facesse i lavori domestici, ma piuttosto di avere un rapporto con una persona con la quale confrontarsi, avere relazioni. Con gli animali Adamo aveva una dimensione di comunione, visto che interagiva con loro, ma anche di separazione perché nessuno di loro poteva essergli l’aiuto di cui aveva bisogno visto nel completamento di sé.

I maestri ebrei sono concordi nel ritenere l’Adamo prima della donna come una creatura androgina e fanno notare che la parola “costola” (sela’) significa anche “lato”, per cui Eva sarebbe il lato femminile di Adamo tolto da lui e postogli finalmente di fronte; di qui “l’aiuto che gli corrispondesse”. Questo risolverebbe anche un problema non da poco, perché secondo il racconto biblico dovremmo ritrovarci con un numero non proporzionale di costole, essendo che quella utilizzata per formare la donna era una.

Ecco allora che quel “non è bene che l’uomo sia solo” era riferito non a un errore di Dio che creandolo così aveva sbagliato, ma al fatto che creando la donna, separandola da lui e ponendogliela innanzi, l’uomo avrebbe potuto riconoscere se stesso e comprendere fino a che punto arrivasse l’amore del suo Creatore per lui. Infatti Adamo disse “Questa volta è osso dalle mie ossa, carne della mia carne. La si chiamerà donna– isha – perché dall’uomo– ish – è stata tolta” (2.23). Il fatto che però la donna sia stata formata dall’uomo insegna molto, poiché Adamo trovò in Eva un simile costituito per lui e da lui e non un essere complesso e spesso scarsamente decifrabile come oggi. In pratica, Eva, moglie di Adamo, era unica perché lui era unico e quindi mancava di un background culturale che la rendesse diversa, ferma restando una maggiore vulnerabilità e suscettibilità all’adulazione perché, altrimenti, l’Avversario non si sarebbe rivolto a lei. Se a quel tempo Eva era davvero un aiuto che corrispondesse ad Adamo, oggi le possibilità che questo si verifichi sono molto minori e le relazioni uomo – donna, lungi dal somigliare a quelle dei nostri progenitori in Eden, sono molto più simili alla conflittualità che essi conobbero una volta fuori dal Giardino: dal momento in cui trasgredirono l’unico comandamento ricevuto, Adamo non si fidò più di lei e iniziò tutta una serie di reciproci scambi di accuse, fomentate dalle diverse esigenze e dalla necessità di autonomia di ciascuno. Il rapporto che esisteva tra i due in origine, in cui si riconoscevano liberamente nell’altro e all’altro dava naturalmente e senza secondi fini, era finito.

Alla dispensazione dell’innocenza nel Giardino, seguì quella della coscienza che divise gli uomini, Caino e Abele per primi e in cui Lamec, di cui abbiamo già accennato in una precedente riflessione, si mise in opposizione a Dio e all’istituzione matrimoniale prendendosi due mogli, Ada e Silla. Lamec, che una leggenda ebraica afferma essere stato l’omicida di Caino con una freccia, è l’autore di un cantico d’odio – “Ho ucciso un uomo per una scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech lo sarà settantasette” – in cui riconosciamo sia una consapevole volontà di infrangere il comandamento dell’uomo e donna uniti in un solo essere senza ingerenze esterne, sia la pretesa di volere un Dio a lui sottomesso. E la pretesa di una vendetta smisurata per il suo sangue eventualmente sparso, 70+7. Lo conferma.

Ci si pone però il problema sul perché, a parte l’episodio di Lamec che agì in tal modo solo per odio nei confronti di Dio, sia esistita la poligamia presso i patriarchi e ai tempi dell’Antico Patto, continuando anche sotto la dispensazione della Legge: abbiamo Abramo, Giacobbe ed altri per la Coscienza e Davide, Salomone ed altri per la Legge. C’è chi ha sostenuto, penso non sbagliando, che Dio abbia permesso la poligamia stante la maggioranza della popolazione femminile rispetto a quella maschile già nel mondo di allora e, da calcoli fatti, pare che ci fossero decine di migliaia di donne in più rispetto agli uomini. Era una situazione drammatica per vari motivi perché la società patriarcale del tempo non consentiva l’autosostentamento e l’autoprotezione della donna. L’unico modo era quello di sposarsi e fare figli. L’uomo così si sposava, la donna gli apparteneva e viceversa, tant’è che l’adulterio scattava nel momento in cui un uomo sposato aveva rapporti carnali con una donna sposata e viceversa, oppure era sufficiente che solo uno dei due avesse un vincolo. Non mi sento di dissentire dal concetto in base al quale Dio abbia permesso la poligamia per proteggere e provvedere ai bisogni delle donne che altrimenti non avrebbero trovato marito avendo di fronte un destino di schiavitù o di prostituzione pur di sostentarsi.

Questo uso è circoscritto a un tempo preciso e non sminuisce il progetto ideale per il matrimonio che, nelle intenzioni del Creatore, prevedeva che l’uomo si sarebbe unito “a sua moglie(al singolare) e i due saranno una sola carne(altrettanto al singolare)”. A integrazione del discorso sulla poligamia possiamo vedere il verso di Deuteronomio 17.17 che, parlando del re che Israele si sarebbe costituito, stabilisce tra i suoi requisiti “Non dovrà avere un gran numero di mogli, perché il suo cuore non si smarrisca”. Sappiamo infatti, per averlo già incontrato nelle nostre riflessioni, che il cuore di Salomone “si sviò” dai sentieri di Dio – quindi si smarrì – proprio per la quantità enorme di mogli e concubine che si era procurato. E per “smarrire” intendiamo proprio perdere l’orientamento nel cammino, nel pellegrinaggio verso la meta finale avendo Dio come guida.

Chi si smarrisce prima sbaglia strada e poi non riesce più a trovare quella giusta, perde l’orientamento. Basta poco.

La poligamia, tornando al tema, non era equiparata all’adulterio, ma tollerata a condizione che chi sposava una seconda donna continuasse a mantenerla e a provvedere alle sue esigenze. Avere più di una moglie erano in pochi a poterselo permettere.

Nella Legge l’adulterio era punito con la morte e questa pena, come sappiamo, era ancora in uso ai tempi di Gesù, come possiamo constatare dall’episodio in cui una donna stava per essere lapidata per questo gli Scribi e i Farisei lo interpellarono con queste parole. “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu, che ne dici?”(Giovanni 8. 4,5). Alle origini del motivo della pena di morte per quel reato stava il fatto che era il rapporto carnale a determinare il matrimonio, tant’è che sono le espressioni come “entrò da lei” o “la conobbe” che lo ufficializzano al di là del contratto che si stipulava tra le famiglie dei futuri sposi purtroppo indipendentemente dai sentimenti che provavano l’uno per l’altro. L’adulterio era così un attentato al principio dell’essere “una sola carne” compiuto deliberatamente all’insaputa del coniuge e, in caso di rapporto carnale avvenuto, l’uomo e la donna si dovevano sposare.

Il matrimonio riparatore però contemplava un’eccezione vista nella violenza carnale e in proposito abbiamo due versi che si integrano: in Deuteronomio 22.28,29 leggiamo “Se un uomo trova una fanciulla vergine che non sia fidanzata, l’afferra e giace con lei e sono colti in flagrante, l’uomo che è giaciuto con lei darà al padre della fanciulla cinquanta sicli d’argento; ella sarà sua moglie per il fatto che egli l’ha disonorata, e non potrà ripudiarla per tutto il tempo della sua vita”. Questo però poteva accadere solo se il padre della giovane accettava, poiché poteva decidere di prendere solo la somma in denaro e risparmiare alla figlia una vita di stenti sicuramente morali: “Quando un uomo seduce una vergine non ancora fidanzata e si corica con lei, ne pagherà il prezzo nuziale e lei diverrà sua moglie. Se il padre di lei si rifiuta di dargliela, egli dovrà versare una somma di denaro pari al prezzo nuziale delle vergini” (Esodo 22.15,16). È interessante notare che qui abbiamo la possibilità di un divorzio nonostante i due fossero diventati “una sola carne” e non leggiamo che alla giovane fosse precluso un secondo matrimonio. Non va trascurata la differenza della terminologia impiegata nei due versi, “l’afferra e giace con lei” indica un rapporto sessuale estorto con la forza, mentre il “seduce” suggerisce consensualità, ma in entrambi i casi esiste sempre una costrizione, con forza espressa o celata. Il sedotto è più debole del seduttore.

In questa prima parte penso di aver fatto una presentazione generale dell’argomento che posso riassumere in questi punti:

  1. L’adulterio è un grave attentato all’istituzione matrimoniale stabilita da Dio sùbito aver posto l’uomo nel Giardino di Eden e questa prevedeva che fossero una sola carne;
  2. Si verifica adulterio nel momento in cui una persona coniugata, uomo o donna, ha rapporti carnali con una terza sì che il vincolo matrimoniale si rompe per colpa;
  3. Era possibile, per ragioni storiche e in un tempo in cui la terra andava popolata, la poligamia a condizione che l’uomo avesse la possibilità di non far mancare nulla alle proprie mogli;
  4. Al di là della distinzione tra fidanzamento e matrimonio, era la congiunzione carnale che sanciva definitivamente che il matrimonio tra le due persone era avvenuto.

Nella prossima serie di riflessioni cercheremo di affrontare la casistica rimanente, prima di analizzare le parole di Nostro Signore su questo importante comandamento.

* * * * *

 

5.09 – LE BEATITUDINI 8: I PERSEGUITATI PER LA GIUSTIZIA (Matteo 5.3-12)

5.9 – Il sermone sul monte : le beatitudini VIII (Matteo 5.3-12)

 

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.11Beati voi, quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.12Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi”.

 

BEATI I PERSEGUITATI PER LA GIUSTIZIA

È l’ultima beatitudine, che termina come la prima, “perché di essi è il regno dei cieli”, che però per gli uditori di Gesù era di significato più oscuro e, infatti, Lui stesso si preoccuperà di spiegarla nei due versetti successivi. Due beatitudini sono al presente, le altre al futuro, segno che c’è continuità fra loro e che il cristiano non ne possiede una soltanto; l’ottava è però particolarmente complessa perché riguarda il compiersi di avvenimenti che, al momento dell’esposizione, non si erano ancora verificati. Nessuno di loro era stato ancora perseguitato.

Se ci soffermiamo sulla parola “giustizia”, sappiamo già che l’esserne affamati e assetati comporta l’esserne saziati in futuro, che questa viene data a chi crede nell’Iddio Vivente rivelato: i “giusti” dell’Antico Patto erano coloro che affiancavano alla Legge un sentimento di profondo essere un tutt’uno con YHWH e la ritenevano un mezzo per essere uniti a lui, non il fine. C’era una giustizia esteriore vista nell’osservanza e nel rimedio a fronte di una trasgressione, ma sarebbe stata inutile senza il riconoscimento dell’unicità di Dio dentro di sé, l’acquisire coscienza del fatto di appartenere al popolo eletto, composto da più individui che, in quanto tali, potevano avere un rapporto unico con Colui che aveva progettato un cammino per ciascuno. Abbiamo letto, per quanto riguarda il Vangelo, di persone considerate giuste: pensiamo a Zaccaria ed Elisabetta, a Giuseppe marito di Maria, a Simeone, Anna, Natanaele ed altri che avevano in comune proprio l’attesa consapevole del Consolatore di Israele, sentimento impossibile da possedere senza un riconoscersi mancanti di un’identità, di avere bisogno di Lui.

Ora, però, quella moltitudine radunata sul monte aveva davanti a lei la Giustizia di Dio vista nel quel Gesù di Nazareth che predicava, l’unico che avrebbe soddisfatto le esigenze di santità del Padre: credendo in Lui, questi avrebbero prodotto una profonda rottura con le credenze sulle quali i giudei che Lo avrebbero rifiutato si sarebbero arroccati. Anni più tardi l’apostolo Paolo scriverà ai romani “Il desiderio del mio cuore e la mia preghiera salgono a Dio per la loro – dei giudei-salvezza. Infatti rendo loro testimonianza che hanno zelo per Dio, ma non secondo una retta conoscenza. Perché, ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio. Ora, il termine della Legge è Cristo, perché la giustizia sia data a chiunque crede”. Gesù sostituiva la Legge ed era Lui stesso giustizia, unico mezzo sicuro per mantenersi in rapporto con Dio, messaggio rivoluzionario divenuto per gli ebrei inaccettabile e infatti i cristiani, come testimonia lo stesso libro degli Atti, saranno perseguitati da loro per primi.

Pensiamo alla giustizia di Dio, alla perfetta conoscenza che ha di ogni essere umano, al fatto che lo vede come realmente è, e poniamo questo dato in relazione all’episodio del paralitico che a Capernaum quattro uomini avevano fatto calare dal tetto della casa in cui si trovava Gesù: alla presenza dei farisei fu detto “Che cosa è più facile, dire al paralitico «I tuoi peccati ti sono perdonati», oppure dirgli «Alzati, prendi il tuo lettino e cammina?» Ma, affinché sappiate il che il Figlio dell’uomo ha sulla terra autorità di perdonare i peccati, io ti dico, disse al paralitico, «Alzati, prendi il tuo lettino e vattene a casa tua»” (Marco 2. 9-11). Se pensiamo che prima di quel miracolo i farisei avevano appena finito di dire “Chi può perdonare i peccati, se non solo Dio?”, non ci vuole molto a riconoscere in Gesù quel Dio che loro affermavano di servire e seguire. Difficilmente potremmo sostenere che il perdono, o la remissione di un peccato, non sia cosa che coinvolga la giustizia di Dio che così decide secondo il suo giudizio insindacabile.

Torniamo però di nuovo ai farisei, che espressero una verità: in un altro episodio, non sapendo cosa rispondere, dichiararono che Gesù scacciava i demoni con l’aiuto di Baal-zebub loro principe, cosa impossibile perché “Ogni regno diviso in parti contrarie sarà ridotto in deserto ed ogni città o casa divisa in parti contrarie non potrà reggere. E se Satana caccia Satana, egli è diviso contro se stesso; come dunque potrà sussistere il suo regno? (…) Ma, se è per l’aiuto dello Spirito di Dio che io caccio i demoni, è dunque pervenuto fino a voi il regno di Dio” (Matteo 12.24-28).

Altra osservazione utile per queste riflessioni la fa Paolo nella sua lettera ai Colossesi, che risentiva dottrinalmente delle influenze del giudaismo legale, e pagane: “Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo. È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità e voi avete in lui parte alla sua pienezza, di lui cioè che è il capo di ogni Principato e di ogni Potestà” (2. 8-10). “Tutta la pienezza” tra le quali non possiamo non contare la giustizia e, infatti, è in lui che vengono saziati tutti coloro che sono affamati ed assetati di essa.

In un simile quadro allora, ecco che la giustizia sotto l’ottica di Gesù causerà persecuzione, e sarà caratterizzata dall’ insulto, dalla persecuzione e dalla menzogna, cose che Lui patì prima di tutti gli altri che lo avrebbero seguito credendo nella Sua persona ed opera. L’insultoè un’offesa grave e volontaria ai sentimenti e alla dignità della persona arrecata con parole ingiuriose, con atti di spregio volgare o anche con un contegno intenzionalmente offensivo e umiliante; nel caso di Nostro Signore, lo vediamo soprattutto alla crocifissione, con le percosse alle quali seguiva la frase “Indovina chi ti ha colpito”, con gli sputi e le prese in giro dei capi dei sacerdoti, scribi e anziani “Ha salvato gli altri e non può salvare se stesso”. La persecuzioneallude a un complesso di sistematiche azioni di forza intese a stroncare una persona o un movimento politico o religioso, a ridurre o addirittura ad eliminare una minoranza etnica o sociale. Che Gesù sia stato perseguitato, e con lui i primi cristiani (ma anche oggi nel mondo i cristiani perseguitati sono milioni) credo non sia un mistero per nessuno; però è indicativo che alla persecuzione si sia sempre accompagnata la menzogna, cioè un’affermazione contraria a ciò che si sa o si crede sia vero, o anche contraria a ciò che si pensa, alterazione (o negazione o anche occultamento) consapevole e intenzionale della verità. Ricordiamo ad esempio quanto concordarono i sacerdoti e gli anziani del popolo assieme ai soldati romani che testimoniarono loro di avere visto l’angelo che rotolava la pietra del sepolcro: “…dopo essersi consultati, diedero una buona somma di denaro ai soldati dicendo «Dite così: i suoi discepoli sono venuti di notte e l’hanno rubato, mentre noi dormivamo. E se mai la cosa venisse all’orecchio del governatore, noi lo persuaderemo e vi libereremo da ogni preoccupazione». Quelli presero il denaro e fecero secondo le istruzioni ricevute. Così questo racconto si è divulgato fra i giudei fino ad oggi” (Matteo 28.13-15). Furono quindi sordi al racconto di quegli uomini e anteposero la loro volontà di sopravvivenza assieme alle proprie dottrine evidentemente decadute. Così infatti era avvenuto: “Un angelo del Signore, sceso dal cielo, si avvicinò, rotolò la pietra e si pose a sedere sopra di essa. Il suo aspetto era come folgore e il suo vestito bianco come neve. Per lo spavento che ebbero di lui, le guardie furono scosse e rimasero come morte” (Ibidem, 2-4).

Lo stesso processo a Gesù, che esamineremo a suo tempo, studiato da un punto di vista strettamente legale, presentò una serie infinita di irregolarità alla luce della Legge che il popolo di Israele aveva ricevuto, ma qui ci occuperemo di pochi versi: “I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una falsa testimonianza contro Gesù, per metterlo a morte; ma non la trovarono, sebbene si fossero presentati molti falsi testimoni. Finalmente se ne presentarono due, che affermarono «Costui ha dichiarato: posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni»”(Matteo 26.59-61): si noti la sottigliezza del metodo vista nel fatto che si cercavano falsi testimoni ma, non trovandosene, si trovò il modo di estrapolare una frase che Gesù aveva effettivamente detto riferendosi al suo corpo, per piegarla ai loro scopi.

Questo è stato fatto a Nostro Signore. Per chi avrebbe creduto in Lui, possiamo citare le persecuzioni subite da Pietro, Giovanni, dall’apostolo Paolo e da Stefano, primo martire cristiano che troviamo al capitolo sesto del libro degli Atti che, “Pieno di grazia e di potenza, faceva grandi prodigi e segni fra il popolo. Allora alcuni della sinagoga detta dei Liberti, dei Cirenei, degli Alessandrini e di quelli della Cilicia e dell’Asia, si alzarono a discutere con Stefano, ma non riuscivano a resistere alla sapienza e allo Spirito con cui egli parlava. Allora istigarono alcuni di loro perché dicessero «Lo abbiamo udito pronunciare parole blasfeme contro Mosè e contro Dio». E così sollevarono il popolo e gli scribi gli piombarono addosso, lo catturarono e lo condussero davanti al sinedrio. Presentarono quindi dei falsi testimoni, che dissero «Costui non fa altro che parlare contro questo luogo santo e contro la legge. Lo abbiamo infatti udito dichiarare che Gesù, questo nazareno, distruggerà questo luogo e sovvertirà le usanze che Mosè ci ha tramandato” (Atti 6.8-14).

Ecco la menzogna organizzata, ma ecco anche la beatitudine di Stefano: prima è scritto che “Tutti quelli che sedevano nel sinedrio, fissando gli occhi su di lui, videro il suo volto come quello di un angelo” (v.15), ma poi quello che ha attirato la mia attenzione è stato il modo in cui concluse la sua esistenza terrena, poiché dopo aver esposto le sue ragioni con una predicazione toccante, leggiamo “Ma egli, pieno di Spirito Santo, fissando il cielo, vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla destra di Dio e disse «Ecco, contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio”(Ibidem, 7.15). Fu poi lapidato fuori Gerusalemme, pregando “Signore, non imputare loro questo peccato”.

Credo che la visione di Stefano fu il modo che ebbe Iddio per rincuorarlo e consentirgli di affrontare la morte serenamente e metterlo in condizione di andare oltre il dolore per quelle pietre che lo colpivano. Fu anche l’adempimento pratico delle parole che abbiamo letto, “Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli”, che appunto Stefano intravide. Gesù disse che “I nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa” (Matteo 10.36) alludendo proprio a quella di Israele, persecutrice prima di Roma di fronte ai cui metodi inorridiamo, dimenticando che invece i primi persecutori furono, appunto, quegli ebrei che, a differenza dei pagani superstiziosamente religiosi, avrebbero avuto tutti gli elementi per credere in Gesù Cristo e tutt’ora lo rifiutano.

Per ultima, abbiamo la frase “Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi”: pensiamo a Geremia, gettato nella cisterna di Malchia (Geremia 38), o prima di lui Elia, che Gezabele moglie del re Acab voleva uccidere (1 Re 19 e ss.). Ancora Isaia, arrestato e condannato a morte da Manasse secondo una tradizione ebraica, re di Giuda e figlio di Ezechia, oppure Uzia, perseguitato dal re Ioiachim (Geremia 26.21) oltre che Zaccaria, lapidato “nel cortile del Tempio del Signore” (2 Cronache 24.21), episodio  sconcertante: “Dopo la morte di Ioiadà, i comandanti di Giuda andarono a prostrarsi davanti al re, che diede loro ascolto. Costoro trascurarono il tempio del Signore, Dio dei loro padri, per venerare i pali sacri e gli idoli. Per questa loro colpa l’ira di Dio fu su Giuda e su Gerusalemme. Il Signore mandò loro dei profeti perché li facessero tornare a lui. Questi testimoniarono contro di loro, ma non furono ascoltati. Allora lo spirito di Dio investì Zaccaria, figlio del sacerdote Ioiadà, che si alzò in mezzo al popolo e disse «Dice Dio: «Perché trasgredite i comandi del Signore? Per questo non avete successo; poiché avete abbandonato il Signore, anch’egli vi abbandona». Ma congiurarono contro di lui e per ordine del re lo lapidarono nel cortile del tempio del Signore. Il re Ioas non si ricordò del favore fattogli da Ioiadà, padre di Zaccaria, ma ne uccise il figlio, che morendo disse «Il Signore veda e ne chieda conto!” (2 Cronache 24.17-22).

Ci sono poi le parole di quello Stefano che abbiamo citato: “Testardi e incirconcisi nel cuore e nelle orecchie, voi opponete sempre resistenza allo Spirito Santo. Come i vostri padri, acosì siete anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete diventati traditori e uccisori, voi che avete ricevuto la Legge mediante ordini dati dagli angeli e non l’avete osservata». All’udire queste cose, erano furibondi in cuor loro e digrignavano i denti contro Stefano” (Atti 7.51-53).

Chiedersi il significato dell’ultima beatitudine per noi è giusto, per quanti sono convinto che Gesù, con le parole sui “perseguitati per causa di giustizia”, si riferisse all’immediatezza di quanto sarebbe avvenuto a quanti lo avessero seguito. Credo che sia l’apostolo Pietro ad aggiornarci quando scrive “Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare. Beati voi, se venite insultati nel nome di Cristo, perché lo Spirito della gloria, che è Spirito di Dio, riposa su di voi. Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida o ladro, malfattore o delatore. Ma se uno soffre come cristiano, non se ne vergogni, ma anzi dia gloria a Dio” (1 Pietro 4.13-16), parole indirizzate a tutti quei fratelli o sorelle che, anche in questo tempo definito “civile” in cui viviamo, in molte zone della terra sono attuali e vive. Amen.

* * * * *

5.07 – LE BEATITUDINI 6: I PURI DI CUORE (Matteo 5.3-10)

05.07 – Il sermone sul monte : le beatitudini VI (Matteo 5.3-10)

 

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

BEATI I PURI DI CUORE

E arriviamo al cuore, argomento molto vasto cui anche la letteratura ha dato uno spazio enorme in tutte le epoche: quest’organo, così complesso e fondamentale per la vita non solo degli esseri umani, è stato da sempre visto come la sede dei sentimenti e dei pensieri, mutando i propri battiti in base alle emozioni e non solo allo sforzo fisico. Il cuore, assieme allo stomaco e al fegato, è suscettibile allo stress anche cronico e, se prolungato, può danneggiare in modo grave tutto il sistema cardiovascolare tramite l’ipertensione, a sua volta causa di inconvenienti anche gravi. Nella Bibbia il cuore è visto come l’organo che risponde alle emozioni e che arriva a influenzare fortemente quello che dovrebbe essere teoricamente, asetticamente, un altro ente del tutto autonomo, cioè il cervello dal quale scaturiscono tutti gli impulsi, spesso automatici, per la nostra vita e sopravvivenza. Allora non si sapeva che il cuore possiede dei neuroni che lo abilitano ad agire indipendentemente dal cervello che in alcuni casi, come dimostrano le ricerche del californiano HearthMath Insitute, gli obbedisce.

La conoscenza della fisiologia del muscolo cardiaco, tanto ai tempi del Nuovo che dell’Antico Patto, nonostante allora fosse elementare, aveva individuato comunque delle linee di base valide ancora oggi: pensiamo solo a Proverbi 14.30 “Un cuore calmo è vita per il corpo, ma l’invidia è il tarlo delle ossa”, o a 4.23 “Custodisci il tuo cuore più di ogni altra cosa, perché da esso sgorgano le sorgenti della vita”. Collegato a questo verso, che troviamo in 14.30 possiamo citare 17.22 “Un cuore allegro è una buona medicina, ma uno spirito abbattuto inaridisce le ossa”.

La “cardiologia biblica”, però, al di là di questi esempi e molti altri che si possono trovare in cui il cuore è citato nelle situazioni più disparate, si occupa fondamentalmente di lui come motore delle azioni e delle scelte della persona e la prima volta in cui viene nominato in tal senso la troviamo poco prima del terzo giudizio di Dio sull’uomo mediante il Diluvio: “Ora Iddio vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che tutti i disegni dei pensieri del loro cuore non erano altro che male in ogni tempo” (Genesi 6.5). Era un’umanità che pensava esclusivamente a se stessa, che si preoccupava della propria sopravvivenza materiale cercando di riempire il proprio tempo senza interrogarsi su come affrontare degnamente la propria vita e la propria morte in vista dell’eternità di cui conosceva l’esistenza; leggiamo infatti che “Dio ha fatto ogni cosa bella al suo tempo: egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine” (Ecclesiaste 3,11). Per questo le religioni sono un tentativo umano per sopperire a questo senso innato. Per questo, quando un uomo muore, se non è illuminato dallo Spirito Santo, ha paura.

Il cuore, quindi, caratterizza la vita dell’essere umano ed è visto come sede del vero motore delle scelte che poi effettivamente andrà a compiere perché, attratto dalle emozioni che lo stimolano in positivo, tenderà ad agire e progettare affinché durino il più possibile o si realizzino in futuro. “Cuore” è una parola che nella Scrittura è usata circa mille volte e solo in una parte, il 20 per cento, si allude al muscolo vero e proprio; per il resto la sua applicazione è figurata ed è connessa tanto all’uomo naturale che tutti conosciamo, quello che “non comprende le cose di Dio, perché per lui sono follia, e non è capace di intenderle, perché possono essere giudicate solo per mezzo dello Spirito” (1 Corinzi 2.14), quanto a quello spirituale, tale perché Dio stesso è intervenuto personalmente a renderlo così. Sono realtà tra le quali c’è un baratro, un mondo differente per modo di vita, aspirazioni e prospettive perché nessuno sarebbe mai in grado di essere un “puro di cuore” senza un intervento di Colui che lo ha creato e accolto.

Sotto questo aspetto sono gli scritti dell’Antico Patto a illuminarci per primi, tutta la storia del popolo di Israele che, nonostante l’assistenza continua di Dio dal momento in cui lo chiamò fuori dall’Egitto fino ad arrivare alla venuta di Gesù Cristo, si sviò provando su di sé giudizi anche terribili. Precisazione obbligatoria: se il verso che abbiamo citato molte volte, “Questo popolo mi onora con le labbra, ma suo cuore è lontano da me”, è riferito al popolo eletto, questo non vuol dire che non possa applicarsi anche al cristianesimo quando questo lascia che sia l’abitudine e la ritualità a prevalere sulla coscienza, sul cuore, come recita il proverbio profano “passata la festa, gabbato il santo”; solo perché si crede, non siamo autorizzati a fare qualsiasi cosa perché “tanto siamo salvati” o “tanto Dio ci protegge”. C’è una diffusa opinione in base alla quale ciò che è scritto nell’Antico Patto siano cose passate e non ci riguardino perché viviamo nella dispensazione della grazia, ma non è così: ricordiamoci sempre che Gesù non venne per abolire la Legge, ma per adempierla e che essa è e rimane il metro per misurare il bene e il male.

Nella sua prima lettera ai Corinzi Paolo di Tarso fa una lunga esposizione invitando i cristiani di quella Chiesa a considerare l’esempio di Israele e i suoi errori pagati a caro prezzo, con queste parole: “Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come le desiderarono loro. Non diventate idolatri come alcuni di loro, secondo quanto sta scritto: «Il popolo sedette a mangiare e a bere e poi si alzò per divertirsi». Non abbandoniamoci all’impurità come si abbandonarono alcuni di loro e in un solo giorno ne caddero ventitremila. Non mettiamo alla prova il Signore, come lo misero alla prova alcuni di loro e caddero vittime dei serpenti. Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi, chi crede di stare in piedi, stia attento a non cadere” (10.5-11).

Paolo qui si guarda bene dal dichiarare che lo sviarsi per noi è impossibile; certo Gesù ha pagato per i peccati che possiamo sempre commettere nella carne, ma una cosa è camminare uniti a Lui e cadere per un incidente di percorso, altra cosa è desiderare cose cattive nel proprio intimo, cioè non porre freno a ciò che sappiamo essere male, o cadere nell’idolatria, cioè sostituire una persona o uno stile di vita diverso a quello ricevuto o rivelatoci un giorno, mettere Dio alla prova con una condotta che rientri nel comandamento “Non tentare il Signore Iddio tuo”.

Rientrando ora in tema, il cuore è un problema sia a livello di corpo, perché soggetto ad ammalarsi come tutti gli altri organi, sia a livello spirituale e di questo se ne accorsero molti, soprattutto quanto a motore delle azioni, positive o negative: ricordiamo ad esempio Davide che, conscio del proprio peccato e del fatto che da solo non avrebbe mai potuto fare nulla per mutare la propria condizione, scrisse nel Salmo 50: “Pietà di me, o Dio, nel tuo amore: nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro. Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non scacciarmi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito. Rendimi la gioia della tua salvezza, sostienimi con uno spirito generoso. Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno”. Ricordiamoci che quella che abbiamo letto è la preghiera di un re costituito su Israele che non si assolse, ma si prostrò riconoscendo di avere bisogno dell’intervento di Dio nella sua vita per poter sussistere.

Ancora, sono determinanti le parole di Ezechiele che sottolineano l’impossibilità fisica di un rinnovamento umano senza un preciso operare di Dio: “Vi aspergerò di acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre iniquità e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme” (Ezechiele 36.25-27). Un rinnovamento, dunque, un miracolo.

A questo punto è inevitabile chiedersi se su quell’altopiano in cui Gesù proclamò le beatitudini ci fossero dei puri di cuore. Potremmo azzardare che Nostro Signore, facendo un collegamento estensivo, si rivolgesse a degli israeliti come Natanaele, uomo in cui non c’era “alcuna frode”, ma sbaglieremmo perché la chiave di lettura corretta risiede in due parole, “puri” e “cuore”.

I farisei avevano strutturato rigidamente il concetto di purezza, esasperandolo e vedendolo come l’osservanza di una serie di precetti, per non contaminarsi, che prendevano dalla Legge trasmessa al popolo da Mosè. In questo caso Gesù fa riferimento alla purezza levitica esteriore ottenuta mediante l’abluzione rituale, che vedeva in quel caso l’uomo “puro” se applicava alcune norme di comportamento. Leggiamo in proposito Marco 7.14,15: “Chiamata di nuovo la folla, diceva loro «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro, ma sono le cose che escono dall’uomo che lo rendono impuro”. Ora, dopo queste parole, fu interrogato dai discepoli che non avevano capito. Disse loro “«Così neanche voi siete capaci di comprendere? Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, perché non gli entra nel cuore, ma nel ventre e va nella fogna?». Così rendeva puri tutti gli alimenti. E diceva: «Ciò che esce dall’uomo è ciò che lo rende impuro. Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultéri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono l’uomo impuro»” (Marco 7. 18-23).

E vediamo allora che il cuore ritorna, e vediamo che Gesù elenca ciò che sono le vere impurità che contaminano la sua creatura e da dove provengono. Ecco quindi che essere “puri” legalmente è una cosa, esserlo “di cuore” è un’altra. “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”, espressione che nel linguaggio dell’Antico Patto si riferiva ai membri della corte, quelli che vedevano la faccia del re. “Vedranno Dio” è poi un’espressione che si rifà alle parole che Lui stesso disse a Mosè che gli chiedeva di vedere il Suo volto: “L’uomo non può vedermi e vivere”.

Saranno quindi i puri di cuore a vedere Dio, cioè tutti coloro che rientreranno nella categoria descritta in 1 Corinzi 6-9,11: “Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né depravati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio. E tali eravate alcuni di voi! Ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio”.

Una degna conclusione di questa beatitudine possono essere le parole di Giovanni nella sua prima lettera: “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando Egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come Egli è” (3.2). Amen.

* * * * *

 

 

5.02 – LE BEATITUDINI 1. I POVERI IN SPIRITO (Matteo 5.3-10)

5.2 – Il sermone sul monte : le beatitudini 1 (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

 BEATI I POVERI IN SPIRITO

Poveri in spirito” o “di spirito” sono le traduzioni dall’originale “per lo spirito” ed è opinione di alcuni che la precisazione sul tipo di povertà sia stato un inserimento nel testo greco fatta da un ignoto traduttore dall’aramaico per rendere più compiuto e distinguibile il senso delle parole di Gesù. Va detto però che orientarsi sulle origini del testo di Matteo non è facile: opinione diffusa è che sia stato scritto in aramaico e poi tradotto, basandosi sulle parole di Papia vescovo di Ierapoli nel 130 che scrisse “Matteo raccolse quindi i detti nella lingua degli ebrei, traducendoli ognuno come poteva”. In base agli studi che si intraprendono e quali testi si consultano le opinioni in proposito sono differenti anche sulla data e su chi materialmente abbia compilato il suo Vangelo. Fatto sta che Luca scrive “Beati i poveri” senza specificare altro, ma se prendessimo questa a condizione a senso unico rischieremmo di rendere l’essere poveri materialmente la sola condizione possibile per poter realizzare questa beatitudine. La precisazione che troviamo in Matteo è quindi fondamentale per la tipologia delle persone cui si riferisce.

Parlando di povertà in senso letterale, oggi è suddivisa in assoluta e relativa: la prima è riferita all’estrema difficoltà della sopravvivenza, vale a dire che la vita di chi versa in tale condizione è tale da metterlo in pericolo: non ha da mangiare, non è in grado di provvedere al proprio vestiario, non ha un alloggio, non ha dove lavarsi. Questo stato esclude il poter fruire di beni e/o servizi essenziali per la sopravvivenza. La povertà relativa è invece un parametro che esprime le difficoltà economiche nelle fruizione di beni e servizi in rapporto al livello economico medio di vita dell’ambiente o della nazione.

Soffermiamoci brevemente su questa condizione: chi è povero, assoluto o relativo, sa di esserlo, conosce le difficoltà che incontra e molto spesso ne è angosciato, soprattutto se si ritrova così dopo non aver conosciuto questo tipo di preoccupazioni, quindi aveva una vita tranquilla, normale o agiata e il caso dei molti imprenditori che si sono suicidati in Italia lo conferma. La mancanza di denaro per soddisfare le esigenze elementari o a che fanno da contorno all’esistenza è vissuta da molti come un fallimento e un’umiliazione anche di fronte a se stessi.

La condizione di povertà spirituale, invece, è molto più subdola da ammettere perché si riferisce all’interiorità dell’essere umano. C’è un senso di vuoto, connesso alla “carne” che si cerca di riempire in tutti i modi andando a sopperire i deficit interni e la religione, intesa come pratica che lo riempia, può aiutare a tal punto da essere definita come “l’oppio dei popoli”. Così accade che, praticandola anche nel cristianesimo, l’uomo si senta appagato e perciò si ritenga ricco esattamente come l’angelo (e i componenti) della Chiesa di Laodicea che dice “Io sono ricco, mi sono arricchito e non ho bisogno di nulla” (Apocalisse 3.17).

Il povero materiale è distinguibile e soprattutto sa di esserlo ma il povero in spirito, se non è onesto con se stesso, può mascherarsi, è disposto inconsapevolmente a tutto pur di sentirsi ricco davanti a sé e poi pur di apparirlo di fronte agli altri. Chi è “ricco in spirito” lo è perché così si è voluto definire, ha cercato quest’autodeterminazione e gli esempi nella scrittura sono tanti, primo fra tutti quel fariseo che pregava nel Tempio, ringraziando Dio di non essere come gli altri uomini perché digiunava due volte alla settimana e pagava le decime su quanto possedeva. Il cosiddetto “ricco in spirito” non ha bisogno di nulla, basta a se stesso, è convinto di essere sano e da qui le parole di Nostro Signore “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”. Il fariseo che abbiamo citato pregava in piedi, il pubblicano stava “a distanza”, in solitudine, è scritto che “non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo”, cioè verso quel luogo da lui incommensurabilmente così distante.

Ecco, qui abbiamo in modo perfettamente reale due atteggiamenti: uno è “ricco”, l’altro è “povero”. Uno ha rimediato coi suoi mezzi alla propria povertà, diventandolo così ancora di più, l’altro ne è conscio e sa di avere nella preghiera di perdono l’unico rimedio a disposizione: “O Dio, sii placato verso di me, peccatore”. Ecco allora che solo chi sa di essere povero di spirito, cioè di non avere mezzi per la sua sopravvivenza spirituale, è beato: dipende da Dio in tutto e per tutto, ammette di avere dentro di sé quella fame che non può soddisfarsi in altro modo se non accettandoLo accogliendoLo dentro di lui.

Il sapere nel profondo di essere dei “Poveri in spirito”, cioè il riconoscersi tali perché si sa o si è sperimentato che le alternative e gli atteggiamenti che la vita può offrire non sono sufficienti né possono garantire stabilità, è il primo passo per il “Regno dei cieli” perché questi poveri lo cercheranno e lo troveranno. Al “ricco in spirito” interessa star bene godendo delle cose effimere che ha a disposizione, al “povero” non interessa la sopravvivenza apparente, qualcosa di generico in cui credere, una ricchezza secondo il mondo o una stabilità incerta, ma sarà attento a come porre rimedio alla sua condizione: non cercherà la compagnia delle persone per sentirsi meno solo, non aderirà a correnti politiche o filosofiche perché dovrà dimostrare a se stesso e agli altri di avere bisogno di qualcosa o di qualcuno a cui credere. Se mai, questi saranno dei passaggi per sperimentare, ma non trovando ciò che realmente cerca, finirà per arrivare a Gesù Cristo perché la sua povertà cessi definitivamente.

Il vero cristiano quindi porta in sé questo dualismo, quello della povertà assoluta quando porta avanti sé stesso, quello della ricchezza quando vive in compagnia di Dio, amandolo. Una ricchezza che non possiede. La parabola dell’uomo ricco di Luca 12.16,21 ci presenta un possidente che aveva avuto un raccolto ottimale dalla sua campagna e progettava una vita esente da preoccupazioni, ma si sentì dire “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” Notiamo il commento di Gesù: “Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio”.

C’è quindi un cammino da fare, e il riconoscersi poveri nel profondo è la condizione indispensabile per arricchire dentro, come abbiamo letto, “davanti – o “in” a seconda della traduzione – a Dio”; sono due mondi diversi, opposti, per la vita che conta, quella eterna. Chi crede, nel vero senso della parola, non lo fa perché ha bisogno di una religione, ma per diventare e conoscere cose che sa essere irraggiungibile senza una grazia, una rivelazione. Cercherà le promesse per lui e sperimenterà su di sé la loro realizzazione, altrimenti la propria vita non avrebbe scopo. Ricordiamo le parole di Pietro “Signore, a chi ce ne andremmo noi? Tu solo hai parole di vita eterna”: quest’uomo aveva sperimentato la quotidianità della vita, aveva un lavoro, una moglie. Aveva ascoltato da chissà quanto tempo i rabbini nelle sinagoghe e poi Giovanni Battista che preparava il popolo alla venuta di Gesù, ma nessuna di queste cose lo aveva mai arricchito, placato la sua sete interiore, quella di spirito. Pietro sapeva che le uniche parole da ascoltare, per la prospettiva futura che gli venivano garantite, erano quelle di Colui che un giorno lo aveva chiamato con gli altri discepoli e poi lo aveva reso apostolo.

La beatitudine dei poveri in spirito è quindi la descrizione di una condizione base per essere accolti dal Padre ed equivale al senso di sete spirituale che alcuni avvertivano quando Gesù, alzandosi in piedi, gridò “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva” (Giovanni 7.37). Non era venuto per vendere qualcosa, ma per dare gratuitamente e invitò gli apostoli a fare altrettanto con il suo “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. Tutta la Scrittura, Antico e Nuovo patto, sono piene di passi che attestano sia l’attenzione che Dio dà ai poveri, anche quelli materiali, tenuti a cercarlo secondo Isaia 55,6,7 “mentre si trova”, a invocarlo “mentre è vicino”. Ricordiamo l’invito “venite e comprate senza denari e senza prezzo” perché la Grazia non può essere comprata avendo un valore inestimabile.

E possiamo citare anche parole di Isaia 1.18 “Su, venite e discutiamo insieme, dice il Signore. Anche se i vostri peccati fossero come lo scarlatto, diventeranno bianchi più che neve”. In questo passo rileviamo che è Dio a invitare l’uomo addirittura ponendosi sul loro stesso piano, non certo quello del peccato, ma dello Spirito che è nell’uomo, quel “soffio vitale” che inalò nelle narici di Adamo. Qui c’è un incontro tra il Santo e la creatura che certo così non è, anzi è invitata nel verso 16 a lavarsi, purificarsi, ad allontanare dai Suoi occhi il male delle loro azioni. Dio invita l’uomo a discutere assieme dando la Sua piena disponibilità al perdono con un intervento che nessun essere terreno sarebbe stato mai in grado di compiere, smacchiare lo scarlatto, cioè un rosso intenso e brillante, a tal punto da farlo diventare più bianco della neve. È l’impossibile che appartiene al Padre, alla trinità, a quel plurale che un giorno disse “Facciamo l’uomo”.

Dio, soprattutto nel tempo in cui la Grazia è aperta non convoca imperiosamente, ma invita a discutere con lui. Dichiara la propria benevolenza, ma non costringe a subirla. E, riferendoci a questi versi, non tutti cessarono di fare il male e non tutti andarono a Lui, consapevoli del valore di quell’invito, a discutere assieme. Oggi il verbo “discutere” è usato per indicare una lite, uno scontro acceso in cui ogni parte difende strenuamente le proprie posizioni, ma ciò solo perché si è perso il senso reale del termine che, al contrario, implica il trattare, esaminare un tema confrontando opinioni diverse, dialogare alla ricerca di una soluzione.

Beati i poveri in spirito” è allora un annuncio importante, una dichiarazione in base alla quale chi appartiene alla categoria dei poveri non è lasciato solo, ma può entrare a far parte di un piano che va oltre le sue aspettative. Infatti, “di loro è il Regno dei cieli”. “Di loro” e di nessun altro. Ecco perché questa beatitudine è al primo posto: esprime quello che potremmo definire un requisito base, quello di chi non ha nulla mentre gli altri pensano di avere chi molto, chi tutto. Il ricco sta bene in questo mondo a prescindere da quale sia la ricchezza su cui fonda la propria vita, il povero certamente soffre e non sa come porvi rimedio, è costantemente in bilico tra la realtà che vorrebbe cambiare e i mezzi che non ha. Ed è beato perché si trova nella sola condizione che gli può consentire l’accettazione di Cristo come proprio Salvatore e fornitore di quella cittadinanza eterna che il ricco certamente non può avere.

Le beatitudini che seguono (gli afflitti, i miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di giustizia e i perseguitati per – e non “da” – essa), sono tutte riferite alla conseguenza della povertà di spirito proprio alla luce di quanto abbiamo detto all’inizio: chi in questo mondo si trova a proprio agio, parla già di sé disprezzando chi appartiene a categorie diverse dalla sua perché già umanamente beato, possedendo non la “makaria”, ma l’”òlbia”, come abbiamo visto nel capitolo precedente.

Nostro Signore sappiamo che aveva da poco guarito tutti quelli che gli si erano presentati a lui: quei miracoli erano per tutti e per tutti erano quelle parole di vita perché non potevano esservi dei sordi tra loro – se c’erano, questo era prima di incontrarlo -, ma nel momento in cui iniziò a parlare disse “Beati i”, cioè “quanti tra voi si riconoscono nella mia descrizione”. Il resto del Vangelo, la “buona notizia” rivelata agli uomini, è proprio la ricchezza in Dio che il povero in spirito trova e che arriverà al culmine con il possesso di quel “Regno dei cieli”, o “Regno di Dio” concepito fin dalla creazione dell’universo. Possiamo concludere con le parole dell’apostolo Paolo in Efesi 1.3 “Benedetto sia Dio, Padre del Signor nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti di ogni benedizione spirituale nei luoghi celesti in Cristo”.

* * * * *